"atei O Credenti?"

  • June 2020
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Ateismo e credenza religiosa. Una panoramica sul dibattito attuale Marco Trainito (novembre 2007) È uscito da pochi giorni presso Fazi Editore un bel volume dal titolo Atei o credenti? Filosofia, politica, etica, scienza (173 pp., € 15,00). Si tratta della rielaborazione di un dialogo a tre fra Paolo Flores d’Arcais, Michel Onfray e Gianni Vattimo, avvenuto a casa di quest’ultimo a Torino l’8 dicembre 2006, con l’aggiunta di tre “Poscritti”, in cui ciascuno dei tre filosofi fa un bilancio della discussione ed espone in maniera più sistematica la propria posizione. È una bella lotta, anche perché i tre sono anticlericali per ragioni diverse. Vattimo, autore di testi sul tema come Credere di credere (1996) e Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso (2002), assume il ruolo del credente eretico e soggettivista, che non aderisce ai dogmi della fede cattolica e difende un cristianesimo pragmatico, storicista, relativista ed ermeneutico. Flores d’Arcais, che da Direttore di “Micromega” conduce da anni una coraggiosa battaglia laicista in un Paese baciapile come il nostro, oppone la ragione scientifica illuminista e un individualismo democratico agli argomenti irrazionali della fede istituzionalizzata e intrinsecamente collettivista e antidemocratica. Onfray, invece, già autore di un memorabile Trattato di ateologia (2005), difende un’antimetafisica postnietzscheana che mira a decostruire il discorso religioso opponendogli un edonismo corporale ateo sospettoso anche della razionalità scientifica e aperto a “un’etica, una politica, una bioetica, un’estetica, una pedagogia al di là del Bene e del Male ebraicocristiani” (p. 173). La lettura è molto avvincente, perché i tre filosofi, pur concordando su diversi punti (ad esempio la condanna del neoimperialismo teocon americano, scimmiottato in Italia dai teocon del centro-destra e dai teodem del centro-sinistra, nonché dagli intellettuali cosiddetti “atei devoti” alla Giuliano Ferrara, Marcello Pera e altri berluscones), si rifanno a tradizioni di pensiero diverse e ricapitolano, ciascuno a suo modo, buona parte del pensiero occidentale. Confesso che sono rimasto molto deluso da Vattimo. Quando ero un giovane apprendista della filosofia, i suoi studi su Nietzsche, Heidegger e Gadamer mi sono stati preziosi e di lui ho sempre avuto un’idea altissima come studioso. Non mi ha mai convinto la sua nozione di “pensiero debole”, lanciata negli anni ’80, che pure ha contribuito a sprovincializzare la filosofia italiana, incagliata per decenni sulla scelta tra idealismo crociano-gentiliano e marxismo gramsciano; negli ultimi anni, da omosessuale dichiarato, si è reso protagonista di una importante battaglia civile a difesa dei diritti degli omosessuali contro le discriminazioni guidate dalla Chiesa cattolica. Tuttavia, nella sua peculiare difesa della credenza religiosa, in questi anni dominati da uno scontro quasi ottocentesco tra laicismo e clericalismo, con un Vaticano sempre più presente negli affari legislativi dello Stato italiano e con i difensori della laicità ridotti quasi al silenzio dalla grancassa mediatica totalmente asservita a papi opportunamente trasformati in star televisive, Vattimo sembra attardato su posizioni filosofiche del tutto ignare della reale posta in gioco e di una valida percezione della portata del pensiero scientifico contemporaneo. Quando, nel corso del dialogo, si mette a citare con grande approvazione le

assurde idee sulla scienza di Croce (“la scienza è un affare della pratica”, p. 32) e Heidegger (“la scienza non pensa”, p. 161), cioè di due filosofi dominati da un pregiudizio antiscientifico dovuto a pura e semplice ignoranza, si ha l’impressione che egli sia rimasto prigioniero dell’umanismo poetante e misticheggiante tipicamente italiano, che ancora oggi dà i suoi frutti velenosi nell’arretratezza culturale della nostra scuola, in gran parte rimasta all’impostazione gentiliana e quasi del tutto incapace di sfornare menti autenticamente scientifiche. Sulla sua posizione religiosa, che è difficilmente contestabile a causa del suo carattere soggettivistico e che quando fa uso di nozioni come “grazia” e “carità” guarda non alla Dottrina ufficiale ma rispettivamente alle nozioni di ’“evento” e “cura” di Heidegger, valga il fulminante giudizio espresso da Onfray nel suo Trattato di ateologia: «Ovvero come immergere la Bibbia nell’acqua lustrale di Essere e tempo per ottenere una soluzione – in senso chimico – miracolosa» (Fazi Editore 2005, p. 204). Ben diverso l’approccio di Onfray, che pure, da francese laico educato alla scuola di Camus, Sartre, Deleuze e Foucault, condivide con Vattimo il sospetto umanista nei confronti della ragione scientifica e del suo (presunto) imperialismo occidentalista. In questi anni Onfray è impegnato in una monumentale opera di recupero delle filosofie occidentali dimenticate da una tradizione storiografica – ben rispecchiata nella scansione dei manuali scolastici – appiattita quasi esclusivamente sull’impostazione idealistica platonico-cristiana, che da Platone e dal cristianesimo ha ereditato senza discussione la violenta messa all’Indice di tutte le opzioni materialiste, edoniste, immanentiste e relativiste (sono ben noti il silenzio sprezzante di Platone su Democrito e Aristippo e i suoi ritratti mistificanti dei sofisti, nonché la demonizzazione isterica dell’epicureismo ad opera del cristianesimo dominante). Quest’opera si tradurrà nella realizzazione di una “Controstoria della filosofia” in sei volumi, di cui finora hanno visto la luce solo i primi due: Le saggezze antiche (2006), sui filosofi dimenticati o quasi del mondo greco e romano, da Leucippo a Diogene di Enoanda, e Il cristianesimo edonista (2007), sulle correnti cristiane denigrate dall’ortodossia, dalla Gnosi a Montaigne (entrambi i volumi sono editi in italiano da Fazi Editore). Da parte sua, Flores d’Arcais è l’unico dei tre a inserirsi in quella corrente di pensiero contemporanea che difende la scelta illuminista e radicalmente atea in nome delle dettagliate conoscenze scientifiche sul mondo fisico e biologico che l’umanità ha raggiunto da Darwin in poi e che portano alla confutazione senza appello di qualsiasi fantasia su una presunta origine divina dell’universo e dell’uomo, nonché a una risposta inequivocabile alle famose grandi questioni della filosofia tradizionale: «Sappiamo chi siamo: delle scimmie appena modificate, benché questo ‘appena’ (una percentuale irrisoria del DNA) abbia aperto l’animale-uomo a possibilità sconvolgenti. Sappiamo da dove veniamo: da un inizio che chiamiamo Big Bang e da uno svolgersi di universi ricostruito con sempre maggiore precisione dalla scienza, senza alcun bisogno di far intervenire l’ipotesi-creazione da parte di una ipotesi-Dio. E sappiamo dove andiamo: da nessuna parte, poiché nessun destino è già iscritto nel nostro futuro» (p. 4). In tal modo, Flores d’Arcais, insieme a Piergiorgio Odifreddi, Maurizio Ferraris e a pochi altri in Italia, si aggancia alla grande offensiva atea di questi anni guidata da filosofi e scienziati di prim’ordine, come Richard Dawkins, l’autore dei fondamentali Il gene egoista (1976 & 1989) e L’orologiaio cieco (1986), e Daniel Dennett, autore del monumentale e controverso L’idea pericolosa di Darwin (1995). Lo scorso anno i due hanno pubblicato rispettivamente L’illusione di Dio e Rompere l’incantesimo (in italiano usciti solo quest’anno), che costituiscono i più distruttivi attacchi mai sferrati

non solo contro la credenza religiosa, ma anche contro quello che Dennett chiama il “credere nella credenza”, cioè l’idea apparentemente tollerante secondo cui è politicamente e socialmente conveniente e auspicabile che gli altri, cioè la massa, abbiano credenze religiose di un qualche tipo. Personalmente considero ormai superata la questione dell’esistenza o meno di Dio. Tutti gli dèi esistono allo stesso modo, ma solo nel linguaggio umano che li crea (e non è poco, vista l’influenza che hanno sulla vita di moltissimi esseri umani). Si tratta di un’esistenza culturale, non certo oggettiva, per cui non c’è alcuna differenza di status ontologico, ad esempio, tra Zeus e il Dio ebraico-cristiano. Da qualche tempo mi interessa di più analizzare le forme del discorso religioso, chiedendomi ad esempio (con Dennett e Ferraris) in cosa crede chi asserisce di credere e quali sono le ragioni cognitive alla base della credenza in una qualche divinità da un punto di vista logico ed evolutivo. Il libro di Dennett cui mi riferisco, ad esempio, è il già citato Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale (Raffaello Cortina 2007). Dennett è un filosofo americano che si occupa della mente da un punto di vista cognitivo ed evolutivo e questo suo libro tra qualche anno sarà considerato una pietra miliare del settore, perché, sulla scia di Hume e con gli strumenti concettuali del neo-darwinismo (tra cui l’approccio “memetico” del suo amico inglese Dawkins), indaga il fenomeno della credenza religiosa sul piano puramente biologico. Maurizio Ferraris, invece, ha pubblicato di recente un pamphlet spassosissimo (Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede, Bompiani 2006), la cui sorprendente conclusione è che oggi, soprattutto in Italia, chi dice di credere in realtà non crede in Dio (visto che non ne sa nulla), ma nel Papa (di cui si sa tutto grazie alla sovra-esposizione mediatica), cioè in uno che dice di parlare in nome di un altro che non s’è mai visto. Com’è noto, molti oggi credono per tradizione, senza sapere nemmeno bene in cosa credono, anche perché l’oggetto preciso della credenza non è una cosa che in genere si è disposti a confessare in una pubblica discussione. E già questa è una circostanza estremamente preoccupante, perché in Italia gente così costituisce una maggioranza in grado di influire sulla vita civile e politica (penso al referendum sulla procreazione assistita e alla reazione della Chiesa alla proposta di legge sui DICO, già PACS e ora CUS). A mio parere, la situazione italiana attuale della credenza nella religione cattolica (ma il discorso vale anche per le altre confessioni religiose, mutatis mutandis) è la seguente. Per dirla con metafore desunte dall’epistemologia di Imre Lakatos, c’è un nucleo di “fatti” teologici, ontologici ed epistemologici, che costituisce il corpus dottrinario, l’ossatura della fede cattolica custodita dalla Chiesa. Questo corpus duro è depositato in testi canonici cui in genere pochi hanno accesso (né la loro attenta lettura è incoraggiata dalla Chiesa più di tanto). Attorno a questo nucleo “fattuale”, espresso con linguaggio e concetti oggi obsoleti e francamente imbarazzanti, si è andata formando una cintura protettiva costituita essenzialmente da interpretazioni di carattere eticopratico (morale sessuale in primo luogo, più altre regole di condotta ordinaria) e politico. Queste interpretazioni sono ciò che ci sentiamo ripetere a tutte le ore del giorno, grazie alla compiacenza di molti media. La relazione logica di derivazione di questa cintura dal nucleo è anch’essa occultata, e la sua intelligenza e istituzione è affidata ufficialmente ai capi, in genere il Papa e il presidente della CEI. I fedeli hanno il compito, al più, di prenderne atto e di fidarsi (ad esempio: cosa c’entra la posizione della chiesa sui DICO con la Dottrina, ovvero con Cristo? Qualcosa c’entrerà, pensa il

fedele, visto che loro dicono che c’entra, e così evita il fastidio di una verifica diretta e autonoma). Ora, lo scandalo, l’impostura di questo circo sta in questo. La cintura delle interpretazioni etico-politiche è come la gomma di una ruota, che è riempita d’aria e si regge sulla solidità del cerchione. Ma se il cerchione è fradicio, la ruota non può reggere. Invece, la ruota della Chiesa continua a girare nonostante il nucleo “fattuale” della Dottrina sia del tutto “scaduto”. Penso, ad esempio, all’anacronistico lessico aristotelico, condito con residui di pensiero magico, cui ricorre il Catechismo della Chiesa Cattolica per spiegare la presenza fisica di Cristo nell’ostia nel corso della transustanziazione: «Che cosa significa transustanziazione? Transustanziazione significa la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue. Questa conversione si attua nella preghiera eucaristica, mediante l'efficacia della parola di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo. Tuttavia, le caratteristiche sensibili del pane e del vino, cioè le “specie eucaristiche”, rimangono inalterate» (Compendio, § 283). A ben vedere, quasi mai ormai si sente un alto prelato che parli pubblicamente di questi dogmi imbarazzanti, mentre tutti, dal Papa in giù, sono interessatissimi a parlare di politica e di sesso (e mica degli angeli, che pure sarebbe un argomento di gran lunga più pertinente sul piano dei “fatti” teologici del nucleo...). Come fanno allora delle interpretazioni a sopravvivere alla morte dei fatti? Ebbene, io ritengo che a sostenere sul nulla referenziale la camera d’aria delle interpretazioni sia soprattutto il fiato delle trombe della propaganda, che naturalmente non è un pasto gratis, visto che a mantenere in vita un morto così c’è da guadagnarci per molti parassiti della massa dei poveri di spirito. L’economia del sacro, infatti, fattura miliardi di euro e finanzia la politica compiacente, per esempio quella che elimina l’ICI su certi immobili ecclesiastici, garantisce l’8 x mille ecc. ecc., in un circolo vizioso (o virtuoso, a seconda dei punti di vista) di interessi in cui a rimetterci è solo l’intelligenza collettiva media di una nazione, che è una cosa che non si vede e non si mangia e se va a rotoli nessuno se ne accorge sul medio-breve termine, mentre sul lungo termine, per dirla con il grande economista John Maynard Keynes, saremo comunque tutti morti.

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