Democrazia, società, partecipazione: ricostruire lo spazio pubblico
di Massimo Adinolfi 06/02/2009 Presentando la recente proposta, in materia di riforme istituzionali elaborata da Astrid e dalla Fondazione Italianieuropei, e condivisa da 14 soggetti tra Fondazioni, Associazioni e Centri Studi, Franco Bassanini ha scritto tra l'altro che nessuna delle grandi sfide che il Paese deve affrontare – dalla competizione globale alla domanda di sicurezza, dall'immigrazione ai mutamenti climatici, dalla crisi economica e finanziaria alle nuove povertà e nuove diseguaglianze – nessuna può essere vinta "senza grandi riforme, senza coraggiose innovazioni, senza forti politiche pubbliche". In effetti, la ricostruzione dello spazio pubblico, a cui accenna il titolo di questo mio breve intervento, sta tutta qui. Ci vogliono riforme, innovazione, politiche pubbliche. Ma invece di riforme e innovazioni, di cui sarebbe lungo stilare l'elenco, abbiamo per lo più e soltanto la retorica delle riforme e la retorica dell'innovazione, e quanto alle politiche pubbliche, mi contenterò qui di mettere l'accento sul fatto che il primo, fondamentale ingrediente di una politica pubblica, spesso negletto, spesso trascurato, è, per l'appunto, la politica. Non è un'osservazione banale. Se non altro perché va contro l'idea assai diffusa che la politica, per parafrasare una celebre battuta di Ronald Reagan che diede l'avvio all'ondata neoliberista di cui oggi vediamo la fine, sia sempre il problema, e mai la soluzione. Naturalmente, la politica che serve e che può contribuire a essere un pezzo della soluzione è una politica che non sia – come oggi indubbiamente ci appare – screditata, priva di autorevolezza, priva di forza. Priva di forza perché priva di autorevolezza, ma anche, va detto, priva di autorevolezza perché priva di forza. Se adottiamo uno sguardo lungo, che consenta di abbracciare un arco di tempo piuttosto ampio e guardare non solo al nostro Paese ma anche a paesi simili al nostro, non possiamo non accorgerci che la crisi di legittimità che colpisce l'area della rappresentanza democratica e il sistema dei partiti nel suo complesso è un fenomeno profondo, di lunga durata, che costringe la politica a cercare supplenze, a inventarsi fette di legittimazione supplementare, con rimedi che purtroppo si rivelano a volte peggiori del male. Non trovando più sul proprio terreno (nelle proprie retrovie organizzative, culturali e ideologiche) risorse materiali e simboliche a cui attingere, la politica trova soccorso in strane medicine, che come tutte le medicine possono sì curare, ma possono anche, in caso di uso prolungato, intossicare. E la supplenza finisce così col diventare dipendenza. Mi riferisco ai preparati della tecnocrazia, del moralismo, del populismo, che oggi hanno corso, e sfiancano il dibattito pubblico. Si tratta naturalmente di fenomeni complessi, dei quali esistono molte varianti, molti strani connubi e miscele spesso esplosive, ed un abbondante letteratura in materia, fenomeni che è dunque difficile ricondurre o costringere sotto un'unica definizione. Tuttavia spesso la definizione strettamente politologica è meno perspicua, meno evidente del suo oggetto, che è invece quotidianamente sotto i nostri occhi. Tecnocrazia, moralismo, populismo hanno infatti un chiaro comune denominatore: si alimentano del discredito della politica. C'è bisogno di tecnici competenti – si dice – perché i politici sono tutti incompetenti; c'è bisogno di moralismo perché la politica è priva di morale, quando non apertamente immorale; c'è bisogno di appellarsi direttamente al popolo, perché il parlamento è lento, oppure non funziona, si cura solo degli interessi della casta, e via così. Naturalmente si tratta di un circuito perverso che la politica alimenta però effettivamente con le proprie insufficienze: candidare persone incompetenti, scelte come le figurine di un album
o sfogliate come i petali di un fiore, fa giustamente insorgere il bisogno di persone competenti, che perlomeno sappiano dire qualcosa al paese nella stessa lingua che il Paese parla; perdere la capacità di risposta politica ai problemi o cambiare pelle e identità ai partiti senza saperne trovare una nuova, rende obiettivamente più forte il gesto dell'appello al popolo, o l'idea cinica, scettica, politiccamente devastante che tanto sono tutti uguali. (Idea che ricorda quella terribile battuta di Gramsci su Napoli, che diceva: "a Napoli non si ride più, si sogghigna"). Infine il politico, l'amministratore che si fa beccare con le mani nella marmellata spinge l'opinione pubblica non solo a fermare, e giustamente, quelle mani, ma a credere che la politica non sia altro che marmellata. E questo Non è però sulle risorse 'drogate' della tecnocrazia, del moralismo o del populismo che bisogna fare affidamento per ricostruire lo spazio pubblico. Perché si tratta di sintomi, e non possono essere i sintomi a curare la malattia della politica. Ma ricostruire lo spazio pubblico sarà comunque, sempre un'impresa disperata, e le analisi politologiche rischieranno sempre di apparire sterili e vane, se e finché nello spazio pubblico si spara, com'è accaduto ancora martedì scorso, se e finché nello spazio pubblico imperversano l'illegalità e la camorra, se la camorra mette le mani sulle nostre vite, e lo fa – come si diceva una volta dei sistemi di welfare – "dalla culla alla tomba", con la differenza decisiva che lo fa sottraendoti scelte, invece di ampliarle, regalando al territorio miseria, invece di sviluppo, e impestando l'aria, invece di pulirla. Ad esempio, la vicenda dei rifiuti (e non è un esempio tra gli altri) non è soltanto una storia incredibile, indecorosa di sprechi, inefficienze, incapacità, storia che purtroppo è lungi dal concludersi, ma è anche, come ha detto mercoledì scorso Biagio De Giovanni, la dimostrazione che l'ineffettività della regola giuridica, l'inefficienza dell'amministrazione pubblica, la crisi della mediazione politica ci precipitano in una "vita immediata" in cui spadroneggia la criminalità. Tutto il contrario di quello che chiedeva Machiavelli, C'è un passo dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio che voglio ricordare, a questo proposito. Machiavelli, che non era un'anima bella e di politica se ne intendeva, si domandava in quel libro come fa a durare, a stare in salute una repubblica, e diceva banalmente che essa può durare solo se è regolata dalle leggi. Diceva banalmente una cosa però fondamentale. Poi aggiungeva: "se si ragionerà di un principe obbligato alle leggi, e d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe; se si ragionerà dell'uno e dell'altro sciolto [cioè sciolto dalle leggi], si vedrà meno errori nel popolo che nel principe" (mi scuso per il mio cattivo fiorentino, ma è giusto che noi campani prendiamo le buone lezioni da dove vengono, senza cercar scuse). E qui si tratta di una grande lezione di democrazia. Diceva bene Machiavelli di cosa dobbiamo ragionare: delle leggi. Del popolo, certo, della sua partecipazione: ma incatenata alle leggi, perché non finisca sotto altre leggi, sotto il giogo della criminalità cioè. Del principe, soprattutto, e del suo comando: ma regolato dalle leggi, non esercitato come un favore o come un'elargizione. Così sappiamo davvero a che servono le leggi. Sappiamo che servono però di più contro gli errori del principe che non contro gli errori del popolo. È dai primi, dunque, che dobbiamo cominciare. A Napoli verrebbe voglia di dire, parlando anche a parti diverse della politica e della cultura democratica, le leggi servono a non innamorarsi del popolo, quando rifiuta la disciplina della legge, ma soprattutto, ma ancor più a non innamorarsi del principe, quando
smette di condurre "il governo del potere pubblico in pubblico" (come si potrebbe dire, con un tratto illuministico che risale a Kant), e aggira il controllo delle leggi. È una questione di legalità, ma, come insegna il passo di Machiavelli, prima ancora di questo è una questione di qualità della vita pubblica, di senso politico della cittadinanza democratica: Ora, il controllo, il freno della legge si allenta pericolosamente se un ceto politico autoreferenziale si preoccupa solo della propria perpetuazione e mantiene e riproduce, invece di superarle, le asimmetrie, le opacità e le diseguaglianze, perché in esse, nella loro continua assistenza e intermediazione, trova di che giustificare la propria esistenza. Questo controllo salta se vengono sistematicamente smantellati gli istituti della rappresentanza e della partecipazione: se le assemblee elettive si svuotano di poteri effettivi, se gli eletti sono sì eletti dal basso ma non prima di essere nominati dall'alto; se i soggetti politici si liquefano in cartelli elettorali o in partiti personali assai poco contendibili, privi di luoghi di discussione, di idee condivise, di cultura politica; se il partito finisce così coll'essere fatto solo di amministratori, e l'amministrazione a sua volta a non rispondere più, in termini terzi e imparziali alla città, alle imprese e ai cittadini, ma solo alle parzialità della politica da cui si lascia permeare. La malattia della politica ha un'origine lontana. Se scorriamo il triste rosario delle promesse non mantenute della democrazia di cui parlava Bobbio più di vent'anni fa, ne Il futuro della democrazia (1984), e ridiscusse ancora di recente da Danilo Zolo, scopriamo che c'era già lì, in quelle analisi, la diagnosi di gran parte dei problemi con cui oggi ci misuriamo Già lì è analizzato il fenomeno dello svuotamento della cittadinanza, indicato il pericolo di uno scollamento dal luogo pubblico della decisione di poteri che si fanno invisibili (cioè opachi, non trasparenti e non confessabili); già lì si paventa la privatizzazione della decisione politica (e, con un occhio a certe vicende cosiddette eticamente sensibili, posso aggiungere l'inedita politicizzazione degli spazi privati di vita individuale, come il vivere e il morire), già lì è segnalato il timore che gli interessi governino piuttosto che lasciarsi governare dalle legge. Questi problemi si presentano però, qui al Sud, acutizzati dalla incapacità di affrontarli, e cronicizzati dalla latitanza dello Stato. Nel Mezzogiorno, la cittadinanza non è mai stata piena, la decisione politica ha troppo spesso perduto di vista l'interesse pubblico; il principio di legalità non è mai stato fatto valere con nettezza.
Il problema sta però oggi nel fatto che non si è trovato un nuovo fondamento per la politica e per lo stato, dopo che quello vecchio è franato. E dove la politica è storicamente più debole, più grave si manifesta la crisi. Ricordo che Mauro Calise, in un suo pamphlet di diversi anni fa, che si intitolava Dopo la partitocrazia e usciva per Einaudi in un anno cruciale della storia politica italiana recente, il 1994, nelle conclusioni poneva la domanda di Umberto Eco: apocalittici o integrati? Lasciava aperto il dilemma se cioè quel 'dopo' (dopo la partitocrazia, dopo i partiti di massa del '900, dopo la DC e il PCI) avrebbe significato l'eclissi della democrazia nel nostro paese o la sua crescita e maturazione: il suo compimento. Guardando le cose molti anni dopo, e soprattutto da Napoli, la risposta non è scontata: il dilemma è ancora aperto. Ed è aperto perché rimane inevasa la domanda su cui si impernia quel dilemma, se abbiamo saputo trovare un nuovo fondamento per la nostra democrazia, essendo venuto meno quello dei partiti.
È rimasta inevasa, la domanda. o ha ricevuto una risposta decisamente squilibrata. Una risposta interamente dedicata al rafforzamento dei luoghi di decisione (si pensi all'indicazione del nome del presidente del Consiglio sulla scheda elettorale, o all'elezione diretta, anche se con sistemi elettorali diversi, dei sindaci dei presidenti delle province e dei governatori delle Regioni) a scapito però dei luoghi di partecipazione. La prima cosa era in certa misura necessaria, e rispondeva a fenomeni politici di lunga durata, che si manifestano qui da noi come in altri paesi; ma la seconda non lo era affatto. O comunque poneva il compito di come ricostruire luoghi di riconoscimento, di partecipazione, di soggettivazione, non semplicemente di abbandonare i vecchi al loro destino. Naturalmente non bisogna indulgere a sguardi nostalgici: sarebbe il peggiore degli errori. La Campania che guarda avanti deve però sapere trarre qualche lezione dal passato. Una in particolare: le semplificazioni, alla lunga, non pagano. E non pagano perché la più semplice di tutte le semplificazioni ci riporta proprio sul terreno di quella "vita immediata" in cui c'è sempre il rischio di regredire, e sta nelle mani di chi usa (immediatamente, appunto) la forza, non certo di chi usa la parola, mentre in democrazia bisogna dare forza alle parole; non parole, cioè solo scuse, alla forza. La Fondazione Italianieuropei, Mezzogiorno Europa, lavorano, io credo, per dare forza alle parole della democrazia. Un quadro di riforme costituzionali neo-parlamentare, e una legge elettorale ad esso coerente sono tra le proposte politiche concrete che hanno avanzato, raccogliendo un consenso che deve farsi maggioranza nel Paese. Lo stesso dicasi per il lavoro che stanno compiendo, con gli strumenti di cui dispongono, sulla delicata materia della riforma federale dello stato, che procede anch'essa a strappi, a singhiozzi, in mezzo a molta confusione, confusa cioè in quella retorica delle riforme e dell'innovazione di cui dicevo in apertura di questo intervento e che va pazientemente asciugata, perché non si perda di vista il senso dei principi costituzionali di solidarietà, di sussidiarietà, e di unità nazionale, dentro i quali una tale riforma va attuata. (Di quale retorica parli lo si capisce subito, se solo si pensa al fatto che nella Costituzione degli Stati Uniti d'America, il più antico Stato federalista, la parola 'federale' non c'è, mentre qui da noi ci si batte molto più per la parola che non per la cosa: forse perché la 'cosa', cioè poi la roba, corrisponde a disegni di altra natura, e serve essenzialmente a togliere dall'agenda pubblica del Paese la questione meridionale come questione nazionale). Ma voglio concludere sul punto che mi appare più impegnativo, quello che chiede un lavoro di lunga lena, e che mi consente di gettare anche uno sguardo breve sull'attualità, sulle questioni che accendono non solo il dibattito pubblico, ma proprio la discussione tra le persone: nei bar, sui pullman, sui luoghi di lavoro. Mi riferisco al caso Englaro, all'immigrazione clandestina e ai medici che si vedono assegnati con la nuova legge compiti di denuncia, agli stupri e all'allarme sicurezza che viene lanciato ogni giorno, a ogni ora, in ogni telegiornale. Sono questioni che non vengono però solo usate 'ideologicamente', per distrarre l'opinione pubblica, ma che riempiono effettivamente lo spazio della discussione, e su cui dunque nessun partito può condannarsi all'afasia, o a timidi balbettamenti. Sono questioni di "vita immediata", intorno alle quali però si costruiscono identità, soggettività, e da cui finisce col dipendere la stessa qualità democratica della vita pubblica. Proprio perciò chiedono a un partito che voglia davvero rivitalizzare i circuiti della partecipazione, di impegnarsi effettivamente nella costruzione degli spazi di mediazione dove esse si rendono politicamente
decidibili, e dove fanno identità. Questa è precisamente la funzione fondamentale di un partito, quando è un partito e non solo un'accolita di amministratori o di supporter organizzati intorno a questo o quel leader. E questo è quello che ci si deve augurare che un partito riesca a fare. Si può quindi dare una risposta alla domanda: che cosa può voler dire guardare avanti?, ma una risposta difficile, e una risposta facile. In realtà però sono la stessa risposta. È bene dirlo, perché la destra tende a far credere, mentendo, che c'è sempre e solo una risposta facile, pronta e immediata ai problemi del paese, mentre il centrosinistra tende a farla sempre difficile, sfidando così il buon senso e la pazienza dei suoi elettori. Perdendo credibilità, mentre la destra guadagna una fiducia drogata. La risposta è invece facile e difficile nello stesso tempo. Non può cioè non usare entrambi i pedali: il pedale della comunicazione, del messaggio, ma anche quello della costruzione, e della forza e dell'incisività di un disegno politico. Facile perché siamo qui (se fosse un comizio direi: perché siamo in tanti), difficile perché non dobbiamo essere solo qui, perché ci devono essere degli altri 'qui' dove vale la pena discutere, organizzare, partecipare, non lasciare il campo alla vita immediata, ma costruire una vita più giusta, più libera, più uguale.