Un Alieno A Vanity Fair

  • April 2020
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1 «QUI PUOI FARE MILIONI, E I TUOI CONCORRENTI SONO DEGLI IDIOTI»

Era il pomeriggio dell’8 giugno 1995 quando finalmente arrivò la telefonata. «Sono Dana Brown, ufficio di Graydon Carter. Parlo con Toby Young?» «Ehm, sì.» «Un attimo, per favore.» Pausa. «Toby? Sono Graydon. Ti andrebbe di venire a lavorare qui per un mese?» Eccola, l’occasione che stavo aspettando. Fin dalla sera del gala di Vanity Fair quindici mesi prima, avevo assiduamente corteggiato il direttore della rivista. Avevo scritto tre pezzi per lui finora, e ogni volta che lo incontravo in una delle sue regolari puntate a Londra facevo del mio meglio per ingraziarmelo. Il fatto che mi stesse offrendo solo un mese di lavoro era una questione puramente accademica. Era un mese di prova, e a patto che non facessi casino, avrebbe portato a un lavoro a tempo pieno. Mi sentivo come Boot, l’eroe di L’inviato speciale di Evelyn Waugh, quando viene convocato dal quotidiano The Beast. Per me Vanity Fair non era una qualsiasi rivista patinata newyorkese. Era un legame con la Manhattan degli anni d’oro, l’epoca della Tavola Rotonda dell’Algonquin. Nella 25

sua prima incarnazione, dal 1914 al 1936, Vanity Fair annoverava tra i suoi collaboratori Dorothy Parker, Edmund Wilson, Robert Benchley, D.H. Lawrence, T.S. Eliot, Colette, Cocteau, Herman J. Mankiewicz... l’elenco è infinito. Persino Houdini aveva scritto per Vanity Fair. La rivista era stata riesumata nel 1983 da S.I. Newhouse Jr., il milionario proprietario di Condé Nast, e dal 1984 al 1992 era stata diretta da Tina Brown, in precedenza alla guida del Tatler. Tina aveva trent’anni quando fu chiamata da Si, come lo chiamano, e in seguito diventò direttrice del New Yorker, la nomina più prestigiosa del giornalismo periodico americano. Sotto la guida di Tina, Vanity Fair era diventata la bibbia mensile del jet set, un’eclettica combinazione di fasti hollywoodiani, alta società e cronaca nera che Tina definiva “il mix”. Non era propriamente la rivista letteraria intellettuale di un tempo, ma restava di gran lunga più affascinante di qualunque concorrente britannico. Conobbi Graydon nel 1993 nel corso di un pranzo al Sunday Times a Londra, circa un anno dopo che aveva sostituito Tina. All’epoca avevo ventinove anni e avevo già lavorato per una variegata gamma di pubblicazioni inglesi, dalla Literary Review a Hello!, ma non avevo mai incontrato un direttore come lui. Con il suo abito consunto confezionato a Savile Row e la camicia lisa acquistata a Jermyn Street, per non parlare del suo eccentrico taglio di capelli, aveva un’aria un po’ trasandata, più da Spectator che da rivista patinata. Quando parlava, però, pareva un giornalista di Chicago vecchio stampo, con battute fulminanti che sembravano prese in prestito dal film Prima Pagina. Per esempio, dopo qualche bicchiere di vino gli proposi per Vanity Fair un servizio fotografico sulla “Londra letteraria”, con ritratti in primissimo piano dei più illustri autori britannici nei loro pub preferiti. L’idea era quella di illustrare il legame tra l’alcol e la vita letteraria londinese. 26

«Scherzi?» rispose lui. «Sembrerebbe un manuale di odontoiatria.» L’impressione che dava era quella di un uomo che si era dato un gran da fare per coltivare una particolare immagine – quella di un esponente dell’alta borghesia un po’ bohémien, con aspirazioni letterarie – ma era ben felice di smentirla nell’attimo stesso in cui apriva bocca. Avevo la sensazione che con il suo flusso di battute provocatorie, punteggiate da imprecazioni, volesse farti capire che era dalla tua parte, anche se sembrava un membro dell’establishment. Speravo che fosse vero. Tutti i giornalisti di Londra che conosco hanno fantasticato, prima o poi, di lavorare per una rivista di New York. Ricevere la fatidica chiamata di Tina Brown o di Graydon Carter è l’equivalente del telegramma che Herman J. Mankiewicz mandò a Ben Hecht da Hollywood nel 1925: Che ne diresti di trecento dollari alla settimana per lavorare per la Paramount Pictures? Tutte le spese pagate. I trecento sono noccioline. Qui puoi fare milioni, e i tuoi concorrenti sono degli idioti. Non farti sfuggire l’occasione.

Nel mio caso, la chiamata arrivò proprio al momento giusto. Esattamente due settimane prima avevo preso la decisione di chiudere The Modern Review, la rivista che avevo diretto negli ultimi quattro anni, senza dire niente alla comproprietaria Julie Burchill. All’epoca Julie era probabilmente la giornalista più nota in Gran Bretagna, e aveva la fama di persona estremamente vendicativa. Mettersi contro di lei non era stata una buona idea. «Toby non ha più futuro qui» tuonò al Times quando lo scoprì. «Dovrà lasciare il paese, come tutti quelli che si mettono contro di me.» Julie e io avevamo litigato quando lei aveva abbandonato il 27

marito, un giornalista americano di nome Cosmo Landesman, e si era messa con Charlotte Raven, una femminista bisessuale di venticinque anni. Charlotte, collaboratrice della rivista, aveva risvegliato l’animo radicale di Julie, che voleva affidarle la direzione. Insieme erano intenzionate a trasformare la pubblicazione in un incrocio tra The Nation e il periodico femminista Ms. Io avevo deciso di chiudere la rivista piuttosto che farla cadere in mani nemiche, e il risultato era che adesso ero disoccupato e molto, molto impopolare. A rigore, avrei dovuto essere depresso. The Modern Review era la mia vita. Cosmo e io l’avevamo fondata nel 1991 e negli anni successivi si era conquistata un gran seguito di appassionati, vendendo quindicimila copie nel suo periodo migliore. L’idea originale era fornire a giornalisti e studiosi un forum che ospitasse lunghi articoli eruditi su personaggi come Bruce Willis e Stephen King: il motto della rivista era “cultura bassa per alti intelletti”. L’obiettivo, naturalmente, era passare in rassegna quel tipo di merce dozzinale che le classi intellettuali consideravano con benevolo disprezzo. La Modern Review puntava a épater la borghesia colta. Nel primo numero pubblicammo contributi di Pauline Kael, Nick Hornby e James Wood su importanti icone del nostro tempo quali Bart Simpson, Kevin Costner e Hannibal Lecter. Fra i tipici articoli c’erano una biografia di Arnold Schwarzenegger scritta dal responsabile letterario della rivista e un articolo di un giovane decano di Cambridge sul duraturo successo della serie cinematografica Porkies nella cultura underground rumena. C’era persino una recensione di un ignoto laureato di Cambridge di nome Chris Weitz, che nove anni dopo insieme al fratello Paul avrebbe realizzato American Pie. La rivista era partita in quarta quando Robert Max­well, il famigerato magnate dell’editoria, minacciò di farmi causa 28

per una cifra stratosferica. Era l’autunno del 1991, e per comporre il primo numero avevo infiltrato il mio staff negli uffici di uno dei suoi giornali per utilizzarne le apparecchiature ad alta tecnologia. Quando lui lo scoprì, andò su tutte le furie. Non solo perché avevamo usato le sue apparecchiature senza chiedergli il permesso, cosa già abbastanza grave, ma anche perché sulla pagina del sommario lo avevo ringraziato per averci aiutato a pubblicare il primo numero. Era stato un atto di pura follia. «È come se dei ladri lasciassero un biglietto da visita» si lamentò. Disse che se non avessi accettato di chiudere per sempre la rivista, avrebbe chiesto un’ingiunzione e ci avrebbe denunciato alla polizia per ingresso abusivo. Decisi di combatterlo – era un cattivo da film di James Bond, e non avevo intenzione di mandare al macero il primo numero solo perché avevamo offeso la sua vanità – ma era una strategia ad alto rischio. La rivista non poteva certo permettersi una costosa battaglia legale. Nel primo anno la Modern Review dovette arrangiarsi con un investimento iniziale di circa 25.000 dollari. Nel corso dei suoi quattro anni di vita, l’investimento complessivo sulla rivista fu più o meno la metà di quel che Graydon Carter spende in limousine in un solo anno. Riusciva a sopravvivere solo con spese generali bassissime. Era un’impresa familiare nel vero senso della parola, dato che era prodotta nel mio appartamentino in Shepherd’s Bush. L’“ufficio” consisteva in due Apple Macintosh e un telefono/fax Amstrad. Quando la gente chiamava e chiedeva dell’“ufficio abbonamenti”, io passavo semplicemente la cornetta a Ed Porter, il vicedirettore. Lui e io eravamo gli unici impiegati a tempo pieno e ci pagavamo uno stipendio complessivo di 4.500 sterline all’anno. Nessuno poteva accusarci di farlo per denaro. Verso la fine del 1991 la situazione si era fatta preoccupante. L’ingiunzione richiesta da Maxwell era stata rifiutata, 29

ma lui aveva intentato una causa civile contro di me, e non era una bella prospettiva. Nel frattempo, gli avvocati che avevo ingaggiato per assistermi in tribunale mi avevano presentato una parcella di 25.000 dollari, e minacciavano di farmi causa a loro volta se non l’avessi pagata immediatamente. In Ally McBeal queste cose non succedono. Poi, proprio quando sembrava destino che accendessi una seconda ipoteca sul mio appartamento, accadde qualcosa all’altro capo del mondo che cambiò completamente la situazione. Il primo a comunicarmelo fu Aidan Hartley, un giornalista corrispondente da Nairobi, che mi telefonò alle quattro del mattino del 5 novembre. Aveva appena letto qualcosa sulle agenzie che pensava potesse interessarmi. «Spero per te che sia una bella notizia» dissi. «Lo è. Robert Maxwell è disperso in mare.» La morte di Maxwell pose fine alla sua causa. Quanto agli avvocati della Modern Review, ridussero la parcella a 20.000 dollari e accettarono di essere pagati a rate. Non avemmo più problemi con la polizia. Superato quello scoglio, The Modern Review sopravvisse per altri quattro anni. Non ci furono più emozioni come quelle delle prime settimane, ma avemmo qualche momento di gloria. Nell’estate del 1992 spedii in Cornovaglia una giornalista in incognito per chiedere consiglio sull’arte della scrittura erotica al famoso romanziere D.M. Thomas. Come previsto, lui si comportò in modo sconveniente. Nel 1993 pubblicammo la trascrizione integrale di una corrispondenza via fax tra Julie Burchill e Camille Paglia, che a poco a poco si inaspriva fino a concludersi con Julie che chiamava l’accademica “vecchia pazza lesbica”. Potete ancora trovare l’intero scambio su Internet. L’impresa di cui sono più orgoglioso fu quando convinsi Rob Long, produttore esecutivo di Cheers, a tenere una rubrica fissa in cui documentava 30

il curioso rapporto che aveva con il suo agente. La rubrica fu alla base di un libro umoristico, Conversazioni col mio agente, che scalò la classifica dei bestseller del Los Angeles Times. Ci furono anche momenti brutti. Rischiai un’altra causa nel 1994, questa volta con Elizabeth Hurley. Aveva saputo che intendevo pubblicare alcune foto che la ritraevano seminuda e incaricò i suoi avvocati di spaventarmi. La cosa mi parve un po’ buffa, tenuto conto che aveva posato per foto analoghe su GQ ed Esquire, ma ciò accadeva prima che diventasse famosa indossando uno scollatissimo abito di Versace alla prima di Quattro matrimoni e un funerale. Elizabeth Hurley è la prima attrice nella storia che per farsi notare ha dovuto vestirsi. L’episodio di gran lunga peggiore fu il mio litigio con Julie Burchill. Avevo conosciuto Julie nel 1984, quando lasciò il suo primo marito e andò a vivere con Cosmo Landesman, un ventinovenne di St. Louis che casualmente era mio vicino di casa. Julie divenne – alla lettera – la ragazza della porta accanto e fummo subito amici per la pelle. Credo che le piacesse il fatto che fossi così detestabile. Avevo vent’anni, un diploma a Oxford, e all’epoca soffrivo di quel che avevo definito “carisma negativo”: bastava che entrassi in una stanza affollata in cui non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me, e mi ero già fatto dieci nemici. Julie probabilmente mi prese in simpatia perché detestarmi sarebbe stato troppo banale. Amava fare sempre il contrario di ciò che ci si aspettava da lei. Comunque fosse, io le ero grato per la sua amicizia. Ero disposto a tutto pur di entrare nel giornalismo, e sebbene avesse solo venticinque anni Julie era una delle giornaliste più prolifiche del paese, con rubriche in tre periodici nazionali. Quando si stufò della sua rubrica su Time Out suggerì che scrivessi al posto suo e dividessimo il compenso. Questo 31

accordo produsse un solo articolo, ma lei fu così contenta del risultato da includerlo nella raccolta del meglio del suo giornalismo. Mantenne anche un rapporto epistolare con me quand’ero ancora a Brasenose, il mio college a Oxford, dandomi dei consigli da sorella maggiore. «Come fai a convincere le donne che non sei solo il surrogato di un tenero orsacchiotto di pezza, con quel naso da dodicenne che ti ritrovi?» scrisse nel 1986. «Cosmo dice che la risposta è la sodomia: nessuna donna può impedirsi di prendere sul serio un uomo dopo che è stata sodomizzata. Per essere un democratico liberale, sa essere molto brutale a volte.» Il nostro litigio iniziò quando un giornale si mostrò interessato a comprare The Modern Review nel marzo del 1995. I responsabili, tuttavia, chiarirono che il loro interesse era subordinato al fatto che la formula originale della rivista – intellettuali che scrivono di cose triviali – fosse modificata. Organizzai una serie di incontri con i collaboratori per discutere quale indirizzo prendere. Pensavo che sarebbero stati tutti entusiasti del fatto che fossi riuscito a trovare un compratore. Finalmente degli stipendi decenti! Quel che non avevo previsto era che traslocando dal mio appartamento, la Modern Review potesse essere diretta da un’altra persona. Ben presto emerse un nucleo di opposizione, e con mio grande stupore, la persona in questione si rivelò Charlotte Raven. Charlotte aveva solo venticinque anni. Scriveva in modo brioso e intelligente, ma non aveva mai diretto niente in vita sua. Il suo incarico principale in ufficio era quello di dattilografa! Ma aveva un vantaggio che gli altri potenziali candidati non avevano: andava a letto con Julie Burchill. Di fronte alla prospettiva di lasciare il mio regno in mani nemiche, e ritrovarmi senza niente in mano, ebbi la forte tentazione di mandare tutto all’aria. Più ci pensavo, più l’idea mi attirava. The Modern Review era venuta al mondo 32

con un botto pubblicitario: perché non andarsene allo stesso modo? Se avevo dei dubbi, si dileguarono quando Julie minacciò di non farsi vedere a un seminario della Modern Review organizzato da me, come aveva promesso. Dalla sua presenza dipendevano varie migliaia di sterline di sponsorizzazione: se non fosse venuta, la rivista non avrebbe incassato il denaro. Perché non voleva venire? «Perché non voglio più vedere la tua brutta faccia» spiegò lei senza mezzi termini. «È da anni che non ti sopporto.» Clic. Fine della comunicazione. “Okay” pensai. L’hai voluto tu. Convocai una riunione segreta dei membri dello staff che mi erano ancora fedeli – tutti e tre – e dissi loro quello che intendevo fare: chiudere la rivista in segreto senza dirlo a Julie. Miracolosamente, accettarono di aiutarmi. Nelle due settimane successive preparammo di nascosto un numero con “il meglio di” e lo mandammo in stampa. Io scrissi un editoriale di duemila parole annunciando che quello sarebbe stato l’ultimo numero della Modern Review e precisando le circostanze scandalose che avevano portato alla sua rovina: Julie aveva una relazione lesbica con una collaboratrice. In copertina c’erano le parole: «Questo è tutto, amici!». Appena il numero arrivò in edicola, la stampa impazzì. Secondo un esperto dei media, il mio litigio con Julie generò quarantotto metri complessivi di colonne sui giornali, diventando la storia più importante della settimana dopo la Bosnia. All’inizio la stampa ne parlò come di un fatto di cronaca, poi passò a chiedersi se uno screzio tra due giornalisti meritasse una simile copertura. In un certo senso, avrei preferito di no. Era una pubblicità tutt’altro che positiva. All’epoca dissi scherzando che l’unica cosa peggiore che essere sulla bocca di tutti era essere Toby Young. Tra le varie infamie, fui paragonato a Hitler nell’edizione domenicale del33

l’Independent. Nella settimana in cui infuriò lo scandalo persi quasi cinque chili: la dieta della pubblica umiliazione! La posizione di Julie, ribadita in innumerevoli interviste, fu che avevo avuto un attacco d’ira e avevo distrutto la rivista in un momento di stizza. «Si è comportato come un bambino viziato che si vede portar via il suo giocattolo preferito» disse all’Evening Standard. Non aveva torto. Mi ero quasi ammazzato per produrre The Modern Review, e questo era il ringraziamento! Come osavano dei collaboratori della rivista, gente che avevo personalmente strappato all’oscurità, mettersi contro di me? Pensavano veramente che Charlotte avesse l’energia, la pazienza e il talento per fare uscire un nuovo numero della rivista ogni due mesi? Che ingratitudine! Ma era Julie quella da cui mi sentivo maggiormente tradito. Come poteva scartarmi a favore di Charlotte? Io credevo nel giuramento che ci eravamo ripetuti ogni volta che ci sbronzavamo, promettendoci eterna fedeltà reciproca. C’era qualcosa di stupidamente goliardico in quel patto – avevo perso il conto di tutte le volte che lo avevamo sigillato pungendoci i pollici e premendoli l’uno contro l’altro – ma a me era sembrato autentico. Un giuramento è un giuramento, maledizione! Era come se lei avesse spezzato una sacra alleanza. Ero nervoso quando chiamò Graydon Carter. Come dovevo comportarmi? Volevo disperatamente quel lavoro, ma non volevo che mi prendesse per un cagnolino pronto a correre ogni volta che lui faceva un fischio. «Quanto pensi di pagarmi?» mi avventurai. Graydon rimase di stucco. «Quanti soldi? Chi cazzo ti credi di essere, Woodward o Bernstein? Stai dicendo che non vuoi venir qui per un mese se non ti do una montagna di denaro? Pensavo che la cosa 34

ti interessasse. Senti, non dovrei dirtelo, ma Si vuole conoscerti. E non capita spesso che chieda di conoscere una persona, lo sai.» Oh, mio Dio! S.I. Newhouse Jr. voleva conoscermi! Cos’avevo detto? Feci marcia indietro a tutta velocità. «Be’, sì, caspita, è un onore. Sarei felice di incontrare Si. Non ha importanza quanto mi paghi. Anzi...» «Senti, ti darò 10.000 dollari, d’accordo?» Stavolta fui io a restare di stucco. Se fossi riuscito a trasformare quell’offerta in un lavoro a tempo pieno, avrei finito per guadagnare 120.000 dollari all’anno. Era quattro volte quello che avevo guadagnato nel 1994. «Quando vuoi che cominci?» «Che ne dici del 5 luglio?» Mancavano quattro settimane. L’idea di sradicarmi da Londra in meno di un mese era francamente ridicola. A parte tutto il resto, c’era la mia fidanzata Syrie Johnson da considerare. Syrie aveva un lavoro fisso. Sarebbe stata disposta a mollare tutto per venire in America con me? Ne dubitavo. «Non c’è problema» risposi.

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