THE BIG TYPESCRIPT DI LUDWIG WITTGENSTEIN MARCO TRAINITO (2002) L’edizione italiana del Big Typescript di Wittgenstein (1889-1951), appena uscita presso Einaudi a cura di Armando De Palma (The Big Typescript, Torino, Einaudi, 2002, pp. XX + 772, € 35, 00), segue di due anni l’edizione originale tedesca (Wiener Ausgabe, vol. XI, The Big Typescript, a cura di Michael Nedo, Wien, SpringerVerlag, 2000). L’uscita di questa ennesima “non opera” del grande filosofo austriaco (il quale, com’è noto, dopo il Tractatus logico-philosophicus del 1921 – che è il testo classico del cosiddetto “primo” Wittgenstein - non pubblicò, né portò a termine, alcun altro libro, fatta eccezione per il Dizionario per le scuole elementari, 1926, e un breve saggio apparso nel 1929 nei “Proceedings of the Aristotelian Society” col titolo Some Remarks on Logical Form), costituisce sicuramente uno dei momenti più importanti dell’ormai cinquantennale storia della pubblicazione postuma dello sterminato Nachlass wittgensteiniano, cominciata nel 1953 con le incompiute Ricerche filosofiche, cioè il documento più importante per la conoscenza del pensiero del cosiddetto “secondo” Wittgenstein. Il Big Typescript è da sempre considerato dai maggiori studiosi di Wittgenstein, che hanno potuto visionarlo in microfilm, il prodotto più compiuto e significativo della travagliata fase di transizione dal “primo” al “secondo” Wittgenstein, che va dal 1929, anno del trasferimento a Cambridge e del “ritorno alla filosofia” dell’autore del Tractatus (che dal 1920 al 1926 si era quasi autoisolato dal mondo filosofico facendo il maestro elementare in tre sperduti villaggi della Bassa Austria), a poco prima del 1938, anno in cui egli stesso dichiara “insoddisfacente” il Big Typescript, che, dettato nell’estate 1932 a un dattilografo sulla base di diversi volumi manoscritti, era stato sottoposto a numerose correzioni, revisioni e vere e proprie riscritture a partire dal 1933 e in qualche caso persino nel corso della dettatura. La più notevole peculiarità esteriore del Big Typescript è rappresentata dal fatto che esso, tra i numerosi scritti che costituiscono l’opus postumum di Wittgenstein, è quello che più assomiglia a un libro, essendo suddiviso (circostanza più unica che rara nella babelica e disordinata frammentarietà che caratterizza il Nachlass) in capitoli (19) e paragrafi (140) dettagliatamente titolati e preceduti da un sommario introduttivo di ben 8 pagine, che vanno ad aggiungersi alle 768 del dattiloscritto. Questo è il motivo per cui esso è considerato il “terzo” libro vero e proprio che Wittgenstein (dopo il Tractatus e prima delle Ricerche) pensò di pubblicare e per il quale concepì anche dei titoli provvisori (“Osservazioni filosofiche”, “Osservazioni sulla filosofia”, “Riflessioni filosofiche”, “Grammatica filosofica”), rinvenuti nei manoscritti che ne costituiscono la fonte, finché, come detto, abbandonò definitivamente il progetto nel 1938 avendolo giudicato insoddisfacente. Non essendo possibile stabilire il titolo che Wittgenstein gli avrebbe dato se l’avesse pubblicato, questo scritto è rimasto noto presso gli studiosi come “Big Typescript”, che è l’espressione con cui i tre esecutori testamentari del filosofo, Rush Rhees (executor of the will e literary executor), G.E.M. Anscombe e G.H. von Wright (questi ultimi solo literary executors), solevano riferirsi ad esso – per via della mole considerevole – sin dal 1951, anno in cui, morto Wittgenstein, entrarono in possesso del Nachlass (come ha raccontato von Wright nel fondamentale saggio su “Gli scritti di Wittgenstein”, uscito per la prima volta nel 1969 e riedito con importanti
integrazioni nel 1982 come capitolo II del suo Wittgenstein, che contiene l’ormai canonica catalogazione dei manoscritti, dei dattiloscritti e dei dettati che costituiscono il Nachlass, e in cui il Big Typescript è catalogato come TS 213). Circostanze esteriori come questa, peraltro, sono all’origine dei titoli di altri celebri scritti wittgensteiniani, come Libro blu e Libro marrone (dal colore delle copertine dei dattiloscritti originali) e Zettel (dal fatto che i frammenti di cui è composto si trovavano in “foglietti” [“Zettel”] ritagliati dai dattiloscritti e raggruppati dallo stesso Wittgenstein). Data la sua collocazione centrale nell’arco del peculiare percorso filosofico di Wittgenstein (in cui qui eviteremo di addentrarci), il Big Typescript costituisce un mirabile compendio di tutto il pensiero di Wittgenstein nel suo divenire e contiene tutte le sue molteplici articolazioni tematiche, dalla logica alla filosofia del linguaggio, dalla filosofia della matematica alla filosofia della psicologia, dall’epistemologia alla fenomenologia. Per rendersene conto basta scorrere i titoli dei 19 capitoli che lo compongono: I. Capire. II. Significato. III. Proposizione. Senso della proposizione. IV. La comprensione istantanea e l’applicazione della parola nel tempo. V. La natura del linguaggio. VI. Il pensiero, il pensare. VII. Grammatica. VIII. Intenzione e raffigurazione. IX. Inferenza logica. X. Generalità. XI. Attesa, desiderio ecc. XII. Filosofia. XIII. Fenomenologia. XIV. Idealismo ecc. XV. Fondamenti della matematica. XVI. Sui numeri cardinali. XVII. La dimostrazione matematica. XVIII. Dimostrazioni induttive e periodicità. XIX. L’infinito in matematica; la concezione estensionale (completano il volume 6 Appendici ricavate da ritagli non confluiti nel dattiloscritto). Giustamente, allora, De Palma può dire nella sua “Nota introduttiva” che la lettura del Big Typescript, benché possa risultare impervia a un lettore non specialista, offre la possibilità di entrare nel “laboratorio di Wittgenstein” e assistere al complesso travaglio filosofico di uno dei più grandi pensatori del Novecento. E’ lecito chiedersi a questo punto come mai un testo così importante e per molti aspetti “curato” come il Big Typescript veda la luce solo ora, considerato che a partire dagli anni Sessanta è stato pubblicato praticamente di tutto, compresi osservazioni sparse e occasionali (si pensi a Pensieri diversi), appunti presi dagli studenti (si pensi alle varie Lezioni) e trascrizioni di conversazioni con amici e ‘discepoli’ (si pensi a Lezioni e conversazioni e a Wittgenstein e il Circolo di Vienna), titoli che non sempre meritatamente hanno fatto epoca influendo persino sulla ricezione e sulla comprensione generale del pensiero di Wittgenstein. Per dare una risposta a questo interrogativo è necessario fare almeno un rapido cenno a quello che è sicuramente il più clamoroso infortunio filologico-editoriale nella storia delle pubblicazioni wittgensteiniane. In effetti, oltre la metà del Big Typescript è in circolazione dal 1969 ed è nota come Grammatica filosofica (della più recente pubblicazione del capitolo XII diremo più avanti). In quell’anno Rush Rhees, lavorando di taglio e cucito sul Big Typescript, stabilendo arbitrariamente quale delle sue riscritture (dei primi capitoli) fosse da considerare definitiva e facendone una “Parte I” di 142 §§ senza suddivisione in capitoli, intitolata come il capitolo III e seguita da 8 Appendici, saltando inspiegabilmente i capitoli dall’XI al XIV e stampando inalterati i capitoli IX-X (filosofia della logica) e XV-XIX (filosofia della matematica) per formare una “Parte seconda”, intitolata “Su logica e matematica” e suddivisa in 7 capitoli numerati progressivamente ma recanti i titoli degli originali, diede alle stampe una pseudo-opera chiamata Philosophische Grammatik (che era uno dei titoli pensati dallo stesso Wittgenstein per il libro di cui il Big Typescript era una specie di bozza). Tutto ciò fece da subito insorgere gli studiosi per l’incredibile leggerezza filologica dell’intera
operazione editoriale. Basti pensare, ad esempio, che per approntare la prima parte Rush Rhees si servì dell’ultima revisione del dattiloscritto in ordine di tempo operata da Wittgenstein, mentre, per approntare la seconda parte, egli utilizzò quei capitoli che non erano stati nemmeno toccati da Wittgenstein, come se ciò significasse che egli li avesse ritenuti definitivi, quando invece è noto che Wittgenstein a un certo punto abbandonò definitivamente la grande opera di revisione del dattiloscritto perché ritenuto complessivamente “insoddisfacente” (da qui il fatto curioso che la prima parte della Grammatica filosofica testimonia una fase del pensiero di Wittgenstein più avanzata rispetto alla seconda). Ecco perché, a partire dagli anni Settanta, è fiorita una copiosa letteratura critico-filologica sui rapporti tra il fantomatico Big Typescript (disponibile solo in microfilm) e la Grammatica filosofica: a tal riguardo vanno almeno ricordati il fondamentale saggio di Anthony Kenny, “From the Big Typescript to the Philosophical Grammar” (1976), la “Critical Notice: Philosophical Grammar” di G.P. Baker e P.M.S. Hacker (1986), il saggio “Wittgenstein edito e inedito” di Marino Rosso (1988), nonché la “Premessa” di Mario Trinchero alla sua traduzione italiana della Grammatica filosofica pubblicata da La Nuova Italia (1990). Tutti questi scritti sono accomunati non solo dall’unanime denuncia dell’inconsistenza filologica del lavoro di Rhees ma anche dall’invito rivolto agli esecutori testamentari di Wittgenstein di approntare finalmente un’edizione storico-critica del Big Typescript, dal momento che, come nota Trinchero, “di fronte a un non-libro di tal genere (…) l’unica strada possibile sarebbe (…) quella consistente nello stampar il testo di BT corredandolo, a parte, di tutte le sue varianti e dell’apparato critico indispensabile a ricostruire il lavoro dell’autore”. Più di trent’anni dopo l’uscita della Grammatica filosofica, e oltre dieci anni dopo l’auspicio di Mario Trinchero (il massimo traduttore e curatore italiano delle opere di Wittgenstein), l’edizione critica del Big Typescript è finalmente a disposizione di tutti, e l’edizione italiana curata da De Palma si segnala proprio per il fatto di incorporare tutte le correzioni, le cancellature e le aggiunte che Wittgenstein ha operato sul dattiloscritto. Tuttavia, gli studiosi particolarmente esigenti di Wittgenstein non mancheranno di rilevare un limite di questa edizione, e cioè il fatto che essa è sprovvista di un indice analitico - presente nelle edizioni italiane di altri importanti scritti postumi del filosofo austriaco, come le Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Zettel (editi da Einaudi a cura di Mario Trinchero rispettivamente nel 1971 [ried. ampliata 1988] e nel 1986) e le Osservazioni sulla filosofia della psicologia (edite da Adelphi a cura di Roberta De Monticelli nel 1990) - e di una tavola delle concordanze (presente nelle citate Osservazioni sulla filosofia della psicologia). Queste ultime, in particolare, costituiscono uno strumento di studio e di ricerca spesso indispensabile, perché, com’è noto, lo stesso metodo di lavoro di Wittgenstein fa sì che numerosissimi passi ricorrano in più “opere” o raccolte di osservazioni pubblicate nel corso degli ultimi 50 anni. Il Big Typescript, in tal senso, contiene un gran numero di luoghi che si ritrovano identici in molti altri scritti, come le Osservazioni filosofiche, le Note al “Ramo d’oro di Frazer, Zettel, le Osservazioni sulla filosofia della psicologia e soprattutto le Ricerche filosofiche. Per fare un esempio, consideriamo il capitolo XII, intitolato “Filosofia”, che copre i §§ 86-93 del Big Typescript. Esso è stato pubblicato a parte per la prima volta nel 1989 da Heikki Nyman nel numero 43 della “Revue Internationale de Philosophie”, ed è uscito in italiano col testo tedesco a fronte presso l’editore Donzelli nel 1996 a cura di Diego Marconi e Marilena Andronico. Ebbene, questi ultimi, limitandosi per semplicità alle corrispondenze con le sole Ricerche filosofiche, hanno segnalato ben 20
casi (e per di più si tratta di luoghi delle Ricerche divenuti celeberrimi), che vale la pena riportare in questa piccola tavola a mo’ di modellino di quella ben più ampia che verrebbe fuori da un’indagine a tappeto su tutto il Big Typescript: BT, XII:
RF, Parte I:
§ 88, 2 § 88, 4 § 88, 7 § 89, 2 § 89, 7 § 89, 8 § 89, 10 § 89, 11 § 89, 12 § 89, 13 § 89, 14 § 89, 15 § 89, 18 § 89, 20 § 89, 21 § 89, 23 § 89, 31 § 90, 13 § 92, 1 § 92,2
§ 118 § 116 § 111 § 127 § 122 § 122 § 122 § 124 § 124 § 124 § 126 § 126 § 128 § 129 § 129 § 126 § 123 § 119 § 133 § 133
Per concludere, se si volesse tentare di rinvenire in un solo passo di quest’opera il senso profondo di tutto il filosofare wittgensteiniano, si potrebbe proporre il seguente, in cui compare una di quelle analogie illuminanti in cui Wittgenstein è stato maestro insuperato e giustamente celebrato: “Sulla crescita della matematica la chiarezza filosofica avrà la medesima influenza che la luce del Sole ha sui germogli di patata. (Nelle cantine buie crescono fino a diventare lunghe un metro)” (cap. XVII, § 122, 21, p. 612 = Grammatica filosofica, Parte II, cap. V, sez. 25, tr. it. p. 340). Qui, in accordo con i molteplici campi tematici delle riflessioni di Wittgenstein, al posto di “matematica” si può leggere benissimo di volta in volta anche “logica” o “linguaggio” o “psicologia” o “scienza”, ecc.: lo scopo del suo filosofare non era mirato all’elaborazione di tesi o di nuovi sistemi o super-ordini concettuali, ma alla messa in ordine, alla chiarificazione alla luce dell’analisi linguistica di ciò che da sempre ci sta davanti nell’esperienza ordinaria, al fine di evitare che pregiudizi filosofici di varia natura e cattivo uso del linguaggio producano o riproducano all’infinito la selva intricatissima dei non-sensi linguistici spacciati per misteri profondi e promesse di sapienza, a discapito della crescita della patata, il cibo tanto umile quanto nutriente che qui è simbolo della semplicità di tutto ciò che è veramente essenziale alla vita non solo del filosofo ma anche di ogni uomo.