Tariq Ramadan A Proposito Di Islam

  • December 2019
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Nel nome di Allah, il compassionevole, il Misericordioso Questo testo propone un metodo semplice e progressivo di avvicinarsi alla conoscenza all’Islâm in maniera equilibrata, evidenziando i suoi elementi essenziali. Oltre alla definizione dello stesso termine “Islâm”, alla riflessione sul rapporto con il Creatore e alla concezione dell’uomo, vengono tratteggiate due nozioni fondamentali dell’universo musulmano: il sapere e l’amore. SOMMARIO Introduzione I concetti chiave dell’islam 1.

Sottomissione e pace

2.

Che dire di Dio? La concezione dell’uomo nell’islam

1.

Soffio originale e luce

2.

Dall’innocenza alla responsabilità

3.

Cuore e ragione Il senso della vita

1.

La scelta tra l’oblio ed il ricordo

2.

Il sacro ed il profano

3.

Lo sforzo su sé stessi L’Universo come libro

1.

La via

2.

Le diverse dimensioni dell’adorazione

Conclusioni 1.

L’amore e l’obbedienza nell’amore

2.

Il sapere del cuore e il sapere dello spirito

Introduzione Per potersi avvicinare all’Islâm e giungere ad una corretta comprensione esso, è necessario seguire un percorso che metta in evidenza i suoi elementi essenziali. Elementi che poggiano su di un messaggio determinato, in relazione col divino e fondato su un concetto specifico di uomo. In questo testo, dopo una breve introduzione, vengono date le definizioni e le spiegazioni di diversi concetti, la prima delle quali riguarda la parola Islâm. Ciò consente di individuare, attraverso una riflessione sul Creatore, molti elementi appartenenti al concetto di uomo nell’Islâm. Risulta così chiaro che i due concetti sono intrinsecamente legati. Alcune definizioni si impongono nell’uso comune al punto che ci si dimentica che le parole usate non hanno per forza il senso a loro attribuito. Le definizioni di un unico concetto possono essere molteplici e diverse tra loro, addirittura apposte; per questo è necessario essere molto chiari ed esigenti sulle espressioni e sulla termologia da usare, curando anche le sfumature. La domanda sull’uomo viene sfrontata molto spesso e merita una definizione chiara, perché la maniera di vedere l’uomo varia in relazione alla propria sensibilità, alle proprie tradizioni, alla propria cultura. Anche in tradizioni religiose vicine, fondate sul monoteismo, come quella musulmana, cristiana ed ebraica, la conoscenza dell’uomo si articola, si comprende, si approfondisce, si medita in modo diverso. Per il proseguimento del dialogo bisogno dunque riscoprire anche il senso delle piccole sfumature, e scandagliare la complessità di

tutti i concetti, anche di quelli il cui significato di dà per scontato. Questo testo affronterà anche un altro tema molto importante nella tradizione musulmana: quello del progresso. Nella conclusione saranno spiegate due nozioni fondamentali della realtà islamica: il sapere e l’amore. Il sapere che non ha confini e l’amore che ha un ruolo centrale nella fede, anche se si tende a ricordarlo troppo poco, al punto da dare l’impressione che esso sia secondario, ma è nell’amore che si può accedere alla dimensione e alla presenza del divino.

I concetti di base Spesso, come abbiamo detto, si utilizzano alcuni termini come se avessero un significato unico, ben definito. Invece termini “Islâm”, “Allah”, “Nomi divini” hanno talvolta un senso molto ampio, sono persino polisemie. 1.

Islâm: sottomissione e pace

2.

Cosa dire di Dio? Islâm: sottomissione e pace

Il termine Islâm viene dalla radice araba salama che ha due sfumature importanti.

La prima è un atto di sottomissione, ovvero, il riconoscimento, attraverso lo coscienza dell’uomo, di un Essere al di là di tutti gli esseri, di un Creatore, Uno ed Unico, al quale essa riconosce la per-esistenza su tutte le cose. Egli è Uno, non c’è nessun dio all’infuori di Lui. Egli è al di là di tutto ciò che si può immaginare. La seconda sfumatura di questo termine, sulla quale, di solito, non si insiste in maniera sufficiente, è legata al senso di accedere alla pace, che è evidente nella parola salama, salima. Nella tradizione musulmana, si ha l’idea di doversi cautelare, proteggere, di dover mettere un limite a tutto ciò che potrebbe turbare l’accesso allo stato di pace interiore. Queste due sfumature sono legate intimamente e definiscono nel giusto modo e in pianezza il termine Islâm. L’uno accompagna l’altra, si completano, edificando l’uomo nella sua dimensione essenziale, cioè come essere di cuore, d’interiorità. Il riconoscimento di Dio procura all’uomo la pace interiore. La consapevolezza della relazione alla trascendenza riavvicina l’uomo alla vita interiore e gli procura la pace immediata. Una tradizione islamica dichiara che Dio ha novantanove nomi, anche se, di fato, sono ben più numerosi. Tra di essi si trova As-Salam, la Pace. Dio è la Pace e attraverso questo attributo in forma completa, totale e perfetta, ci invita a camminare verso lo stato di pace interiore. L’uomo arriva a questa pace solo quando è in grado di ascoltare l’essenza della sua anima, quando è in sintonia totale col suo essere originario, attraverso il riconoscimento del divino.

Cosa dire di Dio?

È necessario definire chiaramente la concezione di religione nell’Islâm, che è leggermente diversa rispetto alla concezione cristiana: la religione o la religiosità non si identifica né con un profeta, né con una regola. L’Islâm si presenta come un atto di fede: è riconoscimento di una sottomissione cosciente all’Essere Supremo. Sottomissione alla dimensione del Trascendente significa liberarsi da tutte le manifestazioni contingenti. Ancora… l’idea del riconoscimento dell’Unico come liberazione da tutto ciò che è fortuito nella vita; riconoscere che Egli è, vuol dire liberarsi da ogni sottomissione rispetto a ciò che Egli ha creato: l’influenza degli esseri umani, i modelli, i conflitti personali, emozionali o materiali. L’Islâm, dunque, si definisce attraverso “uno stato di riconoscimento”.

“I 99 nomi di Dio sono gli attributi che si applicano a Dio, che il Corano indica come i nomi più belli”. Nel XVIII secolo, quando alcuni pensatori come Montesquieu[1] o Voltaire[2] cominciarono ad interessarsi alla questione dell’Islâm, iniziarono a parlare di “maomettani”. Questo termine è di per sé un grave errore, perché fa riferimento, per analogia, al rapporto tra cristianesimo e Cristo. Nella tradizione musulmana, invece, si da appello ad un atto di riconoscimento del Creatore di tutti gli uomini e non ad un essere umano, anche se costui è il nostro esempio, anche se è colui che permette di avvicinarci a Dio. È un aspetto fondamentale, perché in questo punto il rapporto del Creatore nei confronti della Sua creazione si differenzia rispetto alla concezione cristiana. Forse questi aspetti possono sembrare secondari, ma bisogno saperne parlare con chiarezza, soprattutto in Occidente, in un contesto dove sono radicate, nell’inconscio collettivo, delle rappresentazione falsate dell’Islâm, che risalgono ai tempi del Medio Evo. Ci sarebbe, infatti, un gran numero di esempi che mettono in evidenza le incomprensioni e gli stereotipi da sempre

imperanti, ne citeremo solo qualcuno, senza farne una trattazione esaustiva. Per esempio, un brillante pensatore come Chateaubriand[3] ha potuto scrivere che il Dio degli arabi era Allah, come se fosse specificatamente il Dio dei musulmani o degli arabi. Allah è la traduzione in arabo di “Iddio”. In italiano, dunque, si dirà Dio e non Allah – anche se ci sono delle persone che preferiscono dire Allah anche quando parlano in italiano o in francese, per mettere in evidenza la specificità del nome a partire dalla lingua araba. I cristiani copti in Egitto dicono Allah per parlare di Dio, perché si tratta di una parola usata nella loro lingua; una persona di lingua inglese dirà God.

“Iddio, God, Dieu, Allah” La denominazione varia a secondo della lingua che si usa. Così si tratta solo di una questione di traduzione e non di una pluralità di dei specifici per ogni civiltà o per ogni popolo. Egli è un Dio Unico e il Suo nome varia a seconda della lingua usata.

“Egli è un Dio Unico, lo stesso per ogni tempo e per tutti i popoli”. Perché questa sfumatura è molto importante? Perché sfuggendo a questa regola linguistica, si evitano le divisioni della diversità. Si dice che i musulmani dicono Allah come se fosse il Dio loro, mentre la tradizione musulmana spiega che Egli è Uno e che Egli è lo Stesso per ogni tempo e per ogni popolo: Egli è Colui che ha parlato a Mosé e ha creato Gesù, così come ha creato Adamo, e ha stabilito il ciclo dei Profeti. Questo Dio è Unico e non ha nessun associato: questo è il senso del Tawhid che fonda l’esigente monoteismo islamico. Ciò segna una differenza che bisogna sottolineare, in rapporto alla tradizione cristiana che riconosce a Dio tre ipostasi[4] che fondano il mistero della Trinità[5]. Se si vuol fare lo sforzo del dialogo e della riconciliazione interreligiosa è meglio che esso venga fondata in modo rigoroso e nel riconoscimento delle differenze. La Trinità è un

dogma che cela dei misteri e non si può cogliere con un puro approccio razionale; dire ciò non vuol essere un desto di denigrazione, ma il riconoscimento di una differenza, e rispetto verso il credo cristiano. Nella tradizione islamica il concetto di Trinità è assolutamente assente. La specificità di Dio sta nel fatto che nulla Gli assomiglia. Nulla, a partire dalla nostra intelligenza, dalla nostra immaginazione, neanche nel sogno, potremmo essere capaci di rappresentarLo. Egli è Il Sapiente, Colui Che comprende tutto ciò che può essere capito, nella sua totalità, al di là del nostro intelletto. Troviamo così l’affermazione della perfezione di Dio, e inoltre dell’irriducibilità di questo Essere all’intelligenza umana. Dio è perfetto ed illimitato nella Sua perfezione, e ciò Lo rende inaccessibile alla nostra intelligenza che è limitata. È naturale chiedersi come poter parlare di Lui, essendo Egli così inaccessibile al nostro intelletto; la tradizione islamica è molto esigente su questo: non si può dire di Dio se non ciò che Egli ci ha detto di Se Stesso. Nella tradizione biblica ciò è rappresentato dalla domanda di Mosé: “Chi sei?” Dio rispose: “Io sono Colui Che è”. L’Essere nella dimensione assoluta, non può essere compreso totalmente dall’intelligenza umana e ciò induce subito il cuore e la mente ad un atteggiamento d’umiltà in rapporto al Creatore. L’uomo non può avvicinarsi al Signore, se non per quello che Egli ha detto di Se Stesso, e non potrà mai coglierLo, né definirLo, nel Suo assoluto. Dopo Allah la seconda parola messa in evidenza nel Corano è Ar-Rahman, che possiamo tradurre con “Misericordioso”, Dio, dunque, ci dona un nome, una qualifica, che permette alla nostra intelligenza di guidarci verso la Sua comprensione, senza, tuttavia, che noi possiamo coglierne pienamente l’essenza. Si conosce il concetto di generosità nella dimensione umana; un uomo può essere generoso, e lo si può definire tale

se possiede questa qualità, ma se parliamo di Dio, che è Il Generoso, oltre ogni tipo di generosità immaginabile, il concetto sarà ben diverso. La nostra intelligenza ci accompagna un cammino, che non potrà mai arrivare a definire perfettamente l’Essere, Il Quale è al di sopra di ogni perfezione concepibile, essa solo, ci orienta nel cammino verso ciò che Egli è. La nostra fede, invece, ci avvicina alla comprensione attraverso un lavoro di meditazione interiore e di iniziazione. Nella tradizione mistica, nota come il Sufismo (tasawwuf)[6] esiste un esercizio, che consiste nel ripetere i nomi di Dio al fine di assorbire l’importanza del Suo nome, come dicono certi sufi, per poi liberarsi spiritualmente nella Sua realtà, senza mai però riuscire a circoscriverla intellettualmente. Possiamo citare anche altri nomi di Dio ripetuti più spesso nella recitazione cranica.

Ar-Rahman, Ar-Rahim. I due nomi hanno la stessa radice, una

piccola sfumatura nei termini del dono della misericordia: Egli è Il Misericordioso, riferendosi alla totalità della misericordia contenuta nel Suo essere (Ar-Raman), ed è Colui che distribuisce questa misericordia al di là di ogni generosità immaginabile (Ar-Rahim).

Dio si presenta all’uomo attraverso i Suoi nomi per permettergli di avvicinarsi a Lui, senza che però abbia la possibilità di raggiungerLo, né l’orgoglio di definirLo o sfidarLo. In questa operazione razionale, il concetto di umanità sembra fondamentale. Egli è Il Creatore (Al-Khaliq), Colui che dà forma a tutte le cose (Al-Musawwir), L’Onnisciente (Al-Alim), L’Assoluto (As-Samad), L’Eterno (AlBaqi). Edite una serie di nomi che ricordano spiritualmente il Suo potere e la Sua perfezione, ma Egli ha anche dei nomi che rimandano alla Sua misericordia, alla Sua saggezza (Al-Hakim), alla Sua bontà (Al-Latif), al Suo amore (Al-Wadud).

Queste qualità orientano il nostro cuore e superano il nostro intelletto. Non abbiano, nella nostra costituzione intellettuale ed emotiva, la possibilità di conoscere la perfezione; conosciamo solo la perfettibilità, ovvero la possibilità di camminare verso la perfezione, senza mai raggiungerla pienamente. [1] Montesquieu: (1689-1755) Scrittore francese, autore di Lettere persiane (1721), Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734) e di Lo spirito delle leggi (1748). [2] Voltaire: (1694-1778) Scrittore francese, autore celebre per Lettere filosofiche (1734), Zadig (1747), Candido (1759), Il secolo di Luigi XVI (1734) e del Dizionario filosofico (1764). [3] Chateaubriand François René: (1768-1848) Scrittore francese noto per Il Genio del cristianesimo (1802), con cui intendeva contribuire alla restaurazione dell’ordine morale; René (1805), dove René incarna il “mal du siècle”; Memorie d’oltretomba (1848-1850), libri per la cui redazione ha lavorato trent’anni e che sono una meditazione sulla storia, il tempo e la morte. [4] Ipostasi: dal greco hypostasis, “ciò che è messo sotto”. Nella teologia cristiana indica ognuno delle tre persone divine considerate come distinte. [5] Trinità: dal latino trinum “triplo”. Per la teologia cristiana l’unione delle tre persone divine, Padre, Figlio e Spirito Santo, distinte e consustanziali (di una sola e stessa sostanza), in una sola e indivisibile natura. [6] At tasawwuf: (Il sufusmo) Si tratta di una scienza, la scienza della mistica, che ha un quadro, delle regole ed un vocabolario tecnico specializzato. Necessita di un’iniziazione. Sinteticamente, comprende i diversi studi dei sapienti o delle scuole relative alle tappe o agli stati che permettono il

cammino interiore verso Dio. È la dimensione di al-haqiqa, della verità, della realtà spirituale interiore che porta al riavvicinamento.

La concezione dell’uomo nell’islam Se si vuole capire in modo approfondito il rapporto tra Creatore e creato si deve, innanzitutto, approfondire la concezione dell’uomo nella tradizione islamica. La nostra comprensione del Creatore ci indicherà i termini ed i punti di riferimento del nostro cammino, il senso stesso della vita. È nel risveglio della coscienza e nella conoscenza di Dio che

potremo cogliere la definizione dell’uomo nell’Islâm. Dio ha creato l’essere umano, gli ha insufflato il riconoscimento innato ed innocente del divino, un anelito, un’aspirazione naturale. Per evitare approssimazioni e discorsi superficiali, bisogno essere molto chiari sulla terminologia da usare e sulle definizioni da dare, soprattutto quando si tratta di presentare la nostra religione, o di avviare una discussione. Nella società in cui viviamo ci sono diverse tradizioni che si incontrano, che convivono, e per mantenerle nel tempo, bisogno essere molto esigenti nel dialogo. Possiamo accettare le differenze, persino le opposizioni, ma bisogna dare agli altri la possibilità di capirci, di conoscerci, per poter scoprire le cose che ci accomunano e determinare quelle che ci distinguono gli uni dagli altri. Lo sforzo generale in questo senso è ancora ai livelli minimi. 1.

Soffio originale e luce

2.

Dall’innocenza alla responsabilità

3.

Cuore e ragione Soffio originale e luce

La tradizione islamica si distingue da quella ebraica e cristiana per la definizione che dà dell’uomo, in quanto lo colloca in una dimensione diversa. In un versetto della sura VII del Corano (Al Araf, Il limbo), la rivelazione mette in evidenza un concetto primario ed essenziale che raccoglie il consenso di tutte le scuole di pensiero islamiche. La tradizione islamica, proprio come quella ebraica e quella cristiana, dà un senso religioso all’atto della creazione: è Dio che ha creato Adamo ed Eva, il primo uomo e la prima donna, dai quali discende tutte l’umanità. La teoria di Darwin[1] viene spesso messa in contrasto con l’atto della creazione, così come concepito nella tradizione cristiana[2]. Quella islamica non la

rifiuta totalmente, perché in molti testi si ritrova l’idea dell’evoluzione della specie, è una teoria ammissibile, senza però mettere in discussione una creazione specifica dell’essere umano. Non esistono ancora delle risposte definitive sull’origine dell’uomo, nemmeno tra gli stessi biologi, e tutte le ipotesi si possono discutere. Nella narrazione islamica della creazione dell’uomo, si dice che, quando Iddio l’ha creato, ha riunito tutta la sua progenie e l’ha fatta testimoniare: “E quando il Signore trasse, dai lombi dei figli di Adamo, tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro loro stessi [disse]: «Non sono il vostro Signore?» Risposero: «Sì, lo attestiamo»” (Corano VII, 172). Ogni essere umano, nell’interiorità del suo essere e del suo cuore, possiede un soffio originario, che lo lega alla Trascendenza ed alla ricerca di spiritualità. Nella sua raccolta di testi Mircea Elide[3] evoca in modo continuo l’aspetto del religioso o dello spirituale che “partecipa alla struttura della coscienza umana”. Secondo la tradizione musulmana un soffio anima il cuore di ogni essere, e lo spinge a cercare in modo naturale e spontaneo qualcosa che è “al di là”, un’espressione di spiritualità. Questo impulso naturale si chiama, in arabo, fitra[4], ovvero quel soffio, quell’aspirazione innata di cui Dio ha dotato l’essere umano. In fondo al nostro cuore, nell’intimo del nostro essere, fino al microcosmo che vive in noi, c’è una anelito che ci incita a ricercare la Trascendenza, la spiritualità. È un impulso che sentiamo in noi, prima ancora che la nostra stessa coscienza che ne parli. Questa dimensione viene espressa nella tradizione musulmana con la luce, an-nur, un soffio essenziale che anima gli esseri umani nel tempo e che trova conferma dalla storia santa o consacrata: questa luce è di fatto una rivelazione prima ancora delle Rivelazioni. “Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro

brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce. Allah guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allah è onnisciente”. (Corano XXIV, 35). Questa rivelazione vive in ciascuno di noi e si sviluppa man mano che se ne prende progressivamente coscienza. Dio, attraverso i Suoi Angeli, invia una Rivelazione che incontra e rinforza questo soffio interiore. Così si incontrano due luci, quella del Messaggio rivelato che incontra e risveglia questo soffio intimo. Il famoso scrittore Abu Hamid Al Ghazali[5], chiamato anche “la prova dell’Islâm” (Hujjat al islâm), tanto è stato ricco il suo contributo scientifico, intellettuale e spirituale, ha avviato una profonda riflessione intorno ad un versetto cranico che evoca questo aspetto delle due luci complementari: “Nurun ala nur”, “Luce su luce” (XXIV, 35). La luce della profondità originaria incontra quella della coscienza, del cuore. Secondo la tradizione islamica ogni uomo possiede questa dimensione originale; ognuno dovrebbe cercare di coltivare questo seme e lasciarlo poi sbocciare, perché sia “testimone” della presenza del divino. Questa visione dell’uomo entra in contrasto, ad esempio, con quella di Camus[6], ad esempio, che afferma che la fede è ciò che si raggiunge quando la ragione si ferma. Nella visione musulmana la ragione conferma e continua ciò che la fede afferma; il processo è dunque visto al contrario: la fede è innata e la ragione l’arricchisce. Se, per stabilire una trasposizione, citassimo la famosa formula di Pascal[7]: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione ignora”, dovremmo, dal punto di vista dell’ordine spirituale islamico, invertire tale formula dicendo: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione riconoscerà”. Il soffio precede la ragione e quest’ultima riconosce ciò che esiste nel cuore attraverso un lavoro di presa di coscienza con i mezzi che Dio ci ha dato per giungere alla Sua conoscenza.

[1] Charles Darwin (1809-1882) Naturalista inglese. Durante un viaggio intorno al mondo sul Bearle (1831-1836) raccolse numerose osservazioni sulla varietà delle specie, ed elaborò la dottrina dell’evoluzione, famosa come darwinismo. Sull’origine delle specie per mezzo della selezione naturale (1859). [2] Nella teologia cristiana contemporanea sussistono carie posizioni riguardo all’evoluzionismo, grazie ad un’interpretazione simbolica (genere letterario mitico) dei racconti della creazione (Gn). [3] Mircea Elide (1907-1986). Storico delle religioni e scrittore rumeno. La sua opera riguarda principalmente la storia comparata delle religioni e i miti. [4] Fitra (letteralmente “natura primordiale”). Significa la regola primordiale: lo stato dell’armonia tra l’uomo, la Creazione e Dio, come esisteva tra Dio e Adamo nel Giardino. Essa rappresenta l’aspirazione naturale degli esseri verso la Trascendenza, verso la pace. [5] Al Ghazali: Abu hamid ibn Muhammad At Tusi (1056-1111). Nato e morto a Tus, in Persia. Filosofo, teologo, giurista e mistico. Uno dei più grandi pensatori dell’Islâm medievale. Celebre per La rivivificazione delle scienze religiose, La liberazione dell’errore, Il tabernacolo delle Luci, ha lasciato una considerevole opera di oltre 400 titoli. [6] Camus Albert (1913 1960). Scrittore francese. Nel suo saggio Il mito di Sisifo (1942), nei suoi romanzi Lo straniero (1942), La peste (1947), La caduta (1956), e nelle opere teatrali Caligula (1945), I giusti (1949), tradusse il sentimento dell’assurdità del destino umano nato dallo choc della seconda guerra mondiale. Ebbe il premio Nobel nel 1957. [7] Pascal Blaise (1623 1662) Sapiente, filosofo e scrittore francese. I Pensieri è il titolo del libro sul quale vennero pubblicate, nel 1670, dopo la sua morte, le note che aveva

redatto per scrivere una “Apologia della religione cristiana”. L’obiettivo del filosofo era di riavvicinare chi non credeva, alla religione cristiana. Egli insisteva sulla miseria della natura umana per convincere i suoi lettori a “scommettere” sull’esistenza di Dio e ad entrare in seno alla Chiesa.

Dall’innocenza alla responsabilità Prima del concetto di conoscenza, c’è quello del riconoscimento, ovvero una consapevolezza che siamo Suoi, prima ancora di rendercene conto. Attraverso questa visione si evidenzia quanto possa essere profondo il concetto del mondo e di ordine naturale stabilito, nella mistica musulmana. Il dibattito che ruota oggi intorno all’Islâm appare molto superficiale rispetto a questi concetti. Nell’Islâm la visione dell’essere originario è estremamente positiva ed ottimista, tanto più che il concetto di peccato originale non esiste. Prima di sviluppare il senso di responsabilità tutto si vive nell’innocenza. Da questo punto di vista ogni bambino è musulmano, nel senso di muslim, che viene da Islâm (sottomesso), perché porta nel suo essere, in modo naturale, il riconoscimento di Dio, così come sono musulmane tutte le altre creature. Nella tradizione musulmana un uccellino che vola e batte le ali è musulmano perché è sottomesso all’ordine naturale, al quale egli stesso partecipa. L’albero che cresce, il seme che si spezza e dal quale sboccia la vegetazione, sono musulmani, perché manifestano l’ordine della creazione di Dio, al quale sono sottomessi. Contrariamente a tutto il resto del creato, l’uomo deve fare uno sforzo che lo rende unico, quello di camminare, cioè, dall’innocenza verso la responsabilità. In questo percorso l’uomo si distingue dalle altre creature per la sua libertà.

L’accettazione della presenza di Dio da parte della coscienza dell’uomo è come il volare per gli uccelli, ma l’uomo dovrà sviloppare questa ispirazione attraverso un cammino che lo porterà dall’innocenza alla coscienza. C’è un episodio, nella tradizione profetica, in cui è riferito che il Profeta Muhammad (*) ebbe una visione. In quel periodo nella città di Mecca i primi musulmani venivano perseguitati, spesso anche uccisi. Il Profeta (*) fece un sogno nel quale vide in Paradiso i figli dei suoi persecutori. Quando i suoi compagni lo interrogarono sul significato di tale sogno, egli rispose che i bambini sono innocenti e non pagano per gli errori commessi dai loro genitori. Questa tradizione offre diversi punti su cui riflettere: fino all’età della responsabilità nessuno può essere definito peccatore; il concetto di peccato originale presente nella tradizione cristiana, che si percepisce bene nelle Confessioni di Sant’Agostino[1], è assente in quella islamica; nell’Islâm nessuno paga per ciò che non ha commesso, e nessuno deve sopportare il peso degli errori altrui. Nel racconto coranico del peccato di Adamo ed Eva (ad esempio nella sura II, Al Baqara, La giovenca 35-38) ci sono due aspetti che bisogna sottolineare: il primo è che una serie di elementi che indicano che fu Adamo a commettere per primo il peccato e non Eva (o i due insieme), e ciò assolve Eva dalla colpevolezza del peccato originale, soprattutto se si tiene conto che entrambi furono perdonati per il loro errore. Ognuno è il responsabile unico e diretto delle sue azioni e non deve rispondere per l’altro. Il secondo aspetto è che i figli di Adamo ed Eva non portano il peccato dei loro genitori. Da questa tradizione deriva una visione dell’uomo profondamente ottimista perché si basa sul principio dell’innocenza originale. L’uomo passa, da una fase d’innocenza che fa di lui un musulmano per natura, ad una fase di responsabilità che lo rende musulmano per coscienza, in base al senso della testimonianza di fede: “Non c’è divinità se non Allah e Muhammad è inviato di Allah” (shahada).

[1] Sant’Agostino (354-430). Romano d’Africa. Teologo, padre della Chiesa latina, vescovo di Ippona (l’attuale Annata, in Algeria), filosofo, moralista, ha esercitato un’influenza capitale sulla teologia occidentale. Le sue opere principali sono: La città di Dio e Le Confessioni. Cuore e ragione L’uomo testimonia in piena coscienza, con la libertà di scelta che lo caratterizza. Dunque è attraverso questo cammino che si passa dall’ordine originario del cuore che ci spinge verso il divino, all’ordine della coscienza, confermata dalla ragione. Con l‘espressione della shahada[1] il musulmano assume la testimonianza che Dio è Uno e che non vi è alcun dio al di fuori di Lui. E’ il passaggio dall’innocenza alla responsabilità, ovvero il passaggio dall’impulso del cuore alla conferma della ragione; la fede può essere completa solo se confermata dal ragione attiva e ragionante. Questo principio è centrale per una comprensione profonda dell’uomo nella tradizione musulmana. Entrambe queste dimensioni della vita sono necessarie: la fede come soffio e la ragione come radicamento, l’uomo ha bisogno di entrambe le dimensioni per trovare l’equilibrio del suo essere. Nell’Islâm non c’è opposizione tra cuore e ragione, tra rivelazione e intelligenza. Questa teoria entra in contraddizione con quella di Camus, ma anche con quella di Kant[2], figura emblematica della tradizione filosofica occidentale che affermò: “ho dovuto lasciare il sapere per la fede”. Il suo pensiero s’inserisce in una concezione dell’uomo dove il sapere ha un limite e la fede si pone al di là di questo limite e lo supera. Quando la ragione non è capace di dare delle risposte, il credo e la fede prendono le redini. Questo concetto può essere riassunto in una frase: “credo quando non so più”.

“Nell’Islâm non vi è contraddizione tra cuore e ragione, tra rivelazione e intelligenza”

La tradizione musulmana evoca la fede come un soffio che precede una ragione che rinforza, aumenta e conferma la certezza intima che arde nel profondo del cuore dell’uomo. I concetti sono diversi e per questo bisogna elaborare una riflessione fondamentale sul concetto di uomo nella nostra cultura pluralista, per evitare il rischio di sbagliarsi, o di far sembrare che si vive superficialmente e non nella profondità delle nostre convinzioni. Esiste una formula coranica che ritorna in modo sistematico sul tema della responsabilità dell’uomo tra l’innocenza che diventa responsabilità e la ragione che conferma l’ispirazione fondamentale: “e nessuno porterà il peso di un altro”. (Corano XVII, 15) Se si afferma che ogni essere umano risponde solo delle sue azioni, ci si può interrogare sulla reale autonomia dell’individuo presso le collettività dei musulmani, tenendo presente il grande e radicato peso del concetto di comunità. Se è vero che l’Islâm dà un senso al concetto di comunità, di umma[3] ne deduciamo che i musulmani debbano vivono in una dimensione collettiva, ma con una coscienza individuale ben sviluppata. La comunità permette di alleggerire il peso dell’individualità in modo costante; è uno spazio propizio per la dignità degli individui, ma mai dell’individualismo. Tale visione permette lo sbocciare della propria individualità, senza mai cadere negli eccessi dell’essere, o del diventare, “ego-centrato”, egocentrico. [1] Shahada L’attestazione di fede e la sua testimonianza attraverso la formula: “Testimonio che non vi è divinità se non Allah e che Muhammad è inviato di Allah”. [2] Kant Emmanuel (1724-1804). Filosofo tedesco. La sua opera Critica della ragion pura (1781) enuncia a priori le condizioni di tutta la conoscenza e definisce i limiti all’interno dei quali la ragione può conoscere. I suoi testi La metafisica

dei costumi (1785) e Critica della ragion pratica (1788) presentano una teoria profonda sulla morale del dovere.

[3] Umma La comunità di fedeli che trascende le divisioni e le definizioni etiche, culturali, e politiche. Comunità di fede, comunità spirituali, che unisce tutti i musulmani e le musulmane del mondo nel loro legame all’Islâm.

Il senso della vita Dopo aver affrontato il discorso sulla concezione dell’uomo nell’Islâm, bisogna ora porsi la domanda di dove si collochi la sfida della vita per l’essere umano, e cercare di scoprire quale sia il senso della sua prova. Un versetto coranico dice: “...ha creato la morte e la vita per mettere alla prova chi di voi meglio opera”. (Corano LXVII, 2) Nel cuore di ogni essere umano coesistono sia il soffio originale, che l’amore per il bene, ma bisogna capire come si manifestano. Il versetto 7 della sura XLIX (Al Hujurat, Le stanze intime) dice: “(...) ma Allah vi ha fatto amare la fede e l’ha resa bella ai vostri cuori (...)”

Tutti gli esseri, nella dimensione della fede, nella pace della loro interiorità col Creatore, sentono questo soffio nel quale trovano il benessere spirituale. In ogni essere umano, quando dice la verità, è sincero, si stabilisce uno stato di pace interiore che egli avverte come una profonda serenità. Dio ha fatto sì che gli esseri umani amino questo stato emotivo, questo sentimento di armonia con se stessi che scaturisce quando si vive nella trasparenza del cuore, dell’anima, delle azioni. Dio ha infuso nell’uomo l’attrattiva, l’amore e la ricerca di questo stato, come spiegano gli esegeti[1] musulmani. Il peccato viene definito come un turbamento, un ostacolo a questa pace. In una tradizione profetica si narra di un uomo

che andò dal Profeta (*) per interrogarlo sul peccato; il Profeta disse: “È ciò che sta nel tuo cuore, che lo agita, e che tu non vorresti che gli altri conoscessero”. (Riportato da Muslim)

Ogni persona porta nel suo essere segreti più o meno confessabili , cose di cui non è fiero e che vorrebbe nascondere, cose che lo agitano e lo mettano in disagio, anche con se stesso, perché sa, consciamente o inconsciamente, che ciò che ha fatto non è in armonia con la profondità del suo essere e che, così facendo, è entrato in contraddizione con la sua fitra, la sua natura umana originaria.

“Il cuore dell’uomo contiene il seme delle doti migliori e nello stesso tempo i loro opposti difetti”. L’uomo prende forma in questa ricerca innata dell’amore e della pace, ma allo stesso tempo vive dei conflitti, subisce inclinazioni o tentazioni negative. Questo non vuol dire che l’uomo sia peccatore per natura, ma che deve intraprendere una lotta, fare uno sforzo su sé stesso, per non farsi tentare dal peccato. Nell’Islâm l’essere umano non viene considerato né totalmente buono, né completamente cattivo; può compiere il bene, ma anche il male. Nel suo cuore convivono il seme delle qualità migliori contemporaneamente ai difetti loro opposti. Ogni individuo dovrebbe gestire la sua interiorità e cercare di

trovare il proprio equilibrio personale. Nel Corano Dio dona un importante esempio di ciò, in un versetto che parla della gestione del denaro, dicendo: “Non portare la mano al collo e non distenderla neppure con troppa larghezza, ché ti ritroveresti biasimato e immiserito”. (Corano XVII, 29) Bisogna, quindi, saper trovare il giusto equilibrio nella gestione delle doti che Dio ha profuso in noi badando a non trascurarci, restando generosi e sapendo far godere anche agli altri le nostre ricchezze. 1.

La scelta tra l’oblio ed il ricordo

2.

Il sacro ed il profano

3.

Lo sforzo su sé stessi

[1] Esegeta, dal greco “exegesis”. Chi si dedica all’esegesi, allo studio e all’interpretazione critica dei testi. La scelta tra l’oblio ed il ricordo In modo Simile avviene con la realtà dell’“ego”. Spesso ci capita di sentirci al centro del mondo ed abbiamo tendenze egoistiche. L’ego l’“io” può occupare una posizione esclusiva. Quando questo ego si manifesta troppo, si traduce in orgoglio, nella vanità espressa dalla cupidigia, dall’amore del possesso, ma anche dalla violenza. Non siamo non-violenti per natura, ed ogni persona che sta a contatto coi bambini lo sa. Intorno al tema della non-violenza oggi ci sono molte riflessioni, che spesso ci portano a guardare ai bambini come se fossero anormali. Nella normalità dell’essere, invece, c’è una certa violenza innata, ed è il lavoro della coscienza controllarla e giungere al suo superamento. La prova dell’uomo è quindi in questa battaglia, in questo conflitto tra l’amore per la trasparenza e l’attrazione verso le

tentazioni negative come la violenza, la cupidigia, e l’amore del proprio Io. L’Io, se non viene controllato, può occupare tutto lo spazio e dimenticare cosa significhi umiltà. La vanità e l’orgoglio negano Dio e si allontanano dal Creatore per lasciare posto esclusivamente all’ego. L’essere umano deve bilanciare continuamente i due stati del suo essere, come ha espresso in una formula Baudelaire: “Restare in armonia con

se stessi nel rispetto della Creazione o rispondere alle tentazioni che sconvolgono l’equilibrio del nostro essere”. Tra questi due stati , il conflitto da un lato e l’ideale dall’altro dobbiamo fare una scelta. Questa scelta conferisce dignità e diventa la prova del senso della nostra umanità.

Nella tradizione islamica, quando il Creatore ordinò agli angeli di prosternarsi davanti all’uomo per dimostrare il proprio rispetto davanti al sapere ed alla libertà che lo rendevano unico, tutti obbedirono tranne un démone, Iblis[1], che si ribellò affermando: “Io sono migliore rispetto a lui”. Se Dio ha chiesto agli angeli di prosternarsi, è stato per mettere in evidenza che l’uomo ha la dignità di poter accedere alla conoscenza e che possiede la capacità di compiere delle scelte , mentre gli angeli sono creati con lo scopo dell’obbedienza assoluta. La dimensione della scelta è fondamentale nell’Islâm, essa permette all’uomo di elevarsi o viceversa degradarsi fino a sprofondare sotto allo stato animale. L’uomo si trova tra queste due strade, come ci ricordano molti versetti del Corano. Il Corano paragona coloro che mangiano in modo esagerato a degli esseri peggiori delle bestie: essi hanno dimenticato il significato del nutrirsi, tanto che non si nutrono , ma “si ingozzano”, ignorando che il loro potrebbe essere un gesto di adorazione se fosse fatto nel rispetto e nel buon senso. Gli uomini devono impegnarsi per trovare un equilibrio, e per questo bisogna conoscre quale sia il concetto fondamentale che ci fa passare da uno stato all’altro. Nell’Islâm si

affermare che dimenticare Dio è come dimenticare sé stessi. Il Corano dice in modo esplicito: “Non siate come coloro che dimenticano Allah e cui Allah fece dimenticare se stessi”. (Corano LIX, 19) Quando ci si dimentica di Dio, si finisce per vivere solo per se stessi, nella manifestazione eclatante della prigione del proprio ego. L’essere umano è sempre in bilico tra l’oblio ed il ricordo. L’uomo ha una propensione naturale a dimenticarsi di Dio. Il senso della nostra esistenza sta nel compiere uno sforzo continuo su noi stessi per passare da uno stato probabile di negligenza (an nisyan) ad uno stato di dignità del ricordo (adh dhikr)[2]. Nell’Islâm il ricordo ha una grande importanza: il ricordo di Dio esige costanza e necessita un lavoro intenso di mediazione interiore, di educazione spirituale del proprio essere. Ciò vuol dire, per riprendere l’esempio che abbiamo citato prima, che invece di mangiare nell’oblio, il musulmano si ricorderà di Dio cominciando a mangiare con l’invocazione del Suo nome, e Lo ringrazierà dopo il pasto. Ogni azione dovrebbe cominciare con: “bismillah Ar Rahman Ar Rahim” (nel nome di Dio il Compassionevole, il Misericordioso), ricordando sempre che le azioni si svolgono alla luce e sotto la protezione della Trascendenza. [1] Iblis ,démone Per la tradizione islamica Satana non è considerato un “angelo decaduto”, come per la tradizione cristiana. Egli è un démone, un “jinn” , un essere creato dal fuoco, mentre gli angeli son creati dalla luce. E’ per questo motivo che manifestò il suo orgoglio, affermando di essere migliore dell’uomo che era fatto di terra. [2] Dhikr “invocazione”. Dhirk Allah “invocazione di Allah” “ricordarsi di Dio”, è il ricordo, la evocazione di Dio; consiste nell’invocazione dei nomi di Dio o di altre formule tradizionali o nella recitazione del Corano.

Il sacro ed il profano Al di là del gesto ed della parola viene, nell’Islâm, messa in discussione la complessiva categorizzazione di sacro[1] e di profano[2]. La definizione islamica di questi due concetti non corrisponde a quella comune della tradizione occidentale, che si trova nel pieno del processo di laicizzazione[3]. Per l’Islâm, ogni gesto fatto nel ricordo di Dio viene considerato sacro. Ogni atto compiuto nel Suo ricordo diventa sacro, e si colloca in una dimensione spirituale, anche l’atto sessuale. In molte circostanze il Profeta diceva ai suoi compagni: “Quando saluti fai una sadaqa (un’elemosina che avvicina al

Creatore). Quando compi una donazione, fai una sadaqa. Quando sorridi a tuo fratello, fai una sadaqa. Quando hai un rapporto con tua moglie (se questo è nel ricordo di Dio), fai ugualmente una sadaqa.” Quest’ultima affermazione stupì i compagni del Profeta (*), che Gli chiesero come fosse possibile essere ricompensati per aver appagato un desiderio; allora Egli rispose: “Se si

appagasse un desiderio in modo illecito, non si commetterebbe forse un peccato? Dunque quando lo si appaga in maniera lecita, si merita una ricompensa.” (Hadith riportato da Muslim).

Nell’Islâm non si parla in modo negativo del sesso, però quando la sessualità si isola in una dimensione esclusiva fisica, potrebbe diventare un peccato. La negatività, dunque, non sta nell’atto stesso, ma come si compie. Se si fa nella luce della fede, l’atto prende una dimensione sacra. Dio ha voluto che noi fossimo degli esseri con dei bisogni, che non ci ha impedito di soddisfare; ci viene solo chiesto di viverli ed esprimerli con dignità, mai nel Suo oblio. L’uomo è in preda ad una continua tensione tra l’oblio ed il ricordo; è una lotta che dura per tutta la vita, una lotta che consiste nel scegliere

i mezzi giusti coi quali ricordare, quando tutto intorno invita a dimenticare. Un giorno il Profeta (*), riferendosi alla lotta che bisogna condurre contro la violenza che si ha dentro, disse: “Chi è il più forte tra di voi?” Un uomo gli rispose: “Colui

che sconfigge il suo nemico.” Il Profeta lo corresse dicendo: “No, l’uomo più forte tra di voi è colui che sa controllare la sua collera.” (Riportato da Al Bukhari) Per dominare la collera bisogna condurre un lavoro su se stessi, partendo dal proprio cuore. L’armonia e la pace interiore si conquistano solo dopo un lavoro individuale intenso. Le qualità spirituali non sono radicate stabilmente in noi; se ne abbiamo i germogli, dobbiamo conservarli, lavorarli, custodirli, fare in modo che siano protetti, perché, sottoposto a determinate situazioni, un pregio potrebbe diventare un difetto. L’idea di una non-violenza totale e definitiva non esiste nell’Islâm. Si mette spesso in evidenza che la non-violenza è uno stato di superamento e controllo della violenza. In generale potrebbe essere vero, ma accade che in certe situazioni, paradossalmente la non-violenza diventi un atto violento: alcuni rifiutando il conflitto in nome della nonviolenza, hanno lasciato che si instaurassero dittature e tirannie. Il rifiuto del conflitto è fondamentale, ma da esercitare nei limiti del possibile, perché questa non-violenza potrebbe in certe situazioni, diventare arrendevolezza, e la resistenza invece il simbolo della dignità. In nome della nonviolenza si possono fare le cose più nobili, ma anche quelle più vili. [1] Sacro Che appartiene alla divinità, che partecipa alla potenza divina e trascende l’umano. Nella tradizione musulmana tutto ciò che viene fatto nel ricordo di Dio.

[2] Profano Che non fa parte delle cose religiose, che non è orientato alla vita religiosa. Nella tradizione musulmana ogni atto in cui sia assente l’invocazione di Dio. [3] Laicizzazione processo tramite il quale si distinguono, storicamente, la sfera religiosa e quella dello spazio pubblico, più noto come la separazione tra Stato e Chiesa. Lo sforzo su sé stessi Sapere trovare un equilibrio tra ciò che è la situazione, quello che dovrebbe essere e ciò che noi siamo è certamente la battaglia più difficile e lodevole dell’essere umano: è questo che nella tradizione musulmana viene chiamato jihad. L’uso dei termini giusti, e la conoscenza del loro significato, è molto importante; riporto qui, come esempio concreto, un episodio che mi è accaduto durante una conferenza: mentre facevo riferimento alla parola jihad, entrarono nella sala alcune persone che erano in ritardo; avevo già spiegato il vero significato della parola nella tradizione musulmana, prima del loro arrivo. Quando venne chiesta un’opinione ad una della persone arrivate in ritardo, disse che fin quando i musulmani avessero parlato di jihad, di “guerra santa”, i non musulmani non avrebbero potuto che essere in conflitto con loro. Quella persona non aveva sentito tutta la spiegazione del termine, che era stata fatta in sua assenza, ovvero di jihad inteso come sforzo. Ciò dimostra che non si può pretendere di aver capito un termine, se non si approfondiscono tutte le sue definizioni, le sue sfumature, ed anche la sua stessa storia.

“Il jihad è anzitutto lo sforzo spirituale che ci eleva a una maggiore umanità davanti a Dio.” In lingua araba jihad an-nafs significa lo sforzo che ogni uomo deve compiere su se stesso per essere degno della sua umanità, lottando contro la propria violenza, la collera, la cupidigia, e l’egoismo e l’egoismo. È importante sottolineare la

grande distanza di ciò dalla traduzione comune di “guerra santa”. È sbagliato prendere un concetto così come un determinato momento della storia ce l’ha consegnato, ignorando l’epoca ed il contesto. Le Crociate erano considerate guerre sante, da una parte e dall’altra. I musulmani, che erano stati aggrediti, usavano allora il termine jihad, che significava sforzarsi a resistere di fronte a tali aggressioni e assedi. Così si è finiti per tradurre, in modo precipitoso e superficiale, la parola jihad con “guerra santa”, facendo una trasposizione del senso delle crociate nell’orizzonte cristiano. Se la parola jihad può voler dire “guerra” (nel senso di guerra di resistenza), essa ha però un significato molto più importante, più ampio e pregnante: rappresenta verbalmente il combattimento che si attua nel nostro essere, tra il soffio che ci richiama a Dio e tutto ciò che vorrebbe farci dimenticare il Creatore. E’ questo sforzo spirituale che ci fa accedere ad un livello di umanità superiore davanti a Dio. Da questo concetto di sforzo si sviluppano due punti importanti: il primo è che non si può ignorare il concetto di rigore che c’è presso i musulmani. Il rigore del cuore e quello della coscienza sono le due dimensioni fondamentali della vita quotidiana dei musulmani in generale. Questo richiamo al rigore si traduce in un senso profondo di responsabilità e in un impegno costante. Bisogna saper vivere nel mondo, nella società, come attori, e non come spettatori. Il musulmano è responsabile di un’etica da rispettare, di un messaggio da trasmettere, egli ha un dovere, una missione, un impegno attivo nella società in cui vive, deve sapere farsi carico delle esigenze della sua comunità religiosa, e più in generale, della comunità di tutti gli esseri umani. Il secondo punto esige un cammino inverso, perché si tratta di consacrare il proprio essere alla vita interiore ed all’autodisciplina. L’Islâm, contrariamente ad alcune culture che non accettano un simile prospettiva, lo rivendica, come

nella tradizione induista o buddista, o quella dello yoga, e in tutte le spiritualità in cui il lavoro sul proprio essere e sul proprio cuore sono alla base di ogni riforma. Nell’Islâm questa disciplina si attua in una pratica, che è quella del ricordo e da un rigore, disciplina fatta di preghiera, cinque volte al giorno e di digiuno, di elemosina obbligatoria (zakat) e del pellegrinaggio. Ognuno di questi pilastri[1] esige un’attenzione, un controllo del proprio corpo, del proprio denaro, del proprio tempo, e prima ancora del proprio essere. Ciò che l’uomo fa del suo essere, rivela il suo modo di essere davanti a Dio. [1]

I cinque pilastri dell’islam.

La shahada: testimonianza di fede: “ashhadu an la ilaha illa Allah ,wa ashhadu anna Muhammadan rasulul Llah” ( testimonio che non c’è alcun Dio all’infuori di Allah e che Muhammad è Suo inviato). Quando vi si aderisce con sincerità ne deriva la sottomissione (Islâm) a Dio. È il fondamento, l’asse e la determinazione dell’ “essere musulmano”. È il primo pilastro dell’Islâm. La salat, la preghiera, cinque volte al giorno: all’alba, (salat al subh), prima dell’apparizione del sole; a mezzogiorno, dopo lo zenith (salat adh dhor); a metà pomeriggio (salat al asr); al tramonto del sole (salat al magrib) dopo la scomparsa del sole all’orizzonte; e durante la prima parte della notte (salat al isha). È il secondo pilastro. La zakat, l’imposta sociale purificatrice, è un prelievo annuale sui beni che il credente possiede (oro, argento, bestiame, prodotti agricoli, merce commerciale) a partire da un minimo stabilito. Viene distribuita ad otto categorie di persone specificate nel Corano, nella Sura IX,60. È il terzo pilastro.

Il sawm, digiuno, consiste nell’astensione dal bere, dal mangiare e dall’avere rapporti sessuali durante il giorno, dall’alba al tramonto. Si svolge durante il mese di Ramadan, nono mese del calendario lunare islamico. E’ il quarto pilastro. Il hajj, il pellegrinaggio maggiore, si compie alla Mecca (oggi in Arabia Saudita) almeno una volta nella vita, in un periodo preciso dell’anno, se si hanno le condizioni fisiche ed economiche per farlo. È il quinto pilastro.

L’Universo come libro Il rigore e la disciplina costituiscono dimensioni essenziali del cammino, perché lo sforzo intrapreso per il Suo ricordo ci custodisce nella Via. Termine quest’ultimo, difficilmente definibile nella tradizione musulmana che si traduce in arabo con la parola sharia[1]. L’uso mediatico di questo termine ne ha velato il significato più essenziale, esso ha un posto molto importante per l’Islâm, come quello dello sforzo spirituale e di resistenza (jihad). I media, e anche alcuni intellettuali

musulmani e non presentano questi termini nel loro uso più radicale, distorto, malevolo, facendo il gioco di coloro che promuovono una visione riduttrice ed aggressiva dell’Islâm. 1.

La via

2.

Le diverse dimensioni dell’adorazione

[1]

Sharia Non esiste una sola definizione del concetto di sharia. I sapienti hanno circoscritto il suo senso generale attraverso le loro competenze nelle specializzazioni negli studi islamici, e partendo dall’accettazione più ampia a quella più riduttiva, possiamo dare le seguenti definizioni:

Ash sharia, sulla base della radice della parola significa

“la via, il cammino che porta all’origine” ed esprime i contorni di una concezione globale della creazione, dell’esistenza, della morte, del modo di vivere che ne deriva, nato dalla lettura e dalla comprensione delle norme espresse nelle scritture. Stabilisce “come essere musulmani”.

Ash sharia, per gli usuliyyn (sapienti che si dedicano

alla conoscenza dei fondamenti della legge islamica) ed i giuristi, è il corpus dei principi generali della legge islamica estratta dalle due fonti fondamentali, il Corano e la Sunna, con l’utilizzo di altre fonti principali “al ijma e al qiyas” e secondarie “al istihsan istislah, istishad, ‘urf” (ijma: consenso unanime o maggioritario d’opinione; qiyas: ragionamento giuridico per analogia; istihsan: giudicare una cosa buona, è l’applicazione della “preferenza giuridica”; istislah: considerazione legata all’interesse pubblico; istishab; presunzione di continuità di ciò che fu anteriormente prescritto; ‘urf: costume). La via La sharia, letteralmente, si traduce come “il cammino che porta alla fonte”, ma viene invece intesa da molti, come

l’applicazione di una sistema di legge, che inizia col tagliare le mani ai ladri o lapidare gli adulteri. È una traduzione che viene utilizzata persino da alcuni musulmani, il quali sono conventi che una società non diventi islamica se non quando inizi una repressione brutale delle colpe. Questa accettazione è lontana da ciò che pensa e comprende la maggioranza dei musulmani. Secondo la tradizione islamica Dio mette a nostra disposizione molti “strumenti”. Il primo strumento che ha messo a disposizione della coscienza umana consiste in una Rivelazione che si realizza in due modalità. Leggendo Rabelais[2], o la letteratura del Montaigne[1], Rinascimento[3], incontriamo un nuovo modo di dire, e cioè “il libro del mondo”. Questa formula deriva dall’incontro storico tra la tradizione occidentale, partendo dalle università italiane e spagnole, con l’università islamica e la sua concezione del rapporto con la Rivelazione. Questa espressione è in realtà molto più antica, in quanto già nel IX secolo dell’Islâm si parlava del “Libro spiegato”, “al Kitab al Manshur”. Quando Dio enumera nella Rivelazione coranica gli elementi della natura, usa il termine “segno”, e ovunque ci sono segni della Sua presenza: “I sette cieli e la terra e tutto ciò che in essi si trova Lo glorificano, non c’è nulla che non Lo glorifichi lodandoLo…” (Corano XVII, 44) Per esemplificare questa visione immaginiamo un albero. Chi lo guarda non potrà che vedere un semplice albero. Ma l’uomo si è avvicinato alla luce della Rivelazione divina, vedrà in questo albero la manifestazione e la presenza del Creatore; ci coglierà un segno, così come in tutti gli altri elementi della creato, se guardati dalla profondità della fede. L’essenziale non consiste nella diversità della pratica dei riti, ma si trova nel soffio divino e nel senso della fede.

Una notte il Profeta Muhammad (*) passò tutto il tempo a piangere, e quando Bilal[4], il muezzin[5], incontrandolo al

mattino all’ora della preghiera, gli chiese la ragione del suo stato, il Profeta rispose: “Come potrei non piangere avendo ricevuto dall’alto dei sette cieli: “In verità nella creazione dei Cieli e della

Terra, nell’alternarsi della notte e del giorno, ci sono dei segni per coloro che hanno intelletto”. (Corano III 180)

Tutta la natura parla di Lui, tutto ci dimostra la Sua presenza. La parola araba aya[6] indica sia il “versetto coranico” che il “segno”. Lo stesso termine per due definizioni diverse, come se Dio avesse voluto dire che se la Rivelazione coranica è un segno, i segni della natura sono una rivelazione, un libro aperto allo sguardo ed alla coscienza dell’uomo. Esistono, dunque, due rivelazioni, quella della creazione e quella della profezia. Il ciclo della profezia nell’Islâm comprende tutti i profeti, da Adamo a Muhammad, passando per Noè , Abramo, Mosé e Gesù, e tutti gli altri che sono stati inviati da Dio per trasmettere un messaggio e compiere una missione. Nella tradizione islamica tutti i profeti, nonostante la loro particolarità di essere inviati di Dio, non hanno perso la loro dimensione umana. La loro esemplarità è legata al fatto che siano umani, e ciò implica che la grandezza di questi esseri non si è sviluppata solo attraverso il loro carattere di messaggeri, ma anche e sopratutto, attraverso il giungere ad una padronanza, ad un rigore, ad una disciplina del loro essere.

“Nell’Islâm i profeti formano una catena unica e tutti i loro messaggi fanno parte della Rivelazione divina, proclamata nella sua forma più completa da Muhammad (*)”. “E in precedenza guidammo Noè; tra i suoi discendenti [guidammo]: Davide, Salomone, Giobbe, Giuseppe, Mosè e Aronne. Così Noi ricompensiamo quelli che fanno il bene. E [guidammo] Zaccaria, Giovanni, Gesù ed Elia. Era tutta gente del bene. E [guidammo] Ismaele, Eliseo, Giona e Lot. Concedemmo a tutti loro eccellenza sugli uomini”. (Corano VI, 84-86)

Il profeta è, tra l’altro, anche il modello di chi è riuscito ad elevarsi e a trasformare i suoi difetti in pregi, gestendo la sua natura umana, ciò che lo rende accessibile agli altri uomini. I profeti sono stati inviati per insegnare il senso del cammino, il modo di trovare l’equilibrio e la pace interiore: tra il corpo e il cuore, saper nutrire senza dimenticare l’altro, saper ricordarsi di Dio senza tralasciare gli impegni quotidiani. Questo è stato anche l’insegnamento del Profeta Muhammad (*) che ha insistito sull’importanza della fede e del cuore, mettendo in evidenza che si può essere al contempo pii e nutrirsi, sposarsi e svagarsi, vivere pienamente la propria vita di esseri umani insomma. Accettare l’umiltà della propria condizione umana, rinforza l’idea di un rispetto e di una sottomissione riconoscente al Creatore. [1] Montaigne Michel Eyquem (1533-1592) Scrittore francese. Nei suoi Essais (1595) scopre l’incapacità dell’uomo. [2] Rabelais Francois (1494 1553). Scrittore francese autore di Orribili e spaventevoli fatti e prodezze del molto rinomato Pantagruel (1532) e di La vita inestimabile del grande Gargantua (1534). È uno degli umanisti del Rinascimento. [3] Rinascimento Rinnovamento culturale che avvenne in Europa tra il XV ed il XVI secolo, da un lato nel campo letterario, artistico e scientifico, e dall’altro nel campo economico e sociale, con grandi scoperte, e la nascita del capitalismo moderno. Si elabora una morale umanistica, derivata da un lato dall’entusiasmo di Rabelais, dall’altro dallo scetticismo di Montaigne. [4] Bilal (morto nel 641).Compagno del Profeta (*) era una delle persone a Lui più vicine. Di origine etiopica, convertito all’Islâm, liberato da Abu Bakr (anch’egli compagno del Profeta), Bilal entrò al servizio di Muhammad. Dopo aver preso parte all’egira (migrazione di Muhammad nel settembre 622 dalla Mecca verso la Medina) divenne il muezzin ufficiale

quando “l’adan” (richiamo alla preghiera) fu istituito a Medina, nello stesso periodo in cui divenne il servitore personale di Muhammad ed il suo intendente. [5] Muezzin in arabo “mu’addhin”. Colui che fa il richiamo per la preghiera “adhan”, dall’alto del minareto o sulla soglia di una moschea. [6] Aya (plur. ayat) Segno, indicazione, ma anche versetto. Versetto è tuttavia una traduzione impropria, stabilita per analogia con i versetti biblici. Le diverse dimensioni dell’adorazione L’uomo che ha capito il senso di questo equilibrio può percorrere, in modo individuale, il cammino della sua vita con serenità, applicando tutti gli insegnamenti e le regole dettate da Dio, senza mai dimenticare però di essere parte di una comunità, anche quando compie gli atti dell’adorazione. Ognuno dei cinque pilastri essenziali dell’Islâm, favorisce un cammino spirituale che è in rapporto con la comunità di fedeli. Molteplici sono le dimensioni nell’adorazione: prima di tutto la purificazione dell’essere attraverso la preghiera (salat), essere con Dio, da soli, cinque volte al giorno, lasciando fuori il mondo per non percepire altro che la Sua Realtà attraverso un’elevazione spirituale. Preghiera che si può fare da soli, perché essa è espressione dell’intimità del cuore che si rivolge al Creatore, ma che è più meritorio fare in gruppo. Ci viene insegnato che una preghiera con altre persone vale ventisette volte una preghiera fatta individualmente. Essere nella solitudine della propria interiorità, ma allo stesso tempo con la comunità rinforzi l’uomo così come l’uomo arricchisce la comunità. Il musulmano è dunque solo nella propria preghiera, ma ha bisogno degli altri per vivere questa solitudine, nel cuore di un’armonia collettiva.

Il digiuno (sawm) evidenza lo stesso principio, cioè una dimensione che è insieme purificazione del cuore nell’ambito spirituale, ma anche purificazione del corpo, che dura per un mese all’anno, o più (per coloro che aggiungono dei giorni di digiuno volontario o sostitutivo). Questa purificazione si fa da soli, perché ogni persona soffre la fame personalmente, ma anche collettivamente perché tutte le persone digiunano nello stesso periodo. Lo stesso discorso vale per il pellegrinaggio (hajj), ogni persona sopporta da sola lo sforzo di andare verso la casa di Dio, ma contemporaneamente altre centinaia di migliaia di persone si dirigono verso lo stesso luogo. La zakat, imposta sociale purificatrice, consiste nel prelevare dal denaro di ogni persona una certa somma (circa il 2,5% del suo capitale) che servirà sia come purificazione individuale, che come un gesto di solidarietà sociale nei confronti dei bisognosi. La realtà della purificazione del patrimonio attraverso la zakat, del cuore attraverso la preghiera, del corpo attraverso il digiuno, si riflette in tutti gli atti dell’adorazione, affinché l’uomo possa avvicinarsi sempre di più alla sua natura originaria di adoratore dell’Unico. Questa sistematica purificazione facilita il cammino dell’uomo verso la libertà, nel modo in cui Dio ha stabilito e nel modo in cui il Suo messaggero ci ha indicato.

Conclusioni In queste poche pagine, non tutto è stato detto e ci è stato possibile solo affrontare qualche questione prioritaria, senza che quelle trascurate siano effettivamente secondarie, anzi! In questa conclusione affronteremo ancora il tema dell’amore e del sapere che ci spronano a vivere senza mai chiuderci in noi stessi. È la sola conclusione possibile, perché tutti i

concetti studiati, con la comprensione che richiedono, hanno una finalità esplicita: mettersi in strada, dirigerci nelle prossimità dell’Unico. Amare e sapere, per adorarLo e per servire gli esseri umani. 1.

L’amore e l’obbedienza nell’amore

2.

Il sapere del cuore e il sapere dello spirito

L’amore e l’obbedienza nell’amore L’amore è un concetto centrale per l’Islâm, ed è indissociabile dalla tradizione musulmana, anche se alcuni fedeli tendono a trascurarlo: “Di': «Se avete sempre amato Allah, seguitemi. Allah vi amerà e perdonerà i vostri peccati. Allah è perdonatore, misericordioso”. (Corano III, 31) L’essenza stessa dell’Islâm si sviluppa nell’amore. Tutto, nella tradizione islamica, ruota intorno all’esperienza del cuore in rapporto al Signore. Il Paradiso e l’Inferno vengono evocati per esprimere una sorta di transazione conclusa tra Dio e le Sue creature. Alcuni filosofi e mistici musulmani hanno messo in evidenza una dimensione superiore a questa visione. L’imam An Nawawi (1233-1277), scrittore del XII secolo, afferma che esistono due tappe nella fede: la “fede del commerciante” che si dona a Dio in cambio del Paradiso e, la “fede dell’avvicinato” che si consacra a Dio con un atto di puro amore. Il concetto di scambio sparisce per far posto ad un amore totale, intero, gratuito. Questo amore si sviluppa durante un cammino connotato da disciplina e rigore interiore. Questa è l’interpretazione e la visione dell’essere di fede, e del rabbani (l’essere pervaso dalla coscienza di Dio) che hanno una spiritualità più alta del comune, perché la sviluppano in modo più intenso, con un’attenzione ad ogni istanti, per liberarsi attraverso Lui, e in

Lui. Cercano con questo sforzo assiduo di pervenire ad una sorta di intimità, qualche volta di fusione, con l’Altissimo. Questa dimensione è importante perché traduce ciò che è la speranza ultima del musulmano: non solo il Paradiso, ma la visione di Dio, il desiderio di essere con Lui, in Sua presenza, in una pienezza d’amore. Come possiamo allora definire la prova rappresentata dalla purificazione? L’imam Al Ghazali (1058-1111) sviluppa nel suo libro “La revivificazione delle scienze religiose” un’idea interessante. In sostanza egli dice: “Il nostro cuore è sempre

pieno di qualcosa, non lo si può svuotare completamente. L’uomo può scegliere se riempirlo con futilità, o riempirlo di essenziale, di profondità, di presenza divina. Questo lavoro richiede di allontanarsi dal futile e riempirsi di essenziale. Il senso della nostra vita sta in questo, in questa coscienza dell’essenziale”. Anche una tradizione profetica ci ricorda questa dimensione, cioè di essere con Dio come se Lo vedessimo, perché, anche se noi non Lo vediamo, Lui ci vede. Bisogna capire bene il significato dello sguardo divino: non si tratta di una presenza che deve automaticamente ispirare un senso di colpa, ma di una presenza pervasa da ciò che in arabo si chiama khushu’. In alcune traduzioni coraniche il khushu’ si definisce “timore di Dio”, ma questo termine non è completamente esatta, perché si avvicino troppo al significato di paura. Il timore può tradurre due modi: quello che sorge davanti a ciò che non conosciamo, per esempio il futuro; o il timore provato da colui che è abitato da un sentimento di colpa sapendo che Dio lo sorveglia e che Egli conosce i suoi errori e le sue mancanze. Un approccio più completo invece deve mettere l’accento su un timore che si definisce a partire dalla vicinanza affettiva, un timore che viene da un amore totale, esclusivo, timore di ingannare l’Essere amato. Si ritrova questo timore nella

relazione tra un uomo e una donna che provano sentimenti d’amore, o nei bambini che amano i propri genitori al punto di temere di deluderli. È il timore di non rispondere all’aspettativa dell’amore dichiarato. Per restare fedeli al senso della tradizione musulmana, bisogna prendere in considerazione quest’ultima definizione. Il concetto d’amore e di obbedienza nell’amore è fondamentale nella spiritualità musulmana, così come per tutte le spiritualità che affermano che bisogna imparare ad amare per poter servire ed entrare nella pace della fede.

Il sapere del cuore e il sapere dello spirito Per essere capaci di amare bisogna affrontare due tappe supplementari che sono quella del sapere interiore e quella del sapere dello spirito. Sapere col cuore, sapere con l’intelligenza richiede uno sforzo, un lavoro mentale e spirituale profondo ed esigente. Sono le due componenti della coscienza del fedele. La seguente formula coranica traduce bene questa realtà: “Tra i servi di Allah solo i sapienti Lo temono” (Corano XXXV, 28) I commentatori hanno messo in evidenza che si tratti sia dei sapienti del cuore che dei sapienti dello spirito; l’importante è che questa coscienza sia abitata dalla luce, e che ci aiuti a conseguire il fahm, cioè la comprensione del senso nella presenza divina, allo stesso tempo cosciente e nella coscienza. Presenza che dà senso alla vita, il fahm si capisce nelle profondità dell’essere coscienti di ciò che siamo, di sapere perché siamo, e del cammino che vogliamo intraprendere per protenderci verso l’Essere. Dio accompagna l’essere di fede in questo sentiero, in nome dello sforzo che fa per Lui, per adorazione e con amore (al-hubb).

Questo è il senso profondo di una della invocazioni più belle che il Profeta dell’Islâm (*) ci ha insegnato: “O Signore, Ti chiediamo il Tuo amore, l’amore di coloro

che Ti amano, e di agire in modo da accedere al Tuo amore”. Siamo qui nel cuore del messaggio dell’Islâm, dove si sposano la luce ed il calore della Sua vicinanza ... Tutti i matrimoni testimoniano questa bellezza, e chiamano a nutrirsi del senso profondo dell’esigenza del cuore e dello spirito.

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