ASSOCIAZIONE ITALIANA SISTEMI INFORMATIVI (ItAIS) SIG-Epistemology Paolo Depaoli – La ricerca nel campo dei sistemi informativi e la filosofia: il caso di Claudio Ciborra e Martin Heidegger Università di Trento - Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, 30 Maggio 2007
Il tema che discutiamo oggi riguarda la “combinazione” Ciborra-Heidegger. Certamente il filosofo e il ricercatore possono essere studiati separatamente. Ciborra come studioso di sistemi informativi, di organizzazione, di micro-economia e di quanto gli serviva per approfondire le sue indagini (compresa la filosofia). Il secondo come filosofo che, nella sua ricca produzione, si è occupato di argomenti e questioni diverse. Heidegger (ancor più di Habermas) resta il filosofo più citato del ‘900 da innumerevoli autori appartenenti ai campi più disparati. Ma, dicevo, ci interessa la combinazione dei due autori perché siamo interessati a capire se ciò che da questa combinazione possiamo cogliere ci è utile nelle nostre attività di ricerca nel campo dei sistemi informativi. Forse qualcuno si è domandato (come me del resto) che cosa ha spinto Ciborra cosa lo ha attirato - ad occuparsi del lavoro di Heidegger. Probabilmente hanno giocato orientamenti complessivi della ‘persona Ciborra’ che hanno costituito l’humus adatto perché la voce del filosofo tedesco risultasse per lui interessante e meritevole di approfondimento. Noi ci fermiamo a quanto si impone alla nostra lettura quando esaminiamo gli scritti di Ciborra e, presi da interesse ad approfondire questa o quella argomentazione o da semplice curiosità per l’irruzione della filosofia in un campo apparentemente tanto lontano da essa quanto l’ICT, decidiamo di risalire alle fonti che Ciborra ha portato in primo piano: le opere di Heidegger che lui cita (e qualcun altra per meglio comprenderne lo “sfondo”). Dunque, vi proporrò il percorso da me compiuto a questo riguardo. Comincerò dal mio “incontro” con Heidegger per delineare alcuni spunti per me significativi e utili per inquadrare i riferimenti di Ciborra. Passerò poi a Ciborra descrivendo la sua insofferenza per quello che giudicava il paradigma dominante e come abbia cercato le basi per una critica di questo paradigma e per l’individuazione di un’alternativa facendo riferimento ad Heidegger (principalmente, ma anche ad Husserl). Cercherò di cogliere l’influsso diretto e indiretto di questo autore portando l’attenzione su due punti focali. Il primo è che cosa ha rappresentato per Ciborra l’essere della tecnica elaborato da Heidegger. Il secondo cercherà di far vedere come Ciborra abbia preso le mosse da quella concezione per considerare fenomeni trascurati, o mal compresi, ma significativi per superare il paradigma dominante; a questo riguardo mi soffermerò sull’improvvisazione. Bene. Il mio ingresso nella combinazione Ciborra-Heidegger è avvenuto, come spesso succede in questi casi, per gradi successivi e occasioni diverse. Intanto, la mia sensibilità nei confronti di questo filosofo viene da lontano: basta dire che il mio professore di filosofia1 al liceo è stato uno dei traduttori e commentatori di Heidegger. Mi sono quindi accostato alla storia della filosofia, ho incominciato a leggere la filosofia, con le lenti di Heidegger. Uno dei capisaldi di questa mia lettura (lo evidenzio ora perché mi servirà dopo per agganciarvi alcune mie interpretazioni sia di Heidegger che di Ciborra) si basa sul ritenere che la ratio latina, il calcolare, abbia soppiantato il pensiero, l’essere dei presocratici (di Parmenide soprattutto) nel considerare il mondo. Da lì verrebbe, ad esempio, la contrapposizione soggetto-oggetto, da lì la concezione platonica secondo la quale il mondo delle idee è da ritenersi più vero rispetto a quello degli enti sensibili (la cavallinità è più vera rispetto al singolo cavallo). Risulterebbe così che la storia della filosofia è segnata da una sorta di neo-platonismo ricorrente del quale fa parte anche Cartesio (uno dei responsabili secondo Ciborra dello stato di astrazione che caratterizza la teoria e la pratica dominante nella progettazione, realizzazione e gestione dei sistemi informativi). Lì si radica anche la volontà di potere e di potenza che caratterizza il mondo attuale: la stessa divinità diventa onnipotente, mentre originariamente la radice “div” nella parola divinità sembra volesse dire “cielo splendente”. Heidegger lavora per capire questa trasformazione. Trasformazione che si compie con l’avvento della tecnologia moderna che è, per lui, calcolo e “fondo di risorse” pronte al comando. Ma ritornerò su questi aspetti più avanti.
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Si tratta di Francesco Favino. Di lui si può leggere, ad esempio: “La cosa come vicinanza pensata in Heidegger” in aut aut , n. 41 sett. 1957.
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Vengo ora a Ciborra. L’avevo conosciuto lavorando su un progetto a metà degli anni ottanta in una ricerca sul rapporto che intercorre tra partecipazione e introduzione delle (allora) nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e quindi prima che si manifestasse in lui (quanto meno professionalmente) l’influsso di Heidegger. La sua scomparsa prematura mi ha spinto a leggere o rileggere alcuni dei suoi lavori. Uno di questi scritti è l’articolo del ‘98 sulle infrastrutture informative (pubblicato originariamente con Ole Hanseth) nel quale fa ampio ricorso a concetti chiave di Heidegger. Questa lettura, assieme agli articoli che sono stati scritti in suo onore da colleghi che conoscevano bene sia lui che il suo lavoro, mi hanno convinto che andava capito più a fondo il suo livello di interazione con questo filosofo. Certamente il riferimento ad Heidegger non è stato una novità tra gli studiosi di tecnologie ed in particolare di IT (si pensi ad esempio a Dreyfus con la sua critica alla intelligenza artificiale2, oppure a Winograd e Flores che si pongono esplicitamente il problema della progettazione3), ma ha segnato l’ultima parte delle elaborazioni di Ciborra in modo esteso, non episodico e fondante per certe sue prese di posizione. Tenete presente che nella raccolta di articoli uscita in sua memoria sullo European Journal of Information Systems del 2005 ben 13 su 29 autori confermano un influsso significativo di Heidegger: una tra tutti, la Zuboff (l’autrice di “The age of the smart machine”) sottolinea la rilevanza per Ciborra del concetto di verità come svelamento. Se si leggono la ventina di lavori che sono stati scritti da Ciborra dall’inizio degli anni novanta alla sua scomparsa si trovano infatti numerosi richiami al filosofo. Tra questi, il più significativo sotto questo punto di vista è il libro del 2002 “The labyrinths of information” (che tra l’altro rielabora molti dei suoi scritti precedenti). La tesi di fondo sostenuta da Ciborra, che la articola nelle sue diverse implicazioni lungo tutto questo libro, è: esiste un paradigma che fa da sfondo alle elaborazioni compiute nella letteratura relativa ai sistemi informativi e al management e questo paradigma è quello delle scienze naturali. Tale paradigma, che intesse razionalità e semplificazione, genera le metodologie correntemente impiegate per affrontare i problemi che stanno al centro delle preoccupazioni dei manager: ovvero le strategie, l’innovazione tecnologica, lo sviluppo dei sistemi, la progettazione organizzativa, il cambiamento. Alla prova dei fatti, non è di aiuto nell’affrontare tali problematiche; al contrario, tende a nasconderle, ad occultarle. L’intento di Ciborra è di proporre ai lettori, agli interlocutori delle sue ricerche, un diverso modo di guardare le cose, una prospettiva differente che porti a svelare, ad evidenziare, la realtà quale essa è, non quale viene descritta sulla base di questo paradigma. Chi ha letto il libro si è accorto che il ricorso ad Heidegger gli serve sia per gli aspetti di critica che per quelli propositivi. Il paradigma scientifico può essere definito sinteticamente così: la natura è un ordine oggettivo e causale, un insieme di relazioni tra fatti governati da leggi. La scienza attraverso il calcolo, la misura e l’osservazione dei fatti costruisce un sapere intersoggettivo su di un mondo oggettivamente dato. Bene. Ciborra non critica questa impostazione (alla base della scienza moderna), critica invece chi, occupandosi di IT, pretenderebbe di applicarvi impostazioni che valevano come schema concettuale ai tempi di Galileo per questioni assai diverse. E, a fronte di questa impostazione, propone un diverso centro di gravità: “human existence in everyday life”. Questo lo dice subito, a pagina 1, proprio nell’introduzione al libro (che lui chiama Invitation, invito a seguirlo in un percorso di affrancamento). Ricordo, per inciso, che la rottura che lui sottolinea con gli approcci ritenuti dominanti viene perseguita anche attraverso i titoli dei capitoli che non sono in inglese, ma impiegano parole chiave ed evocative di altre lingue. E così li denomina, ad esempio: Bricolage, Gestell, Kairos. Il suo progetto, la sua testimonianza di ricercatore, è di passare da quella che giudica, come dire?, la costruzione di uniformità nel conforme (ovvero il tentativo, infruttuoso, di imporre uniformità di gestione in situazioni diverse in conformità alle astratte idee dell’iperuranio manageriale) alla proposta di tener conto invece
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Dreyfus, H.L. (1992) What Computers Still Can’t Do. The MIT Press. Cambridge Mass. Questa edizione riprende, aggiornandole le edizioni precedenti la prima delle quali è del 1972. 3 Winograd, T.; Flores, F. (1986) Understanding Computers and Cognition: A New Foundation for Design. Ablex Publishing Corporation, Norwood
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della varietà nel difforme (caratteristica dell’esistenza umana nella sua concreta quotidianità e del lavoro nelle organizzazioni). Il suo progetto è esplicitamente interno al filone fenomenologico (lo dice espressamente lui, come ribadirò più avanti). Di fronte al conformare che oscura la variegata realtà, Ciborra richiama l’attenzione sulla molteplicità, sulla variabilità, sull’inconsueto, sull’emergente, sul trascurato. I suoi campioni quindi sono quelli che la Zuboff chiama i filosofi del “muddy” della “fangosità”. E infatti, oltre ad Heidegger, Ciborra si rifà ad Husserl fin dall’inizio, nel primo capitolo, quando affronta i perché della crisi che riguardano le discipline rilevanti per le ICT. La sostanza del suo discorso è che lo sviluppo di queste tecnologie è avvenuto malgrado l’insoddisfacente stato delle discipline che dovrebbero supportarle. Di fatto sostiene che molte applicazioni strategiche sono state introdotte nell’industria prima che i libri di testo si occupassero della questione; o meglio, quando se ne occupavano era per parlare dei possibili sviluppi dell’Intelligenza Artificiale e non di quel che stava facendo, per esempio, la compagnia aerea American Airlines quando cercava di connettere, attraverso reti informatiche, clienti e fornitori. Non solo, ma cita il successo di Internet che è stata sviluppata con interazioni a carattere orizzontale senza alcuna necessità di costruire dettagliati e raffinati piani strategici. Questo successo, queste modalità di interazione non erano state previste dalla letteratura. Di contro sono state sviluppate metodologie a non finire sulla Business Process Reingeneering che hanno fatto registrare fallimenti estesi in oltre la metà dei casi. Ora, se questi sono i risultati, la domanda è: qual è il senso di continuare in questa direzione? Poiché a suo parere le criticità sono estese e riguardano l’intero approccio teorico ai SI, da un lato cerca un ancoraggio, un conforto alla sua analisi, e dall’altro una via di uscita (che trova appunto nella fenomenologia). Sul primo versante, il riferimento ad Husserl gli serve perché questo filosofo nella sua opera “Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale” valuta la crisi delle scienze appunto per l’incapacità ad occuparsi del mondo della vita, della questioni relative alla soggettività; una crisi intervenuta per la separazione tra scienza e persone dimenticando le questioni relative all’origine soggettiva delle scienze, al ruolo fondante della vita di ogni giorno per lo sviluppo delle metodologie. Ed è proprio questo che secondo Ciborra è avvenuto nella gestione delle organizzazioni e delle tecnologie che impiegano metodi di misura, formalizzazione e calcolo caratteristici delle scienze naturali, ignorando così il carattere (nelle sue parole) “ibrido e socio-tecnico” dei SI. L’utilizzo di approcci qualitativi, lo studio di casi, la preoccupazione per gli aspetti sociali viene lasciato ai margini dell’offerta formativa delle facoltà di ingegneria o delle business schools. E’ dunque il carattere ibrido del campo di indagine della disciplina che, secondo Ciborra, rende difficile indicarne l’appartenenza netta alle scienze umane o a quelle naturali. Certo è che essa non appartiene alle scienze naturali. Ora, questa dicotomia tra le scienze viene posta nella seconda metà dell’ottocento (la definizione di scienze della natura e scienze dello spirito viene formulata da J.S.Mill) all’interno del dibattito sul rapporto filosofia-scienza dove il proliferare delle discipline mette in discussione il primato della filosofia e, comunque, pone il problema di capire che relazione c’è tra essa e le scienze. Discorso lungo e complicato, che non è possibile fare qui ed ora. Occorre però riprendere brevemente la posizione di Husserl e quella di Heidegger perché ambedue servono a Ciborra. Il primo, come si è appena detto, vede nella filosofia una funzione eminentemente critica della scienza tradizionale che ha un carattere oggettivistico (ed essendo questa la preoccupazione principale di Ciborra nel suo campo di indagine allora si capisce perché egli si metta a scalare la sua disciplina e a riferirsi ad Husserl). Evidenzia inoltre una trasformazione, intervenuta con il metodo scientifico, che caratterizza la forma mentis che sta alla base delle difficoltà, dello scarso realismo delle analisi, dei piani e dei progetti che Ciborra incontra come studioso e come consulente. Una forma mentis, il clima culturale positivistico, che da Saint-Simon in poi domina la scena con la sua fede ottimistica sull’evoluzione scientifica e tecnica e che Ciborra sente tuttora presente, malgrado il secolo trascorso e le critiche che, anche dal punto di vista epistemologico, sono state ad esso mosse (sto pensando al falsificazionismo di Popper, al negare l’esistenza di un immutabile metodo scientifico da parte di Feyerabend, alla questione delle fondamenta della scienza nei rapporti sociali da parte di Kuhn). Questa trasformazione consiste (secondo l’interpretazione che Ciborra da di Husserl) nel passare dall’impiego
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delle astrazioni geometriche, in quanto utili approssimazioni della realtà, alla pretesa che esse stesse costituiscano effettive espressioni della natura. In effetti, se si prende l’appendice alla Crisi di Husserl dedicata all’origine della geometria, si vede come per Husserl la prassi preceda la teorizzazione: un certo tipo di attività sta alla base dei successivi e più astratti sviluppi. Così, nel lavoro dei falegnami e dei costruttori, alcuni tipi di superfici, la preferenza per il loro essere liscie, e certi tipi di linee, la linea retta rispetto a quella curva, sono alla base delle successive astrazioni geometriche. Heidegger giunge nel 1966 (alla fine del suo lungo percorso che era iniziato nel 1927 con Essere e Tempo nello scritto “La fine della filosofia e il compito del pensiero”) a considerare la filosofia come dispersa nel suo frammentarsi nelle singole scienze e tecniche, in un mondo dominato dal calcolo. Nella sua concezione la scienza deriva dalla filosofia o meglio dalla metafisica, ovvero da quella visione dell’essere come realtà posta “di fronte” allo sguardo umano (occorre ricordare che oggetto viene da ob icere = lanciare contro) e come insieme di cose rese disponibili dall’agire umano. La filosofia dunque si dissolve nel pensiero calcolante, nella cibernetica (termine usato più volte da Heidegger). Vi è tuttavia una possibilità: è il pensiero stesso che pensando in modo pre-filosofico (cioè prima che la ratio avesse soppiantato l’essere e il linguaggio – non dimentichiamo che logos è parola, discorso per i greci), e cioè attingendo in modo peraltro misterioso (va ricordato che la radice di mistero significa “racchiudere”) a qualche fonte (forse l’arte? forse i presocratici, Parmenide?) potrebbe non esaurirsi nel pensiero calcolante. Dunque la tecnica segna la fine della filosofia, ma al contempo la possibile nascita o rinascita del pensiero. Su questo rapporto heideggeriano tecnica-essere-pensiero ritornerò tra poco quando considererò l’essenza della tecnica: Ge-stell, termine che Ciborra prende da Heidegger per definire lo sfondo alla sua posizione sulle infrastrutture informatiche e per proporre i suoi orientamenti, come dire?, di tipo gestionale. Naturalmente la posizione di Heidegger che ho appena delineato ha suscitato critiche anche forti: ad esempio, è stato accusato di sciamanesimo, mitologismo da Bruno Latour; di trascendentalismo idealistico da Don Ihde. Il punto è che, ciononostante, a Ciborra la produzione di Heidegger è parsa (come vedremo) sufficientemente ricca e fertile per costituire una base per le sue riflessioni. Fino ad ora abbiamo visto che per Ciborra una prima ragione per far riferimento alla filosofia è trovare un supporto all’attività critica. Ma il frutto di questa attività critica, la scoperta della crisi delle discipline che si occupano di IT sotto l’apparente velo di successo legato alla loro diffusione, costituisce anche la via da percorrere per uscire dal mondo delle astrazioni e per tornare al filo radente delle questioni umane. Ciborra dice esplicitamente nell’appendice metodologica ai Labirinths che il suo modo di operare riconduce alla fenomenologia di Heidegger. Anzi dice di più: che Heidegger l’ha aiutato a capire il metodo che di fatto lui aveva applicato nel corso delle sua carriera di ricercatore. Questo è coerente con l’intero approccio fenomenologico che prevede una stretta connessione fra prassi e teoria; o meglio, è la prima che precede sempre la seconda, al contrario di quanto sostengono le teorie dominanti; è quindi l’Introduzione a Essere e Tempo che ci dà la chiave di lettura per molte prese di posizione di Ciborra. Il cuore del metodo della descrizione fenomenologica consiste per Heidegger nell’interpretazione. Da un lato infatti la fenomenologia intende cogliere i suoi oggetti direttamente. Dall’altro, poiché i fenomeni possono essere nascosti - o perché non ancora scoperti oppure perché sono stati sotterrati (e questo mi sembra il caso al quale si riferisce Ciborra) - la fenomenologia non si deve fermare alla sua fase descrittiva ma arrivare al cuore delle cose; attraverso l’interpretazione, appunto. L’utilità di questa impostazione per Ciborra è che nell’avvicinarsi ai fenomeni organizzativi si incontrano due tipi di evidenza; il primo, che viene definito delle ‘apparenze illusorie’ è l’insieme dei modelli che vengono dati per scontati dalle teorie organizzative e da quelli utilizzati dalla consulenza; il secondo tipo riguarda le ‘apparizioni’ che emergono inaspettatamente e che sfuggono alle razionalizzazioni di tali modelli (che emergono nell’ambito delle discussioni informali). Questi due termini (apparenza illusoria e apparizioni) ricordano quelle che Heidegger chiama rispettivamente ‘parvenze’ e ‘apparenze’; la seconda può essere rappresentata - secondo un esempio che propone lo stesso Heidegger - dalle guance rosse di una persona che annunciano una febbre e quindi una malattia, mentre invece il riflesso di una luce rossa sul viso esemplificherebbe l’altro termine.
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Dunque il ricercatore deve cercare di seguire le apparizioni che annunciano le caratteristiche chiave (l’essere) di un’organizzazione. L’apparizione è ciò che annuncia, che porta avanti il fenomeno, che lo rende manifesto. Questo approccio in verità non caratterizza soltanto la fenomenologia heideggeriana, ma anche altri autori, tuttavia è difficile definire un insieme sedimentato di principi organizzato a sistema. Si tratta in sostanza di un modo di fare, di una pratica, piuttosto che di un sistema. Ho citato Husserl oltre che Heidegger; quest’ultimo però è più presente: perché dunque una tale, particolare attenzione nei suoi confronti? Forse è l’ampiezza delle prospettive e le ricchezza dei temi che Heidegger offre al lettore ad avere raccolto l’interesse preminente di Ciborra, e questo lo si può vedere proprio da come il primo ha trattato la questione della tecnica nel suo famoso articolo del ’54. Peraltro alcuni aspetti del tema erano già stati affrontati sia nelle Conferenze di Brema dell’inizio degli anni cinquanta che nella precedente Origine dell’Opera d’Arte che in altri lavori successivi quali La Via al Linguaggio4. Ricchezza di temi dicevo. In questo senso è possibile trovare nella stessa introduzione a Essere e Tempo degli spunti per combattere quella che Ciborra, come abbiamo visto, ha considerato una vera e propria tradizione consolidata. Dice infatti Heidegger a questo riguardo che quando la tradizione la fa da padrone, fa sì che ciò che viene trasmesso, in realtà, sia nascosto; cioè ci offre come evidenti alcune cose ma ci blocca l’accesso alle loro fonti che hanno dato origine a ciò che poi ci è giunto attraverso la tradizione stessa. E’ quello che è successo con la geometria (forse è quello che è successo con il pensiero prefilosofico?). Ora la rottura della tradizione avviene per Ciborra cercando di incontrare il mondo per come si presenta direttamente nell’esperienza quotidiana. In proposito dovremmo basarci sull’evidenza, sull’intuizione, sull’empatia piuttosto che su schemi preconfezionati, dovremmo cioè prestare più attenzione e mostrare più partecipazione ai rompicapi che i manager devono affrontare senza dare particolare rilevanza a termini quali “strategie, processi, sistemi, metodologie strutturate” . E in questa direzione Ciborra trova sostegno nella costruzione generale di Heidegger incardinata nell’essere-nel-mondo come caratteristica dell’uomo. Conviene fermarsi un momento su queste parole per cogliere la ricchezza di Heidegger alla quale accennavo prima e per comprendere meglio la probabile origine heideggeriana dell’empatia e della partecipazione che Ciborra suggerisce di coltivare. Bisogna notare che nell’espressione “essere nel mondo” la preposizione “in” non deve essere intesa nel suo significato spaziale, ma in quanto derivata dal verbo innan che vuol dire risiedere, abitare, l’equivalente dell’incolere latino. E che poi è collegato con l’avere familiarità con qualcosa o con qualcuno, con l’avere cura di qualcosa. Dunque, da un lato la tradizione deve essere superata, la storia dell’essere deve essere resa trasparente e ciò che è stato nascosto, svelato. Ma, inoltre, lo svelare, che è il compito del ricercatore, sta anche nel comunicare ed è qui che si apre un intero mondo. Infatti Heidegger sostiene che nella visione corrente il linguaggio viene considerato un tipo di comunicazione che serve come scambio verbale e accordo. Però il linguaggio non è solo questo, il linguaggio annuncia gli esseri, li porta allo scoperto; in effetti nella Via al Linguaggio, una conferenza del 1959, Heidegger dice che il linguaggio è diventato informazione e che l’essenza della tecnologia moderna, che si stava affermando ovunque, si organizza come linguaggio formalizzato, in modo tale che l’uomo viene modellato e aggiustato in una creatura tecnico-calcolante. All’inizio di questa presentazione ho detto come Heidegger pensasse che l’essere fosse stato soppiantato dalla ratio, dal calcolare latino: qui ne vediamo gli effetti sul linguaggio. Da queste considerazioni di Heidegger si può cogliere il delinearsi di quel modello computazionale della mente che in quegli anni si stava affermando con i lavori sull’Intelligenza Artificiale che vengono attaccati alla fine degli anni sessanta da Dreyfuss nel suo libro famoso: “Ciò che i computer non possono fare”. Ora, Dreyfuss appartiene al filone fenomenologico (tra l’altro ha scritto un commento 4
Questi scritti si trovano in M. Heidegger. Basic Writings. London, Routledge. 1993
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ampio e noto a Essere e Tempo). Le basi della sua critica al modello computazionale della mente fanno appunto ricorso alla dominanza della corporeità e dell’intuizione rispetto a quanto sostenuto dai cognitivisti che Dreyfuss ritiene cartesiani. Dreyfuss fa riferimento all’esempio del ciclista elaborato da Polany nel suo libro Personal Knowledge per sostenere che la formalizzazione non precede l’azione ma viceversa: le equazioni che descrivono le spinte e le controspinte e le traiettorie di fatto esercitate e seguite da una ciclista per potere stare in equilibrio non sono da lui conosciute. Questo inciso mostra come Ciborra sia in buona compagnia nella sua attività di critica e contemporaneamente nella sua proposta di approcci alternativi. Vorrei adesso ritornare un poco indietro, a quando dicevo di come Ciborra abbia cercato le ragioni della crisi della disciplina dei SI e le abbia trovate nel metodo scientifico, tipico delle scienze naturali, applicato spesso inconsapevolmente, in quanto parte di una forma mentis. La domanda che si è posto Ciborra è: cos’è che ci spinge a far ricorso a questi metodi riduzionisti e scientisti? La risposta è che derivano dalle caratteristiche della tecnologia, dal suo essere im-positiva (così viene tradotto in italiano il termine ge-stell). Questa risposta viene data da Ciborra facendo riferimento alla Questione sulla Tecnica elaborata da Heidegger. Conviene seguire il ragionamento fatto dal primo e poi capire la posizione di Heidegger per individuare i punti di contatto salienti. Ciborra inizia dicendo che vi è la necessità di gestire gli affari, che sempre più sono integrati a livello planetario, collegandoli alla progettazione e realizzazione di sistemi informativi appropriati, adatti all’intera organizzazione, costruendo cioè un’infrastruttura informativa. Si tratta di progetti di grandi dimensioni che durano parecchio tempo, il cui centro è costituito dalla costruzione di raffinati piani di gestione dove sono considerati sia le variabili che gli strumenti per gestirle in modo che sia assicurato il ritorno sull’investimento effettuato. Al loro interno viene anche redatta una lista dei possibili problemi cosicché si dovrebbe essere pronti per tempo alle possibili evenienze. Tuttavia, malgrado tutte le analisi e le pianificazioni che sono state predisposte, questi approcci in genere falliscono nel realizzare quanto era stato immaginato e concepito. Il punto è che, per quanto raffinati, i piani sono astratti e costrittivi; si basano sul controllo e la allocazione delle risorse centralizzati mentre il numero delle parti coinvolte nella realizzazione è tale che nessuno di fatto è in grado di controllare l’evoluzione della situazione. Inoltre, questi progetti così grandi richiedono tempo, con il tempo cambiano i requisiti e i piani vanno adattati, diverse componenti devono essere modificate e rese compatibili cosicché si possa assicurare l’interoperabilità. In sostanza un’intera infrastruttura non può essere cambiata istantaneamente né viene sviluppata da zero, si tratta di un’infrastruttura a strati dove ciascuno strato deve fare i conti con quello precedentemente installato. Il punto è, ed è la considerazione centrale avanzata da Ciborra, che queste grandi strutture informative non sono solo difficili da cambiare ma sono anche potenti attori in grado di condizionare la propria vita futura. Possiamo ora entrare nella questione della tecnica secondo Heidegger che propongo con qualche dettaglio per capire bene l’influsso che ha avuto su Ciborra. Heidegger inizia col dire che ritenere la tecnologia uno strumento non consente di scoprirne l’essenza. Certamente la tecnologia è un mezzo rispetto a un fine, questa definizione è corretta, ma non è sufficiente. Per sviluppare il suo pensiero H. comincia con l’esplorare il concetto di causa per i greci: la causa è ciò che è responsabile di qualcosa, ciò che rende manifesto, che porta avanti, che fa comparire. Poiesis (che sta all’origine della parola poesia) significa fare ma viene interpretata da H. anche come portare avanti: la natura porta avanti, per esempio, lo sbocciare di una gemma in un bocciolo, la natura fa questo di per se’. Se invece prendiamo un calice d’argento (per utilizzare l’esempio fatto da H), questo è portato avanti, è fatto comparire, da un artigiano che usa degli strumenti per trasformare il minerale d’argento e per produrre un altro strumento, un contenitore, cioè il calice; in effetti si dovrebbe osservare che la parola produrre deriva dal latino producere cioè da pro che vuol dire avanti e dal verbo ducere che vuol dire portare o condurre. Infatti quando qualcosa viene prodotto, quel qualcosa che non era presente prima viene portato in presenza. Se poi pensiamo ad un calice come ad un vaso sacrificale ci rendiamo conto che se certamente può contenere un liquido, per esempio del vino, vi è qualcosa in più di un contenitore che viene presentato. A pensarci bene infatti (ancora secondo l’empio di H.), possiamo avvertire come il vino venga prodotto dall’uva che cresce nella terra, come questa sia innaffiata dalla pioggia e irradiata dal
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sole; si tratta di un vino che, in quanto è stato prodotto un calice sacrificale, gli uomini offriranno in dono alle divinità. Vi sono così quattro elementi che vengono collegati tra loro: la terra, il cielo, i mortali e le divinità. Questo è ciò che viene rivelato o svelato attraverso la produzione dell’artigiano che ha utilizzato la sua propria tecnologia, i suoi strumenti. Anche la tecnologia moderna rivela, svela qualcosa, ma in un modo diverso: questa modalità può essere considerata una sfida, una forzatura (a challenge in inglese) una im-posizione. Nelle parole di H., da qualche parte un pezzo di terra viene “forzato” a produrre carbone e minerale, la terra si rivela adesso come un distretto carbonifero, il suolo come un deposito di minerali. Il lavoro del contadino non forzava il suolo e il campo del quale aveva cura, mentre la tecnologia contemporanea è profondamente diversa da ciò: la stessa agricoltura deve essere considerata un’industria alimentare meccanizzata. Questo ci porta a vedere il mondo in un modo diverso ed è l’atto di ordinare e di forzare questa riserva che caratterizza la tecnologia moderna ed è stata chiamata da Heideggere ge-stell che viene tradotta come enframing (inquadramento) e in italiano come im-posizione. Si tratta di uno stato generale del mondo, del trionfo della ratio latina che ha soppiantato l’essere greco. In questa situazione vi sono due pericoli che Heidegger scorge: il primo è che l’uomo non veda e non faccia null’altro oltre a quanto è consentito da questo “ordinamento” e il secondo è che la natura si presenti solo come un insieme complesso calcolabile di forze e, in quanto tale, rimanga conoscibile solo ciò che è razionalmente corretto piuttosto che vero. Il problema è che, poiché l’uomo non è padrone dell’essere, l’uomo non può neanche ritenersi capace di scelte illimitate in ciascuna situazione data per evitare questi pericoli. Dove sta la soluzione allora? Benché gli uomini non siano completamente liberi, essi sono capaci di pensare (cosa diversa dal calcolare latino) e sono capaci di ascoltare la chiamata di ciò che è nascosto (la verità non in quanto correttezza ma in quanto disascosità, svelamento). In questo senso, Gestell, la tecnologia moderna deve essere considerata una destinazione piuttosto che un destino. E, dunque, gli uomini secondo Heidegger dovrebbero praticare il pensiero, cioè fare attenzione a ciò che è velato, ciò che è nascosto e all’evoluzione della tecnologia. Vedremo tra un momento cosa ne ricava Ciborra; prima però possiamo cogliere un ulteriore indizio sulla ricchezza degli spunti forniti da H. come possibile “attrattore” per Ciborra. Heidegger inserisce una frase che può apparire sibillina e che lo stesso Ciborra riporta, un verso di una poesia di Hoelderlin: “là dove è il pericolo, cresce anche il potere salvifico”. Se si considera un altro scritto di H. (L’Origine dell’Opera d’Arte), vediamo infatti che un altro modo per svelare l’essere è, appunto, l’arte. Dunque questa frase sibillina di H. deve essere interpretata come espressione di un pessimismo di fondo di H. (“solo un dio ci può salvare”, come i critici di H sostengono)? oppure è ancora nelle mani dell’uomo, attraverso l’arte o il pensiero, che questa salvezza è riposta, come si potrebbe altrimenti pensare? Questa possibilità sarebbe in sintonia con quanto avevo detto prima, a proposito del rapporto scienze-filosofia: H. adombra come via di uscita la possibilità dell’avvento di un pensiero pre-filosofico, che vada oltre la tecnologia, piuttosto che verso un passato antistorico. Dai discorsi appena fatti cosa possiamo dire, sulla base di Ciborra-Heidegger sulla questione se siano le strutture a vincolare in modo prevalente l’evoluzione delle organizzazioni oppure se siano gli attori con le loro iniziative a imporsi oppure ancora se l’evoluzione venga prodotta in un processo esplorativo e interattivo? Non sembra possibile dare una risposta univoca. Dobbiamo ricordare che se un senso prevalente si coglie dall’interazione Ciborra-Heidegger, questo sta nell’alterità, nella possibilità di considerare da più prospettive i problemi. Ancora una volta ci si deve ricordare che la filosofia soccorre nel definire o ri-definire le concezioni di base. Quindi che dire? Probabilmente ci si avvicina alla prima ipotesi se si pensa all’esistenza della Ge-stell, alla dominanza del paradigma razionalistico e calcolante, e si dovrebbe pensare che il “palcoscenico” sul quale ci si muove abbia a che fare con, se non una struttura, una forma mentis difficilmente modificabile e con la quale è necessario fare i conti. Peraltro, come abbiamo visto, vi sono vie di uscita che non vanno ricercate in una ricetta risolutiva, ma in una costante attenzione al pensiero non calcolante, ai momenti di “rottura”, di crisi, ad un atteggiamento di cura e di apertura nei confronti dell’inaspettato che schiude la possibilità del nuovo. E questo ostetrico del nuovo chi altri potrebbe essere se non l’uomo che, superando la pre-comprensione (il pregiudizio), può cogliere la diversità nella conformità della tradizione? Il punto è che non possiamo prescindere da questo continuo rimando, da questa ambivalenza: è un po’ come quando si sorvola un ter-
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ritorio: i tetti delle case che scorgiamo dall’alto, mentre ce ne indicano la presenza, nello stesso tempo ce le nascondono. La questione probabilmente è che quando progettiamo qualcosa dobbiamo tener presente che nel mentre poniamo in evidenza qualcosa, in ciò stesso nascondiamo qualcosa d’altro. In fondo, è il senso della finitezza che occorre ci faccia da guida; il senso della finitezza e l’attenzione all’ ”altro da se’ ”. Peraltro Ciborra propone degli orientamenti per la gestione e lo sviluppo delle infrastrutture informative, partendo proprio dalla Questione sulla Tecnica. Concorda con Heidegger che il pericolo non consiste nella distruzione della natura, ma dell’affermarsi di pratiche totalizzanti e nel livellamento della nostra comprensione dell’essere. Come ho detto prima, la soluzione possibile sta ne fatto che l’essere può portare se stesso verso altre direzioni le quali però non possono essere pianificate prima. Questo aspetto fa dire a Ciborra (nell’articolo scritto con Hanseth) che Heidegger non può essere considerato, come molti fanno dopo una lettura superficiale, un critico romantico e reazionario della tecnologia. Ora, se non si può pianificare questa diversa direzione, ci si può peraltro preparare (l’uomo, in definitiva, come ricorda Heidegger nella sua Lettera sull’Umanismo, l’uomo è il “pastore dell’essere”) e a questo proposito Ciborra fornisce alcune indicazioni, alcune massime che ricordo: − cercare di uscire dal pensiero strumentale e calcolante; − promuovere momenti di visione che vadano oltre l’influenza pervasiva della Gestell; − avere un approccio distaccato nei confronti della tecnologia, un atteggiamento di apertura e di chiusura nello stesso tempo; − favorire la presa di responsabilità attraverso un atteggiamento di accoglienza piuttosto che attraverso l’esercizio di uno stretto controllo; − essere aperti nei confronti del mistero cosicché possiamo raffinare la nostra capacità di “insight”; − valutare positivamente le pratiche marginali perché sono meno vulnerabili alla Gestell; − mettere queste pratiche marginali al centro dell’attenzione e ridimensionare l’importanza di quelle che vengono oggi considerate centrali. Per mostrare come questo approccio possa essere seguito nella pratica manageriale, Ciborra porta l’esempio di una società farmaceutica, la Roche. Questa, a seguito degli insuccessi e delle resistenze incontrate, dovette abbandonare un progetto - condotto in maniera particolarmente accentrata - relativo a un sistema informativo di supporto al marketing che intendeva promuovere l’integrazione globale. Dopo la chiusura del progetto centralizzato incominciarono a fiorire una serie di iniziative radicate localmente nei bisogni effettivi dei diversi stakeholders. Questi sistemi leggeri erano basati sia sulle infrastrutture esistenti della società che su internet. Il controllo centrale venne sostituito dal coordinamento e dell’interazione tra gli attori e gli scambi di conoscenza incominciarono a fluire nel modo giusto, cioè nel modo consono ad una società multinazionale attiva in un’area di affari con una competitività basata su contenuti di conoscenza elevati. Se riprendiamo la lista di suggerimenti che aveva proposto Ciborra e che avevo prima richiamato, vediamo come sia il concetto di “situazione” che di “improvvisazione” assumano un valore particolare. A questi due temi interconnessi Ciborra dedica un intero capitolo di Labyrinth e lo chiama Kairos che in greco ha diversi significati, vuol dire la misura giusta, il tempo appropriato, la circostanza adatta. Qui l’attenzione viene posta sull’importanza dell’improvvisazione che è cruciale nelle organizzazioni esposte alle turbolenze della globalizzazione. Il primo passo sta nel capire che l’improvvisazione non può esser colta in tutto il suo significato nell’ambito di una prospettiva cognitivista. Infatti il problema è che questi approcci considerano l’improvvisazione come un problem solving rapido, cioè pensano che l’improvvisazione consista nella capacità del risolvere problemi in tempi contratti e che questo sia possibile a causa della conoscenza tacita che ciascuno di noi ha. La questione è che, ignorando le emozioni e gli stati d’animo, viene trascurata la “situazione” dell’attore che viene considerato una sorta di robot. Al contrario Ciborra, per gettare luce sull’improvvisazione, fa riferimento a uno degli assi portanti dell’essere umano secondo Heidegger: Befindlichkeit, una parola, inventata da Heidegger, difficile da
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tradurre. La soluzione è cercare di renderla con una frase, che per Ciborra è: come una persona si trova, come è collocata in una situazione emotiva e di “percorso”. In effetti in tedesco è un insieme di “come stai?” “come ti trovi?” “come ti senti?”. Dunque questo trovare se stesso ha tre allusioni: quella riflessiva di trovare se stesso, di sentire e di essere situato. Dunque, quando ti si chiede “come stai?”, per rispondere non soltanto pro forma devi essere consapevole di come ti trovi all’interno delle circostanze della tua vita. Ora la questione fondamentale, ovvero l’importanza delle emozioni e dei sentimenti, è che per H. le nostre capacità razionali sono radicate nelle emozioni perché queste vengono prima; non si sa, secondo H., la ragione per cui le emozioni cambiano, è un fatto però che l’uomo ha sempre una stato d’animo. E non è possibile capire l’origine di queste emozioni perché la capacità di comprensione non riesce a ricomprendere lo svelamento primordiale che appartiene alle emozioni stesse. Ma se così stanno le cose, quando si cerca di capire una situazione o l’azione situata e, in particolare, l’improvvisazione abbiamo bisogno di tenere conto della “situazione” dell’attore. L’improvvisazione dunque per Ciborra è basata sull’emozione; ciò posto essa ci colpisce per il suo impatto estemporaneo. Per portare avanti il suo ragionamento sceglie due emozioni che sono fortemente collegate al tempo. La prima è il panico che è (apparentemente) prodotto dalla mancanza di tempo, la seconda è la noia, che, all’opposto, è collegata alla grande disponibilità di tempo; il passaggio successivo è quello di uscire dal tempo standard, quello che Ciborra chiama il tempo dell’orologio e basarsi sul nostro tempo personale, non quello misurato dall’orologio. In realtà se consideriamo il panico una forma estrema di paura, la ritroviamo insieme all’ansia nelle elaborazioni di Heidegger così come quella di noia. La paura per Heidegger è generata dagli enti che ci riguardano direttamente nell’ambiente intorno a noi, ma l’ansia viene dall’uomo stesso, l’ansia è la consapevolezza che l’uomo ha di essere “lanciato” verso la morte. Tuttavia per H. l’ansia ha una funzione positiva: nel portarci ad anticipare la fine, sull’orlo pensato della fine, essa ci libera da quelle opportunità che non contano nulla e ci porta vicino a quelle autentiche. Infatti quando diventiamo consapevoli di ciò che siamo veramente (ricordiamoci che autenticità per Heidegger è l’uscire dal: si pensa, si fa, si dice) abbiamo la possibilità di diventare più selettivi e determinati. L’ansietà sgorga dal futuro dell’essere determinato, mentre la paura sorge da un presente bloccato in se stesso. Se la diciamo con Ciborra, la paura, o peggio il panico, porta a bloccare la capacità di decidere, che porta all’inazione o all’attività frenetica ma a nessuna strategia veramente adattativa. Prendiamo adesso l’altra emozione che è basata sulla grande disponibilità di tempo. Nella noia che in tedesco si dice Langeweile, afferma Heidegger, il mentre (Weile) diventa lungo (lange). E’ qui che il proprio tempo prende il posto di quello misurato dagli orologi. Dunque, c’è un modo diverso di concepire il tempo che Heidegger propone (e Ciborra raccoglie) e assieme a questo diverso modo di concepire il tempo c’è la possibilità che si verifichi il momento della visione (Augenblick), l’attimo opportuno. Questo può verificarsi perché nella determinazione costituita dall’ansia non siamo più distratti dagli oggetti di più vicina e imminente cura. Il presente, inteso come essere presenti a noi stessi, è nello stesso tempo anticipazione del futuro e frutto dell’essere stato. Quindi questo raccogliersi insieme dell’essere stato, dell’essere e dell’essere futuro, questo coagularsi, viene chiamato da Heidegger momento della visione. Si tenga presente che nell’ articolo di Ciborra uscito postumo “Getting to the heart of the situation” questo concetto di momento della visione, di attimo opportuno, viene ripreso. Nell’improvvisazione, dunque, il mondo, le sue risorse e le persone ad un tratto hanno un valore diverso e possono essere ricombinate in modo differente, cosicché Ciborra ci invita a considerarla un’opportunità. La conclusione a cui arriva è che non è vera la visione cognitivista secondo la quale qualsiasi entità capace di pianificare ed eseguire può improvvisare; è vero, al contrario, che qualsiasi “esistente” che sia capace di riflettere sulla sua esistenza e che abbia emozioni e sentimenti è in grado di improvvisare. Bene. Con la due considerazioni seguenti finisco questa mia introduzione sul rapporto CiborraHeidegger e di come esso può interessarci. La prima è che per Ciborra il riferimento alla filosofia (come abbiamo visto, oltre a Heidegger - suo principale riferimento - anche Husserl ha svolto un ruolo significativo) ha costituito un punto di ancoraggio, una leva sostanziale per conseguire quel cambiamento di prospettiva, di modifica delle concezioni di base dal quale muovere critiche circostanziate a
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impostazioni considerate inadeguate a spiegare e a gestire il mondo dei sistemi informativi (quelle a carattere scientista e riduzionista). La seconda è che gli spunti trovati gli hanno consentito di sviluppare e consolidare alcune sue intuizioni e di proporle come capisaldi alternativi nell’ambito sia della ricerca che della pratica relativa all’IT: i concetti di situazione e di improvvisazione, le modalità di porsi nei confronti delle attività ritenute marginali, la circospezione con la quale affrontare il discorso tecnologico, il considerare i limiti del controllo centralizzato, il coltivare comunque alternative ai modi più consueti di considerare una data organizzazione. La lista potrebbe continuare. La “combinazione” Heidegger-Ciborra, qualche indicazione di fondo sulle strade da esplorare per impostare il nostro lavoro, può dunque darla.
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