Sforzo Morale

  • June 2020
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SFORZO MORALE: “L’attimo dopo” di Massimo Gezzi, “IX Quaderno italiano”, Marcos y Marcos, Milano, 2007. In questa seconda raccolta di Massimo Gezzi continua a rivelarsi il tentativo – reiterato e quindi cruciale in prospettiva di un orizzonte tematico comune a molta poesia contemporanea – di concentrazione linguistica sull’evento, allo scopo di salvaguardarne i presupposti, cioè le realtà, i frammenti che costituiscono un mondo. Se ne “Il mare a destra” il linguaggio si spiegava in una nominazione ancora fuggevole, ne “L’attimo dopo” si avverte una lieve virata stilistica: la realtà è sempre più corporea e solo l’esperienza e la memoria del soggetto lirico riescono a penetrare la pellicola di materia che riveste gli oggetti e il paesaggio: “Reperti// Nella terra si leggono moltissime/ vicende, mi accorgo mentre faccio/ un sentiero di campagna che non avevo/ più percorso: i tronchi segati al pari/ del terreno resistono per secoli;/ qualche volta riaffiora un oggetto/ che pare extraterrestre, tanta è la distanza/ che lo separa dal presente. Un giorno per esempio/ ho trovato nel piccolo giardino/ antistante la mia casa una macchina/ per cucire in miniatura, ciarpame o giocattolo,/ nera e scrostata ma del tutto/ conservata, che a pulirla avrebbe dato/ un’eleganza démodé ad un mobile/ antico. Più di rado si rinvengono/ coriandoli di carta, a volte di giornali pornografici,/ altre di firme e scritture impronunciabili,/ slavati dalle bave o rifilati/ da chissà che mandibola paziente. Io so anche dire/ dove sono tumulati i miei due cani, bianchi/ e poderosi, seppelliti da mio padre/ dopo anni di passeggi serali/ e di carezze. Chissà cosa resiste, adesso,/ di quei corpi, se i lunghi filamenti/ del pelo o le zanne dei canini, oppure se è come/ se non fossero affatto transitati/ in quella terra, stinti del tutto, divorati da insetti/ che magari avrò schiacciato senza troppa/ attenzione, non capendo che nel cric/ di quegli scheletri echeggiava il guaito/ familiare dei miei cani, la saliva che lasciava/ minuscoli globi più scuri sul cemento,/ brevi costellazioni evaporate/ in un secondo, subito sparite in altre forme/ anche loro”. Era importante inserire l’intero componimento perché ogni parola concorre alla nominazione umilmente sacrale degli oggetti, anche attraverso il ricordo, anzi, soprattutto grazie ad esso pare ricrearsi quella relazione che il soggetto pareva aver perso col suo contesto. Continua il lavoro sulla tradizione - letteraria certo, ma ancor di più etica – nel tentativo di un recupero di bagliori di mondo non del tutto perduto. Continua, nell’elencazione di oggetti e situazioni, lo sforzo di rinominare le cose, purtroppo questo sforzo sembra tradire una rinuncia: la significazione richiede un maggior sacrificio, un andar oltre che rinnovi la realtà attraverso uno slancio di relazione. Purtroppo l’elenco sembra mummificare l’agire linguistico e di conseguenza museificare la realtà – o è proprio questo il messaggio? Non sembra questo il messaggio, non lo è se leggiamo attentamente due poesie successive: “Sul molo di Civitanova” e “ La memoria di una terra”. La prima ci dice le difficoltà processuali di ogni esistenza, anche di chi “liricamente” vive in una piccola provincia occidentale e le contraddizioni di quello stesso mondo, difficoltà concernenti il senso e la lettura della propria realtà attraverso un,avvenuta cancellazione dei valori, e ce lo dice in una tonalità pacatissima che rasenta l’ineffabile; ci sembra di dondolare su quelle onde che investono il molo (noto gli enjambement utilizzati frequentemente che ci dispongono ad una lenta oscillazione) e che si apra uno spazio diverso, nei nostri sensi è il quotidiano che si ripete mai uguale: “non è mai finita, penso mentre guardo/ i tuoi capelli rovistati dal grecale:/ finché non muore tutto c’è speranza/ di risolverlo il dilemma/ che mette il segno uguale tra vita/ e non vita, in quest’angolo di porto/ occidentale che ogni volta è se stesso ma insieme/è anche altrove”.

Quel mettere il segno uguale tra vita e non vita rappresenta il nodo tematico cruciale non solo del componimento, ma anche di un’intera stagione di pensiero filosofico e poetante. L’interesse tout court per il linguaggio, per la comunicazione e per la trasmissione di un messaggio nell’immediato ma soprattutto al futuro, è la testimonianza di sempre che l’uomo ha saputo scegliersi per trasferire una tradizione. Il dire di Gezzi riesce ad addossarsi ancora il peso del dono insito nella scrittura, riesce ancora ad avvertire la responsabilità, il valore, in una parola la comunione, con quel lettoredestinatario che sembrava ormai disperso nel buio ermeneutico di ogni identità. Il lavoro che Gezzi compie riguarda proprio l’eventualità di una ri-appropriazione: attraverso una saggia fiducia nel dire

(e mi riferisco a quanto detto sopra a proposito della trasmissione di un messaggio), s’incomincia a intravedere un mondo con dei nuovi attori (persona, personaggio, sarebbe banale continuare a insistere sull’etimologia di queste parole e sulla loro ambiguità), le cui azioni sembrano ristabilire quel contatto con “l’altro” oggettuale e umano. In tutto il processo non si è perso di vista il versante umano, appunto, e questo pare avvicinare Gezzi ad una posizione conservatrice, non reazionaria ovviamente, in cui finalmente si compie una scelta e si avvia un percorso: quello dell’amore e della pietas in un mondo post-umano. Nella seconda poesia a cui abbiamo fatto riferimento (“La memoria di una terra”), è ribadita con forza la scelta di Gezzi, sia sul versante morale che linguistico (aspetti che vanno di pari passo). Già l’incipit “Questa terra è pesante di memoria” apre una vertigine di senso; non si tratta di una pacifica constatazione, lo dimostra quell’aggettivo in mezzo al verso, decisivo perché introduce un discorso sulla nuova responsabilità di chi ha attraversato un’epoca: il postmoderno e l’ironizzazione della realtà – tutto sembrava essere stato detto perché ogni azione sembrava costipata nella sua possibile ripetitività, ma nel prosieguo si arriva addirittura ad una visione (apocalittica?) della vita sulla terra. Dalla ripetizione dei processi vitali al decadimento dell’essere pre-disposto ad essere rifagocitato dalla natura in un ciclo indissolubile che si riallaccia tematicamente alla pesantezza introdotta sin dall’inizio. Sono sincero, in questo componimento sento una ricaduta, qualcosa di trapassato sembra emergere, una dominazione annichilente, una natura madre conglobante rende stantia la forza etica di dire un mondo nuovo, si ricade nel vecchio desiderio autodistruttivo, un valore ripetuto, una certa stanchezza creativa. Dopo tre poesie molto intense sulle relazioni interpersonali (forse le più belle della raccolta), si giunge ad un gruppo di poesie che definirei “percettive”. Con questo intendo dire che i componimenti in questione si concentrano, partendo da uno spunto sempre quotidiano, su piccoli eventi che in sé sembrano racchiudere dei macroeventi che coinvolgono, in visuale più ampia, gli oggetti e la mutata prospettiva, empirica, fenomenologica, di considerarli. Mi riferisco a “Venere davanti al sole”, “L’accordo”, “La stanza”, “La tempesta”, si tratta di componimenti intermittenti che sembrano appartenere a un’altra stagione o riflettono un residuo di conoscenza – letture, studi giovanili. Ne “La tempesta” leggiamo: “…è quello della gente/ protetta dal suo covo e che forse,/ come te, sta cercando un abbraccio” parole che mi conducono direttamente a “Nell’abbraccio” (“Schizzati fuori dalle loro tane/ si spandono nell’aria/ nell’acqua del mondo/ sul tepore della terra al sole/ inchiostri annaspanti/ cercano di formare/ una salda cintura un equatore/ nell’abbraccio del mondo”) di Bartolo Cattafi (in “Segni”, Milano, Scheiwiller, 1986). “Il seme del tiglio” e “Insonnia” continuano sulla strada, appena tracciata, di una fenomenologia minima e pronta ad accendersi; da un dettaglio sembra sprigionarsi la scintilla che permette la nominazione e quindi ogni immagine poetica. Così si arriva ad “attendere gli indizi di una nuova comparsa”, nuova apparizione, epifania del reale che però non crea aspettative o false illusioni, ma solo la semplice constatazione dell’esistere e sua unica “magia” (“Quattordici foglie”, v. 15). Magia del precario e di un lavoro o lavorio che accompagna l’uomo dagli esordi in una fugacità senza scampo, talmente cruda da apparire glaciale e che è inevitabilmente tale, concreta, durevole filo di Arianna delle relazioni di cui il singolo uomo è infinitesimale approdo e ripartenza; come una soglia non sigillabile (“Grottammare”). La concretezza a cui si accennava è conservata, anzi ribadita, nel componimento finale: preghiera rivolta all’altro, alla considerazione di un mondo e alla consapevolezza di una ambiguità e fugacità che nell’apparente male ri-dona una speranza, attraverso la constatazione di una fisicità che, da un punto di vista strettamente personale (ma credo di poter leggere, nelle intenzioni di Gezzi, la stessa esigenza), nella sua fragilità abbisogna di maggior rispetto (“Una risposta”).

Gianluca D’Andrea

http://www.nabanassar.com – diritti riservati – gennaio 2008 2

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