Il servizio ecclesiale del teologo. Riflessioni alla luce di alcune convinzioni nel pensiero di John Henry Newman Mio compito, mostrare l’Invisibile nelle strade affollate, dove si alleano le febbrili attività della vita per escludere la Mano Divina. (Newman)
Compito della Chiesa è farsi parola, messaggio e colloquio, a condizione però che noi credenti approfondiamo la nostra fede, ci radichiamo ancor più nella nostra identità e tradizione. Ciò vale anche per la teologia. Se vuole evitare il dissolvimento relativista della cristologia e dell’ecclesiologia, essa deve innanzitutto ricevere fedelmente i contenuti della fede «così come sono stati esplicitati progressivamente nella sacra Tradizione, nella sacra Scrittura e nel magistero vivo della Chiesa»1. In questo articolo vorrei cercare di motivare e illustrare questo compito doveroso della teologia alla luce di alcune certezze di Newman. Lo scopo non è quello di una presentazione della concezione newmaniana della teologia attraverso un’analisi esegetico-storica ed ermeneutica del suo pensiero, ma di mostrare quali stimoli alla riflessione possano offrire ancora oggi alcune convinzioni che Newman ha maturato in tempi diversi della sua vita e che ha sostanzialmente conservate sino alla fine. Mediante una scorsa alla storia della Chiesa dei primi due secoli ricostruita da Newman ne The Arians of the Fourth Century, cercherò di cogliere alcuni elementi peculiari dell’identità e del compito della teologia (I); poi, seguendo la Prefazione alla terza edizione della Via Media, esporrò quale sia per Newman il compito della teologia per rapporto alle tre funzioni della Chiesa (II); infine, nell’ultimo paragrafo, affronterò il rapporto teologia e autorità, dal punto di vista sia dello sviluppo della Rivelazione sia dell’uso della ragione da parte della teologia (III). A conclusione, riprendendo i dati di maggior interesse emersi, presenterò sinteticamente una figura di teologo. 1. Principio e fondamento della teologia Può essere utile per la comprensione dell’identità e del compito della teologia risalire alla sua origine, seguendo a tal fine qualche capitolo della prima delle grandi opere di Newman: The Arians of the Fourth Century2. Nei primissimi tempi l’insegnamento degli Apostoli era conservato nella memoria dei cristiani, trasmesso in piccole comunità sparse in ogni luogo e accolto con grande rispetto dai catecumeni. Non c’erano ancora simboli e articoli di fede, ma solo la Scrittura e la Tradizione, unite in modo che «la sovrana autorità e la sufficienza della Scrittura come documentazione della verità non viene diminuita neppure in minima parte da questo ricorso alla Tradizione (...). Dobbiamo distinguere con cautela una tradizione che soppianta e Giovanni Paolo II, Lettera eniclica Fides et Ratio, 65. J. H. Newman, Gli Ariani del IV secolo, Milano-Brescia, 1981 (d’ora in poi, Ar). Si tratta di un’opera che, risentendo molto del contesto antiliberale in cui fu elaborata, non è sempre precisa nel confronto tra i sistemi di pensiero che studia. Tuttavia qui è considerata esclusivamente in riferimento all’intuizione di fondo che concerne i due modi di concepire il cristianesimo: rivelazione di una verità soprattutto di indole intellettuale o rivelazione di una verità che è forza rigeneratrice e che si rivolge a tutto l’uomo. Tale intuizione ha determinato il cammino teologico e spirituale di Newman e non è stata mai ritrattata. 1 2
perverte i documenti ispirati ed una, del tutto subordinata, che li avvalora e li illustra. E’ a quest’ultima che Ireneo si riferisce, sostenendo che la dottrina tradizionale e quella scritta sono sostanzialmente una e identica»3. Questa dottrina, contenente le più autentiche verità rivelate in passato all’umanità, era stata affidata in custodia alla Chiesa e da essa dispensata con benevolenza a coloro che la ricercavano. Essa conteneva fatti e non opinioni, circondati e custoditi in un clima di rispetto e venerazione. Accanto a tale principio di discrezione e devozione, denominato Disciplina Arcani, si osservava anche quello dell’Economia. Questo consiste nel metodo pedagogico di trasmettere verità sostanziali nella forma più accettabile per gli uditori, usando parole prese dalla loro lingua e anche dalla loro religione. «Se si volessero mostrare le differenze tra i due principi, si potrebbe dire che, mentre l’uno tiene segreta la verità, l’altro la espone nel modo più vantaggioso possibile. Lo stesso san Paolo (...) si fece ebreo agli ebrei e pagano ai pagani»4. Ma gli esempi più efficaci di economia sono i modi in cui la Provvidenza ha agito nei confronti degli uomini, accondiscendendo alla debolezza e alla peculiarità delle loro menti. Allorché gli eretici respinsero l’opera di trasmissione viva e diretta della Chiesa, per attingere la verità con spirito di parte direttamente dalla Scrittura e farne oggetto di esercizio logico, la Rivelazione - che nei primissimi tempi era stata tenuta in ombra dalla forza della fede e dell’obbedienza, e annunciata con precauzione e prudenza pedagogica cominciò ad essere portata in piena luce per dissipare le tenebre dell’errore. Tuttavia ciò non poteva avvenire con le sole parole della Scrittura, giacché erano proprio quelle l’oggetto della disputa, ma si richiedeva l’opera dell’intelletto. L’elaborazione della mente però restava sottomessa all’affetto religioso, all’obbedienza e alla venerazione del mistero rappresentato. Non era un approccio astratto e dialettico, ma l’esercizio della ragione di uomini infervorati dai principi della vita cristiana vissuti nella Chiesa, corpo di Cristo. La teologia che ne derivava era radicata nella «intima soggettività della Chiesa (il nous Christou e l’ecclesiasticon phronema), che si manifesta nella catechesi, nella liturgia e nell’azione storica»5. Essa non esisteva separata e distinta dai teologi, i quali erano amanti della verità più che delle dispute, uomini di fede e partecipi di un pensiero ecclesiale; non era mera speculazione disincarnata, ma contemplazione di una vita la cui profondità e ampiezza oltrepassano l’intelligibilità e la pura logica umane. Come Newman preciserà in uno dei sermoni universitari, ad esigere una riflessione e un rapporto mente-cuore di tale qualità è la natura stessa della Rivelazione, in particolare a motivo del «suo metodo di personalizzazione». Essa infatti «ci propone semplici e precisi fatti ed azioni, non faticose induzioni ricavate dai fenomeni, non leggi universali o congetture metafisiche, ma Gesù e la Resurrezione (...) Insegna le verità religiose in modo storico, non con la ricerca; rivela la natura divina non nei risultati della azione, ma con l’azione stessa»6. Essa cioè non enuncia un principio divino, ma annuncia e manifesta un agente divino. Da queste brevi righe di carattere storico si possono trarre due elementi, costitutivi del principio e del fondamento della teologia intesi non tanto in senso temporale, quanto come la fonte donde deriva la struttura portante che sostiene e attraversa tutta l’attività teologica. Il primo consiste nella priorità del profilo religioso ed ecclesiale del teologo rispetto alla natura e al metodo della disciplina. Non si dà scienza teologica separata dalla persona. Questa può essere mossa prevalentemente dalla curiosità dell’intelletto, oppure dalla pietà del cuore; dalla preoccupazione di capire il dato rivelato e esporlo in un sistema rigoroso, Ar, 42. Ar, 49. 5 G. Dragas, Conscience and Tradition: Newman and Athanasios in the Orthodox Church, in Newman Studien 11 (1980),77. 6 Sermoni Universitari I-XV, in J. H. Newman, Opere (a cura di A. Bosi), Torino 1988, II, 482.485 (d’ora in poi, SU). 3 4
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oppure dal desiderio di accogliere docilmente l’opera rigeneratrice di Dio. Il vero teologo si riconosce dal suo amore e dalla sua venerazione per le verità rivelate su cui riflette, e dalla sua appartenenza vitale alla Chiesa. Da lui si esige la consapevolezza che la fatica di scavare nel deposito della fede per trarne e mostrarne i suoi tesori non è paragonabile p.e. allo sforzo dello scienziato per scoprire le leggi della natura e impadronirsene, ma ha di mira un incontro personale con Dio, la sua migliore comprensione e realizzazione per sé e per gli altri. «Fides quaerens intellectum». Il miglior modello di ciò è Maria, «sia per quanto riguarda l’accoglierla [la fede] che per quanto riguarda lo studiarla. Non le basta accettarla, vi riflette sopra; non le basta possederla, la usa; non le basta assentirvi, la sviluppa; non le basta sottomettere la ragione, essa ragiona sulla propria fede; non che prima ragioni poi creda, come Zaccaria; al contrario, prima crede senza ragionare, poi, con rispettoso amore, ragiona su ciò che crede. Essa in tal modo simboleggia per noi non solo la fede degli incolti, ma anche quella dei dottori della Chiesa, il cui compito è non solo professare il Vangelo, ma di cercare, pesare e definire; di distinguere tra verità e eresia; di prevenire le varie aberrazioni d’una ragione fuorviata, o di porvi rimedio; di combattere con le loro stesse armi l’orgoglio e la temerità, trionfando così sul sofista e sul novatore»7.
Il secondo riguarda l’origine e la ragione d’essere della teologia interamente al servizio del rapporto dinamico tra Sacra Scrittura, Tradizione e Chiesa, aiutandone l’articolazione, il movimento e la crescita. Essa si è sviluppata successivamente tra la classe intellettuale e colta, ed è orientata al servizio del culto e della vita dei credenti, giacché «l’espressione intellettuale di verità teologiche (...) favorisce direttamente gli atti di adorazione e di obbedienza religiosa, fissa e stimola lo spirito cristiano nella stessa maniera in cui la conoscenza dell’Unico Dio dà sollievo e luce alla coscienza perplessa del pagano religioso»8. La luce dell’intelligenza della fede si riverbera sulla pratica liturgica e la condotta dei credenti. Inoltre, in presenza di controversie la teologia elabora rappresentazioni, proseguendo le ricerche sull’argomento fino al limite del suo mistero. Essa dunque non può andare oltre una «rappresentazione economica» della Rivelazione, «necessariamente imperfetta perché illustrata con mezzi ad essa estranei, e perciò con apparenti incongruenze o misteri»9. 2. La teologia a servizio della missione profetica, sacerdotale e regale della Chiesa I due elementi illustrati or ora vengono ripresi e sviluppati alla luce del servizio che la teologia rende alla Chiesa intesa non in senso puramente istituzionale, ma come l’esperienza vivente dei cristiani, l’esperienza dell’irruzione di Dio nella storia, dell’incarnazione del Cristo, della rinuncia a sé (self-denial) del Padre che dona il Figlio, e di questi che spogliò se stesso assumendo la condizione umana e non compiacque se stesso. La Chiesa, cioè, nella quale si estende il «metodo di personalizzazione», così che essa è il corpo dei fedeli divino e umano, personale e sacramentale, più che sociale e politico, la fisionomia esteriore del Signore sulla terra, un organismo dato una volta per tutte e tuttavia capace di sviluppo infinito. Posta l’unità della Chiesa, per illustrare il ruolo della teologia nei suoi confronti, è necessario considerarne e descriverne le funzioni. Cristo «è profeta, sacerdote e re, e a sua immagine e in misura umana, anche la Santa Chiesa ha un triplice ufficio (...). Il cristianesimo dunque è indivisibilmente una filosofia, un potere politico e un rito religioso. Come religione, è santo; come filosofia, è apostolico; come potere politico è imperiale, cioè uno e cattolico»10. Perché l’azione della Chiesa mostri Cristo, è necessario che essa abbracci SU, XV 700. Ar, 110 9 Ar, 109. 10 J. H. Newman, The Via Media, London 1877, vol I, xl. (d’ora in poi, VM). La Chiesa cattolica è un potere politico nel senso che è un corpo visibile e reale di uomini, uniti da impegni e leggi comuni, in relazione tra 7 8
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tutte e tre le dimensioni, consentendo a ciascuna di perseguire i suoi interessi e scopi sulla base del proprio principio e con il proprio strumento. Ora «la verità è il principio-guida della teologia e delle indagini teologiche; la devozione e l’edificazione lo sono della liturgia; l’opportunità del governo. Lo strumento della teologia è la ragione; della liturgia la nostra affettività; del governo il comando e l’obbligazione. Inoltre, nell’uomo così come è, il ragionamento tende al razionalismo; la devozione alla superstizione e all’entusiasmo; il potere all’ambizione e alla tirannia»11. Come si può facilmente immaginare, è molto difficile adempiere i doveri connessi a ciascuna funzione singolarmente presa, e ancor più quelli imposti dalla necessità di coordinarle armonicamente, al fine di evitare che una prevalga a scapito delle altre. A ciò si aggiungono le difficoltà dovute al fatto che ciascun principio è soggetto a corruzione e ciascuno strumento può essere usato impropriamente. La missione della Chiesa è dunque veramente complessa, e il più delle volte diventa impossibile evitare del tutto le opposizioni. Tuttavia è compito della teologia prevenirle o, dopo che sono accadute, superarle. Essa, infatti, è «il principio fondamentale e regolativo dell’intero sistema della Chiesa. È commisurato alla Rivelazione, e la Rivelazione è l’iniziale e essenziale idea del cristianesimo. E’ l’oggetto, la causa formale, l’espressione dell’ufficio profetico e, in quanto tale, ha creato sia l’ufficio regale sia quello sacerdotale. Esso in un certo senso ha un potere di giurisdizione su quegli uffici, in quanto sue creazioni, e ai teologi è sempre richiesto di impegnarsi per mantenere nei giusti limiti l’elemento politico e quello popolare nella costituzione della Chiesa, elementi (...) molto più suscettibili di eccessi e corruzioni, e continuamente in lotta per liberarsi dei vincoli che sono veramente indispensabili al loro benessere»12.
Perciò l’assenza della teologia causa gravi preoccupazioni e pone la religione in pericolo più che mai. Infatti il sentimento religioso, sia emotivo sia profondo, necessita di un appoggio nell’intelletto, ed è proprio la formula che per il teologo contiene un dogma o una dottrina a fornire al fedele un oggetto per la sua devozione. In questo senso si capisce perché «la religione non regge senza la teologia»13. A questa lode bisogna affiancare alcune considerazioni svolte da una differente prospettiva. La teologia non è fine a se stessa, ma alla pratica del culto, alla vita dei fedeli e al retto esercizio del governo e all’azione della Chiesa. Di conseguenza «non sempre può procedere sulla sua via; è troppo dura, troppo intellettuale, troppo esatta per essere sempre giusta, ragionevole e compassionevole, e qualche volta ha un conflitto e subisce una sconfitta, o deve acconsentire a una tregua o compromesso a causa delle forze rivali del sentimento religioso o dell’interesse ecclesiastico»14. Le ricerche teologiche procedono dal principio della verità, e da essa la teologia trae il potere per dare effetto alle sue conquiste; ma «il principio dell’edificazione del popolo di Dio, vivificato da un’acuta sensibilità per i possibili scandali, nel campo della religione è tanto potente quanto la verità»15. Per «uno spirito devoto ciò che è nuovo e strano appare così repulsivo, spesso così pericoloso, come la falsità lo è per la mente scientifica. La novità è spesso un errore per coloro che non sono preparati ad accoglierla, a causa delle ripercussioni che ha nelle loro concezioni»16. Così, ad esempio, rafforzare un punto di vista teologico, come vogliono i teologi, potrebbe indebolire la religiosità di una grande parte del popolo; oppure difendere un campione di libertà ecclesiastica potrebbe incoraggiare le antipatie verso l’autorità. di loro e con estranei. In questo paragrafo, come già detto, seguo la Prefazione all’edizione del Prophetical Office of the Church, pubblicata nel vol I della Via Media nel 1877, dopo la sua conversione. In essa Newman rimette la dimensione profetica, e quindi la teologia, al suo giusto posto, in modo che nella Chiesa sia assicurato lo sforzo di purificazione e di rinnovamento continuo. 11 VM I, xli 12 VM I, xlvii-xlviii. 13 J. H. Newman, Grammatica dell’assenso, Milano-Brescia 1980, 73 (d’ora in poi, Gr). 14 VM I, xlviii-xlix 15 VM I, lii 16 VM I, lii 4
Ieri, come oggi, per lo più si ritiene che essere coraggiosi e compiere un’indagine approfondita dei fatti sia una grande virtù morale. Ciò è vero, dice Newman, ma bisogna ricordare che la ricerca della verità nel campo delle dottrine religiose deve essere sempre accompagnata dal timore dell’errore, del peccato. E ciò perché noi «non siamo in grado di sapere quanto lontano può farci deviare un piccolo errore di fede»17. La teologia perciò ha da conformarsi al desiderio della Chiesa, la quale «per la sua premura verso le anime non può sopportare gli improvvisi e violenti cambiamenti di pensiero, poiché gli uomini semplici e limitati si turbano e si avviliscono. Occorre muoversi tutti insieme e quindi il cambiamento, come i mutamenti geologici, deve essere molto lento»18. L’adattamento non significa però conformismo. Spetta proprio alla teologia predisporre la Chiesa alle novità, dibattendo le questioni dello sviluppo ed abituando gli spiriti dei cattolici all’idea del mutamento. La via maestra sta nel mezzo, ed è costituita da un prudente uso dei principi della disciplina dell’arcano e di economia. La verità è, sì, la regola, ma non necessariamente tutta la verità. Nella Chiesa, che include ampie e distinte classi di persone, «la dottrina sarà sempre e necessariamente in una certa misura sia dissimulata sia manifesta»19. Il rapporto tra la teologia e la fede dei fedeli non è a senso unico. La teologia non è soltanto la maestra accondiscendente con il discepolo in crescita (o, addirittura, eterno fanciullo); in un certo senso anch’essa è discepola dei semplici fedeli. Da alcuni esempi tratti dalla storia, Newman trasse la conclusione che «i bisogni [di pace, unità e santità] della Chiesa sono, all’occasione, più efficaci della teologia per preparare la via all’esatta formulazione della dottrina, e che si ottiene una certezza maggiore»20. Naturalmente, questo non significa una resa alle necessità pratiche, una loro assunzione acritica, tanto più che queste possono derivare da corruzioni della devozione genuina, dalle superstizioni. Si vuole dire invece che sotto la spinta di tali necessità si viene a conoscenza di nuovi principi, «i quali temperano l’applicazione di altri principi già noti, e così impediscono che il sistema funzioni in maniera troppo rigida e uniforme»21. Inoltre, come dimostra la storia dell’Arianesimo, per conoscere la tradizione apostolica, fu necessario fare ricorso alla fede del popolo di Dio22. Fede che è la voce della tradizione a proposito della dottrina che è la chiave di volta del pensiero cristiano, che supplì ad un’incertezza temporanea nelle funzioni della Chiesa docente e che suscitò persecuzioni e lotte nei confronti dei suoi sostenitori. La teologia non può dunque fare a meno di interrogare la testimonianza e di considerare il phronema profondamente radicati nel Corpo mistico; non tanto per acquisire delle novità quanto per meglio conoscere i limiti oltre i quali, non essendoci la verità, la sua ricerca si snaturerebbe e sfocerebbe nell’errore. Riguardo al servizio che deve rendere all’autorità ecclesiale per l’azione missionaria e il governo della Chiesa, la teologia deve lasciarsi ispirare da due convinzioni profonde, che anche l’autorità deve riconoscere e rispettare. Prima, essa è richiesta dalla «Scrittura [la quale se] ci insegna il dovere di credere, ci insegna anche con altrettanta chiarezza quel desiderio di amare la ricerca in cui consiste la vita della Schola. Essa attribuisce questo atteggiamento alla Vergine Maria (...) le cui parole
J. H. Newman, Parochial and Plain Sermons, I-VIII, London 1869-1870, II, 268 (d’ora in poi, PPS). J. H. Newman, Letters and Diares XXV, 31s. (d’ora in poi, LD). 19 VM I, lii. La dissimulazione di cui parla Newman, ovviamente, non mira a ingenerare l’inganno e il fraintendimento nell’ascoltatore, ma a evitarli. Inoltre, limitando la divulgazione della verità, si deve rimanere, sempre e con estrema attenzione, entro i limiti di un sostanziale rispetto per essa. 20 VM I, lxxxvi-vii 21 J. H. Walgrave, Newman the theologian, London 1960, 189. 22 Cfr. J.H. Newman, Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina, Brescia 1991, 90. Prima Newman precisa: «Non intendo affatto negare che la maggior parte dei vescovi fosse ortodossa nelle sue intime credenze, così come non nego che ci furono molti tra il clero che si schierarono con i fedeli e operarono come loro punto di riferimento e di guida. Tanto meno intendo negare che i laici furono iniziati alla fede dal clero e dai Vescovi e, ancora, non nego che una larga parte dei laici fosse ignorante e un’altra parte fosse stata corrotta da predicatori ariani», 89. 17 18
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rivolte all’angelo: ‘Come potrà avvenire questo’, mostrano che esiste un modo di interrogarsi sui fatti rivelati che si accorda con la fede più completa ed assoluta»23. Seconda, «l’infallibilità della Chiesa come una misura voluta dalla misericordia del Creatore allo scopo di conservare la religione nel mondo, ponendo un freno a quella libertà di pensiero, che naturalmente in se stessa è uno dei nostri maggiori doni, e salvandola dai suoi eccessi autodistruttivi»24. Teologia e autorità sono volute e procedono dalla stessa fonte: Dio. Entrambe sono al suo servizio per «provvedere a conservare nel mondo una conoscenza di Lui tanto precisa e definita da resistere alla forza dello scetticismo umano»25. Questa collaborazione non può avvenire però - come già intravisto - senza tensioni, utili e necessarie per la vita stessa della religione, considerata nella sua storia e dentro il mondo toccato dal suo influsso. La teologia dunque ha il compito di investigare, di far crescere la rivelazione rendendo chiaro ciò che è implicito, unificando le verità le une con le altre; ma deve farlo restando sottomessa alla fede, dal momento che solo questa fa acquisire l’oggetto delle sue ricerche. E a coloro che hanno ricevuto dall’alto il dono specifico per custodirla. Già da anglicano Newman era un convinto assertore del Christian Ministry, il potere che gli Apostoli ricevettero da Cristo di comunicare agli uomini individualmente, uno ad uno, il frutto della sua mediazione, cioè di trasmettere loro lo Spirito Santo. Questo potere di predicare, insegnare, riconciliare, assolvere e governare è ora posseduto dai loro successori. Si tratta perciò di un potere riservato ad alcuni e non trasmesso a tutti i cristiani. E’ un potere irriducibile alla conoscenza e all’abilità di insegnare: chiunque può essere eloquente, capace nell’insegnamento, potente nella Scrittura e istruito nelle vie del Signore, ma come Apollo, che era versato nelle Scritture, «deve venire dai servi del Signore che soli possono trasmettere lo Spirito; egli deve venire per ricevere il battesimo cristiano, nonostante la sua conoscenza del Vangelo»26. A ragione del loro esercizio della mediazione del dono della vita nuova, ad essi è affidato il governo ed è dovuta obbedienza. Dunque, il particolare ministero conferito agli Apostoli e poi trasmesso ai loro successori rende coloro che lo ricevono i soli canali della grazia. E come diventano i soli dispensatori della grazia dopo Cristo, così, dopo di lui, sono i soli governanti del popolo cristiano; e come trasmettono la vita, così richiedono obbedienza27. Data l’importanza e l’attualità del rapporto teologia-autorità, intendo presentarlo da altre due prospettive, molto rilevanti nel pensiero di Newman. 3. Teologia e autorità a servizio della Rivelazione con l’aiuto della ragione Le peculiarità del servizio che la teologia è chiamata a prestare all’autorità sono speculari sia alla dimensione sacramentale della Chiesa sia al suo presupposto teologale essenziale, il quale esige che essa abbia un fondamento distinto e che trascenda il suo strumento operativo, la ragione. Tale fondamento è la fede, accoglienza ferma da parte degli uomini di certe raccolte di verità o Credo a motivo di Cristo. Inoltre, sia la natura dinamica dell’oggetto (la dottrina rivelata) sia lo strumento della teologia richiedono un’istituzione che abbia l’autorità di garantire l’autenticità dello sviluppo della Rivelazione e di confrontarsi con le inclinazioni e i rischi a cui è soggetta la ragione nel mondo, così da essere in grado di porsi come la guida dataci da Dio per stare lontani sia da una interpretazione ristretta della Scrittura, sia da pregiudizi locali e da eccitamenti estemporanei28. J. H. Newman, Lo Sviluppo della dottrina cristiana, Bologna 1967, 355s. (d’ora in poi, Sv). Apologia pro vita sua, in J. H. Newman, Opere (a cura di A. Bosi), Torino 1988, 366 (d’ora in poi, Ap). Dietro questa affermazione c’è la consapevolezza che i pericoli annessi all’uso della ragione sono almeno altrettanto numerosi, grandi e efficaci quanto i vantaggi, e la teologia, come ogni altra scienza, da sola non è capace di prevederli e impedirli. 25 Ap, 366. 26 PPS VI, 199. 27 Cfr. PPS VI, 197s. 28 Cfr. PPS III, 108s. 23 24
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Nel paragrafo precedente, ho accennato alla rilevanza per la teologia della dimensione sacramentale della Chiesa e della fede quale suo fondamento; ora invece mi soffermo sul rapporto teologia e autorità riguardo allo sviluppo dottrinale (1) e all’uso della ragione (2). 3.1. Sviluppo, teologia e autorità In una pagina di lode piena di ammirazione, Newman canta la vittoria della stoltezza della predicazione sulla sapienza del mondo. Ne risulta una visione d’insieme dell’edificio dottrinale, a cui fa seguito la descrizione dello «spettacolo affascinante» di «come la grande idea, con la sua forza vivente (...) prende possesso di mille spiriti, senza lasciarsi dominare o limitare; essa è come un ‘fuoco ardente e chiuso’ nel loro cuore, che non riescono a contenere, cresce in loro, ed infine viene al mondo attraverso di loro, magari dopo molti anni o generazioni; sicché si può dire che la dottrina si serva dello spirito dei cristiani piuttosto di servire a quello»29. Questa «idea» è la Rivelazione, il Vangelo, le cui frasi, espressioni e immagini «possiedono una vita che si manifesta nel movimento, una verità che si rivela nella coerenza dell’insieme, una realtà feconda, una profondità che si inabissa nel mistero: poiché sono rappresentazioni di ciò che è reale»30. In quanto «idea» la Rivelazione è una realtà vivente, una verità complessa, inafferrabile, che può essere considerata e insegnata solo per aspetti o punti di vista che non la esauriscono mai. Non si può perciò affermare «che la lettera del NT o di un qualsiasi altro numero ipotizzabile di libri racchiude la delineazione di ogni forma possibile che il messaggio divino potrà assumere, quando è fatto conoscere ad una moltitudine di uomini»31. Per tale motivo, il cristianesimo è soggetto allo sviluppo. Per sviluppo poi si intende la germinazione e maturazione di una verità reale impressa nello spirito, un processo i cui aspetti terminali sono impliciti nell’idea da cui scaturiscono32. Di tale sviluppo la teologia è lo strumento principale. La ragione infatti è la risorsa per avanzare nella conoscenza. Ora, una volta ammesso lo sviluppo della Rivelazione intesa come «idea», ci si deve chiedere: Quali sono gli accrescimenti autentici? Quali sono principali e quali secondari? Come distinguerli dalle corruzioni e dalle innovazioni? Chi ha l’autorità per discernere? Dato il ruolo primario svolto dalla teologia, si sarebbe inclini ad affermare che spetta ad essa il diritto e il dovere di discernere gli sviluppi autentici dalle corruzioni e innovazioni. Ma non è così, perché nessun teologo ha una visione sintetica degli sviluppi ed è in grado di possederne in modo meticoloso e profondo la storia. Inoltre, ogni teologo è immerso nell’arena della storia, coinvolto negli avvenimenti e nelle controversie prese in esame, motivato da pregiudizi di diversa natura. La teologia, però, potrebbe addurre dei criteri e delle prove. Certo, sostiene Newman, ma la loro utilità riguarda soltanto le risposte alle obiezioni e il perseguimento delle decisione giuste, e non la garanzia della loro giustezza. Essi sono di giovamento per la verifica degli sviluppi in generale, ma non servono come guida alle menti dei singoli33. Si potrebbe anche attribuire questa autorità alla Scrittura. Ma «l’esperienza dimostra con certezza che la Bibbia non risponde ad uno scopo al quale non è stata mai rivolta. Può occasionalmente, costituire il mezzo della conversione di singole persone; ma un libro non può, dopo tutto, opporsi al vivo, scatenato intelletto dell’uomo» 34. Eppure, se Dio ha voluto conservare nel mondo una conoscenza di lui precisa e definita, deve aver pensato ad un’autorità dotata di una prerogativa definitoria, infallibile, cioè capace «di conoscere con certezza e nei particolari il preciso significato di ogni parte e del messaggio divino affidato dal Signore agli Apostoli»35. L’unica ad avanzare questa pretesa è SU II, 702. SU XV, 703. 31 Sv, 64 32 Cfr. Sv, 44 33 Cfr. Sv, 85.87. 34 Ap, 366. 35 Ap, 370. 29 30
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la Chiesa cattolica, e Newman, ormai cattolico, non soltanto non ha difficoltà ad accettare l’idea, ma la ritiene anche in armonia con le esigenze del suo intelletto36. Riassumendo, nella prospettiva dello sviluppo della Rivelazione spetta alla teologia, mediante l’applicazione della ragione alla fede, il compito di investigare, di accrescere le conoscenze esplicitando quello che era implicito, connettendo le verità. In questa sua azione, però, la teologia è debitrice alla fede, che sola le mostra il suo oggetto. Questa fede è un depositum, non statico ma vivo, in crescita nella storia, a contatto con culture e persone, soggetto a sviluppi autentici ma anche a corruzioni e innovazioni. Ora, per preservarlo da queste ultime, Dio ha predisposto un’autorità infallibile, che ne assicura la conservazione nello sviluppo. Essa non è deputata ad investigare, ma ad apporre il sigillo di autenticità alle conclusione cui è giunta la ricerca teologica. 3.2. Ragione, teologia e autorità Seguendo Newman, intendo mostrare qual è il rapporto teologia-autorità a motivo della ragione. Newman - dopo che ebbe superato un certo pessimismo di cui sono testimoni i primi Sermoni universitari - ha mantenuto un atteggiamento di grande equilibrio e apprezzamento per la ragione, dovuto al fatto che essa è stata formata e donata dalla Parola di Dio, vale a dire dal Figlio «in quanto media tra il Padre e tutte le creature, dona loro l’essere, li plasma, dà al mondo le sue leggi (...) e rivela ad esse a tempo debito la conoscenza della volontà di Dio»37. Essa porta l’impronta del Verbo e, perciò, è in grado di assolvere le funzioni di mediazione e di rivelazione della volontà del Padre. La ragione «ci permette di arrivare a conoscere cose che oltrepassano la sfera dei sensi: esseri, fatti, eventi. Essa non si limita a darci informazioni soltanto sulle cose materiali, o su quelle immateriali, o soltanto sulle presenti, o sulle passate, o sulle future; anche se la sua forza è limitata, la sua sfera d’azione non ha limiti, se la si considera in quanto facoltà. Essa giunge fino ai confini dell’universo, e, al di là di questi, al trono di Dio; da ogni parte ci porta conoscenze che, certe o incerte che siano, perfette o imperfette, sono pur sempre conoscenze»38.
Inoltre, poiché lo spirito umano esige ordine e metodo, la ragione analizza i processi con i quali essa svolge il suo esercizio, cercando di rapportarli l’uno all’altro e di scoprire i principi fondamentali che li regolano. Essa è capace di argomentare e di criticare le sue argomentazioni. Applicata alla fede, la ragione ha un ruolo importante e insopprimibile da svolgere, e proprio a vantaggio dell’autorità: preparare con il suo lavoro intenso e vario i suoi interventi. Autorità e ragione sono insieme alleate e avversarie, avanzano e si ritraggono alternativamente, come il flusso e riflusso della marea. Costituiscono «una vasta comunità di esseri umani, di caparbie intelligenze e di forti passioni, unificate dalla bellezza e dalla maestà d’una forza sovrumana a costituire quella che si può chiamare una grande scuola di correzione o di addestramento, non un ospedale o una prigione»39. Su questa collaborazione drammatica e fruttuosa gravano alcuni limiti e condizionamenti della ragione, derivanti sia dal fatto che tutte le sue conoscenze sono ottenute in modo indiretto e non immediato, sia dal peccato individuale e - diremmo oggi strutturale, quale si manifesta nell’organizzazione e nei sistemi di valori e significati del mondo. Mi soffermo su questa seconda causa. Nell’uomo peccatore, la ragione tende a prescindere dalle qualità morali e religiose, a ridurre tutto a conoscenza, e questa alla misura della propria comprensione. Quando ciò accade anche nei confronti delle verità rivelate, queste si sottraggono alla determinazione Cfr. Ap, 366. PPS II, 30. 38 SU, 619 39 Ap, 373. 36 37
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razionale e non si prestano a rivelarsi a nostro piacimento e a nostra volontà: «Tutte le loro tracce spariranno dalla Scrittura, come se non vi fossero mai state. Svaniranno inavvertitamente come la luce al tramonto, e noi resteremo al buio»40. Inoltre, sprovvista di qualità morali, la ragione è esposta all’inganno delle passioni e dei sentimenti, i quali, come spesso sappiamo riconoscere negli altri, sono particolarmente capaci di camuffarsi in ragioni, motivazioni e principi profondi per legittimare e sostenere le decisioni. Se non è vigile, la ragione può essere asservita dal mondo, cioè dalla società visibile degli uomini infetti dal peccato e che propagano questa corruzione all’intero sistema. Infatti esso se ne serve al fine di presentare i modi di pensare e di agire che vi dominano «come modi razionali; di più, come gli unici razionali»41. La ragione in se stessa è buona, «ha per vero oggetto la verità e, se rettamente usata, conduce a credere in Dio», ma «da un punto di vista concreto e storico (...) in religione tende all’incredulità pura e semplice. Non c’è verità, per quanto sacra, che a lungo andare possa resisterle»42. L’unico baluardo è la Chiesa cattolica con il suo magistero, il quale è lo «strumento efficace, nello svolgersi delle vicende umane, per colpire duramente e respingere l’immensa energia dell’intelletto aggressivo, capriccioso e infido»43. In breve, le ambiguità e debolezze dello strumento della teologia giustificano dal basso la prerogativa dell’autorità di esercitare il controllo sullo sviluppo della fede. Questa, è vero, si serve della teologia, come pure della pratica religiosa dei fedeli, ma preserva la sua libertà riguardo ad esse, fino al punto di sostituirle44. La teologia è sottomessa all’autorità a causa del suo strumento, il quale pur essendo prezioso, indispensabile e capace di autocritica, nel mondo, quando applicato alla fede, manca di sufficiente libertà da condizionamenti esterni e da passioni interne, e tende al razionalismo. Conclusione Al termine di questa esposizione si possono riprendere gli elementi principali emersi e delineare un’immagine del teologo. Un tratto essenziale e caratteristico di questa figura mi pare essere quello di servo nella Chiesa e per la Chiesa. Il teologo è investito di un compito che si caratterizza come un servizio, in quanto non ha per scopo principale l’utilità spirituale personale, ma è indirizzato a sostenere e purificare la devozione e la testimonianza dei credenti, ad accrescere la conoscenza della fede e ad offrire un contributo indispensabile a coloro che devono esercitare l’autorità. Egli perciò non compie la sua attività semplicemente perché mosso dalla curiosità e dalla sete di conoscere di più la Rivelazione per amare di più il Signore - questo desiderio deve essere comune ad ogni cristiano -, ma perché consapevole di essere investito di un compito regolativo e fondamentale per la Chiesa, la cui mancanza costituirebbe uno dei pericoli più gravi per la religione. L’importanza del ruolo e la potenza dello strumento a sua disposizione potrebbero inorgoglirlo, se non fosse che egli è con-partecipe dell’esperienza dell’azione storica delle Persone divine, e che la sua attività è animata e guidata dalla loro accondiscendenza, prudenza e abnegazione nei confronti dell’umanità, quali si attuano nella Chiesa. Altri tratti riguardano l’umiltà, la prudenza e l’attenzione ai fruitori del suo servizio. Essi sgorgano da un cuore il più semplice o unificato possibile e presuppongono l’equilibrio tra ragione e affettività. Questo a sua volta dipende dalla disponibilità e capacità del teologo di partecipare alla vita liturgica, la quale più di ogni altro ufficio ecclesiale coinvolge e edifica l’affettività. Potrà un teologo dall’affettività religiosa rattrappita porsi in maniera PPS VI, 340. J. L. ILLANES, Historia y sentido. Estudio de la teologia de la historia, Madrid 1997, 215. 42 Ap, 365 43 Ap, 367. 44 Cfr. J.H. Walgrave, Newman..., 194 40 41
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appropriata a servizio dell’ufficio sacerdotale della Chiesa e della edificazione e devozione dei fedeli? Altro aspetto della figura del teologo è un’acuta sensibilità di coscienza. Ciò è richiesto prima di tutto dalla natura del suo oggetto e poi dalla finalità del suo servizio. Sia la ragione sia la coscienza sono informatori divini, ma solo quest’ultima è per Newman la «grande maestra in religione che portiamo in noi»45. Le pagine rivelate interpellano i nostri timori, più che la nostra ragione46. Egli deve perciò essere dotato del discernimento necessario per distinguere quando a spingerlo è un imperativo della ragione, e quando uno della coscienza, se a muoverlo è soltanto la chiarezza razionale o anche il senso del dovere. Solo se prevale in lui il senso del dovere, egli riconosce e adempie il diritto del Creatore e si circonderà, nel compimento della ricerca, del rispetto, della venerazione e del timore che contraddistinsero i primi Padri. Poiché adopera in modo del tutto particolare quale strumento la ragione, il teologo deve essere ben consapevole che «nel mondo, la ragione è posta contro la coscienza» a causa di un processo che «inizia in noi quando la fanciullezza e l’adolescenza passano e viene il tempo di entrare nella vita. Prima di quel tempo confidavamo nel senso del dovere divinamente illuminato e nell’implicito sentimento del giusto, e sebbene trasgredivamo continuamente, e perciò indebolivamo questa guida interiore, almeno non mettevamo in questione la sua autorità. (...) Ma quando le nostri menti divennero più abili e capaci, e il mondo apparve davanti a noi, allora, in proporzione ai doni di intelletto con i quali Dio ci aveva onorato, venne la tentazione di incredulità e di disobbedienza. Poi venne la ragione, guidata dalla passione, a combattere contro la nostra conoscenza migliore»47.
Pertanto dal teologo si esige la consapevolezza delle opportunità e dei rischi connessi con l’esercizio della ragione, e soprattutto che sappia congiungere l’uso della ragione e l’ascolto della coscienza, in quanto entrambe sono divinely-given informants, ma non allo stesso modo e nello stesso ordine. In assenza di tale accortezza e sensibilità morale l’uso dello strumento si rivolta contro l’utente: la ragione si perverte, inganna e spinge a mettere in mostra una presunta originalità. Infine, perché possa svolgere appropriatamente il suo servizio - regolare e armonizzare i munera Ecclesiae -, il teologo deve prendere sul serio la possibilità che anche l’autorità incorre nei rischi, soprattutto quelli dell’ambizione e del potere. Pertanto il servizio autentico alla Chiesa è ben altro che il servilismo verso l’autorità, e il rispetto e l’ossequio veri si accompagnano sempre con la franchezza e la prudente protesta. «Gli amici più sinceri della nostra Chiesa sono quelli che hanno il coraggio di dire quando i suoi reggitori sbagliano, ed a quali conseguenze si vada incontro»48. Gr, 241. Cfr PPS I, 320 47 PPS I, 219s. 48 Ap, 289. La frase, che fu pronunciata da Newman prima della conversione e che si riferisce alla Chiesa Anglicana e ai suoi vescovi, esprime bene la schiettezza e la dedizione sincera nella quotidiana ricerca della verità che lo contraddistinsero anche da cattolico, essendo egli consapevole della distinzione tra la dottrina stabilita dalla Chiesa e la varietà legittima di idee e di interpretazioni teologiche. 45 46
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