Schiavo - La Vera Storia Di Camp David

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GUERRA SANTA IN TERRA SANTA

LA VERA STORIA DI CAMP DAVID

di Alessandra SCHIAVO

Una ricostruzione ragionata dei negoziati con cui il presidente Clinton tentò inutilmente di passare alla storia. I progressi e i punti di attrito fra israeliani e palestinesi. Lo scontro delle mentalità e la diversa percezione della storia.

D

I FRONTE ALLA REALTÀ DI UN CONFLITTO

che si protrae ormai da un secolo e che negli ultimi tempi è divenuto ancora più drammatico, è doveroso chiedersi a che punto esattamente il «vaso» si è rotto, per tentare di comprendere quando, se, e su quali basi sarà eventualmente possibile tornare a rimetterne insieme i cocci. Sui negoziati di Camp David sono state già dette molte cose. Probabilmente troppe. Perché subito dopo il loro fallimento, il 25 luglio 2000, ciascuna parte si è preoccupata di addossare all’altra la responsabilità di quanto avvenuto. Dato che anche queste trattative si sono svolte, così come quelle di Oslo I e Oslo II 1, secondo il principio «nothing is agreed until everything is agreed» 2, non sono mai stati pubblicati verbali o minute cui oggi si possa fare riferimento per ricostruire gli esatti confini della verità. Certo è che per Israele le offerte negoziali alla parte palestinese, soprattutto quelle riguardanti Gerusalemme, lasciavano scoperti molti dei punti più sensibili della sua storia, cultura e società. È 1. Oslo I è la definizione con cui viene comunemente indicata la Dichiarazione dei princìpi (Dop), firmata nel giardino della Casa Bianca il 13 settembre 1993. Si trattava di una svolta epocale: l’Olp, grazie al riconoscimento di Israele, smetteva di essere un’organizzazione terroristica per il mondo intero; il «diritto ad esistere» di Israele veniva riconosciuto dai palestinesi, il popolo al centro del conflitto mediorientale, che così offriva allo Stato ebraico la chiave di accesso al mondo arabo. Venivano inoltre poste le premesse per la nascita di un’Autonomia nazionale palestinese (Anp) nei Territori, e per il rientro di Arafat a Gaza dopo lunghi anni di esilio a Tunisi. L’accordo di Oslo II è invece l’intesa (conclusa il 28 settembre 1995) che ha regolato le relazioni tra le due parti nel cosiddetto «periodo interinale», prima cioè che iniziassero le trattative finali sulle questioni più delicate: Gerusalemme, rifugiati, confini, risorse idriche, status della «futura entità palestinese» (vale a dire, nascita o meno di uno Stato sovrano palestinese). 2. Si tratta di un principio basilare costante in negoziati tanto complessi, confermato anche pubblicamente dallo statement emanato dal presidente Clinton a conclusione del vertice: «Le parti si sono impegnate in discussioni senza precedenti, che toccano le questioni più sensibili che le dividono e per lungo tempo considerate off limits. Secondo il principio operativo per il quale nulla è concordato fin quando tutto non è concordato, esse non sono certo vincolate a nessuna proposta discussa durante il summit. In ogni caso, anche se non è stata raggiunta un’intesa, sono stati registrati passi avanti significativi su questioni cruciali» (Reuters, 25/7/2000, h. 19.00).

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a questo punto che il vaso ha cominciato a scheggiarsi in maniera irreparabile: gli israeliani non hanno compreso perché i palestinesi non hanno accettato le loro proposte neanche come base di negoziato, tanto da astenersi dal fare controproposte. Vi sono casi in cui è possibile affermare con ragionevole certezza cosa sia avvenuto, perché risulta da testimonianze convergenti sia di parte israeliana che palestinese, sia pure animate, ovviamente, da scopi diametralmente opposti. In un suo libro 3, Shlomo Ben Ami, già ministro degli Esteri e principale negoziatore israeliano a Camp David oltre al primo ministro Ehud Barak, racconta che quando si discuteva del problema di Gerusalemme, Clinton chiese al negoziatore palestinese Sa’eb ’Arı¯qa¯t di andare a riferire ad Arafat alcune sue proposte e di «chiedergli una risposta entro un’ora; se non accetta, voglio delle controproposte». Queste ultime, in realtà, «non arrivarono mai», tanto che quella notte segnò la fine del vertice. Lo stesso episodio viene raccontato più o meno negli stessi termini – ma con l’obiettivo di «lodare» l’intransigenza di Arafat che ha «resistito alle pressioni» del gigante americano – da Haniya, uno dei consiglieri del rais palestinese presenti al vertice 4: «Clinton chiese ad Erekat di portare le proposte al suo leader e di tornare con una risposta. Posso dare una risposta ora, disse Erekat immediatamente: il presidente Arafat mi ha dato istruzioni di non accettare niente di meno della sovranità palestinese su tutte le aree di Gerusalemme occupate nel 1967, e soprattutto su alHara¯m al-Sharı¯f» (la Spianata delle Moschee). Clinton ribadì di presentare le proposte al presidente Arafat e tornare da lui. Le proposte, continua Haniya, non richiesero molta discussione: i palestinesi decisero di scrivere una lettera a Clinton per sottolineare l’importanza dei termini di riferimento internazionali 5 come base di ogni accordo. L’insistenza palestinese sulla legalità internazionale – che secondo l’interpretazione più estensiva richiederebbe il ritiro integrale da tutti i Territori occupati nel 1967, compresa Gerusalemme Est – ha indispettito gli israeliani, che argomentano che Arafat non avrebbe potuto in buona fede presentarsi a Camp David pensando che avrebbe potuto ottenere la soddisfazione integrale delle proprie richieste: altrimenti, che motivo ci sarebbe stato di negoziare? Nel suo libro Ben Ami sfoga tutta la sua delusione per l’esito dei negoziati, accusando Arafat di essere «incapace di dire: siamo giunti a un punto delle trattative dove gli israeliani non possono dare di più; è dunque necessario che l’accordo si faccia ora; non sono soddisfatto, ma non è possibile avere di più». Ed aggiunge: «Tutte le grandi decisioni storiche sono

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3. SH. BEN AMI, Quel avenir pour Israel?, ed. Puf, Presses Universitaires de France, 2001, p. 120. 4. ’Akram Haniya, redattore capo del quotidiano di Ra¯mallah al- Ayya¯m, ha pubblicato su quest’ultimo, dal 29 luglio al 10 agosto 2000, «The Camp David Papers», una vera e propria cronistoria del vertice secondo l’ottica palestinese. L’episodio citato è descritto alle pp. 96-97. 5. Il riferimento è in particolare alle risoluzioni dell’Onu 242 e 338. Si noti comunque che la prima non è affatto oggetto di interpretazione unanime da parte della comunità internazionale. Secondo la versione in francese, infatti, essa richiede un ritiro integrale da tutti i Territori occupati da Israele nel 1967 («des territoires occupés»); mentre secondo la versione in inglese, più favorevole agli israeliani, essa richiede un ritiro «da» e non «dai» Territori occupati.

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state assunte nell’insoddisfazione generale, perché non sono necessari dei grandi leader per prendere decisioni facili. Malgrado avessimo raggiunto un punto che toccava l’equilibrio stesso della società israeliana, Arafat continuava ad avventurarsi in campi in cui nessun governo israeliano avrebbe accettato di seguirlo». Dopo queste premesse, Ben Ami afferma che «Arafat rappresenta al contempo la soluzione ed il problema» e di vedere «anzi più chiaramente il problema che pone Arafat che la soluzione che potrebbe apportare»; «pensavo che sarebbe stato possibile trovare un accordo ragionevole, ma con Arafat è impossibile» 6. I dubbi sull’affidabilità di Arafat come partner di pace cominciano quindi, proprio all’indomani di Camp David, ad accomunare tanto la sinistra che la destra israeliana, sia pure con la consueta differenza di accenti, per poi accrescersi con l’aumentare della violenza sul terreno e della tensione nell’area. Sulle trattative di Camp David hanno anche pesato, agendo come condizionamenti psicologici, tre «precedenti» ritiri israeliani: quello integrale dal Libano meridionale che Israele aveva effettuato il 25 maggio (vale a dire appena poche settimane prima del vertice), richiamandosi esplicitamente alla legalità internazionale e alla risoluzione 425 dell’Onu; l’offerta di un ritiro pressoché totale dal Golan che lo stesso Barak aveva proposto all’anziano presidente Assad durante le trattative di Ginevra svoltesi pochi mesi prima, dal 3 all’11 gennaio 2000 7; il «precedente» del ritiro integrale dal Sinai che Sadat aveva ottenuto nel 1978 nella stessa residenza di Camp David da un leader della destra israeliana. Inoltre i palestinesi ribattono alle argomentazioni israeliane ricordando che a Ta¯ba¯ (la località egiziana dove dal 22 al 27 gennaio 2001 si svolsero nuove trattative) 8, gli israeliani si spinsero oltre, «migliorando» il loro pacchetto di proposte: non era dunque vero che a Camp David essi avessero offerto il massimo, ed aveva errato Barak a presentare la propria proposta come il massimo limite negoziale. È probabile che sul fallimento del vertice abbiano giocato anche la diversa personalità e formazione culturale dei due leader, che non riuscirono mai a stabilire un legame diretto: Barak, da buon generale israeliano noto per la sua propensione a decidere a volte in maniera autocratica, avrebbe condotto le trattative secondo un’impostazione del genere «take it or leave it»; Arafat, da leader arabo e protagonista anche dei precedenti negoziati israelo-palestinesi, si attendeva negoziati di una lunghezza proporzionale alla loro complessità. Credo che per molto tempo le diplomazie americana ed europea continueranno ad interrogarsi su come sia stato possibile non riuscire ad anticipare o immaginare la profondità delle sensibilità palestinesi su alcuni punti, pure cruciali, del negoziato. Questo articolo illustrerà le ragioni del loro rifiuto, non perché si voglia 6. SH. BEN AMI, op. cit., pp. 100-103. 7. Sulle ragioni del fallimento di quel vertice, anch’esso presieduto da Clinton, si veda l’articolo di A. SCHIAVO sulla Rivista di Studi Politici Internazionali, anno 2001, n. 271 pp. 431-444. 8. Le trattative di Ta¯ba¯ permisero effettivamente di compiere ulteriori e significativi passi in avanti, soprattutto sulle questioni di Gerusalemme e dei confini/insediamenti (sia sul fronte della maggiore contiguità dei territori del futuro Stato palestinese che dell’«assottigliamento» delle aree attorno agli insediamenti ebraici).

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prendere posizione tra le parti, ma perché esse sono meno note al grande pubblico. Col senno di poi, anzi, si può affermare che i palestinesi avrebbero dovuto continuare a negoziare, accettando come base le proposte americane (o israeloamericane); che si sarebbe dovuto rinviare a nuove tornate negoziali, evitando di rivelare al mondo il naufragio delle trattative e di provocare in tal modo reazioni di rabbia e sfiducia nelle due opinioni pubbliche; che il vertice avrebbe dovuto essere maggiormente preparato. L’annuncio di quest’ultimo colse effettivamente di sorpresa il mondo intero: esso venne convocato dagli americani non appena Clinton ebbe notizia dell’ampiezza del compromesso 9 che Barak era disposto a fare su Gerusalemme. Trovata la soluzione su questo punto – si riteneva – il resto dell’accordo sarebbe seguito quasi naturaliter. Ma così non è stato. Hanno sbagliato i consiglieri di Clinton a non ascoltare i suggerimenti di un Arafat che mostrava di non voler andare a Camp David tanto presto «perché i tempi non erano maturi», o si è verificata una svolta imprevista, e la cui portata non è stata colta, nell’Autorità palestinese e nella sua leadership? Anche riguardo alla volontà di Arafat di recarsi negli Usa, le versioni israeliana e palestinese paradossalmente coincidono: Ben Ami descrive un Arafat recalcitrante che dimostrò in un loro incontro a Na¯blus di dover «essere convinto a recarsi a Camp David» 10; nei suoi Papers’ Akram Haniya scrive: «Gli americani non hanno mai ascoltato i suggerimenti palestinesi. Nel giugno 2000 arrivarono nella regione Dennis Ross e Madeleine Albright; le discussioni si concentrarono sulla possibilità di convocare un vertice trilaterale. La risposta palestinese fu chiara e ferma: le condizioni non sono mature. (…) Il problema palestinese è molto più complesso per poter essere risolto in questo modo; sono necessarie parecchie settimane di intensi negoziati preparatori prima di un summit. Un vertice in questa fase sarebbe votato al fallimento. (…) Ci sono “linee rosse” palestinesi ad un possibile compromesso che non possono essere valicate. (...) Arafat si tenne costantemente in contatto telefonico con gli altri leader arabi» 11. L’obiettivo – afferma lo stesso Haniya – era quello di assicurarsi il loro sostegno per sottrarsi alla «trappola israelo-americana» «finalizzata a distruggere l’essenza dei diritti nazionali palestinesi». La ricostruzione degli avvenimenti potrà aiutare il lettore ad elaborare un giudizio autonomo. Decidere del futuro di Gerusalemme significa affrontare quattro grandi questioni: l’avvenire dei quartieri arabi orientali, esposti sia a nord che a sud; quello dei «quartieri» palestinesi situati nel cuore di Gerusalemme; quello della Città Vecchia di Gerusalemme; quello, infine, estremamente sensibile della disciplina dei

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9. I dettagli del compromesso proposto saranno illustrati in seguito. Per ora basterà ricordare che esso effettivamente infrangeva per la prima volta in maniera ufficiale (vale a dire nel corso di trattative condotte dallo stesso governo israeliano, e non – come nel caso dell’accordo informale Beilin-Abu Mazen del 1995 – da negoziatori senza mandato) il «tabù» di «Gerusalemme, eterna, unita ed indivisibile capitale di Israele». 10. SH. BEN AMI, op. cit., p. 100. 11. «The Camp David Papers», pp. 9-10, 59 e 77.

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Luoghi santi. A Camp David gli israeliani hanno comunicato di non aspirare ad annettere i quartieri arabi situati a nord-est e sud-est. In realtà si tratta di agglomerati che un tempo erano veri e propri villaggi palestinesi, oramai completamente inglobati nella città fino al punto di diventarne «quartieri», a causa dell’enorme sviluppo edilizio; i loro nomi sono ’Issawiyh, Shu’fa¯t, Bayt Hanı¯na, Qalandiya, Turı¯, Umm Ta¯ba¯, West Sawahra, Kafr ’A¯qab e Semı¯ra¯mı¯s. A questi quartieri si aggiungevano i campi profughi e di beduini che si trovano all’interno dell’area municipale di Gerusalemme (così come ridisegnata dagli israeliani dopo la guerra dei Sei giorni). Non sussisteva del resto nessuna ragione storica, né religiosa, per integrarli nella Gerusalemme «ebraica» 12, ma era la prima volta che gli israeliani comunicavano in via ufficiale 13 e senza equivoci la loro disponibilità a riconoscere una sovranità palestinese su aree della città. Per i palestinesi era un importante passo in avanti, ma essi sottolineavano come in realtà si trattasse di quartieri che non facevano parte dei confini municipali di Gerusalemme prima della guerra dei Sei giorni: la sovranità palestinese su tali villaggi «doveva» dunque essere riconosciuta non nell’ambito del negoziato sulla città santa (al-Quds), ma nell’ambito del più ampio ritiro israeliano dalla Cisgiordania. Per converso, gli israeliani chiedevano di «conservare» la sovranità sui quartieri palestinesi ubicati nel centro di Gerusalemme (come Wa¯dı¯ al-Janz, Silwa¯n, Shaykh Jarra¯h, Suwwana, Ras al-’Amu¯d, ma anche, vicinissimo alla Città Vecchia, la strada Sala¯h al-Dı¯n ed il quartiere in prossimità della porta di Damasco). Su queste aree i palestinesi si sarebbero visti riconosciuta solo un’«autonomia funzionale», vale a dire l’esercizio di funzioni di tipo eminentemente amministrativo. È stato questo uno dei motivi del «rifiuto» palestinese: si tratta di aree dove si sono sì installati dei coloni ebrei, ma che restano a stragrande maggioranza di etnia araba. Pertanto, se a Camp David si fosse potuto applicare il «criterio etnico» indicato da Clinton cinque mesi più tardi nei suoi «parametri» 14, tali quartieri avrebbero dovuto essere compresi tra quelli trasferiti alla sovranità palestinese. Afferma infatti l’ex presidente Usa senza mezzi termini: «Primo, Gerusalemme dovrebbe essere una città aperta ed indivisa, con garanzie di libertà di accesso e di culto per tutti. Dovrebbe comprendere le capitali internazionalmente riconosciute di due Stati, Israele e Palestina. Se12. Sono eloquenti le affermazioni di Ben Ami a questo proposito: «Quando gli ebrei hanno pregato per 2000 anni di ritornare a Gerusalemme, non era certo a Koufar Hakeb (nome ebraico di Kafr ¯ qab), Semı¯ra¯mı¯s o Wa¯dı¯ al-Janz che pensavano. Parlavano della Gerusalemme “ebraica”. (…) Se l’ac’A cordo fosse stato concluso (sulle basi proposte dagli israeliani, n.d.a.) Israele avrebbe avuto come capitale internazionalmente riconosciuta la Gerusalemme ebraica più estesa della sua storia. Era la Gerusalemme di cui sognava Ben-Gurion nel suo famoso discorso alla Knesset del 1949» (p. 122). 13. Per il pacchetto negoziale proposto dagli israeliani, si vedano sia il citato libro di Ben Ami (pp. 113-114) che «The Camp David Papers» (p. 50). 14. Si tratta delle proposte per un’eventuale ripresa delle trattative che Clinton rese pubbliche, in occasione di un suo intervento all’Israeli Policy Forum di New York il 7 gennaio 2001, pochi giorni prima della sua uscita di scena. I parametri, elaborati personalmente dal presidente sotto la propria responsabilità, rappresentano i criteri che a suo giudizio avrebbero dovuto ispirare la pace finale tra israeliani e palestinesi, ma non i termini esatti dell’accordo, rimesso alla valutazione diretta delle parti. I parametri sono stati integralmente pubblicati sul quotidiano Ha’aretz del 9 gennaio 2001 (vedi anche www.haaretzdaily.com).

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CAMP DAVID LUGLIO 2000 Territori autonomi palestinesi (zone A e B) Territori proposti per lo Stato palestinese Villaggi palestinesi annessi Territori annessi da Israele

CISGIORDANIA

Tulkarim

Zone di sicurezza israeliane in progetto Colonie israeliane e progetti d’estensione

Qalqiliya

Nablus

Municipio di Gerusalemme dopo la guerra del 1967 Linea verde (frontiere del 4 giugno 1967)

Mar Mediterraneo

Ramallah Gerico

ISRAELE

Gerusalemme Ovest Gerusalemme Est Betlemme

Hebron

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Fonte: Proposta israeliana secondo l’Orient House palestinese

Mar Morto

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condo, cosa è arabo dovrebbe essere palestinese, giacché per quale motivo Israele dovrebbe volere governare in eternità le vite di centinaia di migliaia di palestinesi?». Quanto alla Città Vecchia, Clinton aveva proposto di dividerla in due: i quartieri cristiano e musulmano ai palestinesi; quelli ebraico ed armeno (contiguo a quello ebraico) agli israeliani. Era la prima volta che l’eventuale spartizione della Città Vecchia veniva posta sul tavolo delle trattative ad un livello così alto. Barak rispose che avrebbe accettato tale proposta se Arafat l’avesse accolta come base di discussione. Ma i palestinesi insistettero – come si è già osservato – sul rispetto della legalità internazionale, ai sensi della quale effettivamente l’intera Gerusalemme Est (quindi l’intera Città Vecchia) è territorio occupato. Questo provocò pari insoddisfazione e delusione israeliane, anche perché l’adozione integrale del principio del rispetto della legalità internazionale comporterebbe che anche il quartiere ebraico della Città Vecchia, abitato esclusivamente da persone di confessione ebraica, venisse trasferito alla sovranità palestinese 15 (in contrasto dunque con gli stessi parametri di Clinton). È ancora vivo d’altronde in Israele il ricordo di quanto avvenne dopo che, il 28 maggio 1948, Gerusalemme Est venne occupata (perché ai sensi del diritto internazionale anche in questo caso occorre parlare di «occupazione») dal Regno Hashemita di Giordania: in questo settore l’armistizio israelogiordano del 3 aprile 1949 non è mai stato rispettato. L’intesa prevedeva, tra l’altro, l’istituzione di una commissione congiunta per assicurare il libero accesso ai Luoghi santi, alle istituzioni culturali ebraiche sul Monte Scopus e al cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi. La commissione congiunta non si riunì mai; i giordani ignorarono il loro impegno a garantire libero accesso ai luoghi di culto ebraico; il cimitero sul Monte degli Ulivi è stato dissacrato (come sa bene chi conosce Gerusalemme, e ha visto la strada che lo taglia in due). La richiesta israeliana di mantenere la sovranità anche sul quartiere armeno (cristiano) – che ha destato preoccupazione tra le comunità cristiane in quanto spezzerebbe la continuità dei quartieri cristiani della Città Vecchia – veniva argomentata con la necessità di controllare, per motivi di sicurezza, l’accesso al quartiere ebraico confinante. Infine, il Monte del Tempio/Spianata delle Moschee: il sito dove si concentra la più alta carica simbolica ed emotiva delle tre religioni monoteistiche. Il presidente Clinton suggerì (molto probabilmente dopo aver opportunamente sondato gli israeliani) che gli israeliani ne detenessero la sovranità, ma che la delegassero al Consiglio di sicurezza dell’Onu, il quale a sua volta avrebbe attribuito all’Autorità palestinese il ruolo di custode dei Luoghi santi islamici gerosolimitani. La delega all’Onu doveva servire a rassicurare i palestinesi, i quali in questo modo non sarebbero stati costretti a rispondere ad un’autorità superiore israeliana. Ma Arafat non era pronto a riconoscere alcuna forma di sovranità israeliana, neanche se svuotata di contenuto effettivo. Israele, da parte sua, era disponibile a discutere di qualsiasi ipotesi di compromesso, ma non a transigere sul principio del riconosci15. S. HATTIS ROLEF, Political Dictionary of the State of Israel, Ed. The Jerusalem Publishing House, p. 164.

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mento di qualche forma di sovranità israeliana sui luoghi fulcro dell’identità nazionale ebraica. Per evitare il naufragio delle trattative, Clinton ed i suoi collaboratori ricorsero alle formule più fantasiose 16. Ad esempio, quella di «assortire» la delega a favore dell’Onu con un’associazione del Marocco (che presiede la Conferenza islamica su Gerusalemme) a tale esercizio, a garanzia degli interessi musulmani ed allo scopo di «coprire» Arafat di fronte alle prevedibili critiche degli Stati arabi più radicali e contrari al processo di pace. Oppure, quella indubbiamente bizzarra di pervenire ad una definizione «verticale» della sovranità: ai palestinesi la sovranità su quanto si trova «sopra» il suolo della Spianata (vale a dire le Moschee), e agli israeliani la sovranità su quanto si trova «sotto» il suolo della Spianata (vale a dire le rovine del Secondo Tempio). O ancora, quella che avrebbe previsto una «custodia sovrana» palestinese su al-Hara¯m al-Sharı¯f ed il riconoscimento di una «sovranità residuale» israeliana sullo stesso luogo 17. Ma nessuna di queste formule rocambolesche fu sufficiente ad evitare il collasso delle trattative. In linea generale, i palestinesi argomentavano che le soluzioni proposte (che essi giudicavano «israelo-americane»), lungi dal portare la pace e fare di Gerusalemme una «città aperta», l’avrebbero frammentata in una serie di sistemi politici e giuridico-amministrativi diversi, creando le premesse per il perdurare di una situazione di continua tensione 18. Su Gerusalemme le versioni israeliana e palestinese in merito alle posizioni tenute dalle parti risultano abbastanza concordanti. Più fluido appare invece lo sviluppo negoziale in materia di confini. Pare comunque di poter affermare (perché su questo i racconti sono sufficientemente speculari) che gli israeliani proposero di trasferire alla sovranità palestinese territori la cui estensione sarebbe stata compresa tra il 91 ed il 97% 19. Una più precisa determinazione dell’esatta percentuale non è possibile: perché è presumibile che gli israeliani sarebbero stati tanto più «disposti» sulla questione territoriale quanto più i palestinesi fossero stati aperti sulle altre materie; perché il calcolo delle percentuali varia a seconda che si consideri o meno l’area metropolitana attuale di Gerusalemme (che per i palestinesi è territorio occupato, mentre per gli israeliani legittimamente annesso); perché le percentuali possono variare a seconda che si includano o meno i territori che gli israeliani avevano proposto di trasferire alla sovranità palestinese, ma dei quali avrebbero voluto mantenere il controllo, attraverso il ricorso a formule di leasing anche a lungo termine (un’ipotesi quest’ultima che pare essere stata rifiutata dai palestinesi e che avrebbe dovuto «coprire» circa il 2% del territorio della Cisgiordania); perché, infine, alcune zone avrebbero dovuto essere oggetto di scambi di porzioni di territorio secondo proporzioni che non risultano essere state fissate. In particolare, i palestinesi lamentavano che la proporzione proposta dagli israeliani fosse iniqua, o nella quantità (secondo quanto da essi sostenuto, 9 a 1, cioè 9 territori palestinesi

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16. «The Camp David Papers», cit., pp. 48-51. 17. «The Camp David Papers», cit., p. 95. 18. Ovviamente si discusse anche di garanzie internazionali per l’accesso ai Luoghi santi di tutte e tre le religioni, ma la riflessione su questo tema si arenò quando divenne evidente l’impossibilità di individuare la «soluzione-quadro» attinente alla divisione politica (e non solo «funzionale») della sovranità. 19. «The Camp David Papers», cit., p. 65.

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di una data dimensione in cambio di 1 israeliano), o nella qualità (terre fertili o edificabili palestinesi contro fette del deserto del Negev israeliano, o a sud di Gaza a spese dell’Egitto). I palestinesi inoltre non accettavano che il territorio di Israele utilizzato per i safe passages meridionale e settentrionale tra Gaza e Cisgiordania venisse preso in conto come territorio di scambio, in quanto già molta «terra palestinese» era stata de facto destinata alla realizzazione di numerose by-pass roads tra i vari insediamenti nella West Bank o tra questi ultimi e Israele 20. In ogni caso, ci si è interrogati sul perché i palestinesi abbiano rifiutato l’offerta di vedersi restituire, se non tutta, quasi tutta la Cisgiordania. La risposta va probabilmente ricercata nell’ambiguità 21 delle intese precedenti, che all’epoca si rivelò indispensabile per chiudere le trattative, ma che ha finito per suscitare aspettative e incomprensioni che hanno pesato sui negoziati successivi. In linea con la Dichiarazione dei princìpi del 1993, nel corso del periodo interinale l’esercito israeliano si sarebbe dovuto ritirare dai Territori occupati, salvo che da Gerusalemme e dagli insediamenti (cruciali per la determinazione dei confini, e quindi oggetto, al pari della «città santa», dei negoziati finali) e salvo che dalle «military security locations», cioè da alcune aree di cui l’esercito israeliano avrebbe conservato il controllo per motivi di sicurezza. Israele riuscì a far valere l’assioma secondo cui l’estensione dei ritiri e delle «zone di sicurezza militare» non avrebbe dovuto essere oggetto di negoziato congiunto, ma sarebbe stata decisa in via unilaterale 22 in considerazione delle proprie esigenze di difesa. Come conseguenza dell’indeterminatezza della Dop (Declaration of Principles) in questa materia, i palestinesi si attendevano di ricevere, già nell’arco del periodo transitorio, circa il 90% dei Territori, dato che – secondo i loro calcoli – Gerusalemme, insediamenti e l’area complessiva delle «military security locations» israeliane avrebbero coperto al massimo intorno al 10% dei Territori. Israele invece contava – in virtù della facoltà di determinare unilateralmente l’estensione di tali ultime zone – di mantenere, prima che iniziassero le trattative finali, buona parte della West Bank 23. Gli stessi laburisti israeliani hanno spesso sostenuto pubblicamente che Rabin non intendesse cedere, prima dell’inizio delle trattative finali, più del 50% della Cisgiordania. Quando dunque gli israeliani offrirono a Camp David oltre il 90% della Cisgiordania, Arafat ritenne che non si trattasse di una «golden opportunity» proposta nell’ambito delle trattative finali, ma di quanto spettasse al suo popolo di diritto 24 nel quadro dell’ultimo ritiro dell’esercito israeliano dai Terri20. «The Camp David papers», cit., pp. 29-40. 21. Questa ambiguità è riconosciuta anche dal capo delle delegazioni israeliane ad Oslo I e II, Uri Savir, nel suo libro The process. 1100 days that changed the Middle East (New York, Ed. Random House), in particolare nel capitolo «Contrasts and contradictions» (pp. 93-120), dove illustra le conseguenze sui successivi sviluppi del processo di pace della dottrina di sicurezza israeliana nei Territori. 22. Tale impostazione ebbe anche l’avallo degli Usa, come confermato in una lettera che nel gennaio ’97, al momento della firma degli accordi per il ritiro da Hebron, l’allora segretario di Stato Warren Christopher aveva inviato al primo ministro Binyamin Netanyahu: «A hallmark of US policy remains our commitment to work cooperatively to seek to meet the security needs that Israel identifies». 23. Si veda la sopra menzionata pubblicazione di Caterina Micelli, pp. 66-67. 24. Che tale fosse l’aspettativa di Arafat è confermato anche da Ben Ami. Nel suo libro Quel avenir pour Israel ? cit., p. 143) l’ex ministro degli Esteri scrive: «Personalmente sono persuaso, pur senza averne delle autentiche prove, che ad Oslo si era lasciato credere ai palestinesi che in fin dei conti

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tori. Non si trattava cioè di una generosa concessione israeliana, ma della restituzione, dopo 33 anni, di territori oggetto di un’illegittima occupazione militare 25. Cruciale, per la determinazione dei confini del futuro Stato palestinese, è il problema degli insediamenti ebraici. Gli israeliani proponevano di raggrupparli in tre grandi blocchi 26, in modo da «inglobare» nel loro territorio internazionalmente riconosciuto circa l’80% dei coloni ed il 70% degli insediamenti. Si sarebbe trattato in particolare di quelli di maggiori dimensioni, ovvero vicini a Gerusalemme o alla Linea Verde. Nell’ottica palestinese, l’accettazione della proposta avrebbe comportato un inaccettabile riconoscimento del processo di colonizzazione dei Territori, che avrebbe conferito legittimità internazionale alla «creeping expansion of sovereignty and occupation» fino ad allora perseguita. In fondo, tale era anche il dichiarato obiettivo israeliano. Principalmente allo scopo di difendere le «fin troppo generose offerte del governo Barak» di fronte alle critiche dello schieramento di destra israeliano, Ben Ami scrive nel suo libro: «Mai la comunità internazionale aveva accettato prima di allora l’esistenza degli insediamenti. Oggi invece nessuno più si oppone all’idea del mantenimento dell’80% dei coloni nei Territori. Dal Consiglio europeo di Venezia del 1981 fino al nostro arrivo al potere, la Cee e l’Ue avevano sempre sostenuto che gli insediamenti costituiscono un ostacolo alla pace. Ora l’Ue ha accettato i parametri di Clinton» 27. Data la loro importanza, si riporta integralmente il testo di questi ultimi 28 in materia di confini e insediamenti: «Non ci può essere un’autentica soluzione del conflitto senza uno Stato palestinese sovrano e vitale che risponda alle esigenze di sicurezza di Israele e alle realtà demografiche. Questo implica la sovranità palestinese su Gaza e sulla vasta maggioranza della West Bank, l’incorporazione in Israele di blocchi di insediamenti, con lo scopo di massimizzare il numero di coloni in Israele e minimizzare la terra annessa; la Palestina per essere vitale deve essere uno Stato dotato di contiguità geografica. Pertanto, la terra annessa a Israele come blocchi di insediamenti dovrebbe includere meno palestinesi possibile, coerentemente con la logica di due patrie distinte. Per rendere l’accordo duraturo, credo che saranno necessari degli scambi di territorio ed altre intese». Si noti che i parametri di Clinton – come sottolineato dallo

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avrebbero potuto ottenere tutto o quasi tutto, e che gli Accordi di Oslo comportavano l’ultimo compromesso che erano obbligati ad accettare. Arafat era dunque persuaso che al momento definitivo non avrebbe dovuto fare nuove concessioni. Si era lasciato convincere che prima dei negoziati definitivi, nel quadro del terzo ridispiegamento dell’esercito israeliano che avrebbe dovuto precederli, avrebbe ottenuto il 91% dei Territori». 25. È eloquente la frase del rais riportata da ’Akram Haniya, uno dei negoziatori palestinesi a Camp David e consigliere del presidente Arafat, nei «The Camp David Papers» pubblicati dal 29 luglio al 10 agosto 2000 sul quotidiano palestinese al-Ayya¯m (p. 94). In un suo colloquio con Clinton, che stava allora esperendo gli ultimi tentativi per salvare il negoziato, Arafat avrebbe dichiarato: «You say the Israelis moved forward. They are occupiers. They are not being generous: they are not giving from their pockets, they are giving from our land. I am only asking that UN resolution 242 be implemented. I am only speaking about 22% of Palestine, Mr. President» («i Territori occupati corrispondono al 22% della Palestina del mandato britannico, il resto essendo compreso all’interno dei confini israeliani internazionalmente riconosciuti»). 26. SH. BEN AMI, op. cit., p. 111. 27. SH. BEN AMI, op. cit., p. 127. 28. Allocuzione di Clinton all’Israeli Policy Forum di New York, 7/1/2001.

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stesso presidente – erano stati accettati dalle due parti come base negoziale (nessuna delle due, del resto, avrebbe voluto pubblicamente assumersi la responsabilità di dire di no al capo della Casa Bianca), ma entrambe avevano espresso delle riserve. Inoltre, il fatto che questi parametri siano stati elaborati da Clinton nel gennaio 2001, all’indomani dei negoziati di Ta¯ba¯, significa che anche dopo sei mesi da quelli di Camp David restavano da fare numerosi progressi su tutti i punti sopra richiamati. È vero dunque che a Camp David israeliani e palestinesi hanno cominciato ad avvicinarsi come mai in precedenza alla pace finale, ma è anche vero che il gap tra le reciproche posizioni restava di proporzioni rilevanti. Il problema del riconoscimento internazionale (della propria capitale e di confini più sicuri ed «allargati» per tenere conto degli insediamenti), come quello dell’annuncio della fine del conflitto, è stato fondamentale nell’ambito delle trattative, costituendo in realtà la tela di fondo sulla quale gli israeliani hanno avanzato le loro proposte ed i palestinesi le hanno respinte qualora non soddisfacenti. Israele era pronta a concessioni dolorose solo a condizione che i palestinesi non fossero tornati a muovere nuove rivendicazioni. Per gli stessi i motivi i palestinesi non erano disposti a dichiarare la fine del conflitto o a fornire a Israele le chiavi del riconoscimento della loro sovranità su Gerusalemme e sulle colonie fino a quando non avessero ottenuto soddisfazione sui punti ritenuti irrinunciabili. Ma al di là di queste importanti motivazioni di principio, i negoziatori dell’Anp erano preoccupati dalle implicazioni delle proposte di Camp David sulla vitalità del loro futuro Stato. In base alla mappa presentata dagli israeliani, infatti, il territorio dello Stato palestinese sarebbe stato spezzato in tre tronconi e privato di continuità. Ciò allo scopo di garantire contiguità agli insediamenti ebraici e tra questi ultimi ed Israele 29. Non solo: per poter attuare l’annessione di questi insediamenti sarebbe stato «fisicamente» necessario inglobare nel territorio di Israele una serie di villaggi palestinesi, anche ricchi in risorse idriche 30, con le loro «decine di migliaia» di abitanti. Non è dato conoscere di quante persone si tratti esattamente; secondo informazioni trapelate sulla stampa israeliana 31 dopo il fallimento del vertice, si sarebbe trattato di «some tens of thousands of Palestinians». Ciò che pare di poter affermare con ragionevole certezza, guardando la cartina della Cisgiordania e i tre blocchi di insediamenti maggiori che Israele ha sempre dichiarato pubblicamente di volere annettere, è che sarebbe stato necessario inglobare oltre una ventina di villaggi palestinesi. È chiaro inoltre che l’annessione di porzioni della Cisgiordania attorno agli insediamenti ebraici (richiesta da Israele per garantirne nel futuro la loro «crescita naturale») avrebbe frenato lo sviluppo dei villaggi palestinesi circostan29. Sul problema della contiguità territoriale dello Stato palestinese furono registrati notevoli progressi nel corso dei successivi negoziati di Ta¯ba¯ (vedi, oltre al testo di Ben Ami, p. 112, la stampa internazionale ed israeliana specializzate sulla materia e www.monde-diplomatique.fr). Sembra inoltre che a Camp David gli israeliani si fossero mostrati molto flessibili quanto allo smantellamento dei propri insediamenti a Gaza, e che a Ta¯ba¯ fosse stato raggiunto un accordo sulla loro totale evacuazione, oltre a quelli di Hebron e Qriyat Arba’ nella West Bank. 30. «The Camp David Papers», pp. 47-48. 31. Quotidiano israeliano Ha’aretz, 25/9/2000.

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LA VERA STORIA DI CAMP DAVID

TABA GENNAIO 2001 Territori autonomi palestinesi (zone A e B) Territori proposti per lo Stato palestinese Villaggi palestinesi annessi Territori annessi da Israele

CISGIORDANIA

Tulkarim

Colonie israeliane che dovrebbero essere smantellate Colonie israeliane annesse

Qalqiliya

Nablus

Municipio di Gerusalemme dopo la guerra del 1967 Linea verde (frontiere del 4 giugno 1967)

Mar Mediterraneo

Ramallah Gerico

ISRAELE

Gerusalemme Ovest Gerusalemme Est Betlemme

Hebron

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Fonte: Proposta israeliana secondo l’Orient House palestinese

Mar Morto

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ti. Problemi sarebbero sorti anche in merito alle vie di collegamento tra Hebron e Betlemme, che avrebbero rischiato di essere «interrotte» dai blocchi di insediamenti ebraici cosí costituiti. Quanto alle clausole per la sicurezza di Israele (vale a dire il livello di dotazioni militari dello Stato palestinese e le modalità per un controllo efficace da parte di Israele della frontiera orientale della «Palestina»), la delegazione guidata dallo stesso Barak (ex capo di Stato maggiore e ministro della Difesa) aveva chiesto: la smilitarizzazione dello Stato palestinese; la possibilità di stazionare unità dell’esercito israeliano lungo il Giordano, in modo da arginare o limitare l’impatto di un’eventuale aggressione da est da parte di altri Stati arabi (in particolare l’Iraq); il mantenimento di tre stazioni di allerta precoce e di cinque «storage warehouses» che l’esercito israeliano avrebbe potuto utilizzare in caso di emergenza; forme di controllo delle frontiere esterne 32 palestinesi e di ispezione delle merci da loro importate. Per i palestinesi si trattava di richieste inaccettabili, che avrebbero costituito le premesse per la continuazione dell’occupazione sotto altre forme, oltre ad essere lesive della «dignità nazionale» e della sovranità dello Stato nascente. Clinton propose (confermandolo in seguito nei suoi parametri) che il futuro Stato palestinese non avrebbe dovuto essere completamente «smilitarizzato»: sarebbe stato sufficiente se fosse stato «non militarizzato». Quanto alla richiesta di mantenere delle truppe nella Valle del Giordano, per Israele si trattava di un’esigenza essenziale 33; per i palestinesi di un «ridicolo pretesto» 34. I palestinesi, in sostanza, lamentavano che Israele concentrasse la propria attenzione sui rischi derivanti da Stati meno vicini (che ben presto avrebbero potuto colpire lo Stato ebraico anche coi missili a lunga gittata di cui si stavano dotando), piuttosto che sull’opportunità di pervenire con loro stessi ad un accordo di autentica riconciliazione, capace di neutralizzare alla base i pericoli ben più immediati che avrebbero potuto concretizzarsi nelle città, nei villaggi e nei campi profughi di Gaza e Cisgiordania. Secondo la percezione palestinese, quindi, i negoziatori israeliani erano condizionati ancora dalla «mentalità dell’occupante», piuttosto che animati dalla ricerca di un linguaggio basato sulla coesistenza e sul rispetto che si deve ad un popolo che si riconosce come eguale. Con il procedere dei negoziati, si raggiunse un accordo 35 di principio (sempre qualora si fosse «chiuso» sugli altri capitoli) sulla possibilità di affidare il compito di 32. Per frontiere esterne si intendono quelle tra la futura «Palestina» e gli altri Stati arabi, che Israele avrebbe voluto poter supervisionare per controllare l’eventuale afflusso di armamenti, soprattutto pesanti, nel giovane Stato palestinese. 33. Una parte importante della dottrina di sicurezza di Israele, elaborata da autorevoli leader laburisti come Yigal Allon, Galili e poi sostenuta dallo stesso Rabin, è basata sul controllo della Valle del Giordano. Tanto che i governi laburisti hanno dato impulso allo sviluppo degli insediamenti proprio in questa area, incluso Rabin che soleva distinguere tra «insediamenti di sicurezza» (cioè quelli importanti per la difesa strategica di Israele, e quindi situati lungo la Linea Verde ad ovest o il Giordano ad est) e quelli «politici» (cioè voluti per motivi elettorali interni, fondati nel cuore della Cisgiordania e a suo avviso fonte solo di inutili tensioni coi palestinesi). 34. Si veda il testo di BEN AMI, pp. 128-132, e «The Camp David Papers», pp. 47-48 e 91-92. 35. Non è dato sapere se questa proposta di compromesso fu avanzata da parte americana (come sostiene Ben Ami) o palestinese (come sostiene Haniya). Ciò che conta, comunque, è che sia israeliani che palestinesi la accettarono come base di discussione.

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«tenere sotto controllo» gli sviluppi ad est del Giordano a contingenti Onu o internazionali; lo stesso avrebbe potuto valere per il personale delle «early warning stations» richieste da Israele. In questo contesto, venne contemplata anche la possibilità di giungere a forme di ispezione congiunta israelo-palestinese delle frontiere (sia quella orientale della West Bank con la Giordania, che quella meridionale della Striscia di Gaza con l’Egitto). Quanto alla tragedia dei profughi, la vertenza su questo tema ha dimostrato fino a che punto, per costruire un futuro insieme, sia prima necessario convenire su una lettura comune del passato. Il problema era e resta ad un tempo di tipo ideologico (perché investe la stessa identità nazionale dei palestinesi ed il modo in cui concepiscono se stessi) e drammaticamente reale. I palestinesi chiedevano due cose: il riconoscimento del diritto al ritorno e l’individuazione di soluzioni concrete per il «re-integro» dei profughi nel loro Stato di insediamento (fosse esso l’odierno Israele, la nascitura «Palestina», gli Stati arabi dove si erano rifugiati o paesi terzi, tra i quali venivano presi in esame gli stessi Stati Uniti, ma anche Canada e Ue), assortite da forme di compensazione ed assistenza economica. Tutto ciò sarebbe dovuto avvenire tramite la costituzione di un fondo internazionale, al quale il Nordamerica, l’Europa ed il Giappone sarebbero stati chiamati a partecipare generosamente. Israele dal canto suo puntava su soluzioni pratiche del problema palestinese, ma rifiutava di riconoscere la responsabilità storica delle cause di questa tragedia. Abituato a concepirsi il Davide della Regione e non il Golia, la vittima di una storia millenaria e non l’aggressore, lo Stato ebraico era disposto al più ad esprimere «dispiacere per le conseguenze della guerra del ’48» («sorrow over what befell the Palestinians as a result of the Arab-Israeli war of 1948»). Se a suo tempo gli arabi avessero accettato il piano di spartizione dell’Onu, sarebbe subito nato, al lato di quello ebraico, uno Stato arabo in Palestina. Israele non ha cercato la guerra del 1948, ma ha subìto l’aggressione congiunta dei più importanti paesi arabi dell’epoca. Per i palestinesi, era la negazione della mitologia della Nakba 36, oltre che un torto alla storia: i profughi avevano lasciato le loro case non solo, o per lo meno non sempre, perché convinti che avrebbero potuto presto farvi ritorno grazie all’attesa vittoria della coalizione araba, ma anche perché costretti ed incalzati dalle truppe dell’Haganah e del Lehi. Non assumendo la responsabilità storica del dramma della diaspora palestinese, Israele poteva limitarsi ad impegnarsi ad accogliere «alcune decine di migliaia di rifugiati» a titolo strettamente umanitario o per motivi di ricongiungimento familiare, e non le centinaia di migliaia di profughi (se non milioni) di cui parlava la delegazione guidata da Arafat. Barak e Ben Ami, inoltre, ribadivano fermamente il limite massimo oltre il quale nessun governo israeliano si sarebbe potuto spingere: il ritorno illimitato dei profughi palestinesi avrebbe comportato l’annullamento della natura ebraica dello Stato, e virtualmente anche la sua scomparsa. Sembra anche che gli israeliani,

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36. La «Catastrofe» che ha colpito il popolo palestinese quando è stato proclamato lo Stato di Israele. Ancora oggi, quando gli israeliani celebrano il loro giorno di indipendenza, i palestinesi commemorano l’inizio della loro diaspora.

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preoccupati di non veder nascere alle proprie frontiere orientale (Cisgiordania) e meridionale (Gaza) uno Stato «polveriera», sovrabitato al punto da trovarsi in condizioni di endemica povertà e sottosviluppo, intendessero regolare nell’accordo anche il ritmo e le quote massime di assorbimento dei rifugiati da parte dello stesso Stato palestinese. Lo conferma anche una lettura attenta dei parametri di Clinton: «Dovrà essere trovata una soluzione anche al problema dei profughi palestinesi che hanno molto sofferto, in particolare alcuni di loro» (il riferimento è evidentemente a quelli libanesi, ai cui bisogni si sarebbe dovuta accordare la priorità). «Una soluzione che consenta loro di tornare nello Stato palestinese, in un posto che possano orgogliosamente chiamare “casa”. Tutti i rifugiati palestinesi che lo desiderino dovrebbero avere il diritto di farlo». Queste le ragioni del perché, dopo tanta speranza suscitata dal vertice, il Medio Oriente è tornato a precipitare nel sangue. Sarebbe stato possibile, con la prosecuzione delle trattative ed un clima disteso, definire un wording diverso, che consentisse ai palestinesi di ottenere soddisfazione in merito al riconoscimento da parte di Israele della sua «quota» (non tutta) di responsabilità per la tragedia dei rifugiati? Avrebbe potuto Israele aumentare il numero degli aventi diritto a tornare nelle proprietà abbandonate mezzo secolo prima? Arafat avrebbe potuto accettare di vedersi accordare per il suo popolo un «diritto al ritorno non illimitato» (secondo la formula successivamente proposta da Clinton)? E Israele avrebbe potuto aderire a questo compromesso, vale a dire riconoscere il principio del diritto al rientro, garantendosi al contempo che l’esercizio pratico di tale diritto sarebbe stato sottoposto a precise condizioni? Apparentemente si tratta solo di parole. Simboli. Memorie. Ma il Medio Oriente si nutre come forse nessuna parte del mondo dei propri miti, dei propri errori e delle proprie tragedie. Il processo di pace, per avere successo, richiede una rivoluzione culturale. Più profonda di quanto si fosse immaginato. Qualunque giudizio si voglia dare sugli avvenimenti, è stato il momento della verità e della rottura. Il momento in cui è stata evidente l’insufficienza della fiducia reciproca, dell’educazione a credere possibile una pace, del coraggio (o della volontà) di voltare veramente pagina. Questa rivoluzione dei cuori e delle menti è rimasta incompiuta. Ora anche tragicamente interrotta da odio e violenze senza precedenti.

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