Ritorno In Cecenia

  • June 2020
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Domenica La

di

DOMENICA 8 NOVEMBRE 2009

Repubblica

l’attualità

Video, l’era del tecno-testimone MICHELE SMARGIASSI

cultura

Leonardo Sciascia scrittore e politico TANO GULLO e CONCETTO VECCHIO

JONATHAN LITTELL

RitornoinCecenia Due guerre, il controllo russo, il regime e il nuovo terrore per chi si oppone

FOTO THOMAS DWORZAK / MAGNUM/ CONTRASTO

Il reportage esclusivo di un grande scrittore

JONATHAN LITTELL amzan Kadyrov, il giovane presidente della Cecenia è, come tutti sanno, «il più grande costruttore del mondo», e dunque è una felice coincidenza quella che fa giungere il visitatore straniero a Grozny il 27 aprile, la vigilia del Den stroitelej, la “Giornata dei costruttori”, così designata per festeggiare il quinto anniversario del ministero dell’Edilizia. Tamir, un giovane addetto stampa ceceno incaricato di assisterci (io e il fotografo Thomas Dworzak), ci ha invitati quel giorno a raggiungerlo nel teatro comunale; in piedi accanto a lui, nel salone principale, davanti a un enorme pianoforte a coda rosso fuoco, contornato dai ritratti di Kadyrov (padre e figlio), guardo la nomenclatura cecena fare la sua entrée, passando uno per uno sotto i metal detector, circondati da un cordone di agenti degli Omon, le forze speciali. I capi distretto indossano grandi Rolex in oro ben visibili, e anelli di diamanti; i ministri, camicie rosa o violette con cravatte assortite, completi di seta color crema e scarpe appuntite in pelle di alligatore. Molti sfoggiano spillette decorate con il volto di Ramzan, oppure l’Ordine di Kadyrov, una medaglia d’oro con inciso il busto del suo defunto padre Akhmad-Khadzi appesa a una bandiera

R

russa, che vista da vicino si scopre composta da file di diamanti colorati. Molti portano anche il pes, una calotta di velluto con una piccola ghianda attaccata a un cordone. Chiedete a chiunque in Cecenia e vi sentirete rispondere che è il copricapo nazionale: pochi sembrano ricordarsi che fino a non molto tempo fa era indossato unicamente dagli anziani del wird sufi dei Kunta-Khadzhi, la confraternita a cui appartengono i Kadyrov: adesso, lo indossano quasi tutti, a prescindere dal wird o dalla tariqat di appartenenza; perfino alcuni ingusci lo portano. Tamir mi presenta a suo zio Olgozur Abdulkarimov, il ministro dell’Industria; Dukvakha Abdurakhmanov, il presidente del Parlamento ceceno, fa un’entrata rumorosa, aggirando ostentatamente il metal detector, senza rallentare la sua marcia, per raggiungere Akhmad Gekhaev, il ministro dell’Edilizia di cui si celebra la giornata; un po’ più lontano, in uniforme Nato, con un berretto nero e una pistola alla cintola, c’è Sharip Delimkhanov: comanda il Neft Polk, un battaglione incaricato di assicurare la sicurezza delle installazioni petrolifere. L’uomo con cui parla, Magomed Kadyrov, fratello del defunto Akhmad-Khadzhi, è uno dei pochi, fra i presenti, a non indossare né giacca e cravatta né uniforme, ma una semplice giacca con pantaloni jeans sottili, di ottima qualità, probabilmente costosi e di fattura italiana. (segue nelle pagine successive)

spettacoli

Billy the Kid, il santo dei fuorilegge VITTORIO ZUCCONI

l’immagine

Hänsel e Gretel secondo Mattotti GIUSEPPE MONTESANO

i sapori

Le ricette dal passaparola al blog STEFANO BARTEZZAGHI e LICIA GRANELLO

l’incontro

Angelopoulos e il tempo in trappola MARIO SERENELLINI

Repubblica Nazionale

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA

la copertina Ritorno in Cecenia

DOMENICA 8 NOVEMBRE 2009

È stato nella repubblica caucasica durante le guerre del ’96 e del ’99, quando “la vita di un uomo non valeva un copeco”. Ora ecco il terzo viaggio di Jonathan Littell in un Paese che “cerca di trasmettere un’illusione di normalità, ossia una normalità per quelli che non sono

toccati dal terrore”. In esclusiva per l’Italia, il suo racconto

JONATHAN LITTELL

(segue dalla copertina)

Q

uesta semiotica ostentatoria del potere ceceno può far sorridere, ma non è priva di interesse; i codici sono molto precisi: in un mondo dove tutti cercano di mostrare, con tutti i mezzi possibili, il proprio posto nell’ordine delle cose, a quanto sembra più si è in alto e più ci si può permettere di essere informali, meno si è costretti a esibirsi. […] La gestualità di questi uomini è impressionante, è la stessa dei ribelli ceceni di un tempo: questo modo di salutarsi, di abbracciarsi, di ridere, di parlare, di scivolare dall’uno all’altro in un balletto elaborato ma ostentatamente informale, ha anche un senso, quello di mostrare che possono anche servire un Governo filorusso, possono anche essere di fatto dei burocrati russi, ma qui non siamo in Russia e loro non sono russi, sono ceceni. La cerimonia stessa trasporta direttamente dalla semiotica cecena a quella sovietica, in una versione postmoderna rivisitata, che a volte sfiora il surrealismo spontaneo. La grande sala è stipata di “volontari” reclutati nei diversi ministeri e all’università; per ingannare l’attesa, gli organizzatori hanno fatto venire da Mosca una band femminile che per l’occasione sfoggia il velo sui capelli, in aggiunta alle minigonne, e suona una sorta di fusion fra musica classica e musica pop, con violini e un violoncello superamplificati. All’ingresso di Kadyrov, circondato da un gruppo compatto di guardie del corpo e commensali, tutta la folla scatta in piedi per applaudire, mentre il presentatore tuona solennemente nel microfono: «Il presidente della Repubblica cecena, Eroe della Russia, Ramzan Akhmadovich Kadyrov!». Quando l’Eroe della Russia prende posto, lo spettacolo può cominciare: si parte con un montaggio video che mostra i successi del ministero dell’Edilizia — creato grazie a «una delle ultimissime disposizioni firmate da Akhmad-Khadzhi Kadyrov» — e si prosegue con un lunghissimo discorso di Gekhaev, che ripete l’elenco di quegli stessi successi col tono del rapporto burocratico. Il discorso si conclude bruscamente: mutando immediatamente contegno, con un sorriso idiota, Gekhaev aggiunge,

sov, non è forzata come sembra: dopo dieci anni, in Cecenia, il numero di persone uccise o scomparse ogni diecimila abitanti sarebbe, secondo lui, superiore in proporzione alle cifre delle vittime delle grandi purghe staliniane. Ma quello che la Cecenia cerca soprattutto di trasmettere è l’illusione di una normalità, ossia la realtà di una normalità per tutti coloro che non sono toccati dal terrore. Ho trascorso due settimane nella repubblica caucasica, fra la fine di aprile e l’inizio di maggio, e se avessi pubblicato subito questo reportage avrei messo l’accento sulla normalizzazione, su una Cecenia che, malgrado alcuni grossi problemi, complessivamente va meglio di prima. La ricostruzione è un fatto, imponente e concreto; quanto al terrore, nessuno dei miei amici e dei componenti delle varie Ong, a parte quelli di Memorial, che lavorano direttamente sui casi di sparizioni, torture ed esecuzioni extragiudiziali sembrava preoccuparsene troppo; sapevano vagamente che cose di questo genere ancora, in parte, succedevano, sulle montagne, ma non conoscevano nessuno che ne fosse stato toccato direttamente: erano molto più inquieti e preoccupati per il dilagare della corruzione. E parlare di normalizzazione in un certo senso sarebbe stato “corretto”, perché il problema qui non è un problema di fatti, è un problema di prospettive, di punti di vista. Ho lavorato in Cecenia durante entrambe le guerre, prima nel 1996, poi per una quindicina di mesi dall’inizio della seconda all’autunno del 1999, e ho sempre mantenuto contatti stretti laggiù: così, come i ceceni stessi, mi ricordo molto bene di quegli anni in cui la vita di un ceceno non valeva un copeco; in cui un uomo poteva scomparire, torturato e poi ammazzato, perché aveva incrociato lo sguardo di un soldato ubriaco a un posto di blocco; in cui le ragazze venivano prima violentate e poi uccise come si getta via un giocattolo rotto; in cui si ritrovavano i cadaveri di giovani uomini presi nelle grandi zashistki (le operazioni di “pulizia” dei Federali), legati col filo spinato e bruciati vivi; in cui le famiglie, in preda al panico, si affannavano disperatamente a mettere insieme qualche migliaio di dollari per riscattare i loro uomini prima che fosse troppo tardi, e dovevano comunque, quando era troppo tardi, spendere quel denaro per riscattare i cadaveri mutilati; in cui i bambini crescevano in campi putridi, quasi senza istru-

tuali, ma resta ben lontana dal modello se si vanno a guardare le cifre nude e crude. Sui settantaquattro casi di sparizioni (o piuttosto, arresti illegali), recensiti da Memorial fra gennaio e giugno, cinquantasette si sono conclusi con il rilascio, anche se nella maggior parte dei casi dopo torture. Quattro dei rapiti sono stati giustiziati e dodici sono «scomparsi senza notizie», il che significa quasi certamente che sono stati ammazzati anche loro. Sedici in sei mesi: siamo lontani dalle cifre dei primi anni della guerra, o anche da quelle del periodo di Alkhanov. Ma ha senso fare simili paragoni? Kadyrov accusa regolarmente quelli di Memorial di vedere solo il lato negativo delle cose, di rifiutarsi di vedere il lato positivo, la ricostruzione, lo sviluppo. Ma per Memorial la ricostruzione e lo sviluppo non possono essere fondati sull’omicidio, la tortura e il terrore, in Cecenia come in Russia, dove il regime attuale è diventato esperto nell’arte di far tacere la stragrande maggioranza delle persone uccidendo o lasciando uccidere in modo estremamente selettivo, e contemporaneamente tenendo sotto controllo qualunque accesso a una reale informazione. Ramzan, come il suo padrone di Mosca, sa perfettamente che basta qualche esempio per tenere in piedi la paura. […] È raro riuscire a rendersi conto di quanto le nostre rappresentazioni condizionino le nostre esperienze: in teoria lo sappiamo, ma ce lo dimentichiamo costantemente, e il nostro spirito vuole sempre credere che ciò che abbiamo visto, sentito e compreso concorra a creare una rappresentazione fresca e “obiettiva”. Quando Aleksandr Cherkassov mi dichiarava, a giugno: «L’inferno è diventato confortevole, ma è pur sempre l’inferno», o quando Oleg Orlov mi diceva che «il risultato di questa guerra interminabile, di questa colossale quantità di sangue versato, della violenza, è che ora laggiù stanno costruendo un sistema di tipo totalitario», io pensavo tra me e me: «Sì, forse, ma magari esagerano un po’, è talmente tanto tempo che sono dentro a queste faccende, gli manca la prospettiva». Tutti siamo invischiati nelle nostre rappresentazioni, questo lo sapevo bene: il mio errore era di pensare che le mie fossero più vicine alla realtà delle loro. E chi è che sa qualcosa della realtà? La realtà sono due pallottole in testa. E solo quelli a cui è successo hanno potuto vedere, per un istante più o meno lungo, la realtà piombargli addosso con tutto il suo peso, schiacciando qualunque rappresentazione,

Grozny, l’inferno confortevole del Grande Costruttore in tono imbarazzato e servile al tempo stesso: «Forse vi state chiedendo perché ho letto tanto in fretta. È che poco fa ho incontrato Razman Akhmadovich, che mi ha chiesto: “Akhmad, il tuo discorso è lungo?”, e quando io ho risposto di sì, mi ha detto: “Allora leggilo in fretta”». Infine, Razman Akhmadovich stesso, «il più grande costruttore del mondo», come ci ricorda ancora una volta il presentatore, salta sul palco e si impadronisce del microfono senza fili. Mentre Gekhaev e gli altri si sono espressi in russo, Kadyrov parla in ceceno, con una voce profonda e granulosa, sottolineata da una gestualità espressiva, suscitando risate e applausi con le sue battute, e in altri momenti ribadendo brutalmente i fondamenti della sua filosofia: «Se il capo è bravo, allora tutti sono bravi, i colleghi, i sottoposti». Non sono in grado di giudicare il suo ceceno; mi dicono che lo scrittore ceceno German Sadulaev lo definisce estremamente letterario e articolato, ma altri, al contrario, affermano che è limitato quasi quanto il suo russo, che è, per citare un amico, «non soltanto povero, ma infarcito di errori grossolani di genere e declinazione», cosa che posso confermare. Sia come sia, sembra assolutamente a suo agio in questa grottesca messa rituale, è un vero animale da palcoscenico, lui le masse le adora; alla televisione, dove si vede solo lui, lo mostrano spesso mentre si ferma in un villaggio, in una scuola o in un ospedale, per tuffarsi tra la folla distribuendo consigli, ammonimenti e banconote; è come se estraesse la sua favolosa energia direttamente dall’amore (accuratamente orchestrato) dei suoi sudditi. […] La cerimonia si conclude con un’ode sicofantica pronunciata da Dukvakha Abdurakhmanov all’«uomo che è sempre stato al fianco della famiglia Kadyrov e del popolo ceceno, Vladimir Vladimirovich Putin. Gloria a Putin!», scandisce in mezzo ad applausi assordanti. Al centro della folla, con la sua immagine filmata proiettata sul grande schermo che fa da sfondo al palcoscenico, Ramzan ride, applaude, scherza con le sue guardie e palpeggia il suo cellulare. Back in the USSR…

1937

«L

a Cecenia è come il 1937, 1938», mi dichiara nel suo piccolo ufficio moscovita Aleksandr Cherkassov, uno dei dirigenti di Memorial, la più grande organizzazione russa per la difesa dei diritti umani. «Là si sta portando a termine un vasto programma di costruzioni edilizie, la gente riceve degli alloggi, ci sono parchi dove giocano i bambini, teatri, concerti, tutto apparentemente è normale… e la notte, qualcuno scompare». Questa comparazione la si sente ripetere spesso tra i militanti russi per i diritti umani e, come mi fa notare Cherkas-

zione, quando non venivano uccisi o mutilati da una bomba, da una mina, da un cecchino annoiato; in cui le shakhidki, le “vedove nere”, che si suicidavano facendosi saltare in aria e portandosi dietro qualche russo, lo facevano non per convinzione religiosa, ma per pura e semplice disperazione, perché non restava loro più nemmeno un uomo, più nemmeno un bambino. Per la maggior parte dei ceceni, che non hanno dimenticato nulla di tutto questo, è evidente che le cose vanno “meglio”. […] Quelli di Memorial sarebbero quasi d’accordo con questo punto di vista. A Mosca, in giugno, Aleksandr Cherkassov, che segue gli eventi nel Caucaso settentrionale fin dalla prima guerra, quella del 1994-1996, mi aveva descritto la “cecenizzazione” (il nome che è stato dato alla decisione assunta da Vladimir Putin nel 2002 di insediare un potere ceceno filorusso forte, composto principalmente di ex ribelli e diretto dall’ex muftì indipendentista Akhmad-Khadzhi Kadyrov) come «il trasferimento dei pieni poteri di compiere violenze illegali dalle strutture federali a quelle locali». E Cherkassov, come i suoi colleghi, era d’accordo che questa “cecenizzazione” aveva determinato un cambiamento reale. «Le violenze sono feroci quanto prima», aveva aggiunto, «ma sono più selettive». […] Oleg Orlov, il presidente dell’ufficio esecutivo di Memorial, mi ha fatto un discorso simile a Mosca: «Nel 2007, con l’arrivo al potere di Ramzan Kadyrov, il numero delle torture e delle sparizioni è bruscamente diminuito. Nel suo primo anno al potere, Kadyrov ha perfino cominciato a usare la retorica del difensori dei diritti umani!». Memorial è l’unica organizzazione che raccoglie dati sistematici sulle sparizioni e gli omicidi in Cecenia: anche se sono largamente inferiori alla realtà — «Secondo i nostri calcoli, veniamo a conoscenza di circa il trenta per cento dei casi», ipotizza Orlov — danno un’idea abbastanza precisa dell’evoluzione delle tendenze. Nel 2006, l’ultimo anno di potere di Alu Alkhanov, il presidente a interim nominato da Putin dopo l’omicidio, nel maggio del 2004, di Akhmad-Khadzhi Kadyrov, Memorial ha registrato 187 casi di rapimenti: undici di questi si sono conclusi col ritrovamento del cadavere del rapito, e in sessantatré casi la vittima è scomparsa per sempre (gli altri sono stati liberati, nella maggioranza dei casi dopo essere stati torturati, oppure sono ricomparsi nel sistema giudiziario ufficiale, per essere processati); nel 2007, hanno documentato trentacinque casi di rapimenti, con un morto e nove desaparecidos. Al momento delle mie conversazioni con Orlov e i suoi colleghi, a maggio e giugno, Memorial aveva constatato un netto incremento nel 2009, con un numero di sparizioni e di omicidi nei primi quattro mesi dell’anno già uguale al livello raggiunto in tutto il 2008. […] L’ampiezza del terrore forse è staliniana in termini di percen-

per sempre. La mattina del 15 luglio, poco più di una settimana dopo aver completato una prima versione di questo reportage, ho cominciato a ricevere delle mail che mi dicevano che Natalja Estemirova, una delle principali militanti di Memorial a Grozny, quella che aveva più contatti e portava più informazioni, era stata rapita qualche ora prima; secondo i suoi colleghi, che si erano preoccupati quando non l’avevano vista arrivare per delle riunioni, e che erano andati a casa sua e avevano parlato con dei vicini che avevano assisto alla scena, «è stata spinta a forza, vicino a casa sua, in una Vaz-2107 bianca, e ha gridato che la stavano rapendo». […] La sera stessa sono venuto a sapere che il suo cadavere era stato ritrovato in un bosco alla frontiera con l’Inguscezia, con parecchie pallottole in corpo e in testa. Dev’essersi sentita terribilmente sola in quei lunghi momenti nella Vaz-2107, ai piedi degli uomini venuti per ammazzarla, deve aver continuato a sperare il più a lungo possibile che non sarebbe andata a finire così, ma quando l’hanno tirata fuori dalla macchina, in un garage o in una foresta, rompendole il naso col calcio della pistola e legandole le mani talmente strette da bloccarle la circolazione, c’è stato un momento in cui ha capito: dopo tutto, era talmente tanto tempo che non faceva altro che occuparsi di casi del genere, e ora toccava a lei, proprio a lei, e proprio perché si era occupata di quello di cui non doveva occuparsi, perché anche se non sei obbligato a cantare le lodi di Ramzan Kadyrov ai quattro venti, devi lasciargli uccidere e torturare in pace quelli che devono essere uccisi e torturati, non devi immischiarti nei suoi affari a quel modo, e se lo fai diventi tu stesso il nemico, un altro da cancellare da questa terra, e tanto peggio per i figli e gli amici che ti lasci dietro, anche loro non dovranno far altro che tenere la bocca chiusa o faranno la stessa fine; ed è a questo che doveva pensare Natalja, alla sua figlia di quindici anni che da moltissimo tempo aveva talmente paura per lei che lei faceva di tutto per rassicurarla, pur sapendo che aveva ragione ad aver paura, e che adesso l’avrebbe lasciata sola. Nessuno saprà mai che cosa le sia passato per la testa, in quei momenti, nessuno saprà mai se abbia parlato con gli uomini venuti ad ammazzarla, se abbia tentato di ragionare con loro, mentre loro la picchiavano; sapeva bene che tipo di uomini erano, il tipo di uomini a cui niente fa paura e niente fa pietà, gente per cui il colmo dello sconforto umano non rappresenta nulla di nulla; ma se devo immaginarmi una cosa, mi immagino che in quegli ultimi istanti abbia pensato fortissimamente a sua figlia, e le si deve essere contorto lo stomaco all’idea di lasciarla così; e poi è morta, orribilmente e brutalmente, e hanno getta-

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35

FOTO THOMAS DWORZAK / MAGNUM/ CONTRASTO

LE TAPPE

Jonathan Littell FINO a qualche anno fa, Jonathan Littell, nato a New York nel 1967 e in seguito divenuto cittadino francese, era sconosciuto al grande pubblico. Nel 2006, la pubblicazione in Francia de Le Benevole (tradotto in italiano da Einaudi) lo ha catapultato al centro del dibattito culturale. Perché il suo romanzo d’esordio, lungo più di novecento pagine, è il racconto in prima persona di Maximilien Aue, un alsaziano che fa carriera nelle Ss negli anni cruciali del Terzo Reich. Con dovizia di particolari, Littell non descrive solo la violenza, pubblica e privata, della Germania nazista, ma anche la vita sul fronte orientale nella Seconda guerra mondiale. Ecco allora il Caucaso, Stalingrado accerchiata dall’Armata rossa: la regione che lo scrittore, in passato attivo nei Balcani e in Cecenia con l’ong Action contre la faim, torna a raccontare da testimone in queste pagine. Dopo i taccuini di viaggio dalla Georgia, sempre pubblicati in esclusiva dalla Domenica di Repubblica l’anno scorso, ecco in queste pagine il suo viaggio in Cecenia, una selezione di un lavoro più lungo che sarà pubblicato in Francia da Gallimard. Le foto sono di Thomas Dworzak

INDIPENDENZA

PRIMA GUERRA

SECONDA GUERRA

GOVERNI FILORUSSI

ATTENTATI

Il primo novembre ’91 la Cecenia dichiara l’indipendenza dall’Urss: Dudaev è eletto presidente L’11 dicembre ’94 Eltsin ordina di invadere il Paese

Il 21 aprile 1996 Dudaev è ucciso da un missile russo Pochi mesi dopo i ribelli conquistano Grozny. Falliscono i tentativi di soluzione pacifica con Mosca

Nell’estate 1999 con gli attentati a Mosca inizia la fase terroristica del gruppo indipendentista di Basaev. Putin bombarda Grozny che cade nel 2000

Un referendum sancisce nel 2003 l’appartenenza della Cecenia alla Federazione russa. Il presidente Kadyrov (padre), filorusso, è ucciso nel 2004 a Grozny

Il primo settembre 2004 terroristi ceceni sequestrano una scuola a Beslan. Le truppe russe irrompono: 331 le vittime Nel 2006 viene ucciso Basaev

to il suo corpo nel bosco come un vecchio sacco bucato, «per incoraggiare gli altri». […] L’anno scorso, Natalja Estemirova si era permessa di criticare, alla televisione russa, la politica kadyroviana sul velo, aveva dichiarato che lei se lo metteva, per rispetto, quando andava a far visita a delle famiglie in un villaggio, ma rifiutava di indossarlo nei luoghi dove lavorava, alla Prokuratura o nei ministeri, e che «il Governo non doveva intromettersi nella vita privata dei cittadini»; qualche giorno dopo, era stata convocata da Ramzan, che l’aveva insultata e minacciata, le aveva gridato che i capelli scoperti lo eccitavano, forse lei lo voleva eccitare, allora era soltanto una puttana, non una donna, e poi le aveva detto, secondo Memorial: «Sì, è vero, le mie mani sono coperte di sangue. E non me ne vergogno. Ho ucciso e continuerò a uccidere persone malvagie. Noi ci battiamo contro i nemici della Repubblica». Natalja Estemirova, evidentemente, era una persona malvagia, un nemico della Repubblica. Oleg Orlov, che conosco un po’, non è un uomo che perde facilmente il sangue freddo e il senso della misura; ecco perché, quando ho letto quello che ha scritto la sera dell’omicidio, ho potuto misurare tutta la rabbia e l’amarezza, e anche la folle colpevolezza che deve provare: «Io lo so, io sono sicuro su chi è il colpevole dell’omicidio di Natalja Estemirova. Conosciamo tutti quell’uomo. Si chiama Ramzan Kadyrov, è il presidente della Repubblica cecena. Ramzan aveva già minacciato Natalja, l’aveva insultata, la considerava un nemico personale. Non sappiamo se abbia dato lui stesso l’ordine o se sia arrivato dal suo stretto entourage, per fare piacere al capo. E il presidente Medvedev, evidentemente, è contento di avere un assassino alla testa di una delle componenti della Federazione russa». Orlov si sente colpevole di questa morte, lo dice più avanti nel suo comunicato, ma sa anche chi ne porta la responsabilità, e lo afferma, e infine dice apertamente e a voce alta quello che tutti sanno, che Ramzan è forse tante cose, ma è innanzitutto un assassino. […]

viali, ma nulla di quello che li costeggiava, individuavo gli edifici dalla loro collocazione, più che dal loro aspetto: sapevo bene che lì, in un certo punto, doveva trovarsi l’ospedale numero 9, ma quando poi effettivamente compariva non riconoscevo nulla, nulla di nulla. […]

Il figlio del padre amzan è l’unico che abbia ragione», mi dice retoricamente “Mussa”, un militante ceceno per i diritti umani. «Lui è il khozjain», il boss, «lui è il barin e tutti gli altri devono eseguire la sua volontà». […] Kadyrov è un dittatore, onnipotente nel suo piccolo regno, ma non è un dittatore samostojatelni, come direbbero i russi, cioè un dittatore che ricava il proprio potere da se stesso. Proprio come il suo defunto padre, Ramzan è stato investito da Putin, e il suo potere si fonda innanzitutto sulla protezione personale dell’attuale primo ministro, il krysha — il “tetto”, eufemismo russo per indicare la protezione — migliore che ci sia in un Paese interamente strutturato sui rapporti di krysha. «Non è un segreto che Ramzan ha un rapporto molto speciale con Putin», commenta Dmitrij Peskov, il portavoce di Putin, nel suo grande ufficio al sesto piano della Casa Bianca, dove risiede Putin da quando ha lasciato il Cremlino a Dmitrij Medvedev. «Ha un rispetto speciale, da parte di Putin e per Putin». È un rapporto che risale, beninteso, a quello instaurato da Putin con Akhmad-Khadzhi Kadyrov, all’epoca, era il 2000, in cui ne fece il suo uomo fidato in Cecenia. «Putin», spiega Peskov, «ha scoperto in Akhmad Kadyrov un mondo interiore molto ricco, era una persona che aveva una visione molto chiara di un futuro possibile per la Cecenia». […] Il “Progetto Kadyrov” sembrava rispondere alla perfezione a questa concezione, che ha avuto fin dall’inizio un successo indiscutibile, dal punto di vista dei russi. Ma il 9 maggio 2004, in occasione delle celebrazioni della Festa della vittoria nel nuovo stadio di Grozny, una bomba nascosta sotto al suo seggiolino uccise Akhmad Kadyrov. Appena appresa la notizia, Putin convocò Ramzan, che quel giorno si trovava a Mosca, al Cremlino: la famosa foto del loro incontro, che mostra Putin, che dissimula male una smorfia annoiata, di fronte a un Ramzan sotto shock e sul punto di scoppiare a piangere, ancora vestito in tenuta sportiva, con i jeans, fu da subito percepita come l’immagine di una cerimonia di investitura. […] Ramzan, nei suoi sforzi per mantenere e sviluppare il proprio potere, con le sue politiche e i suoi metodi, segue alla lettera la linea tracciata dal padre. «Non ho un programma, il programma è già stato elaborato quando era vivo mio padre», dichiarava all’inizio di agosto a un giornalista di Radio Libertyche gli chiedeva di descrivere il suo programma. «Noi portiamo a compimento tutto quello che è stato indicato dal nostro primo presidente, oggi noi realizziamo interamente il suo programma, lo portiamo fino alla sua conclusione logica». Tale “programma”, beninteso, include la repressione senza pietà dei combattenti islamisti e degli oppositori, ma ci sono anche alcuni aspetti “positivi”. Kadyrov, non si può negare, dispone di una certa legittimità sociale; anche se la sua popolarità è grossolanamente esagerata dalle autorità, anche se non è chiaro se e quanto si estenda al di là del suo clan, del suo teip, e anche se è impossibile misurarla in un sistema politico che non prevede né elezioni né sondaggi di opinione né stampa libera, e dove qualunque oppositore dichiarato viene minacciato, torturato o ammazzato, esiste e Kadyrov fa di tutto per rafforzarla. I suoi sforzi si concentrano su tre settori: la ricostruzione e lo sviluppo economico, la cooptazione o il ritorno dei vecchi combattenti indipendentisti e la promozione di un Islam presentato come “tradizionale”. Il suo potere, si potrebbe dire, poggia su cinque pilastri. Il pilastro centrale rimane il sostegno di Putin, quello su cui si regge l’intero edificio; il giorno in cui Putin, per una ragione o per l’altra, mollerà Ramzan, questi scomparirà rapidamente. I quattro pilastri angolari sono il terrore, la ricostruzione, la cooptazione e l’Islam. Sembrano solidi, e Ramzan ne è fiero, se ne vanta. Ma ognuno di essi, in un modo o nell’altro, è minato dall’interno. Il terrore, naturalmente, serve solo a generare nuovi nemici, a spingere nuove generazioni a «partire per la foresta»; quanto allo sviluppo economico, affoga nell’immensa palude della corruzione; la cooptazione costringe tanti ex indipendentisti a partecipare a loro volta alla repressione dei loro ex commilitoni; e il rinnovamento islamico si traduce in gran parte in una guerra strisciante contro la modernità, e soprattutto contro lo status femminile. A Grozny, quando parli con la gente dei suoi problemi (e prima dell’omicidio della Estemirova, perfino quando parlavi con i ceceni di Memorial), non è la paura o la repressione la prima cosa che senti citare, ma la corruzione. […] «È tutto marcio, marcio, marcio», borbotta “Issa”, un amico ceceno. Siamo seduti nella cucina di casa sua a berci delle birre, comprate illegalmente in un negozietto: Ramzan, in nome del nuovo moralismo islamico, autorizza la vendita di alcolici solo dalle otto alle dieci del mattino. «La tragedia peggiore è che i giovani non conoscono altro. Vanno a scuola, i loro genitori pagano. Vanno all’università, i loro genitori pagano. Passano gli esami, i loro genitori pagano. Vogliono un lavoro, i loro genitori pagano. Tutto questo lo vedono. Non conoscono altro, per loro la vita è questo. Ma qui non è mai stato così, tutti lo dicono. Mai. Viviamo come asiatici», conclude amaro. (segue nelle pagine successive)

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Le violenze sono feroci quanto prima, ma sono più selettive. Come l’omicidio della giornalista che aveva sfidato Kadyrov

«Il più grande costruttore del mondo» ià dall’aereo, sorvolando la lunga Staropromyslovskij Shosse a nord di Grozny, avevo potuto farmi un’idea della portata della ricostruzione. Tutti gli edifici lungo il viale sembrano nuovi, con i tetti verdi e le facciate giallo canarino che rallegrano il tetro paesaggio circostante; perfino là, alla periferia della città, bisogna guardare a lungo, e sapere che cosa si cerca, per notare le cicatrici delle vecchie trincee, o delle posizioni dei blindati sui crinali delle colline. Nel centro, tutto è nuovo di zecca, assolutamente tutto: non soltanto i bei palazzi del Diciannovesimo secolo, interamente restaurati, che costeggiano il Prospekt, ma i marciapiedi, le strade, le strisce di erba verde ai margini delle strade, con l’irrigazione automatica, gli alberelli avvolti di ghirlande di luci rosse e blu piantati nel terrapieno fra le due carreggiate, i cartelli stradali, i semafori e i segnali per i pedoni, che scandiscono quanti secondi mancano per poter attraversare. Dentro allo Zum, i grandi magazzini del centro con i loro negozi di dvd, di elettrodomestici e di vestiti all’ultima moda, un manichino di plastica con una borsa a tracolla a righe bianche e blu indossa una maglietta dove campeggia uno slogan in inglese: Who the fuck is Bush? Ramzan is the best president! Più lontano, in fondo al viale, di fronte al monumento in bronzo di Kadyrov padre — recentissimamente smontato in pompa magna, apparentemente per contrastare le accuse di idolatria lanciate dagli islamisti —, si erge, circondata da prati e fontane, la faraonica Grande Moschea di Grozny, una copia della Moschea Blu di Istanbul costruita interamente in marmo e decorata a mano da un esercito di artigiani turchi; un po’ più in basso brillano sfolgoranti i bulbi dorati della cattedrale ortodossa, interamente ricostruita da Ramzan in uno spirito di perfetto ecumenismo, nonostante, al contempo, i rari civili russi che persistono a voler vivere in Cecenia continuino a essere perseguitati e assassinati. E dall’altro lato, in cima al viale, si erge nuovamente, interamente ricostruita, l’orrenda statua dei tre rivoluzionari della zona, un georgiano, un inguscio e un ceceno, quella che i locali chiamano «i Tre Imbecilli», accanto alla grande terrazza di un caffè, sotto a dei capitelli dove tornerò regolarmente per i miei appuntamenti, e accanto a un monumento dedicato, in russo e in ceceno, ai «Giornalisti morti per la libertà di parola» (eretto dalle autorità con gusto perlomeno cinico, è comunque servito, il 16 luglio, come punto di raduno per la manifestazione di cordoglio in onore di Natalja Estemirova). La nostra giornata si concluderà in un ristorante giapponese, lo Iaponski Dvor, dove i giovani vengono a bere il tè seduti su poltrone Ikea di pelle nera, e dove dei cuochi ceceni istruiti l’anno scorso da chef giapponesi, preparano un sushi e un sashimi abbastanza corretti, anche se il pesce delle volte arriva a tavola ancora congelato. Mentre Thomas fotografava i sushi, io pensavo alla curiosa sensazione che avevo provato mentre Tamir ci guidava attraverso la città, la sensazione di una realtà fantasma che veniva a sovrapporsi a un’altra, la bella città nuova di zecca poggiata sul tracciato della vecchia città in rovina, distrutta, devastata, senza riuscire ad annullarla, come se l’una fosse il sogno dell’altra. In passato ho trascorso mesi interi in questa città, e ne conosco bene i punti di riferimento e i quartieri, ma ora la mia bussola interna era completamente disorientata, riconoscevo le direzioni dei

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I pilastri su cui si fonda il regime sono terrore, ricostruzione, cooptazione e Islam. Tutto tenuto insieme dalla corruzione

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la copertina Ritorno in Cecenia

(segue dalle pagine precedenti) ggi, a Grozny, bisogna pagare millecento dollari per diventare guidatore di marshrutka, i taxi collettivi che Ramzan ha interamente preso sotto il suo controllo, da milletrecento a duemila dollari per avere un posto da infermiera, tremila dollari per diventare pompiere: somme che corrispondono a trequattro mesi di salario. Se si conservasse il posto, andrebbe anche bene; ma, come mi spiega Issa, «regolarmente i ministeri ricevono un ordine dall’alto: assumete quindici persone. Dunque bisogna licenziarne altre quindici, che hanno già pagato per il loro posto, per incassare i soldi di quelli nuovi. Oppure sono gli uomini di Tsentoroj, loro devono tutti avere un posto». Perché il regno di Ramzan è in gran parte un regno fondato sul clan: come mi spiega un’altra amica cecena, che chiamerò Ayshat: «Basta dire “Sono di Khossi-Jurt” (il nome storico di Tsentoroj) i vsio, è tutto». […] Non è sempre facile, in Cecenia, dissociare il fenomeno globale della corruzione da quelli che bisognerebbe chiamare «circuiti di finanziamento pubblico fuori bilancio», una forma di tassazione parallela. Perché, con almeno una parte del denaro che maneggia, sottrae o estorce, Ramzan costruisce delle cose utili per gli abitanti del suo regno: strade, scuole, ospedali e altre infrastrutture ancora. […] Tutto questo, beninteso, è reso possibile dai soldi russi, somme considerevoli iscritte a bilancio e versate da parecchi anni per la ricostruzione della Cecenia. Ma i soldi russi non bastano a spiegare tutto: lo si è visto bene nel caso dell’Ossezia del Sud, dove le centinaia di milioni offerti da Mosca dopo la guerra della scorsa estate sono semplicemente evaporati, forse su conti in Svizzera o a Cipro, lasciando la città di Tskhinvali distrutta come prima. Ramzan, invece, i soldi li fa lavorare, e se altri si arricchiscono en passant, tanto meglio: come Reagan, o come Mobutu, Kadyrov è un grande adepto della trickle-down economics. Il fatto è che i soldi saccheggiati dai funzionari, dai più piccoli ai più grandi, vengono per la maggior parte reinvestiti localmente, sotto forma di posti di lavoro nel settore edilizio, di acquisti, di regali ad amici di famiglia; stando a quello che mi hanno detto, Ramzan ci mette poco a innervosirsi se i suoi sbirri cercano di investire fuori dalla Cecenia. Ci tiene molto che la sua politica produca risultati visibili da tutti, la ricostruzione innanzitutto, e tutti i suoi ministri sanno che i loro conti in banca personali, i loro appartamenti e i loro bei mobili dipendono direttamente dai risultati prodotti dai loro collaboratori. Come ammette Vakha, un mio amico ceceno, che pure detesta il sistema Kadyrov: «Il figlio ha dei lati positivi. Ha un buon cervello ed è molto forte. Costringe la gente a lavorare. Alla fine del 2005, quando era ancora primo ministro, ha fatto rifare il Prospekt Pobeda (il grande viale centrale, ribattezzato Prospekt Putin) in due settimane, in tempo per il Capodanno. Ha obbligato la gente a lavorare ventiquattro ore su ventiquattro, perfino i ministri. È stata un’ottima esperienza per lui, ha imparato molto». […] Natalja Estemirova, che non negava certamente la portata delle realizzazioni materiali di Kadyrov, diceva un giorno: «I progressi economici sono inversamente proporzionali ai progressi morali». […]

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Dio è grande alid Kuruev, il vicemuftì di Cecenia, mi riceve un venerdì pomeriggio nel piccolo ufficio situato all’angolo della Grande Moschea, dove quel giorno è di servizio. […] La strategia religiosa del potere ceceno è limpida: promuovere un Islam cosiddetto tradizionale, sufi, per contrastare l’ascesa del salafismo dei combattenti islamici, quelli che i russi chiamano i “wahhabiti”. La Cecenia, storicamente, è sempre stata sufi: l’islamizzazione dei teip, nel Diciottesimo secolo, è stata effettuata da predicatori sufi dell’ordine, o tariqat, Naqshbandi, di cui il più celebre esponente è l’imam Shamil, che diresse la resistenza contro la penetrazione russa. Alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, quando Shamil fu infine costretto alla resa dal principe Barjatinskij, un giovane pastore ceceno tornato da Bagdad dove era stato iniziato alla Qadiriyya, Kunta-Khadzhi Kichev, si mise a predicare un nuovo messaggio religioso quasi quietistico, dove il jihad interiore e l’accettazione del male del mondo esterno prendevano il posto del jihad esteriore e permanente dei Naqshbandi. Anche se i russi, piuttosto stupidamente, ritennero che rappresentasse una minaccia per il loro ancor fragile dominio e lo deportarono in Siberia, dove morì, il messaggio di Kunta-Khadzhi si diffuse fra la popolazione stremata dalla guerra come una scia di polvere. I Kadyrov, padre e figlio, sono degli adepti del wird (una sottobranca della tariqat) di Kunta-Khadzhi, e il padre, una volta arrivato al potere, evocava spesso il messaggio quietista di quest’ultimo per giustificare la sua politica di resa e collaborazione. Mirzaev, il nuovo muftì, è anche lui naturalmente un Kunta-Khadzhi, come Kuruev. Ma Ramzan fa attenzione a trattare con riguardo gli altri wirdQadiri, e anche i Naqshbandi: mentre i muftì discutevano per decidere a quale wird assegnare la direzione della grande moschea, Ramzan ha ordinato che ci fosse un imam diverso per ogni giorno, in modo che tutti fossero soddisfatti: e così i Kunta-Khadzhi hanno tre giorni a settimana, e i Bamat-Girej di Avturi, un altro potente wird Qadiri, un giorno; i Naqshbandi, da parte loro, hanno tre giorni, due per la dinastia di Yussup-Khadzhi e uno per quella di Tasho-Khadzhi. Questa politica piuttosto raffinata, che seppellisce definitivamente i conflitti che hanno contrapposto le tariqat nel corso degli anni, forse è un’idea di Akhmad-Khadzhi, che essendo un muftì padroneggiava perfettamente le sottigliezze della politica religiosa in Cecenia. […] Perché è la sharia, in una forma o nell’altra, il cuore di questo progetto. Ramzan e i suoi muftì possono richiamarsi quanto vogliono alla tradizione, di quella c’è solo il nome. Mirzaev e Kuruev hanno servito entrambi presso l’Alta corte shariatica di Maskhadov, e Kuruev, come quasi tutti i suoi colleghi, ha studiato in Egitto, com-

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Nella “società tradizionale” che vuole imporre Kadyrov sono le donne a farne le spese. Ogni capo famiglia ha il diritto di picchiare e uccidere mogli e figlie. Lo stesso presidente ha dichiarato: “Se non le uccide, che razza di uomo è?”. E il muftì Kuruev ama ripetere: “L’intelligenza femminile è come la coda della rana”

plessivamente per otto anni. Man mano che mi espone il suo programma religioso, faccio sempre più fatica a distinguerlo, teologicamente parlando, da quello predicato su YouTube da Dokku Umarov o dal suo nuovo ideologo, un buriato convertito che si fa chiamare shaykh Sayeed. Certo, ci sono distinzioni “tecniche” molto importanti, come il zikr, il culto dei morti, e il rigetto, da parte dei religiosi cooptati, della guerra santa contro la Russia, almeno quando parlano in pubblico. Ma lo spirito mi sembra lo stesso, o quasi. «Tutto quello che volevamo all’epoca, ora lo abbiamo», mi aveva detto Umar, il comandante tornato da Londra, mentre mi decantava le lodi di Ramzan e della sharia. Ho sentito la stessa identica frase da Kuruev, ribadita con convinzione. Ma come ho detto, è difficile giudicare fino a che punto siano sinceri. Un altro giorno, sempre a Grozny, ho intervistato Akhmad-Khadzhi Shamaev, l’ex muftì di Cecenia sostituito da Mirzaev, che mi ha propinato un discorso molto simile a quello di Kuruev. A un certo punto della conversazione, mentre mi spiegava che «senza la politica di Ramzan, la metà dei ceceni sarebbe nella foresta», si è interrotto per rivolgere qualche parola in ceceno a un mio amico che ascoltava in silenzio. «Sai che cosa mi ha detto?», mi ha raccontato ridendo quest’ultimo, dopo che abbiamo lasciato Shamaev. «Ora bisogna parlare così. Se non dico questo, mi portano laggiù». Laggiù, naturalmente, vuol dire Tsentoroj. Perché anche i muftì hanno paura di Kadyrov, anche se lo elogiano con convinzione. Mirzaev, il muftì, sarebbe in rapporti freddi con Kadyrov dalla primavera scorsa: quando ero a Grozny, in maggio, era più di un mese che non passava in televisione, e Ramzan, da quello che avevo sentito, l’avrebbe addirittura picchiato in pubblico; quanto a sapere perché, è un altro paio di maniche: c’è chi dice che Mirzaev sarebbe stato sorpreso dentro a una sauna con delle ragazze, altri dicono che è solo una questione di soldi, vallo a sapere. Tensioni o no, il desidero di sharia, o piuttosto di una neosharia à la carte, mi sembra reale in seno all’attuale classe governante cecena.

glienza, si era lanciato in una tirata interminabile, tradotta in russo sul sito Prague Watchdog: «Lui [il ceceno della diaspora] deve sapere già che non è più un uomo, se sua figlia ha il numero di telefono della polizia nella rubrica del suo cellulare. Ogni ceceno ha paura che farà quella telefonata, provate a dirmi che uno solo tra voi non ha paura che componga quel numero! Se lui dice che oggi è un uomo, domani forse già non sarà più un uomo, domani forse già non potrà più rispondere di sua figlia, dire “dark” [fa il rumore di una pistolettata] e piantargli una pallottola in mezzo alla fronte con una pistola. Se non puoi ucciderla così, è ridicolo! E se non la uccide, che razza di uomo è? Prova vergogna di se stesso? Oggi è un uomo e domani non è più un uomo. Non può vendere così il suo futuro!». […] Ora, il punto è che queste pratiche non hanno assolutamente nulla di tradizionale. Certo, le donne cecene sono sempre state sottoposte a un forte controllo sociale, ma questo controllo poteva essere esercitato solo dagli uomini della loro famiglia, padre, marito o fratelli. La questione del comportamento delle donne era una questione strettamente familiare, e ogni famiglia poteva decidere quanta libertà accordare o non accordare alle sue donne. […] Ma i suoi interlocutori tra i muftì o al Governo non vedono alcun problema in questa politicizzazione del controllo sociale. Come scriveva a marzo il giornalista ceceno Magomed Torev, in un articolo pubblicato sul sito Prague Watchdog, «la concezione [di Razman] della tradizione c’entra con l’adat [il diritto tradizionale] ceceno quanto, ad esempio, la Legge dei ladri [il codice dei criminali sovietici] c’entra con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo». Valid Kuruev, da parte sua, prega Allah affinché il Governo approvi una legge che renda obbligatorio il velo: «Se le donne coprono la loro pelle, la loro bella pelle, non ci saranno più stupri, no?». Mi spiega che la sua nonna materna di 129 anni, a Gojty, continua a vestirsi come una volta, con parecchi strati a coprirle la testa e tutto il corpo: «Un tempo, tutti vivevano così! E lei, lei vive ancora così. Una volta, quando un uomo usciva, una donna non attraversava nemmeno la strada! Se vedeva un vecchio, tornava indietro! C’era rispetto per gli anziani, per gli uomini. E ora guardate: le gonne con lo spacco, Da Vinci, come si chiama? Armani, Versace, tutta questa roba non è per i ceceni. Al governo sono tutti musulmani, no? Nemmeno loro vogliono che le ragazze vadano in giro così». E non sono solo gli imam: perfino Nurdi Nukhadzhev, il responsabile per i diritti umani di Kadyrov, la pensa come loro riguardo ai diritti delle donne: «Da cosa è fatto il governo? Questa è una repubblica monoetnica. Chi sono i fratelli, i cognati, i mariti, i padri? Noi lavoriamo tutti insieme. Il Parlamento, sono quelli che abbiamo eletto noi. Non ci sono stranieri qui, per così dire. Ma non è necessario approvare una legge, questo no. Quello che dice il presidente è una raccomandazione». Almeno non si spinge lontano quanto Kuruev, che conclude la sua diatriba con questo pensiero profondo: «L’intelligenza di una donna è come la coda della rana». […] È la parola “modernizzazione”, pronunciata da una ragazza con cui discutevo di questi argomenti, che mi ha fatto tornare in mente un’idea che mi aveva colpito lasciando il teatro dopo il Den stroitelej, o piuttosto un’ipotesi: la Cecenia, a causa della guerra e dell’imponente destrutturazione della società che la guerra ha determinato, sarebbe passata direttamente dall’epoca tradizionale all’epoca postmoderna, all’epoca globalizzata contemporanea, saltando la tappa della modernità. Non è del tutto esatto, perché la Cecenia una modernità ce l’ha avuta, la modernità sovietica, che, anche se è penetrata nei villaggi (Grozny, all’epoca, era una città russa) solo nelle sue forme più elementari (il maestro, il poliziotto, il segretario del partito) e non è mai stata pienamente integrata, ha tuttavia lentamente diluito e indebolito le strutture sociali arcaiche. […] Nel 1996, a Grozny la maggior parte dei miei colleghi beveva soltanto vodka e pensava che fosse perfettamente legittimo digiunare solo tre giorni per il Ramadan; e una sera, a Vedeno, mi sono ritrovato, con un collega francese, nella curiosa posizione di dover spiegare i fondamenti e la storia dell’islam a un gruppo di combattenti di Shamil Bassaev. Ma gli anni di guerra, se da un lato hanno fortemente contribuito — come tutte le guerre — a una rinascita della religiosità se non della religione, hanno anche finito di destrutturare i codici sociali più profondamente radicati, i codici di condotta e comportamento personale che sono alla base stessa della “cecenità”. I giovani che sono cresciuti in quegli anni, con padri morti, assenti o pietrificati dalla loro impotenza, non hanno subito la formattazione sociale dei loro fratelli maggiori, lo vedevo continuamente durante quel viaggio: non hanno nemmeno appreso le regole di educazione di base, come alzarsi quando una persona più grande entra nella stanza. Ma quando si vede il proprio presidente picchiare pubblicamente uomini molto più vecchi di lui, a volte addirittura persone vicine a suo padre, come Taus Dzhabrailov, degradato e picchiato per aver osato trattare Ramzan come un uomo ceceno ha il dovere di trattare uno più giovane, chi può stupirsene? E dunque hanno dovuto ripitturare tutto quanto con un discorso sulla “tradizione” rabberciato, messo insieme alla bell’e meglio: hanno ripiegato l’Islam, che prima era una cosa ben distinta, sulla cecenità, hanno identificato la cecenità con l’Islam escludendone tutte le altre componenti, troppo indebolite, erose, per non dire cancellate, dalla guerra. Le strutture arcaiche rimangono, alla base dei comportamenti, ma sopra di esse si accumula uno spesso strato fatto di un miscuglio di soldi, affari, telefoni cellulari, Porsche Cayenne e Hummer, di un dispotismo all’orientale, di una totale assenza di freni e di una religione semireinventata e semiradicalizzata, con il kitsch neotradizionale a cospar-

Chi ha vinto realmente qui? Anche la vittoria è un concetto fluido, e soggetto a numerose interpretazioni

La coda della rana a nuova islamizzazione della Cecenia avanza in modo molto discontinuo; lo si è visto nel caso dell’alcol, facilmente disponibile e bevuto da tanti, nonostante i tentativi di vietarlo. […] Ma sono soprattutto le donne che fanno le spese del “ritorno alla tradizione” di Ramzan, dei suoi siloviki e dei suoi imam. «La dittatura che si insedia poggia anche sull’umiliazione delle donne», constatava Natalja Estemirova ad aprile davanti alla telecamera di Mylène Saulois. Il velo è già obbligatorio in tutti gli edifici pubblici e all’università; all’ingresso della sede della stampa cecena, ad esempio, un cartello annuncia: «Care donne! Allo scopo di mostrare rispetto verso le tradizioni e i costumi nazionali, vi preghiamo con insistenza di entrare nell’edificio del “Dom Pechati” con la testa coperta». Tanja Lochkina, a Mosca, mi racconta che un giorno, malgrado la sua croce e il suo viso russo che più russo non si può, le guardie all’ingresso dell’università le avevano impedito di entrare perché si era dimenticata il suo foulard. Ramzan e il suo entourage predicano (e praticano) anche, apertamente, la poligamia, adducendo ripetutamente come motivazione la mancanza di uomini ceceni dopo la guerra e l’obbligo per le donne di “comportarsi bene”, minacce alla mano: «È meglio per una donna essere la seconda o la terza moglie che essere ammazzata [per la sua cattiva condotta, sottinteso]», ha dichiarato Kadyrov ad aprile in un’intervista concessa alla Rossijskaja Gazeta. […] Il problema del comportamento delle donne sembra in effetti ossessionare Kadyrov. In un’intervista molto eloquente realizzata da Ksenja Sobchak, una celebrità russa del genere Paris Hilton, e da una giornalista moscovita sua amica, e pubblicata sull’edizione russa di GQ nel giugno 2008, Ramzan ha spiegato che «la donna deve apprezzare [la protezione degli uomini] e saper stare al suo posto. Per esempio, nella nostra famiglia nessuna donna ha mai lavorato e nessuna donna lavorerà mai». Le provocazioni insistenti delle due giovani donne, che gli rivelano ridendo che un noto stilista che lui aveva invitato in Cecenia e omaggiato di un orologio svizzero del valore di quasi centomila euro è un omosessuale, lo destabilizzano visibilmente; ma quando la Sobchak gli chiede: «Ci dica, quali cose sono assolutamente tabù, vietate, in una famiglia cecena?», Ramzan risponde senza esitare. «Fra quello che è vietato è compreso: tutto quello che fate voi. Tutto quello che fate voi, per le nostre figlie e le nostre sorelle, è categoricamente vietato. È vietato perfino pensarci!... Voi», conclude con aria triste, «siete merce guasta. Peccato!». Ed è assolutamente evidente che Ramzan ritiene che sia suo dovere, in quanto presidente, imporre personalmente queste regole di buona condotta. Quando nei dintorni di Grozny, a novembre dell’anno scorso, furono ritrovati i cadaveri di numerose donne, lui provocò scandalo dichiarando (senza la minima prova) che si trattava di omicidi d’onore e segnalando che lo trovava normale. […] Il diritto di picchiare o uccidere le proprie donne o le proprie figlie sembra talmente fondamentale a Kadyrov che ne ha fatto un argomento per incoraggiare i ceceni esiliati in Occidente a tornare in patria. A febbraio, ha riunito in uno studio televisivo quasi quattrocento ex combattenti, fra cui alcuni personaggi molto noti, per arringarli in diretta per quattro ore e venti minuti (quando il presentatore ha cercato di interromperlo, dopo due ore, dicendogli che era il momento del notiziario, Ramzan ha replicato: «Chi se ne frega del notiziario! Tanto comunque fanno vedere solo me»). Tornando su un incidente a cui aveva già dato forte risonanza, la storia di una ragazza cecena della diaspora che, picchiata da suo padre, aveva sporto denuncia alla polizia del suo paese di acco-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37

LE TAPPE POLITKOVSKAJA

NUOVO PRESIDENTE

RITIRO RUSSO

DISSIDENTI UCCISI

KAMIKAZE

Il 7 ottobre 2006 è uccisa la reporter Anna Politkovskaja Sulle pagine della Novaja Gazeta denunciava le violenze dell’esercito russo in Cecenia

Dopo le dimissioni di Alkhanov, il 15 febbraio 2007 Putin sceglie Ramzan Kadyrov, figlio del presidente ucciso nel 2004, come nuovo capo dello Stato ceceno

Il 26 marzo 2009 la guerra cecena è ufficialmente chiusa. La Russia annuncia il ritiro delle sue truppe e la regione viene dichiarata “sotto controllo”

Il 15 luglio 2009 Natalia Estemirova dell’Ong Memorial viene uccisa, così come gli attivisti Zarema Sadulayeva e il marito Alik Dzhabrailov il mese dopo

Il 21 agosto 2009 un doppio attentato kamikaze a Grozny viene rivendicato dal Battaglione dei martiri Riyadus Salikhiyn, costituito dai seguaci di Basaev

gere il tutto. E tutto questo con la benedizione del Cremlino.

Nella foresta a vittoria è un concetto soggettivo. A volte, è anche un concetto burocratico. Quella, ufficialmente dichiarata il 16 aprile scorso, della Russia in Cecenia è l’una e l’altra cosa insieme, come dimostra il comunicato pubblicato dal Comitato nazionale antiterrorismo: «Il presidente [del Comitato], il direttore del Fsb Aleksandr Bortnikov […] ha annullato il decreto che designava il territorio della Repubblica [cecena] come zona di operazioni antiterroristiche». Una decisione di questo genere ha un valore performativo: anche se non è del tutto certo fino a che punto sarà seguita da effetti concreti, come un ritiro delle truppe russe o la rimozione delle limitazioni per i giornalisti, modifica la situazione e permette di vederla sotto una nuova luce. E modifica anche i rapporti di forza politici: richiesta da Ramzan, e rapidamente autorizzata, certamente dallo stesso Vladimir Putin, contro le numerose obiezioni che provenivano principalmente dalle forze armate e dai servizi di sicurezza, conforta il potere pressoché assoluto del premier e rafforza di un altro centimetro l’ambiguità delle sue relazioni con la Russia. Chi ha “vinto” realmente, qui? Anche la vittoria è un concetto fluido, e soggetto a numerose interpretazioni. […] Dopo l’annullamento del Kto, il regime operativo antiterroristico, i ribelli islamisti ceceni sono di nuovo relativamente attivi, e dall’inizio dell’estate non passa settimana senza un attentato o un colpo di mano, senza che i federali o le forze di polizia di Ramzan non subiscano delle perdite. La situazione è nettamente peggiore nelle repubbliche vicine, in Daghestan e in Inguscezia, ma in Cecenia, per la prima volta da qualche anno a questa parte, c’è l’impressione che le autorità comincino a perdere il controllo. Oleg Orlov, il dirigente di Memorial, mi diceva già prima dell’omicidio di Natalja Estemirova che secondo lui c’era un legame diretto fra l’aumento delle sparizioni e l’incapacità di Kadyrov di riportare una vittoria “definitiva”, o anche solo di arginare l’emorragia di giovani verso la resistenza; gli eventi, da allora, non fanno che confortare la sua analisi. Perché è evidente che malgrado tutti gli sforzi messi in campo da Ramzan e dal suo regime, malgrado i posti in polizia distribuiti agli ex comandanti ribelli e la promozione di un Islam quasi integralista, i giovani continuano a «partire per la foresta». Secondo Majrbek Vachagaev è logico: «I giovani vedono che i wird sufi fanno il ruolo dei lacchè del potere. Non sono idioti. E di colpo, questo li rispedisce fra le braccia dei wahhabiti». L’arbitrarietà, la corruzione, il clanismo del regime disgusta parecchi: come mi spiegava Oleg Orlov a Mosca, «nella società cecena tradizionale — che io non idealizzo, tutt’altro — c’erano sempre dei contrappesi. Oggi c’è una sola forza. E contro questa forza niente, né gli anziani, né i legami fra i clan, né i teip possono nulla. … Quando un Kadyrovets rapisce una ragazza per farne la sua seconda o terza moglie, chi può opporsi? […] Naturalmente una parte della società questo non lo può accettare, e uno dei modi per protestare — praticamente l’unico — è andare con i bojeviki». Il fenomeno è impossibile da quantificare, e difficile perfino da delimitare; si ha l’impressione, stando alle poche informazioni disponibili, che resti relativamente localizzato, soprattutto nei villaggi intorno a Vedeno, nucleo storico della ribellione cecena. Ma non sono solo i contadini poveri ad avercela con Ramzan. Mi è stato confermato da diverse fonti, a Mosca e a Grozny, che nell’aprile del 2008 Kadyrov è scampato per un pelo a un tentativo di eliminarlo compiuto da alcuni giovani del suo villaggio natale, Tsentoroj. La faccenda è stata tenuta segreta e i particolari restano vaghi — si dice che i cospiratori abbiano approfittato di un matrimonio per avvicinare il loro bersaglio (normalmente Tsentoroj è inaccessibile e tutti gli abitanti poco fidati sono stati cacciati via da tempo, ma per i matrimoni o i funerali si lasciano ancora entrare degli invitati) — ma tutte le fonti confermano che uno dei principali responsabili dell’attentato era il figlio di un esponente della nomenclatura di Ramzan, uno dei suoi capi distretto, di nome Bajmuradov. Zolotaja molodiozh, li chiama la giornalista della Novaja Gazeta, la gioventù dorata. Circolano voci di un altro tentativo serio di assassinare Ramzan, che sarebbe avvenuto quest’estate, nella stessa Grozny. […]

FOTO THOMAS DWORZAK / MAGNUM/ CONTRASTO

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biamo l’indipendenza di fatto. Ramzan grida sempre la sua fedeltà alla Russia, ma qui è lui il proprietario. La legge russa non si applica qui. I russi non potranno mai tornare a vivere a Grozny». Umar Khanbev, Kuruev, l’altro Omar, dicevano la stessa cosa o quasi. Quando lo riferisco a Peskov, lui fa uno strano sorriso: «Davvero? Ah, beh… Non l’avevo mai sentito». Ma per lui, come per il suo padrone Vladimir Putin, una sola questione conta davvero, quella del «bacillo del separatismo», come lo chiama lui: tutto il resto si può negoziare. Mosca potrebbe prendere tranquillamente in considerazione, secondo Peskov, l’idea di «uno statuto autonomo allargato […] come per il Tatarstan. Ma soltanto fino a una certa linea rossa», aggiunge, «una linea rossa esiste per tutti». È proprio con questa linea rossa che Ramzan sembra giocare costantemente, ed è questo, forse, che genera tanta confusione. La “linea rossa” dei russi era esclusivamente simbolica, sacramentale perfino — “l’infezione del separatismo” — la sua applicazione pratica nel mondo reale, una volta stabilito che i ceceni rinunciano formalmente all’idea dell’indipendenza giuridica, resta altamente soggetta a interpretazione. E Ramzan dà l’impressione di testarne permanentemente i limiti, di cercare di vedere fino a dove si spingono; per il momento, pubblicamente o meno, nessuno sembra avergliene imposti di molto precisi. […] Sembrerebbe inoltre che Kadyrov, con tutta la sua esuberanza, la sua megalomania e la sua violenza, sia animato da motivazioni più profonde che non il potere in se stesso o l’interesse. «Suo padre aveva una missione, pensava di avere una missione per salvare il suo popolo», mi spiega il giornalista russo Andrej Babitskij nel suo appartamento praghese, davanti a una bottiglia di vino e a un televisore perennemente acceso sul canale satellitare ceceno. Babitskij, uno dei pochissimi giornalisti russi rimasti in Cecenia all’inizio della seconda guerra, ha dovuto autoesiliarsi nel 2000 dopo essere stato vittima di un’operazione contorta messa in piedi dal Fsb, dove per poco non era rimasto ucciso; da allora, continua a scrivere sulle faccende russe per Radio Liberty e ha creato un sito web d’informazione, il Prague Watchdog, a cui contribuiscono parecchi ceceni. «Ramzan», continua Babitskij, «ha ripreso questa missione. È una missione ricevuta direttamente da Dio: salvare il suo popolo, dare un futuro alla Cecenia… Noi siamo tutti dei prodotti del sistema sovietico», aggiunge un po’ più tardi, «abbiamo imparato a sacrificare il presente in nome del futuro. Moralmente, siamo dei sovietici, dei bolscevichi. Non è cambiato niente. Io credo che anche Ramzan sia così. Il presente non significa nulla per lui, conta soltanto il futuro… E in nome di questo futuro tutti i metodi sono consentiti». […] Resta da vedere come riusciranno i russi a gestire tutto questo sul lungo periodo. Anche se per il momento possono accontentarsi della situazione, anche se ritengono che tutto sia ancora sotto controllo, sanno benissimo che le cose possono cambiare da un momento all’altro. Come dice con lucidità Majrbek Vachagaev: «Tutto è costruito su un unico uomo… E oggi la Repubblica intera deve pregare per Ramzan Kadyrov, perché se gli succede qualcosa, loro perdono tutto… E questo significa che non è un sistema. Non è una politica a lungo termine… È un momento regalato alla Cecenia». Un ambasciatore europeo mi ha riferito che l’argomento era stato affrontato in occasione di un incontro con Bortnikov, il nuovo capo del Fsb: «Quando ho sollevato la questione di Ramzan, lui mi ha risposto: “Non è certo l’ideale, ma non abbiamo una soluzione di ricambio”». […] E lui ne è perfettamente consapevole.

L’ho sognato che guardava, ridendo, i suoi sudditi cadere da una gru Poi si lanciava e, ridendo, apriva il paracadute

Il Khozjain adyrov, per i russi, è un’arma a doppio taglio. E il meno che si possa dire è che il rapporto con i suoi padroni del Cremlino e della Casa Bianca è sotto il segno dell’ambiguità. In occasione della mia conversazione con Dmitrij Peskov, gli avevo chiesto: «Uno dei grandi temi di Vladimir Putin, al momento del suo arrivo al potere, era quello della “verticale del potere”, riprendere in mano le regioni e i loro dirigenti. Ma la sua soluzione al problema ceceno è stata quella di mettere al potere un presidente ultrapotente, che controlla un esercito privato di ventimila uomini e risorse considerevoli, e su cui Mosca ha poche leve di controllo. Non c’è una contraddizione in tutto questo?». Peskov, naturalmente, aveva traccheggiato prima di ammettere che Ramzan, l’unico dirigente di regione nella federazione russa che abbia il potere di nominare i suoi siloviki, «si sta costruendo la sua verticale. Questo è comprensibile». — «Ma il problema della fedeltà di questa verticale a Mosca rimane aperto, no?» — «Una verticale può essere fedele, in blocco, a una verticale più grande». Mosca certo ci può sperare, ma è difficile garantirlo, soprattutto, quando si ha a che fare con una “verticale” tanto dinamica. I ceceni, in maggioranza, sono convinti di aver vinto la guerra. Il mio amico Vakha aveva esclamato, in una delle nostre conversazioni: «Che ha ricavato la Russia da tutto questo? La Russia ha perso. Ab-

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*** inconscio, si sa, riesce ad accedere alla verità delle cose in modo molto più efficace della ragione cosciente. In Cecenia, all’inizio di maggio, la situazione appariva quasi normale, il Paese era visibilmente ricostruito, il terrore sembrava una cosa lontana, che ormai riguardava solo qualche villaggio. I miei amici recriminavano per la corruzione, ma non sembravano troppo inquieti; e sulle montagne, il Fsb lasciava che i giornalisti andassero a fare picnic. Non provavo nessuna paura, nessuna inquietudine quando andavo in giro, né a Grozny né sulle montagne. E perché avrei dovuto avere paura? Che problema avrebbe potuto rappresentare per Kadyrov uno scrittore straniero, che passa qui solo qualche giorno? Che cosa avrebbe potuto apprendere da solo, anche in due settimane, di diverso da ciò che possono dirgli quelli di Memorial? Che riparta, che scriva quello che vuole, che ce ne importa; ecco che cosa si saranno detti, ecco che cosa mi dicevo si saranno detti. E poi, durante una delle ultimissime notti che trascorrevo in Cecenia, ho sognato Ramzan. Ero sdraiato in un grande prato verde leggermente in pendenza, circondato da alberi, forse un parco, e guardavo il cielo. Sopra la mia testa, dietro di me, si innalzava una grande gru, grande come le gru da container dei porti, blu con delle parti rosso scuro. Ramzan stava in cima, al termine del segmento orizzontale, e faceva gettare nel vuoto, due a due, uomini legati insieme, alcuni in uniforme, altri in abiti civili. Li vedevo roteare cadendo, poi scomparivano dal mio campo visivo per venire a sfracellarsi intorno a me, con un gran rumore sordo che sentivo con orrore, un terrore muto. Mentre cadevano, pensavo: là, sono ancora in vita, e nel momento in cui colpiscono il suolo, ecco che sono morti. Ce n’erano molti; e Ramzan, là in alto, li guardava sfracellarsi ridendo. Poi, quando alla fine si ritrovò da solo, saltò a sua volta, dispiegando un paracadute che lo conduceva dolcemente, sempre ridendo, fino a terra. Traduzione di Fabio Galimberti © Jonathan Littell 2009

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