Raja's Favole 2th Edition

  • November 2019
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  • Words: 11,714
  • Pages: 58
R A JA M A R A Z Z INI

IL GIOCO DEL MINESTRONE E ALTRE FAVOLE SAPORITE

SECONDA EDIZIONE 2007 – STAMPATA IN PROPRIO TIRATURA LIMITATA ESEMPLARE N° 32 /250 + 1

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Ai miei genitori che da piccolo mi leggevano favole, poesie e talvolta, persino la carta del salumiere. Raja

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NOTA NOIOSA ( QUASI UN SÌ BEMOLLE PERIODICO )

Raja Marazzini fece sentire la sua voce per la prima volta il 5 luglio del 1975 all'ospedale di Cuggiono, provincia di Milano, dove nacque. La madre guardandolo con occhi di madre che guardi il suo figliolo appena nato gli fece capire che il mondo sarebbe stato tanto più buono con lui quanto più egli sarebbe stato capace di accettarne le cose belle e quelle brutte, ma il piccolo Raja fece capire subito che a queste ultime avrebbe opposto il suo strillare. Crescendo quello strillare da infante divenne poesia. Questa volta la poesia assume la forma letteraria delle favole.

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Tanto per cominciare.

Un bambino oggi è nato e ha rischiato di morire per una malformazione al ventricolo destro, una delle due pompe del cuore, ma... il ventricolo sinistro voleva talmente che il neonato andasse a scuola, amasse, leggesse, avesse un figlio a sua volta che ha tenuto duro. Ha lottato insieme ai dottori per sistemare le cose e ora quel bimbo è fuori pericolo: vivrà. Fra qualche mese starà bene e potrà iniziare la sua avventura sulla terra. Io scrivo favole per dare ossigeno ai ventricoli sinistri che lottano.

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“Scrivo favole non solo perché i bimbi si addormentino prima, ma anche perché si sveglino prima.” Raja

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Favola del tempo sospeso - Il Gioco del Minestrone -

In una stanza segreta del cielo, il Signore del Tempo era tutto indaffarato a giocare a Minestrone con alcuni giovani apprendisti e ne combinò una che vale davvero la pena raccontare. In tutto l’universo, il tempo scorre perché il Signore del Tempo capovolge ogni giorno, esattamente a mezzanotte, una piccola clessidra che dura 24 ore. Ma quella sera accadde che il Signore del Tempo e i suoi giovani apprendisti si dimenticarono di girare la clessidra. Ridevano a crepapelle e ovviamente si erano scordati del tempo: del resto è risaputo che basta ridere per non pensare a nulla. Ma che gioco è Minestrone, vi starete chiedendo... sarà un gioco di quelli elettronici, costosi, che possono avere solo i bimbi ricchi, come al solito... robe di computer o di satellite... e invece no. Per il gioco più divertente del mondo servono solo carte e fantasia. Sorpresi ? Ma dai che se ci pensate alla fine i giochi più belli sono sempre quelli più semplici, come il pallone o nascondino o rincorrersi... Facciamo così: mentre i nostri amici ridono e il tempo è sospeso io vi racconto come si gioca a minestrone. Ci vogliono dei mazzi di carte o da scala 40 o da rubamazzetto o altro; ma si possono anche scrivere dei numeri da 1 a 13 su dei foglietti e formare 8 mazzi: purché alla fine abbiate un mazzo di circa 80 –100 carte. Bisogna essere almeno in 5 o 6 giocatori... più si è meglio è. Ci si mette in cerchio, o attorno ad un tavolo o seduti per terra.

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Ognuno deve pensare ad un gesto, che so, per esempio... la linguaccia; gli occhi che guardano contemporaneamente la punta del naso; le mani che tappano le orecchie; il dito mignolo che pulisce l'orecchio destro velocissimamente; le mani a pugno che sbattono sulle guance gonfiate; i denti che sbattono come una dentiera; un dito nel naso; il viso che tira i muscoli e la voce che fa “ Me-he-he !!!”; il mignolo e l'indice di una mano che pettinano rispettivamente il sopracciglio sinistro e il sopracciglio destro; la mano che sbatte 2 volte sulle labbra un poco aperte; a mani giunte, abbassare i due medi e poi ruotare le mani su loro stesse e muovere le due dita; e ancora, la pernacchia... e altre mille gesti che la fantasia suggerisce. A turno ognuno dei giocatori mostra il suo gesto agli altri: meglio fare tre giri. Bisogna memorizzare i gesti, perché man mano che il mazziere scopre le carte davanti ai giocatori con un gesto secco, chi ha la carta dello stesso numero deve subito fare il gesto dell'altro. E’ più difficile da spiegare che da fare, come sempre. Per esempio, se io ho un due e facendo il giro con le carte, a te viene un altro due, io devo fare il tuo gesto e tu il mio: chi lo fa prima vince e chi perde la sfida si prende le carte che aveva davanti il vincente. A proposito, durante la partita non si possono suggerire o dire i gesti degli altri o i propri a chi non li ricorda, altrimenti scatta la penitenza. Bisogna ricordarseli oppure improvvisarli. E mi raccomando le carte devono essere sempre ben visibili, quindi non mettete le mani davanti. Via le mani! Tutto deve svolgersi velocemente, solo quando a due giocatori vengono le carte uguali si deve un po’rallentare, ma poco: se il mazziere infatti è uno bravo, a volte girerà le carte dei giocatori lentamente e quando usciranno le due carte uguali

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si fermerà in attesa dell'esito della sfida; altre volte, anche se saranno uscite due carte uguali, continuerà a girare le carte successive, in attesa che ne vengano altre di uguali così da creare una sfida a tre, o varie sfide, il che credetemi moltiplica il divertimento. Ma vedrete che i ritmi saranno le risate a scandirli. Il bello è essere in tanti, perché è difficile ricordarsi i gesti di tutti e quindi si vedono giocatori che non ricordandosi, provano tutti i gesti del mondo sperando di azzeccare quello giusto e intanto si ride, per la velocità delle sfide, per i gesti, per le scene strampalate e surreali che si vedono. Vi assicuro, le più grandi risate della mia vita le ho fatte con i film di Charlie Chaplin e giocando a “Minestrone”. Alla fine chi ha perso più sfide e ha accumulato più carte, perde e deve sottoporsi alle famose penitenze: Dire, Fare, Baciare, Lettera o Testamento; a seconda del dito scelto i vincitori decidono la penitenza. Anche se spesso si salta questa parte, giacché il bello è quando si gioca. Che risate vi farete... e che risate si stavano facendo nella casa del Tempo: e il tempo non scorreva. Il tempo non scorreva... ma come? Eppure era così: un bacio durava ancora, un bimbo non riusciva ad arrivare in fondo allo scivolo e scivolava e scivolava e la mamma in fondo con le braccia aperte ad aspettarlo... hai voglia! Un pianto non smetteva, una telefonata non arrivava ai saluti, un treno non usciva più dalla galleria in cui era entrato. Una donna camminava pensierosa lungo un ponte che non aveva orizzonte, un padre che leggeva una favola non arrivava a dire “... e vissero tutti felici e contenti”.

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Una nave appena salpata non andava verso il largo, un boomerang lanciato non si decideva a tornare indietro. Ogni azione in ogni parte del mondo ripeteva se stessa. Qualcuno da non so dove chiamò il Numero Verde della casa del Tempo e tutti smisero di ridere. Il Signore del Tempo guardò la clessidra e capì che il tempo non stava scorrendo. Rispose al telefono dicendo: “Attenda un attimo...”; e se non fosse corso a girare la clessidra quello sarebbe ancora là ad aspettare. Poi tornò al telefono e disse: “Casa del Tempo, dica pure...” “Ah, non è Pizzeria Jolly? Oh, mi scusi devo aver sbagliato numero”. “Di nulla, anzi!” E così il tempo riprese a scorrere e da quella volta anche se giocarono a minestrone quasi tutte le sere, ridendo tanto, ma tanto, non si dimenticarono più di girare la clessidra. E da oggi chi vuole ridere, ma ridere sul serio, gioca a minestrone non ai giochi elettronici. Pensa un gesto...

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FAVOLA DELLE ELEMENTARI

Sai cos’è l’onda? - Un piccolo mare. Allora se io mettessi in un secchiello un’onda potrei portarmi in giro il mare? - No, quella sarebbe solo acqua salata. Ma cos’è il mare, allora? - Un’onda, dopo un’onda, dopo un’onda, dopo un... cioè un piccolo mare + un piccolo mare + un piccolo mare + … E quand’è che non ci sarà più un’onda, dopo un’onda, dopo un’onda: quando finirà questa somma di piccoli mari che i calcoli già a scuola mi danno problemi?

Il mare padre e il mare madre generano vita marina, sempre... Ma ora, corriamo sulla spiaggia coi piedini nudi, su, corriamo!

Ci sono dei grossi pescioni neri che imprigionati in una secca non riescono a diventare piccoli pesciolini rossi, presto! Là, dietro una piccola collina creata dalle rocce c’è una pozza di fango salato, dove spesso capita di andare a tirarsi dietro pallottole di terra o a giocare a calcio scalzi divertendosi un mondo. Oggi, invece, ci sono 5 grossi pescioni neri e infangati che non ce la fanno a diventare piccoli pesciolini rossi per uscire strisciando e spanciando da quella enorme pozzanghera quasi prosciugata. Il mare è lì a pochi metri, come da qui a lì, possibile che non debbano farcela. Cosa possiamo fare noi bambini così piccoli per loro così grandi? - Per prima cosa una carezza.

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E intanto il più piccolo dei grandi pescioni neri che non riescono a farsi piccoli pesciolini rossi si lamenta e piange vicino alla madre. Chiede scusa per aver lasciato il gruppo ed essersi spinto troppo a riva, verso la spiaggia e aver causato tutto. La madre lo tocca con una pinna enorme e sembra anche quella la carezza di un bimbo. La madre l’aveva avvertito di non avvicinarsi troppo alla spiaggia, perché c’era il pericolo di restare incagliati e di non saper più diventare piccoli pesciolini rossi per poter zompettare fuori da quel pantano. Lo consola. La madre è forte e da coraggio, ma gli altri 3 grossi pescioni neri lo sentono che è da troppo tempo che sono fuori dall’acqua e hanno la pelle quasi secca. Sentono un caldo infinito e ironia della sorte sentono anche lì, a pochi metri, il rumore del mare che sbatte lento e non credo si possa desiderare di più una cosa di come quei grossi pescioni neri desiderino il mare. Ma che possiamo fare noi bambini? - Prendere i secchielli, riempirli di acqua di mare e rovesciarli sulla loro schiena. Ma siamo solo in due; siamo piccoli: come facciamo a rovesciarli su quei grossi pescioni così alti! Cosa possiamo fare noi bambini per quei pescioni neri che non riescono a farsi piccoli pesciolini rossi? - Dargli un bacino con gli occhietti chiusi e abbracciarli. Ma noi vogliamo che ritornino al mare! Non c’è proprio niente che noi bambini possiamo fare per aiutare quei grossi pescioni neri a tornare a casa? - No, bambini.

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Ma non è giusto! Oggi c’è il sole; noi volevamo giocare a piedi nudi nella pozzanghera e invece ci sono 5 poveri pescioni neri che stanno morendo perché non riescono a diventare piccoli pesciolini rossi e noi non possiamo fare nulla. Non è giusto, uffi! Non è giusto! Loro devono vivere, star bene e noi dobbiamo giocare. Non è proprio possibile aiutarli a diventare piccoli pesciolini rossi così possono sguazzare fino al mare che è lì, pochi metri dietro di loro: farli diventare piccoli piccoli, rossi rossi per un paio di minuti e poi di nuovo grossi grossi, neri neri, per sempre. Non è proprio possibile, Signore? Solo per qualche minuto, Signore, piccoli e rossi e poi grossi e neri ... Non è proprio possibile, Signore? - Provate a chiudere gli occhi bambini, seduti verso il mare: provate a desiderare con tutte le vostre piccole forze - fatele diventare grandi forze - che quei grossi pescioni neri diventino piccoli pesciolini rossi. Chiudete gli occhi bambini e fateli diventare piccoli pesciolini rossi, per il tempo che basta a farli tornare al mare profondo: provateci bambini, chiudete gli occhi, su, provateci. In quel momento si sentì un enorme onda sbattere sulla spiaggia dove c’era la secca. I bambini tennero gli occhietti chiusi e non ebbero paura: dovevano farli tornare al mare quei grossi pescioni neri: farli diventare piccoli pesciolini rossi. Dopo un paio di minuti, sentirono la gioia dei 5 grossi pescioni neri che non erano riusciti a diventare piccoli pesciolini rossi e mentre stavano per morire erano stati salvati da due bimbi che invece erano stati capaci di farsi grandi e coraggiosi. I pescioni neri tornati al mare facevano capriole e spruzzi più alti del sole e tutto per ringraziare quei piccoli bimbi diventati tanto grandi. I bimbi ormai felici poterono giocare a piedi nudi nella pozzanghera e correre di nuovo facendo sciak sciak sul bagnasciuga e tirarsi le pallottole di terra.

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Ogni tanto, senza pensarci troppo, alzano gli occhi verso quell’onda dopo un’onda dopo un’onda che è il mare, sentono un calore e un sapore meno salato provenire dall’acqua. Sanno che da laggiù tra gli abissi, oltre l’orizzonte 5 grandi amici li ricordano sempre con affetto e loro il mare se lo portano in giro sul serio: negli occhi e nel cuore. Crescendo lo imparerete bambini: quando si da tutto di se per aiutare qualcuno o dimostrargli affetto, le anime si fondono in un legame stupendo e nella memoria, poi, quelle sensazioni saranno le più forti, le più vere e soprattutto saranno quelle che vi renderanno uomini. Ricordatevelo sempre, bambini.

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FAVOLA CHE NON IMMAGINI

In uno di quegli sperduti paesini di montagna, un bambino e una bimba dai capelli lunghi fino alle ginocchia, del colore del cuore delle margherite bianche erano compagni di giochi e di marachelle. Se volessi dirti in una parola tutto il loro divertimento direi: correre. Dal castello sulla cima del monte che domina il paesino e la vallata fino giù alla “Villa”, il parco giochi dei ragazzi più grandi, ci volevano circa 10 minuti andando piano, ma ai due bimbi non interessava per nulla andare piano. Loro impiegavano al massimo 6 minuti, la facevano tutta di corsa e quando col fiatone poi giungevano alla fontana dell’arrivo, all’interno della Villa, iniziavano a spruzzarsi d’acqua e a ridere; ridevano tutto il tempo: ridevano. Perché correre, schivare gli ostacoli, saltare, inseguirsi non era che una scusa per ridere: loro ridevano e sprecavano fiato e se ne infischiavano di impiegarci 1 minuto in più: l’importante era ridere; ridere come solo quando non sai bene perché ridi, puoi fare. I bimbi correvano e ridevano: non si preoccupavano d’altro. Però certe volte si vivono situazioni terribili e allora se prima pensando a qualcosa pensavi a correre o a ridere o a giocare al pallone, poi, cambia tutto. Metti che questa volta sia successa la cosa più terribile del mondo: metti sia scoppiata una guerra. La guerra è qualcosa che ti cambia la vita. Ad un bambino che vive nel suo mondo di bambagia, tenerezza e calore si potrebbe dire che la guerra è come una sgridata brusca per una marachella però 1000 volte più brusca e poi una sgridata da un’altra voce, non da quella di papà, che comunque sai che sei l’unico per lui, no!

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Una sgridata da parte di qualcuno che non conosci. Come fai ad accettarlo quando sei piccolo che qualcuno che non sia tuo padre, tua madre o i nonni ti dica quello che devi o non devi fare? Piangi, oppure fai finta di niente, ma comunque la reazione è quella: piangere ed è giusto che sia quella per un bambino. Una guerra è una sgridata brusca che fa piangere non solo i piccolini ma anche i grandi e allora alla guerra i bambini reagiscono perché sono troppo belli e pensano che non sia giusto che piangano il papà e la mamma e dicono alla Guerra che è cattiva e che non si deve permettere di scombussolare ogni cosa: i bambini devono piangere, i genitori devono sgridarli e consolarli poi, ma non devono piangere i genitori. Però la Guerra ha un problema enorme: è sorda. Non sente niente, ma da nessun orecchio, non c’è nulla da fare: tu puoi piangere e gridare: gridare che non è giusto e che deve smettere e Lei niente; questa guerra cattivona non sente nulla: sorda come una campana e stonata spesso. E così la Guerra scombussola la vita di tante persone e questa volta la Guerra ha scombussolato la vita del bambino e della bimba del paesino di montagna. La Guerra infatti, costrinse le famiglie dei due piccoli amici a scappare lontano però in due posti diversi e così i due bimbi non poterono più correre insieme dal castello alla Villa e ridere insieme e impiegarci 6 minuti di cui uno passato a ridere: in realtà il più bello. Separati dalla Guerra, lontani dal loro percorso preferito divennero così tristi che persino la Guerra vedendoli disperati e silenziosi cominciò a sforzarsi per sapere cosa avessero, ma nulla da fare. Si convinse di essere totalmente incapace d’intendere e a quel punto capì di essere incapace persino di volere.

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Non se la passa poi così bene la Guerra da quando ha capito di non poter comprendere molte cose; nell’aria gira la voce che mediti di sparire per sempre, ma chissà… Eccomunque, la bimba ad un certo punto scoppiò a piangere perché voleva vedere il suo compagno di corse e di risate memorabili. Il bambino cominciò a scriverle pensierini dolci come la granita che mangiavano ogni tanto. E la bimba e il bambino si pensavano continuamente e volevano darsi la manina e correre e ridere, ridere. Ma la Guerra non finiva e tutto si stava rompendo dappertutto e c’era tanta paura quando faceva freddo. La bimba contò tutte le volte in cui si mise a piangere e il bambino scrisse tante frasette belle e divertenti pensando che anche se da lontano almeno un po’ l’avrebbero tirata su di morale. La Guerra una sera si stancò e andò a dormire in una caverna enorme e quando vide se stessa riflessa in uno stagno capì di essere orrenda e disse: “Spero tanto di riuscire a dormire per almeno 1000 anni”. Anche noi lo speriamo dissero tutti in coro. I bambini e le famiglie poterono tornare al loro paesino, su in montagna. Trovarono tutto rotto, vecchio, pieno di terra e polvere nera e ovunque non c’era altro che silenzio. Però dissero: “Finalmente a casa!”; e così dissero tutti coloro che tornavano a casa, finalmente. Il bambino andò subito a vedere se la bimba stava bene e quando si videro si abbracciarono e si guardarono a lungo negli occhietti stanchi e lucidi. Avevano sofferto tanto quegli occhietti.

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Lei disse: “Ho pianto tutto il tempo perché c’era buio; tu non c’eri e non si rideva più. Non si correva mai per divertirsi: si correva per restare vivi. Non avevo più il nostro percorso e a volte volevano che corressi di notte e io avevo tanto sonno...” Lui disse: “Io ho scritto tanti pensierini per te sul mio quadernetto ingiallito; voglio regalartelo così leggendoli nelle prossime sere, starai meglio e avrai ancora voglia di ridere e di correre: correre per ridere, finalmente...” La bimba rispose che se era per quello anche in quell’istante aveva una gran voglia di correre e di ridere e allora il bambino non se lo fece dire due volte e lanciò la sfida. “Chi arriva prima alla fontana...” e prima che potesse finire di parlare la bimba scattò e lui la rincorse e si superarono e si superarono di nuovo e poi saltarono e corsero e risero per tutta la discesa. Quando furono quasi alla Villa si presero per mano e risero, risero fino a che non arrivarono alla fontana. Lì la bimba disse: “Stavi dicendo? ... chi arriva prima alla fontana…” Il bambino finì la frase. “CHI ARRIVA PRIMA ALLA FONTANA ODIA LA GUERRA”. Questa volta si dice che la Guerra abbia sentito.

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FAVOLA DI UNA PRINCIPESSA D’ALTRI TEMPI E DELL’ACROBATA CHE LE PRESE IL CUORE.

In uno splendido castello sul lago di Garda, i regnanti della città di Desenzano ebbero una figlia molto carina che chiamarono Luce. Suo padre, il serissimo Re Giorgio, convocò a corte i più famosi studiosi d’Europa affinché somministrassero le scienze e le lettere alla piccola Principessina. “Tu sposerai un grande scienziato, - le diceva -. Se la regola è che il futuro re sia per forza un nobile, io farò in modo che tu sposi un erudito che la nobiltà ce l’ha nella testa: il suo titolo nobiliare sarà il suo attestato di laurea”. La piccola Luce ascoltava il padre e gli sorrideva: tanto come tutti i bimbi una volta cresciuta avrebbe fatto quello che voleva. La madre, la soave Regina Iolanda, non appena il marito andava ad occuparsi delle importanti faccende reali, cacciava via i famosi Maestri educatori, prendeva la figlia e la portava nel parco a giocare. Le faceva saltare la corda, fare le capriole sull’erba, giocare con l’hola-hop e correre libera tra gli stagni e le siepi ben tagliate della tenuta. Voleva che la figlia crescesse spensierata e stare tutto il giorno in casa non le faceva certo bene. “Tu sposerai chi vorrai - le diceva -. Ormai l’unica cosa bella di essere regina è questo castello incantato; non hanno più senso i titoli e gli stemmetti di famiglia: io non voglio che tu sia una regina fuori dal tempo: preferirei tu diventassi una ragazza moderna”. La piccola Luce sorrideva alla madre e intanto si godeva quelle ore di libera uscita: fantasticava sul mondo, sui viaggi che avrebbe fatto da grande e sui ragazzi che avrebbe incontrato; così la piccola Luce crebbe sveglia e sbarazzina, divisa tra i

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pomeriggi di studio per volere di suo padre e le ore di svago per complicità della madre. Divenne una splendida principessa. Quando ebbe 20 anni iniziarono a farsi avanti i primi pretendenti. Gran parte della selezione però, l’aveva già fatta un editto emanato dal padre che diceva pressappoco così: “La principessa Luce non accetta pretendenti che non siano almeno laureati”. E così artisti, poeti e musicisti geniali furono tagliati fuori. A dire il vero dopo un anno, di laureati se ne erano presentati solo un paio, ma non piacquero a nessuno della famiglia e Luce non se ne innamorò neppure per sogno. Così Re Giorgio ritirò l’editto per vedere se per caso tra i non laureati ci potesse essere qualcuno che potesse piacere piacere alla figlia: si presentarono in parecchi e in parecchi furono rimandati a casa. A quel punto il Re mandò suoi fidati collaboratori nelle corti e nelle università di tutta Europa a cercare pretendenti all’altezza della principessa Luce. Vennero a corte dei giovanotti eleganti, di buona cultura: Re Giorgio rimase contento e sperò che questa volta fosse quella buona, ma sua figlia non si innamorò. La principessa vide il padre triste, seduto sul trono nella fredda sala del camino e gli si sedette sulle ginocchia: “Come potete pretendere, Padre, che mi innamori di quei giovanotti? Forse saranno dei luminari nelle loro materie, ma credetemi, la passione e l’amore quelli non sanno neppure cosa siano. Vi voglio bene, Padre mio e non voglio deludervi, credetemi, ma io mi sposerò solo quando troverò un uomo che mi faccia tremare per lui, che abbia dolcezza e che la vita, almeno un po’ l’abbia vissuta”. Re Giorgio alzò lo sguardo e capì sua figlia.

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Alcuni anni dopo però rimase di stucco quando la vide tornare da una vacanza con un uomo vestito in abiti circensi. Faceva l’acrobata: Luce l’aveva visto esibirsi in uno spettacolo a Praga ed aveva perso la testa: l’aveva guardato volteggiare nell’aria con una tale leggerezza: pareva che fosse sempre vissuto nel cielo, volando e planando sotto il sole sopra il mare. Alla fine del numero andò a conoscerlo e lui le disse che era un fisico, un professore laureato alla Normale di Pisa. “Come… un fisico che fa l’acrobata?” - gli domandò sgomenta –. “Che c’è di strano? In fondo se ci pensi la fisica studia le leggi della materia e dei corpi; io non riuscivo a stare tutto il giorno chiuso in una biblioteca; per me è inevitabile che un fisico voglia provare sulla propria pelle quali legami tengano insieme cielo, terra e aria. Volteggiando io mi diverto un mondo e intanto provo su di me le leggi che studio.” Quando la principessa Luce ebbe finito di raccontare il loro incontro a suo padre, il Re chiamò la Regina e le disse: “Questo castello ha trovato finalmente due nuovi sovrani: noi possiamo ritirarci in pensione e aspettare che arrivino i nipotini. Tua figlia è serena e ha trovato una persona straordinaria con cui passare la vita: anche noi dobbiamo essere felici per lei”. La regina Iolanda sorrise al vecchio Re Giorgio e accarezzò la figlia con la tenerezza e la complicità di sempre. Il piccolo regno festeggiò a lungo la sua principessa e suonarono le campane per giorni interi. Dalle parti di Desenzano, si dice che una bimba, che ogni tanto va a dormire in quel castello, riviva in sogno la storia della Principessa Luce e dell’acrobata che le prese il cuore.

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E quando la mamma la mattina la sveglia, perché è ora di partire, la bimba piange perché non vorrebbe più abbandonare il castello incantato e neppure quel sogno.

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FAVOLA DI UNA BALLERINA DA CARION E DEL SOLDATINO CHE PERSE LA TESTA PER UN BALLO CON LEI

Ci sono sogni che appartengono ai bimbi e sogni che appartengono agli adulti. Prima non lo sapevo, ma ci sono anche sogni che appartengono ai personaggi dei giocattoli. Questa è la storia che mi piace farmi raccontare spesso dal mio vecchio peluche. Ascoltatela con gli occhi chiusi mentre il fresco di una brezza primaverile vi solletica l’immaginazione.

Nella casa di un bambino borghese c’erano 2.000 giocattoli: tra bambolotti, pupazzi e giochi in scatola ne avrà avuti da farci giocare un intero paesino. Neppure lui li conosceva tutti; egli, in realtà, avrebbe preferito andare al parco con gli amici a giocare al pallone ma i genitori avevano paura che potesse imparare qualche parolaccia o abitudine disdicevole e giustificandosi con queste brillanti motivazioni lo tenevano sempre in casa. Certo! Credendo di accontentarlo, gli compravano giochi nuovi ogni giorno, ma lo facevano soprattutto per evitare le osservazioni scomode degli amici di famiglia, che dissentivano sul modo di educarlo. Rimanendo isolato dal mondo, infatti, il ragazzino crebbe nevrotico e cattivo. Anche i giocattoli erano stufi dei suoi modi di fare assurdi: li smontava e li rimontava creando dei mostriciattoli tipo Frankestein. I suoi genitori volevano tenere lontani degli spettri che egli sapeva ricrearsi benissimo da solo, nella loro casa, con il loro determinante contributo. Ecco perché quando il ragazzino andava a dormire cominciava il bello.

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I soldatini, i Big Jim, i corsari, le bambole davano inizio alle feste più belle che si possa immaginare. Si trovavano tutti nel salone delle feste dell’immenso castello di Lego, facevano partire l’orchestrina a pile, si fiondavano in mezzo alla pista e ballavano tutta la notte. C’erano coppie impensabili che si divertivano un mondo: i corsari con le Barbie, le Pocahontas con gli astronauti, sembrava una delle feste che i bambini fanno a carnevale ma era diverso, perché quelle maschere non duravano un giorno. Era un mondo vero e proprio: nascevano storie d’amore, con gli sguardi e i baci e tutto quello che c’è dietro, crescevano amicizie che sarebbero durate a lungo, si piangeva per una delusione e si beveva per dimenticare. Ma la storia del soldatino e della ballerina non se la scordò mai nessuno. Un soldatino in uniforme e ben pettinato, con i suoi luccicanti bottoni dorati e la sua bella sciabola legata alla vita era triste per non so quale ragione e iniziò a passeggiare tra le scatole dei giochi sparsi ovunque nella stanza. Camminò su Monopoli, passò dal via senza andare in prigione, percorse largo Augusto, via Verdi e si fermò a prendere una boccata d’aria al Parco della Vittoria. Poi si annoiò e riprese a camminare. Arrivò fino ai piedi del letto in cui dormiva il ragazzino e gli fece una sonora linguaccia. “Tanto questo dorme come un sasso”, pensò il soldatino. Decise che si sarebbe arrampicato sul comodino alla destra del letto e che si sarebbe fermato un po’ a guardare il mondo dall’alto e così fece. Col binocolo d’ordinanza riuscì addirittura a vedere il castello di Lego, le luci della festa, e minuscole ombre che si muovevano al centro dell’immenso salone.

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Avrebbe voluto anche lui rimanere laggiù a divertirsi, ma era depresso per la guerra e per la solitudine della trincea in cui era dovuto rimanere per mesi. Aveva bisogno di pensare, di cercare qualche stimolo dentro di sé: quando ti cerchi devi essere solo e camminare, camminare per un bel po’ e forse ci riesci a non buttar via proprio tutto, di quello che hai fatto fino a quel momento, anzi se sei lucido puoi anche ritrovare l’entusiasmo per continuare a credere nelle tue cose. “Ma la filosofia, per stasera può anche aspettare”, si disse. Girò il binocolo verso la scrivania che stava di rimpetto al letto ed ebbe un sussulto: sopra un carion di legno intarsiato stava immobile una ballerina vestita di tulle e di pizzo bianco, con gli occhi celesti e i capelli tirati indietro, fermati da una grossa molletta che pareva un cerchietto. Il soldatino sentì un nodo stringergli la gola: sarebbe andato da lei e le avrebbe chiesto un ballo. Come la bellezza possa far rinascere in un istante è meraviglioso da pensare. Un ballo con lei, certo, sì! Sulla piccola pista del carion il suo cuoricino sarebbe diventato enorme e le avrebbe detto che l’amava. Scese dal comodino come un razzo, andò ai piedi della scrivania, si arrampicò come un alpino provetto e dimenticò di essere un cavallerizzo. Purtroppo dimenticò anche che erano quasi le otto: il ragazzino a quell’ora apre gli occhi, si alza, coprifuoco, pericolosissimo farsi trovare a portata di mano. Se l’avesse trovato lassopra, Dio solo sa cosa gli avrebbe fatto, ma che vuoi, quando il cuore batte a 1.000, senti solo lui, non ragioni se non in base a quello che ti dice il cuore, e così fai quello che devi fare e te ne freghi del mondo.

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Una volta in cima alla scrivania, andò di corsa al carion e da vicino, la ballerina gli parse ancora più bella: non hai vissuto pienamente finché non arriva il momento in cui vedi da vicino la persona che ami. “Sono un soldatino della armata austriaca, il mio nome è Franz e ti amo: hai voglia di ballare con me?” Si avvicinò ancora di più a lei e senza accorgersene toccò la leva che fa partire la musica e aziona il carion. La ballerina sbatté 2-3 volte le ciglia lunghissime e se lo trovò di fronte. Era giovane, carino, in un’uniforme perfetta che lo slanciava: anche lei sentì il cuore battere forte. “Nessuno era mai venuto fin quassù a trovarmi, sei stato coraggioso e mi sorprende che tu non tema le ire del ragazzino. Ma ora non perdiamo tempo, danziamo, mio eroe, danziamo per quei minuti che ci restano prima che si svegli. Non pensiamo a quello che ci farà, teniamoci stretti stretti come due fidanzatini felici. Immaginiamo che tutti i brindisi di questa notte abbiano festeggiato il nostro incontro, che tutti i baci di oggi, siano i baci che non potremo darci domani e che tutto l’amore del mondo adesso è quello che sentiamo nei nostri cuori, l’uno per l’altro. Danziamo, amore, danziamo...” Il soldatino si lasciava guidare e le sorrideva e a poco a poco il carion era sparito e così la scrivania, il ragazzino, la stanza, i ricordi: non esistevano più. Danzavano altrove. Con gli occhi si parlavano dei loro bambini e dei loro nipoti e quelle fantasie erano poesia così intensa che se ci fosse un po’ di giustizia, avrebbe dovuto essere quello il loro futuro.. Ma il destino è allergico ai sogni.

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Alle 8.00 in punto suonò la sveglia, il ragazzino borghese aprì i suoi occhietti rampanti e si alzò dal letto. Sentì la musica del carion, leggera, che riempiva la stanza del profumo dei fiori. Andò verso la scrivania, vide l’eterno ballo tra il soldatino e la ballerina e per ancora un secondo non fece nulla. Un secondo che forse gli frutterà il paradiso. Un secondo: è un attimo, ma se lo vivi bene può durare più a lungo. Un secondo c’è tutto; un secondo dopo: NULLA. Click. Bloccò la levetta, la musica si fermò, la ballerina rimase impietrita coi suoi occhi di cielo, il soldatino sbiancò. Il ragazzino disse un paio di parolacce, - quelle che non avrebbe dovuto imparare stando in casa -, prese il soldatino impeccabile nella sua uniforme blu scuro e gli staccò la testa. Chiuse in un cassetto il carion e andò a fare colazione con bacon e würstel.

Nella stanza gelida, in un cassetto senza infamia né lode, una ballerina in ginocchio piange il suo soldatino, che, scampato a innumerevoli guerre, finì ucciso dalla cattiveria di un ragazzino rovinato dalla stupidità dei genitori. “Vilmente ucciso mentre ballava con il suo sogno”, scrissero.

Però quel ballo sta ancora accadendo, adesso, in qualche parte del mondo, tra quella ballerina da carion e quel soldatino da leggenda. Per sempre insieme, - come noi -. Sempre in ballo.

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FAVOLA DELLA TORRE ELETTRICA E DEL PICCOLO PASSERO

Questa favola è dedicata alle persone coraggiose, come te. Tu mi hai reso protagonista di una storia meravigliosa: la mia vita ora è più serena, meno invivibile, però è triste che da qualche giorno quando mi sveglio, mi sembri tutto così scolorito, e io piango perché con te avevo conosciuto e amato i colori della natura, ed erano così intensi i profumi, ed erano così dolci, a volte. E’ terribile perdere di colpo le cose più belle che si hanno. Ed è’ ignobile che troppo spesso siamo noi stessi a lasciarci sfuggire le persone cui teniamo di più, le persone che amiamo. Ma ... il fatto è che ... è così difficile stare al mondo ...

Sulla campagna di cui ti parlerò, il sole batteva sempre con troppa energia e i contadini che vi lavoravano erano neri sia per il caldo, sia per la rabbia di dover sudare sette volte una camicia pur di avere dalla terra il maggior raccolto possibile; ma erano contadini e non potevano tradire la terra. Proprio nel mezzo di quel campo coltivato, il comune, poco prima delle elezioni, decise di far costruire un’altissima torre elettrica grazie alla quale si sarebbe inviata corrente alle frazioni che stavano sulla cima della montagna vicina. In cambio gli abitanti delle frazioni avrebbero dato alla giunta comunale in carica, la garanzia del loro unanime voto di sostegno. Chissà se anche Dio quando diede al mondo la luce si fece promettere voti alle elezioni universali. Comunque la torre elettrica era: “Bellissima…” Così almeno la definivano fieri, il progettista e il costruttore.

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Ma i contadini non la pensavano allo stesso modo, anzi speravano che alle elezioni, la giunta comunale saltasse. Gli anziani dicevano che quel colore argenteo ben poco s’intonasse alla naturale armonia che il verde, il giallo e il marrone avevano dipinto nei campi e nelle colture. Ma sai, le opinioni dei poveri contano quanto il loro potere d’acquisto e perciò nessuno si preoccupò del loro parere. Va così quaggiù. E la favola dov’è ? - Ti starai chiedendo Dov’è quell’elemento che aggiunto al reale crea la meraviglia del sogno? Voi bimbe avete sempre fretta di sapere tutto, vero? Beh, quella torre, di primo acchito fredda e artificiale, aveva un‘anima nobile e un cuore così grande da far invidia a un religioso. Ecco dov’è la cosa incantevole, nel fatto che un oggetto abbia una sensibilità, che possa provare e dare emozioni, anche se è vero che ultimamente pure tra le persone è difficile trovare calore e umanità. Ma tu sei brava, sai bene che la vita è passione e non può esserci passione senza sincerità d’animo. Si era sentita così incompresa, quella torre, quando aveva udito i contadini parlar male di lei: una sera un contadino ormai esausto del lavoro, per scaricare il nervoso, l’aveva colpita con una vanga e lei aveva tanto sofferto che la corrente nei paesini sui monti arrivava a colpi: singhiozzava, la torre, perché quel gesto le aveva spezzato il cuore. E pensare che li amava così tanto quei piccoli amici che guardava dall’alto affaticarsi; talvolta addirittura, cercava di piegarsi su di loro per fare un po’ d’ombra a quelle schiene spezzate: era buona la torre.

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Ma era talmente grande! Persino gli uccellini, che sono sempre così coraggiosi e amanti delle novità ne avevano paura: non andavano mai a posarsi sulle sue braccia per cinguettare storielle. Anzi le stavano il più lontano possibile. La torre pregava tutte le sere perché arrivasse qualcuno a tenerle compagnia, qualcuno di cui essere amica: voleva essere amata, che c’è di strano? Tutto ciò che vive ha bisogno d’amore e nonostante l’apparenza, lei era viva, sentiva, sognava… Sognava proprio come sogni tu, piccola, stesa nel lettino, addormentata. Se solo potessimo cambiare le cattive sorti del mondo e dire a tutti che il cuore paga molto più dell’arroganza; pensa che bello sarebbe un mondo pieno di energia, di buone idee: un mondo finalmente adatto ad ospitare la tua dolcezza; però tocca anche a te far sì che cambino le cose. Mostra ai delusi il senso di parole rassicuranti, di sguardi puri. Non perdere amore, bambina mia, non perdere amore. Cerca il meglio della vita altrimenti tutto ti sembrerà inutile e il bacio della buonanotte lo riterrai una sciocchezza; ma non è sciocco chi da amore, è sciocco chi lo nega o peggio ancora lo soffoca dopo avergli dato ossigeno: solo amando si sente la vita, non scordarlo. Solo amando si sente la vita. Infatti la torre non smetteva di sperare: sapeva che di lì a poco qualcuno le avrebbe dato la gioia di sentirsi indispensabile alla sua felicità, doveva solo aspettare: avere pazienza. E sai cosa successe nella nidiata dei passeri?

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Da circa sei giorni era nato un piccolo che a giudicare dalla precocità dei movimenti, tutti dicevano sarebbe diventato un grande volatore, “Capitano di squadriglia”, diceva la madre. Una settimana prima dei suoi fratellini, prese la rincorsa dal ramo più alto e si gettò nel vuoto: ci impiegò un attimo a prendere confidenza con il vento, volava come un adulto: era un genio delle acrobazie e i genitori con orgoglio dicevano che era stato tutto merito delle loro spiegazioni, ma a dire il vero ci credevano in pochi. Era un dono di natura che bisognava perfezionare con l’esercizio: così ben presto imparò a conoscere le correnti, quelle che spingono in alto e quelle che tirano verso il basso. Apprese rapidamente le varie tecniche di volo, quelle per andare veloce e quelle per volare senza fare molta fatica: amava abbandonarsi ai venti docili del pomeriggio, ma non rinunciava a sfidare se stesso nelle folate gelide e martellanti della sera. Era meraviglioso vederlo svolazzare facendo lo slalom a tempo di record fra i rami ingarbugliati degli alberi da frutto. Dall’alto la torre elettrica lo guardava ogni giorno fare numeri. Le dava sollievo ammirarlo mentre danzava sulle musiche intonate dai venti come un ballerino famoso. Un pomeriggio, mentre se ne stava seduto con i compagni di volo, il piccolo passero, rivelò il suo progetto più ambizioso: “Ho deciso - disse -, volerò fino in cima alla grande torre e mi appoggerò sulle sue braccia”. Rimasero tutti impagliati; alcuni si misero un’aluccia davanti agli occhi, altri ebbero un sussulto e quasi caddero dal ramo.

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Cercarono di convincerlo che poteva essere pericoloso, gli dissero che volare sulle braccia della torre era addirittura proibito dai saggi dei grandi alberi e che chi disobbedisce ai divieti degli anziani finisce rinchiuso nella tana dello scoiattolo. “Niente può farmi cambiare idea, amici”, sentenziò. Intanto la torre dall’alto faceva il tifo per lui. La notizia ben presto fece il giro degli alberi: i saggi si riunirono per discutere, le madri si strinsero attorno ai genitori e gli adulti lo presero in giro: “sei solo un pio-pio”, gli dicevano; ma al piccolo passero non importava. Il coraggio l’aveva nel sangue, “i commenti della gente servono solo a riempire i giornali - diceva - : le imprese, invece, quelle fanno la storia e la storia non è altro che coraggio”. Un pomeriggio, il vento era particolarmente tranquillo e il cielo limpido e azzurrino. Il passero senza dire nulla si mise in volo verso l’alta torre e dopo una mezz’ora arrivò fino in cima. A dire il vero era un po’ impaurito dinanzi a quel colosso e gli tremavano le alucce ma la torre prese a incoraggiarlo teneramente: “Non temere di appoggiarti sulle mie braccia, passerotto; ho pregato tanto affinché tu riuscissi ad arrivare fin quassù”. “Ma giù al villaggio gli adulti dicono che chi ti tocca muore e l’educazione insegna per prima cosa ad ascoltare i grandi”. “Piccolo mio, è vero che bisogna ascoltare gli adulti, ma poi si deve fare completamente di testa propria; te lo assicuro non potrei mai farti del male: sei l’unico che mi abbia trovata interessante, l’unico che abbia cercato di capirmi, di scoprirmi: io ti amo, ti amerò sempre”.

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Dopo aver udito queste parole il passerotto si fece coraggio e si adagiò sulle braccia della torre, era esausto per il volo e sentiva un po’ di freddo, allora la torre, lo scaldò con la sua energia. Il passerotto le diede un piccolo bacio e la torre ebbe un sussulto di gioia che produsse dei luminosissimi scintillii di luce nelle case in cui la torre portava corrente. Quella giornata sembrava non avere più fine: era troppo bella perché il tempo osasse far scorrere i minuti. “Sono così felice di essere qui: prima di conoscerti il mio sogno era realizzare l’impresa di arrivare fin quassù ma ora che ti ho conosciuta, il mio desiderio più grande è stare sempre con te; tutti credevano tu avessi un cuore di ferro o addirittura che non lo avessi, che tu fossi cattiva e mortale perché la tua mole è immensa. Ma ora io so che non è così, che tu sei diversa da come sembri e ora lo andrò a dire a tutti: ai miei amici, agli adulti, alle madri e agli anziani e quando i contadini vedranno i passeri girarti intorno e cantare e giocare felici capiranno che non puoi essere crudele e cambieranno opinione su di te e ti vorranno bene. Vedrai!” La accarezzò e volò giù. La torre elettrica gli ripeteva: “Torna presto!” e giurava che quello era stato il giorno più felice della sua vita perché aveva conosciuto, per la prima volta, l’amore: non aveva parole ma nei paesini in montagna non riuscivano a spegnere le luci. Era la torre che dormiva a circuiti aperti: sognava. Quando il passero arrivò al suo nido, però, l’accoglienza fu terribile: i genitori senza neppure ascoltarlo, lo chiusero nella sua stanzetta, gli amici lo definirono un rivoluzionario e i saggi ne ebbero orrore perché aveva disubbidito al loro divieto. Il piccolo passero cercò in tutti i modi di spiegare che la torre lo aveva trattato benissimo, che era loro amica, ma niente da fare: nessuno voleva ascoltarlo.

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La sola cosa che contava per gli adulti era che avesse violato una loro disposizione precisa e che per questo meritasse una punizione esemplare. E’ difficile spiegare a chi ha il cuore imbalsamato cosa sia la bellezza del conoscere qualcuno con cui ci si trova subito insieme. La torre si era accorta di quello che stava succedendo al piccolo passero e sospirava: “Povero Amore…” Si pensavano da lontano e si sentivano abbracciati. La torre e il piccolo passero. L’enorme e il minuscolo: esseri di mondi opposti che si comprendono alla perfezione: chi può spiegare come sia possibile un tale prodigio? L’amore ha questo potere magico, non puoi definirlo diversamente: è magia pura. Sa unire due esistenze diverse e ne fa un capolavoro di intesa. La torre decise di liberare il passerotto a qualsiasi costo: con una specie di lampo elettrico, incenerì il tronco-prigione in cui era rinchiuso il piccolo passero ed egli volò velocissimo a riabbracciarla. Durante il volo però era scoppiato un tremendo temporale e c’erano lampi paurosi e il passerotto era in pericolo. Al villaggio dai nidi tra gli alberi gli amici e gli altri lo guardavano e dicevano: “ecco per fare sempre di testa sua quel giovincello finirà molto male” - e la madre già piangeva sulla aluccia del marito perché non vedeva più alcuna speranza di salvezza. Erano tutti convinti che il passerotto fosse spacciato. Tutti tranne la torre.

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Con un colpo secco strappò i collegamenti delle sue braccia e un istante prima che un fulmine colpisse il passerotto, lo afferrò con le sue dita sottili e gli salvò la vita. “Sei salvo: la tua vita ha per me un valore inimmaginabile e oggi ho dimostrato a tutti quanto sia forte il mio amore per te”. Da quel giorno anche gli altri passeri vollero bene alla torre, e per una settimana intera fecero una festa incredibile in suo onore: la addobbarono di piccole rose e fiorellini di campo, iniziarono a fare volteggi e a danzarle intorno. Anche i contadini quando videro gli uccellini in festa, si fecero meno ostili e suonarono il flauto e la zampogna e finalmente anch’essi capirono quanto fosse gentile quella torre troppo grande. Pochi giorni dopo però, fu chiaro che la torre per salvare la vita al passerotto, si era condannata a morte. Con le braccia a penzoloni, infatti, la corrente non arrivava più ai paesini della montagna e alle elezioni comunali la giunta che l’aveva fatta costruire, non prese neppure un voto. Una mattina arrivò una grande ruspa e iniziò a smontare la torre senza pietà. Quando il passerotto che aveva tentato di fermare la pala meccanica ed era stato gravemente ferito, morì, la sua gente lo seppellì sotto le fondamenta della torre e gettarono fiorellini bianchi e rossi sulla loro tomba.

Ancora oggi dopo molti anni si racconta la storia della torre elettrica e del piccolo passero: ed è un modo bello e poetico di testimoniare che quando il coraggio si nutre dell’amore la morte non fa più così paura.

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FAVOLA DELLE PAROLE CATTIVE E DELLE PAROLE DOLCI

Prendete una città di 100.000 abitanti e pensate alla scuola media di uno di quei quartieri moderni, uno di quelli in cui si può fare sport, giocare a pallone in un vero e proprio campetto e persino fare teatro in qualche compagnia amatoriale. Vivono in un quartiere del genere i due dodicenni protagonisti di questa storia.

Lorenzo, detto Lory tanto birichino quanto intelligente e Carlotta, detta Lotty, la più corteggiata dalle letterine dei maschietti, viso da bambolina, scarpette da donna: semplicemente la più brava della scuola. Lory in prima media fa un tema sull’autunno e lo legge ad alta voce in classe: parla delle foglie che cadono, della vita che nasce e che muore, dell’amore che incupisce quando si è arrabbiati e invece quando si fa pace fa spuntare sorrisi e porta sollievo: quel sollievo che la brezza autunnale porta agli alberi spogli: la promessa che di lì a poco tornerà Primavera a rigenerarli. La Lotty sente quelle parole e chiude gli occhi; si emoziona, ha i brividi e durante la ricreazione corre dal Lory e gli dice che è meraviglioso quello che ha scritto, che la stagione che preferisce è l’autunno, che vuole stare con lui. Lory diventa rosso e le sorride; dicono che da quel momento sono insieme ma, in realtà, quei due erano insieme da sempre. Si guardavano tutto il tempo: erano piccoli, si vedevano solo di mattina e così tutto il tempo si guardavano; poi d’improvviso ogni tanto sorridevano. Da piccoli si è capaci di amare. Altroché. Non ti baci però ti guardi negli occhi e quello è il bacio più lungo del mondo.

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Guardarsi è il modo più bello per baciarsi senza usare le labbra. L’anno successivo la Lotty era sempre più carina e il Lory capiva quanto fosse splendida ma non sapeva se sarebbe stato capace di esserne all’altezza. Non ci credeva. Certo la Lotty stava ancora con lui, lo cercava sempre, lo guardava … Solo che se qualcuno è troppo importante per te ne hai paura, anche se sai che ti vuole bene. Sarà una paura sciocca però è umana: è il terrore di perdere tutto. Terrore che il sogno finisca. E allora sai come ti difendi ? Attaccando chi in realtà non ti ha mai provocato. Diventi stupidamente cattivo: cerchi di far credere al tuo vero sogno che non ti interessa più, che il sogno vero sia un altro. Il Lory cominciò a non corrispondere più gli sguardi della Lotty e durante la ricreazione chiacchierava con Angelica, una ragazza originaria di Imperia che si era trasferita da poco in classe loro. Fingeva fosse quello il suo sogno. Una mattina la professoressa Bandini chiese agli alunni di parlare dei loro fiori preferiti. Chi raccontava delle margherite, chi dei girasoli, chi dei papaveri… e quelle non erano parole ma profumi. Lorenzo disse che il suo fiore preferito era il giglio bianco perché gli ricordava la neve e le montagne dove ogni anno trascorreva il natale con i genitori. Carlotta parlò della lavanda e del suo profumo leggero che riempie di aroma ogni giardino in cui fiorisce.

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Angelica disse di amare il soffione selvatico: quel fiore che si raccoglie nei prati e sembra un piccolo mondo fragile tenuto insieme dal caso. “Un mondo fragile da soffiare via per crearne un altro forte che sarà fragile di nuovo e bisognerà soffiare via ancora, all’infinito…”,così disse. I ragazzi rimasero incantati a sentire quelle parole, ma poco dopo suonò la campanella e corsero tutti a casa. Tutti tranne uno. Lorenzo infatti andò in un giardinetto lì vicino e raccolse dei soffioni. La mattina seguente cercò Angelica e le disse: “Questi sono per te”. Lei ne prese la metà e gli propose un gioco: “Quando dico via, soffia su quelli che hai in mano, io farò la stessa cosa e vedrai che spettacolo”. “VIA!”,urlò. E soffiarono con tutto il fiato che avevano e quei mondi intatti ma fragili si trasformarono in infinite piccole stelle-cometa che danzavano attorno a loro e pareva una pioggia di stelline volanti quella che li accarezzava. Lorenzo guardò Angelica per ringraziarla di avergli fatto provare la magia del soffione selvatico. Si guardarono a lungo e fu un bacio certo. Però sulla guancia, perché il Lory nel cuore aveva solo la Lotty. E tuttavia alla Lotty sembrò che Lorenzo non la guardasse più come prima e dopo alcuni giorni gli chiese se fosse arrabbiato con lei. Lory avrebbe voluto dirle che aveva paura di perderla, che le voleva bene. Ebbe paura: non so dirti di cosa esattamente. Di soffrire forse, di essere felice. Non so.

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Le disse : “Scusa se ti ho trascurata Carlotta, ma sai come sono: se qualcuno mi stupisce devo dirglielo e Angelica con la storia del soffione mi ha stordito un bel po’: mi è troppo piaciuta”. “Però mica puoi stare con Angelica solo perché ti piace la storia del soffione”. “No: però mi piacciono le cose che dice…” “Ma Lory, scusa, e io?”. “Mi sa che tu una storia bella come quella del soffione non saresti neanche capace di raccontarla…” Da piccoli si è capaci di fare del male. Altroché. La Lotty era la serenità, il candore in persona, ma era anche la dignità e il rispetto fatti a donna: non sopportò che Lorenzo le avesse parlato in quel modo, neppure per scherzo: “Cosa ? Scusa, cos’hai detto! Ma come ti permetti! Chi ti credi di essere per trattarmi così?” Il Lory, non l’aveva mai vista arrabbiata, cercò di correre ai ripari: “No, non volevo, lo dicevo solo per farti ingelosire un po’, dai…” “No. E’ una cosa troppo specifica. Lo pensi sul serio. E’ una frase talmente brutta e ingiusta: non me la sarei mai aspettata da te. Sei troppo cattivo. Vattene via! Non voglio più parlarti. Vattene via!” “Dai Lotty, scusami: l’ho detta senza pensarci, lo sai che ti voglio bene, perdonami…” “No. Non mi guardare più. Non ti guarderò più. Non mi bacerai mai più. Mai più! Guarda … Non si tratta così una persona se la si ama davvero, Vai via!” Il Lory l’amava davvero. Aveva solo scelto il modo peggiore per dimostrarglielo. Succede che a volte perdiamo il senso della misura.

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Pensiamo di poter dire le cose più cattive che poi tanto, basta chiedere scusa e tutto si dimentica, ma non è così: con le persone a cui teniamo di più non si devono superare certi limiti. Si rovina tutto, altrimenti. Il Lory si sentiva così stupido: non voleva perdere la Lotty. Provò in tanti modi a riconquistarla ma certe ferite non le ricuci. Se sei piccolo restano aperte; se sei grande restano aperte. Le parole di un poeta sono per sempre. Le parole di un amico sono per sempre e per sempre sono le parole della persona a cui vuoi più bene al mondo, soprattutto se ti fanno soffrire. Stanno sempre davanti agli occhi. Come una polvere fastidiosa. Però se c’è il vento giusto, se lo sai trovare, qualche volta capita che gli occhi tornino puri. Diventato grande il Lory scrisse una storia che chiamò “Favola delle parole dolci” e andò dalla Lotty per dirle che l’amava ancora. Probabilmente c’era di nuovo il vento giusto. “E’ troppo tempo che non ti vedo, Lotty. Non si è vivi veramente senza appartenerti”. “Mi pare che tu sia vivo invece: ti sento contento”. “No, ti prego: sono felice solo perché ti ho rivista, sei sempre la più bella”. “Ma Lory… sei ancora innamorato di me ?” “Si”. A volte i pezzettini di mondo che si staccano dai soffioni si uniscono, vagano insieme per giorni e poi chissà perché si separano e non si trovano più; altre volte

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invece, dopo aver viaggiato a lungo si incontrano di nuovo e danno vita ad un altro piccolo grande mondo, ancora più bello di quello di prima.

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Favola di Leonardo e della ghiandaia

Questa favola racconta due sogni, ma se vuoi sapere come va a finire, devi tenere gli occhietti aperti fino alla fine …

Vicino alla sorgente del fiume chiamato Lumaca, un uomo andava ogni giorno a rinfrescarsi. La radura nella quale stava il letto del fiume era l’ideale per schiacciare un pisolino e fantasticare sull’unico vero sogno di tutta una vita: volare. C’era su quello spiazzo naturale un albero che, spezzato anni prima da un fulmine maleducato aveva dovuto piegarsi quasi fino a terra e con due rami dentro il laghetto, uno da una parte, uno dall’altra, sembrava un bimbo che gattoni, fosse lì a giocar con l’acqua. Su questo tronco, stava appollaiata quasi tutti i pomeriggi una giovane ghiandaia che avendo anch’essa un sogno assurdo nella testa non trovava più nessuno della sua specie disposto ad ascoltarla. Provò una gioia incredibile nel vedere che quell’uomo sapeva dipingere: già perché, non ve l’avevo ancora detto ma il sogno della ghiandaia era proprio quello: dipingere. E invece l’uomo dipingeva e la ghiandaia volava. Alla natura, queste doti sembravano ben distribuite e invece, vedete come sono fatti gli esseri viventi: vogliono sempre fare qualcosa in più di quello che già fanno, anche andando oltre loro stessi, persino mettendo sotto i piedi le caratteristiche che sono proprie di ciascuno. Comunque, come avrete capito, ogni sogno che sia un sogno con la s maiuscola è qualcosa che ti stravolge la vita: come l’amore è il sogno.

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L’uomo e la ghiandaia erano grandi sognatori e la cosa buffa, fiabesca oserei dire, era che l’uno realizzava con naturale semplicità il sogno irraggiungibile dell’altra e viceversa. Ma una favola, se non altri, almeno un pregio ce l’ha: non deve rispettare comandamenti: è anch’essa della stessa specie del sogno e dell’amore: pura volontà, pura bellezza, pura libertà. L’uomo si accorse del viso incantato della ghiandaia e le disse: “Perdona, ghiandaia, la mia sfacciataggine, i vorrei con tutto il cuore che mi svelassi il segreto di quello che noi uomini chiamiamo “volare”; sarei disposto a fare qualsiasi cosa per te”. “Anch’io ho un sogno – rispose la ghiandaia – e forse tu potresti aiutarmi a realizzarlo: “Imparare ad usare quello strano legnetto, imbevuto in vari colori con il quale riesci a mettere gli alberi, il fiume e il cielo su quella stoffa bianca”. “Ma allora – disse l’uomo – il tuo sogno è dipingere?” “Ah! si dice così nella vostra lingua, dipingere … sì: è la cosa che desidero di più al mondo … dipingere …” “Facciamo così propose l’uomo: io ti insegnerò a dipingere e tu mi svelerai i segreti del volo” “Sta bene – disse la ghiandaia –”. “A proposito non ci siamo presentati: mi chiamo Leonardo e vivo in un paesino poco distante chiamato Vinci e tu?” “ Mi chiamo Monna Lisa e volo nella radura ” Non si sa esattamente cosa si dissero Leonardo da Vinci e Monna Lisa, ma di quell’incontro rimangono due cose: un quaderno con i segreti per volare e un autoritratto dipinto ad olio detto “Gioconda”. E buonanotte ai sognatori, grandi o piccoli che siano … i sogni.

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FAVOLOSO DRAMMA DELLA ZANZARA SUFFRAGETTA

… zzzzzzzzzzzzzz…

Era una settimana di festa, tanto tempo fa, nel regno di Zampirone: si festeggiava il regale compleanno di Sua Maestà: la Regina Zanzara. Le sale e gli ampi giardini della Reggia accoglievano in quei giorni sudditi, nobili e cortigiane che volevano cantare e ballare in onore della loro sovrana. Ma la regina era triste: nel giorno che la incoronava maggiorenne, avrebbe desiderato ricevere un regalo speciale ma non aveva il coraggio di chiederlo al Re. Non le mancava nulla: aveva gioielli, vestiti, residenze di prestigio nella zona di Sant’Antimo, faceva tutti i viaggi che voleva, svernava nei posti di mare più esclusivi … però non le bastava. Come sempre alle donne serve altro. Sin dalle prime volte, non aveva potuto sopportare il fatto che i suoi corteggiatori, quando dovevano baciarla, come era normale tra le zanzare, la pungevano più volte sulle gote rosa. Quel modo di comportarsi che tutti i suoi simili sentivano naturale lei non lo accettava. Aveva visto che un’altra specie non si dimostra affetto pungendosi, ma dandosi baci e carezze. Da quel momento il suo sogno era che tutti i maschi della sua specie diventassero romantici e perdendo il fastidioso potere di pungere acquistassero quello di far venire i brividi con labbra disarmate. Era questo cambiamento quasi innaturale che dentro di sé considerava il regalo speciale.

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Però figurati … neppure una regina può osare chiedere una cosa del genere. E tuttavia il Re, la sera del compleanno si mise l’alta uniforme e quando venne il momento dei regali si avvicinò e le disse: “Avete un fascino disarmante … mia Regina…” Senza esitare le baciò la mano e non disse “Ahi!”, come al solito la regina: semplicemente arrossì. Non servì un editto per imporre la cosa: dopo un’ora i maschi avevano tolto l’ago dalle labbra e per tutta la notte in quel piccolo regno ci furono più baci di quante stelle ci fossero in cielo. E vissero per sempre felici e ronzanti …zzzzzzzzzzzzzzzz…

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FAVOLA MITOLOGICA DI ZEUS E ALLORO - O DELLA SERENITÀ -

Nell’antica Grecia, dove tutto è nato, gli anziani raccontavano spesso questa storia ai ragazzi. Cosa credete! anche gli Dei sono stati giovani, hanno tremato per le interrogazioni e pianto per qualche brutto voto. E’ la vita. Zeus, il Padre di tutti gli Dei, da ragazzo non era bravissimo nel fare di conto: faceva una fatica pazzesca ad imparare le tabelline a memoria e ogni volta che doveva esserci la verifica di matematica, non vi dico come si agitava. Fortunatamente il suo amico del cuore, Alloro, era il migliore della classe e quando vedeva che Zeus era nervoso e teso era sempre ben disposto a dargli una mano. Stando con Alloro, Zeus riusciva a rilassarsi e a liberare la mente dall’ansia di non riuscire a fare bene la verifica: parlavano di tante cose, Zeus si sfogava e intanto Alloro cercava di spiegargli le regole di quella materia tanto problematica e gli faceva ripetere le tabelline, correggendolo talvolta. Zeus e Alloro chiacchieravano a lungo, si raccontavano tutto e se qualcosa andava storto all’uno o all’altro si facevano coraggio. Se li avessero ritratti insieme quel dipinto sarebbe ancora oggi la rappresentazione perfetta dell’Amicizia. E pensare che appartenevano a mondi così distanti. Zeus di là a poco sarebbe diventato Padre di tutti gli Dei e Signore dell’Olimpo, l’attico degli Dei.

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Alloro, figlio di uno scultore ateniese e di una sarta tra le più abili a confezionare abiti eleganti, sarebbe diventato ben presto un professore di matematica nel Liceo di Atene. Alla fine della scuola i due amiconi dovettero tornare ognuno al proprio destino e quando si salutarono Zeus disse: “Caro Alloro, quando sarò irritato col mondo perché non riuscirò a risolvere qualche problema ti penserò: sono certo che anche lontani il ricordo delle nostre rilassanti chiacchierate mi terrà tranquillo e sereno”. “Non t’intristire – rispose Alloro – ogni nostra conversazione è durata molto di più di quanto noi stessi possiamo pensare. Da qualche parte ci sono ancora due amici un po’ stanchi che si rilassano semplicemente parlando e in futuro ogni volta che due amici saranno insieme noi saremo lì con loro”. Non si incontrarono più. Passarono molti decenni ma quando l’immortale Zeus seppe che Alloro era morto per una grave malattia fu preso da una tristezza così profonda che decise di rendere omaggio al suo unico grande amico in un modo stupendo. Scese in una grotta sotto la rocca di Atene, nella cantina dell’Olimpo, prese alcune erbe selvatiche e cercò la fonte di un fiume sotterraneo, sconosciuto agli abitanti di quei luoghi, si mise a mescolare in una scodelle quelle erbette triturate e quell’acqua di fonte: ottenne una poltiglia e ne fece delle piccole palline simili a semi di girasole. Risalì sulle nuvole dell’Olimpo, e soffiò tutti i piccoli semi per il mondo in modo che ovunque potessero germogliare. Tenne uno solo di quei semini e lo sotterrò, accanto alla tomba del suo caro amico.

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Lo innaffiò con l’acqua di fonte e all'istante crebbe una piantina con foglie verdastre dalle quali giungeva un profumo nuovo, strano che pareva unire la freschezza della menta alla dolcezza del miele. “Da oggi – sentenziò Zeus – questa pianta porterà il tuo nome, Alloro: ho fatto in modo che la tua anima rasserenante formasse l’essenza stessa delle sue foglie: chi ne berrà l’infuso troverà sollievo e serenità”. Poi Zeus si chiuse nella sua camera e dal cielo grigio cadde pioggia per un giorno intero. La mattina seguente ordinò al suo fedele messaggero Mercurio di scendere sulla terra e di parlare ai saggi, ai cantori, ai poeti e alle madri della storia di Alloro e delle proprietà benefiche della pianta creata da Zeus in suo onore. Da allora ad Atene e altrove quando si fa fatica a dormire o si è agitati per qualche prova difficile si beve l’infuso delle foglie di Alloro e a pensarci bene in questi anni stressanti, farebbe bene anche a noi alla sera una tazza di acqua coll’alloro: tradizione antica, semplice, moderna. State sereni, amici.

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FAVOLA DELLA BUONANOTTE

Se

stasera

mi

chiami

non

voglio

che

mi

trovi

impreparato:

voglio raccontarti una storia così ti addormenterai serena, col sorriso; e il cuore ti batterà forte sognando la mia voce. In Lapponia una bambina piangeva sempre la notte perché aveva i piedini freddi e non serviva a nulla mettere coperte: erano due ghiacciolini rosa, poverina. La bambina piangeva e i genitori non sapevano più cosa fare: inventarono delle babbucce termiche, le immergevano in acqua tiepida i piedini, li massaggiavano con un olio particolare ma non serviva a nulla. La bimba piangeva. Un giorno arrivò dall’Italia un loro nipote, un ragazzo sui vent’anni simpatico, brillante, per vedere un po’ com’era il mondo da quella parte del mondo e fu accolto con gioia: la bimba gli fece vedere le sue bambole col giubbotto di pelo e il cappuccio e lui ci giocava; le parlava un po’ coi gesti un po’ con le parole dei giocattoli e dei giochi che c’erano in Italia. Insomma, anche se era più grande si divertivano tanto insieme a tirarsi palle di neve e a inseguirsi a vicenda. Poi quella notte la bambina pianse e il ragazzo la udì. Andò nella stanza della bimba e vide i genitori sfiniti ai lati del letto. Gli dissero che i piedini della loro piccola di notte sembravano cubetti di ghiaccio e lei soffriva. E pure loro. Il ragazzo ci pensò su qualche minuto, vide gli occhioni grandi della bimba rossi rossi e si sedette al suo fianco per parlarle. Il tono leggero, la voce chiara, le parole come zucchero filato.

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Le raccontò la favola della bimba italiana che piangeva la notte perché non le raccontavano mai una favola e aveva sempre i piedini gelati. La bimba gli strizzò l’occhione blu e lui proseguì raccontandole la favola. La bimba smise di piangere e i piedini finalmente erano caldi; poi si addormentò. La mamma e il papà capirono di avere sempre sbagliato: avevano scaldato il corpo della bimba e invece bisognava scaldarle il cuore. Bisognava scaldarle il cuore. Abbracciarono e ringraziarono a lungo il loro giovane nipote, così sensibile: gli dissero che non lo avrebbero mai dimenticato. La bimba quando il ragazzo partì gli sorrise e gli diede un bacione bello, grande sulla guancia. Da quella notte - si dice - ogni notte i padri e le madri della Lapponia raccontano la favola ai loro bambini e da allora le bimbe e i bimbi si addormentano coi piedini caldi, con l’animo sereno e vanno a dormire senza fare i capricci perché sanno che faranno sogni d’oro in quel riposo incantato. Buonanotte

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LA FAVOLA CHE INVENTI

Questa favola è un esercizio di stile. Ma stavolta non sarò io ad esibirmi. Voglio restituire alla fantasia di ciascuno di Voi la libertà di raccontare personaggi e trasmettere storie. LasciateVi andare, create! Cercate solo di non essere snob. Ricordate: la fantasia non è solo il potere più bello ma anche il dono più prezioso. E ora tocca a Voi andare avanti.

C’era

(C’erano)

una

volta

………………………………………………... che avendo un desiderio enorme da esprimere aspettava (aspettavano) con impazienza la notte di San Lorenzo, il 12 Agosto, quando migliaia di stelle si tuffano nell’universo. Da alcuni anni però, a causa dell’inquinamento terrestre provocato dall’uomo, il Signore dell’Universo aveva deciso che non avrebbe più fatto vedere le stelle cadenti a quel piccolo pianeta di arroganti maleducati, e così fece. Tutti erano tristi. Non si esprimevano più desideri, era una vita priva di sogni: noiosa come mai prima di allora era stata. Poiché né i poeti le dedicavano più una poesia né gli innamorati si baciavano al suo chiarore si era intristita addirittura la Luna.

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Tanto che decise di usare il potere celeste che per secoli aveva tenuto segreto: la Notte di San Lorenzo avrebbe pianto le sue preziose lacrime dorate tanto simili alle stelle cadenti da far in modo che di nuovo innamorati e poeti, esseri viventi e cose sarebbero tornati ad esprimere desideri e a sognare di realizzarli. Venne la Notte di San Lorenzo ed erano tutti con la testa all’insù, ma alle 22.30 passate, di stelle cadenti, neanche la scia. Ad un tratto si vide uno zampillare di scie luminose cadere a razzo dal cielo e scomparire in chissà quale abisso. Era la Luna che piangeva le sue lacrime dorate ma si pensò subito alle stelle cadenti e così … Via! Tutti a esprimere desideri. Con gli occhi chiusi ……………..…………………. chiese (chiesero) che …………………………………………………………………………... ……………………………………………………………………………… . Ed ecco cosa accadde: ……………………………………………..… ……………………………………………………………………………… .. ……………………………………………………………………………..... . ……………………………………………………………………………… .. ……………………………………………………………………………… .. …………………………………………………….

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----------------------- ° ----------------- ° ------------------------

Intanto un poeta, che proprio quella sera stava scrivendo una rima alla Luna, si accorse che da lucente e bianca, col passare dei minuti Ella diventava sempre più opaca e vedendo una stella cadente, il poeta fece un enorme sospiro e disse: “Quanto vorrei che la Luna tornasse splendida…” E fu così che mentre alcuni chiedevano di diminuire le tasse, altri una cucina nuova, altri ancora un giorno in più da vivere, alta nel cielo, la Luna risplendeva di nuovo felice e luminosa: un po’ perché il suo pianeta preferito aveva ricominciato a coltivare sogni e speranze, un po’ perché uno spirito nobile le aveva restituito la sua luce che dopotutto è anche la sua anima. E ora davvero, questa favola ci appartiene. E’ di chi la reinventa. Ogni volta uguale e diversa. Riposiamoci e domani sera raccontiamola con un altro sognatore e un nuovo sogno. Dall'alto la Luna ci ascolta: se saremo bravi sono sicuro che di notte le parrà meno faticoso vegliare su di noi, nuovi, eterni, sognatori. Fate i bravi e… alla prossima favola.

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...però quel ballo sta ancora accadendo, adesso, in qualche parte del mondo, tra quella ballerina da carion e quel soldatino da leggenda. Per sempre insieme, come noi. Sempre in ballo...

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Il gioco del minestrone e altre favole saporite. Ingredienti: Pag. 2 - 4 Acqua salata Pag. 5 Nota noiosa Pag. 6 Tanto per cominciare Pag. 8 Favola del tempo sospeso –Il Gioco del Minestrone – Pag. 12 Favola delle elementari Pag. 16 Favola che non immagini Pag. 20 Favola di una principessa d'altri tempi e dell'acrobata che le prese il cuore Pag. 24 Favola di una ballerina da carion e del soldatino che perse la testa per un ballo con lei Pag. 29 Favola della torre elettrica e del piccolo passero Pag. 37 Favola delle parole cattive e delle parole dolci Pag. 44 Favola di Leonardo e della ghiandaia Pag. 46 Favoloso dramma della zanzara suffragetta Pag. 48 Favola mitologica di Zeus e Alloro o Della Serenità Pag. 51 Favola della buonanotte Pag. 53 La favola che inventi E… MI RACCOMANDO DOSATE BENE LE QUANTITÀ….

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Raja Marazzini, 5 luglio 1975. Diritti d'autore sugli scritti, tutelati da S.I.A.E. - Italia 2002 e-mail: [email protected] blog: www.rajamarazzini.com Telefono: +39 347 166 54 75 Fax: +39 045 70 13 11 25

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