Ob-esse_-2

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Girolamo Melis

Obesità - Ob-esse? (Ob-sum, ergo ob-edo. Ob-edo, ergo ob-sum.)

PaperBlog

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Invece, lo sguardo non-scientifico, povero di certezze, è gonfio di interrogazioni. Gonfio, non obeso. Somigliante dunque ad uno stato di gravidanza. Eppure la sua condizione “generativa”, perennemente transitoria seppure fatale, non gli indica quale mondo potrà accogliere le sue tumultuose ed esitanti nascite. A chi rivolgere le domande, affinché generino conoscenza? E soprattutto, saranno quelle lì le domande per conoscere? La natura dello stupore e dell’interrogazione permanente non si placa neppure davanti ad una equazione risolta, anzi considera iattura ogni cosa “capìta” e riposta nel cassetto del patrimonio storico, quasi fosse un soddisfacimento che ottunde, che soddisfa (satis fecit) e dunque blocca l’orizzonte dell’ignoto. Lo restringe ad orizzonte noto. E pensare che viviamo nel mondo che già da molti decenni ha postulato la relatività delle sue proprie certezze: come la Matematica. Fino a disorientare la presunzione umana che si era data da millenni proprio la Matematica come validazione, anzi basamento d’ogni procedimento scientifico. Fino a chiedere alla “fede” la certificazione di equazioni indiscutibilmente vere eppure non dimostrabili. Fino a immaginare (molto, molto più che immaginare) che la certezza delle sequenze sia meno certa della incertezza degli “accidenti” (vedi la teoria delle “catastrofi”, del matematico René Thom). Ma io, con curiosità pari alla sfacciataggine, ho accettato di aggiungere alcune pagine al rendiconto del Simposio di Montecatini che ha visto riuniti tanti bravi Pediatri al… capezzale dell’Obesità. Dunque intorno al tavolo di due

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discipline morali prima che scientifiche: quella della Diagnosi e quella della Cura. E sto parlando d’altro. E ho la pretesa di venire letto con attenzione. Proprio nel nome del mio non appartenere ad alcuna disciplina. Parlare d’altro vuol dire interrogare l’Obesità. 1. La prima interrogazione che le rivolgo concerne il suo Nome. Che non è un nome antico, radicato nella “cultura della natura”, bensì un nome moderno, scaturito dal bisogno umano – che per comodità diciamo illuministico - di darsi un sapere tecnico. Nome deduttivo, fenomenologico, approssimativo: deciso neanche quattro secoli fa con l’appassionata disinvoltura dei linguisti del tempo e costruito “alla latina”: ob esse, dunque un indicatore del “mangiar troppo”, dunque un indicare l’effetto evidente di una causa… evidententemente presunta. Ironia (o verità strutturale?) del Linguaggio: il verbo latino esse (mangiare, indicativo presente edo, io mangio) significa anche essere, indicativo presente sum, io sono). Dunque, perché non vedere la straordinaria lessematicità della parola obesità: eccesso di cibo, eccesso di “essere”? E perché dunque non interrogare la parola obesità (o meglio l’Uomo Concettuale del mondo della Tecnica, che l’ha creata) sulla verità della sua struttura di senso: ripieno, rigonfiamento, farcitura, stuff? Materia? 2. Eccoci alla seconda interrogazione. Materia? L’Obesità non è materia costitutiva, e non è materia generativa. Non designa

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un “ordine naturale” né gli appartiene. Semmai è la costituzione di un dis-ordine e di una de-generazione. E grida una evidenza ben altra e ben oltre il “fisico”. L’evidenza della “materia dell’Obesità” non è evidentemente simbolica? La materia dell’Obesità designa simbolicamente alterazione (negazione?) della Maternità. Proviamo a “dire” una figura:

la

Esse (essere/mangiare-per-nutrire) = Mater (Madre) Ob-esse (iperessere/intasare) = Materia E, sempre arbitrariamente, deriviamone una seconda figura: Maternità aut Materialismo MadreTerra aut Meteorite /corpo inerte, deterritorializzato Viene voglia di provocare uno schema: aggregazione contro generatività accumulazione contro moltiplicazione occlusione contro apertura blocco contro continuità Non ci troviamo così alla finestra di una interrogazione da rivolgere al mondo nel quale viviamo, e che abbiamo costituito come “parodìa” dell’Ordine Naturale? Non ci appare, allora, l’Obesità come il simbolo, il significante e il senso dell’essere-nel-mondo? 3. La terza interrogazione, inevitabilmente, è da rivolgere all’ Obesità in quanto e in come femmina.

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L’Obesità mette in scena la femmina come territorio naturale della generatività, come terra fecondata-fecondatrice e dunque come simbolo di dono: dono di una vita alla vita del mondo, riempimento per allevare, nutrire, donare. La parodia della “generatività” è tragedia. Il seme, l’uovo non si compie mai, non fruttifica. Il suo consumare per produrre (ri-produzione) si attua nel consumare per stivare. La “concretezza naturale” della moltiplicazione si azzera nella lettera della “concretezza del calcestruzzo” (in inglese, concrete). La concretezza vitale del contenitore (il ventre prolifico) si azzera nell’intasamento d’ogni apertura, spiraglio, liberazione. L’Obesità è femmina, perché la gravidanza è femmina, Perché la Casa è femmina. E come la Materia simbolica della Maternità è il generato, così la Materia “materiale” dell’Obesità è l’intasamento. E come la Materia simbolica della Casa è la protezione, l’allevamento, il riposo e il risveglio, così la Materia “materiale” dell’Obesità è l’occlusione, l’ottundimento. La femmina è la Casa del Mondo. E non è forse la femmina l’integrità del corpo interrogante? La porta si apre per accogliere, si chiude per proteggere, si dischiude per liberare (librare in volo). La pelle e lo sguardo si aprono verso il Sole, maschio della Terra; poi si rinserrano nel contenimentonutrimento del frutto; si spalancano ancora per produrre Vita. La femmina è la pulsione e la ragione, l’economia e lo scialo, la provvidenza e la previdenza. E’ il Mondo contenuto nel suo divenire. L’Obesità è l’annientamento della femmina. 4. La quarta interrogazione la rivolgo alla… diffidenza. Diffidenza che può scaturire dalla non chiarezza su cosa sto

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cercando di dire e sul senso stesso del dire che l’Obesità mette in scena la parodia della femmina. Quando dico femmina non dico donna. La donna non c’entra. C’entrerebbe se il discorso prendesse il via da una qualsiasi disciplina “storica”: per esempio la sociologia o la psicologia o la psicosomatologia etc. Dico femmina per dire generatività. E perché mi sembra che l’Obesità metta in scena, in forma di Carne, la perdizione del Corpo Sacro. Il Corpo d’Amore. Il Corpo Naturale. E ne faccia una tragica parodia. Parodìa della femmina che costituisce il corpo del bambino e, se così posso dire, clona in una sorta di femminìa il corpo del maschio adulto. Dunque l’Obesità concerne la femmina e soltanto la femmina? No, non ho dottrina né conoscenze per affermazioni positive. Mi sento costretto a restare in questo stato di interrogazione, dunque di rifiuto d’ogni consolazione statistica o d’ogni delirio quantitativo. L’evidenza simbolica dell’Obesità è femmina, la sua “corrispondenza” al paesaggio sociale delle “donne” appartiene all’osservazione numerica. Ogni deduzione, nei vari ordini dell’interpretazione disciplinare, mi appare ora e qui insensata. Mi permetterò, ciononostante, di raccontare un aneddoto inventato, immaginato, dunque “falso”. Ma, lo spero, non falsificatore. Agosto 2005. Immaginiamo che un agente di rilevazioni demografiche si fosse appostato in una via o in una piazza della città di Milano (città non scelta a caso), indifferentemente nel mitico “centro” o nelle non meno mitiche periferie. Nonostante la calura e la noia, avrebbe riportato al computer centrale del suo Istituto di Ricerche i dati di un carotaggio singolare, diciamo sorprendente: le

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“donne obese” – dati di quella precisa settimana del Ferragosto - hanno raggiunto, se non il 51%, almeno una quota sconvolgente nel pannel delle “donne” (femmine) presenti in città. Fine dell’aneddoto, il quale peraltro, come ho anticipato, non è vero. Quello che è vero è che chiunque si fosse trovato in quel periodo estivo nella città di Milano, pur senza scopi di rilevazione statistica, avrebbe visto un numero smisurato di donne… molto grasse? Oppure “obese”? Insomma, che cosa avrebbe visto? Cioè: avrebbe visto la “grassezza” o l’Obesità? Se, giunto fin qui, il Lettore avrà ancora pazienza, prima di immaginare una risposta a questa domanda, dovrà seguirmi in un’altra fantasticheria, in un secondo aneddoto non accaduto: Agosto 1960 (o giù di lì, o in un qualsiasi altro decennio precedente). Il turista capriccioso che abbia deciso di visitare Milano a Ferragosto invece di andarsene a Forte dei Marmi o Riccione, si trova immerso in una città relativamente svuotata ma non vuota. Anzi, i centri della città sono vispi e popolati. Mentre le periferie sono semideserte poiché i loro abitanti si sono riversati al centro. Gente esce dai cinema, passeggia. Qua e là, in una misurabilità statistica irrilevante e comunque non diversa da quella possibile in qualsiasi paese o città da cui quel turista provenga, egli vedrà (e non ci farà caso) qualche persona grassa. Se si sarà guardato intorno con curiosità…antropologica, potrà aver pensato che a Milano la gente è molto più snella, più longilinea e forse più alta che altrove… Fine dell’aneddoto non accaduto. Ma rigorosamente speculare al primo aneddoto. Torniamo allora alla domanda che ho lasciato in sospeso.

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Una risposta? Non dimentichiamo che queste pagine sono fatte di domande, non di risposte. Dunque, invece di una risposta, proverò a formulare un’ipotesi. Il protagonista del secondo aneddoto, nella sua visita turistica a Milano d’Agosto, ha visto, se ci ha fatto caso, alcune persone grasse qua e là, tra cui probabilmente alcune donne grasse. Il protagonista del primo aneddoto, nella sua visita professionale a Milano d’Agosto, ha visto l’Obesità. Cioè: 1. Nel mondo “antico”, le smisurate forme della grassezza erano nascoste, stavano nel nascondimento. Il nascondimento aveva luogo tra le mura domestiche, nell’ambito ristretto del quartiere, nel nero: le vesti nere, l’oscurità serale, lo scantonamento dall’abitazione alla chiesa. 2. Nel mondo “post-moderno” nel quale viviamo e che non siamo in grado di storicizzare, l’Obesità è visibile, vive nell’aperto, lungi dal cancellarsi nelle vesti nere si mostra (non “si mette in mostra” ma sta, resta, si alloca e si disloca, “si stazza in mostra” nel chiaro del giorno e degli abiti. 3. Nel mondo “antico” la donna grassa, come nel mondo post-moderno la femmina obesa, l’una rinserrata nell’ oscurità, l’altra stivata nella quotidianità dell’aperto, non vanno e non fanno: stanno. Il loro “stare” non è famigliare e non è sociale. Il loro nascondimento o la loro fuoruscita non è una strategia. E’ uno stuff, una farcitura dell’essere nel mondo. Forse, la donna grassa del mondo antico apparteneva alla

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stessa “categoria” dell’uomo grasso e del bambino grasso: una patologia degerativa. E forse…certamente, la donna obesa del mondo postmoderno appartiene ad una categoria che non riesco a definire e perciò cedo a descrivere come “categoria” della femmina-massa, né sociopatologica né fisiologica né ereditario-famigliare né ambientale né individuale, dunque nemmeno nevrotica. Se andassi oltre, e immaginassi un territorio nel quale la femmina obesa fosse riconoscibile come alienazione e come alterazione, chi e come potrebbe prendere il filo in mano e procedere? 5. La quinta interrogazione, indotta dalle parole alienazione e alterazione, e specialmente dall’ingannevole termine che le accomuna (-azione), va inesorabilmente ad una delle parole che più ricorrono oggi e che sembrano soddisfare, anzi far godere, chi si pone “sociologicamente” difronte all’Obesità. La neo-mitica parola è: dis-adattamento. Come vedi, continuo a rinviare la sola interrogazione che forse ti aspetti fin dall’inizio. E tirare in ballo dis-adattamento ti potrà sembrare provocatorio: ti aspettavi forse l’interrogazione su ciò che non-è-adatto? Cioè il nutrimento, il cibo, il quanto e il come il Simposio di Montecatini ha posto sul tavolo della dottrina e della disciplina. E invece ti trattengo ai margini. Ce la fai? Questa quinta interrogazione chiama in causa la pretesa di confutare una visione tecnica mediante una visione d’altra tecnica: e precisamente oppone la diagnosi sociostorica (sociologica) alla diagnosi medica. O quanto meno presume

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che l’interpretazione sociologica dell’Obesità quanto meno integri tanto l’ermeneutica quanto la semeiotica medica. E porta una visione che si sta sempre più affermando: l’Obesità come dis-adattamento. Dis-adattamento da che cosa, da chi, contro che cosa, contro chi? Ma che cos’è un dis-adattamento? Non è forse un uscire, un negare, un confutare, un opporsi? E il segno, l’epifanìa del dis-adattamento, non corrisponde sempre e comunque ad una rivolta? Una rivolta? Prova per un istante a non rispondere come ti viene: cioè a che e a chi, contro che e contro chi, da che cosa e da chi, da quale luogo o condizione o società o classe o tempo o prigione affettiva… Soffermati sul senso e sul non-senso di dis-adattamento = rivolta e orienta il tuo sguardo nel territorio dell’Obesità. Può una rivolta avere senso, essere effetto, esprimere significato, indicare direzione, posta com’è, permanendo come permane, in una così fatale e implacabile attuazione della legge di gravità e della sua iperlegge strutturante: l’entropìa? E nel suo fenomeno reale: la concrezione? Insomma: può, una rivolta, stare? E il dis-adattamento può mai realizzarsi se non in una fuga, in una distanziazione, dunque in una azione qualsiasi: lenta, meditata, tattica, repentina, travolgente? Dis-adattamento da che? Dall’Amore e dalla sua Mancanza,

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dalla Società e dalla sua Ostilità? Il Dis-adattamento (e il suo atto: la rivolta) è azione – movimento – rifiuto! L’Obesità, invece, è: intasamento – stasi – immobilità. No, lasciamo nel cassetto del non-senso l’interrogazione sul dis-adattamento. Ci porta in un vicolo cieco e senza uscita. 6. E poi, chi sarebbe il Soggetto della rivolta? E’ questa la settima interrogazione, per tenere in piedi o abbattere la domanda precedente. Sarebbe dunque l’Io, colui che si rivolta? In quale delle sue forme disciplinarmente sancite dalla psicologia? L’Es, il Sé, il Super-Io, il Fantasma o qual’altro? L’Io dunque sarebbe nientemeno che il rovescio dell’Obesità? L’Io dunque come scissione? Come faretra dalle cento frecce? Come cappotto rovesciabile? Come Altro? L’Io dunque come contenitore dell’Obesità e della… magrezza? della ottusità e dello spalancamento? dell’Integrità e dell’Alterità? L’Io dunque comprensivo degli opposti, dunque per-fetto nella negazione di sé. Angelo e Diavolo? Luogo chiuso e tuttavia inveratore dì una cosmogonia tra Bene e Male, tra Generatività e Concrezione, tra Fertilità e Sterilità? Che può fare l’Io, che ha de-strutturato e de-certificato il suo medesimo essere uccidendo Dio?

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Tanto varrebbe interrogare la Cronaca, la Cultura Figurata del Tempo Storico. Forse avremmo più risposte – più Senso – indagando il “Solo Luogo Scientifico Concimato” del mondo post-moderno: il Gossip! Non foss’altro, ci parlerebbe dell’Io come: desacralizzazione del Corpo mitizzazione della Carne ventre sterile di Desiderio intercambiabilità.

7. Non rivolgiamo questa settima interrogazione alla psicoanalisi e al suo braccio armato, la psicoterapia. Non possiamo rivolgergliela perché siamo certi che ci darà risposte certe e immediate. Ci parlerà di guarigione e non di cura, di normalizzazione e non di dubbio, di succedanei formidabili e non di Dio. Non la interroghiamo per non sentirci rispondere per formule (mancanza d’amore E/O bisogno d’amore). Non la interroghiamo per non pagare il biglietto di quella “corazzata potemkin” con dibattito che è l’Edipo-show. E non la interroghiamo perché, in cambio della bugìa sull’Io, non ci darà nemmeno una dieta dimagrante… Rivolgo invece questa settima interrogazione alla Speranza. Ma come potremmo pensare di porle una domanda diretta? Facciamo un altro piccolo sforzo: interroghiamo una parola rara e preziosa, e speriamo di riuscire a farlo con chiarezza. La parola è

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di-speranza Il suo significato è: assenza di di-sper-azione. Di-speranza = assenza di di-sper-azione. Con una affermazione arbitraria e “violenta”, riconosciamo nella di-speranza la Materia del Mondo in cui viviamo. Il quale Mondo – in quanto storicamente indefinibile – ci stiamo abituando a chiamare post-moderno. La Materia, non la Causa. Il Mondo, non la Storia. Post-moderno, non Più-che-moderno. Soffermiamoci, così disarmati di conoscenza, su di-speranza. Forse non siamo mai stati così vicini – così nei paraggi del “vero” dell’Obesità. O quantomeno nei paraggi, negli anfratti di una sua possibile genesi. La di-speranza sta forse alla di-sper-azione come il mondo post-moderno sta al mondo moderno che non c’è più. Certo: ora siamo in grado (ne abbiamo sufficienti strumenti interpretativi) di sapere che cosa è stato il mondo-moderno; e non siamo in grado (ci stiamo appena adattando) di sapere che cosa è il mondo post-moderno. Più precisamente: *”sapere il mondo moderno” equivale a dire “storicizzare”, no di certo a sentire come noi siamo diventati materia della medesima materia; *non essere in grado di “sapere il mondo post-moderno” è forse equivalente allo stare in una lenta appercezione, ugualmente distante dal luogo della cognitività e dal luogo del Corpo. E allora diciamo (con un’approssimazione di cui chiediamo

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scusa) che sentiamo di essere “usciti” dal mondo-moderno ed “entrati” nel mondo post-moderno, proprio in virtù dell’ascolto del nostro Corpo svuotato di di-sper-azione. E (percettivamente? sintomaticamente?) di essere abitati (“abitati”, non di “abitare”, poiché non abbiamo la percezione di “sentirci a Casa”) da un “che”, che definiamo di-speranza. Cerchiamo un po’ di luce, almeno un baluginare del senso: Forse sentiamo di non stare più nel Corpo Desiderante, abitante-abitato dalla lotta che lo ha fondato, nutrito, artefatto, affabulato e illuso nel suo sogno-del-mondo. Forse sentiamo di non essere “più” (?) storia, crescita, progresso, futuro, arbitrio, attività, senso del procedere. Forse sentiamo di essere avvolti (non precipitati, non ritornati, non retrodatati, soltanto avvolti: niente, niente di attivo, nemmeno un opporsi ad un respingimento) in una sorta di dopo, in un tempo a-temporale che non possiamo – non avendone né il paradigma né gli strumenti cognitivi – definire come condizione storica. Forse ci sentiamo homeless allo sbando, de-territorializzati, privati perfino di quella materia che ci fu ingannevole amica, la materia del nostro delirio storico-temporale di dominare la materia, anzi di determinarla… Forse, insomma, stiamo tortuosamente cercando di definire (e, prima ancora, di narrare, di romanzare a noi stessi), come perdita di senso-della-.vita, la perdita della di-sper-azione.

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Stiamo forse dicendo (immaginando) che il mondo-moderno, che ci ha costituiti attraverso alcuni millenni, è stato – e perciò lo riconosciamo – nella sua “umanità”, come dimora, tetto,abbraccio… Casa della di-sper-azione? Sì, stiamo dicendo proprio questo. E così siamo condannati a procedere sul sentiero dell’ascolto di noi stessi. La Casa della di-sper-azione. Ora che ne siamo espulsi, ce la ricordiamo come il luogo della ostinata confutazione della Fede. Come il Luogo-Dimora della ragione nella solitudine conquistata (l’abbandono di Dio). Abbandono di Dio?! Chi è che abbandona? Oh, non Dio. Quando il Cristo-Uomo urla dalla Croce: “Perché, Padre mio, mi hai abbandonato?”, egli testimonia oltre ogni ragionevolezza la presenza di Dio, dunque il suo nonabbandono. Come potrebbe abbandonare il Dio così urgentemente presente nella speranza del morente? L’Uomo sì: è l’Uomo che abbandona Dio. E Dio, si è lasciato abbandonare? Oh sì: per essere colui che non abbandona, Dio contiene anche l’abbandono dei suoi figli. Così come ne contiene la Morte e, oltre la Morte, l’ottundimento. La Casa della di-sper-azione è la casa estrema della speranza. E poiché la speranza contiene anche – e come potrebbe non contenerla, poiché ne viene costantemente evocata – la sua negazione e perfino l’ostruzione umana al suo filtrare la mente della coscienza e della ragione, ci viene consolatoria una “certezza”: La Casa di Lotta è la Casa di Fede.

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E noi, da quella Casa siamo (crediamo di essere) usciti. Autoespulsi? Come è possibile? E per andare dove? Esiste un “altro” Luogo, un “altrove” fuori dalla Fede che contenga la Fede? In quale Luogo ci siamo ficcati, stipati e stivati, nella Fede di un “altrove” della di-sper-azione? Almeno fosse una Ideologia, la Fede. Potremmo dibatterla e dibatterci in essa. Ma come possiamo credere in ciò che non è animato? In ciò che non contiene l’Uomo, foss’anche nella sua rivolta tragicomica al Dio? Possiamo risponderci soltanto così. Forse: *Ciò che è animato è ciò che anima. Ciò che anima non ha altro nome se non l’Assoluto. Ciò che diciamo “Assoluto” lo ignoriamo per ciò che “è” e lo possiamo conoscere soltanto per la nominazione che gli possiamo-sappiamo dare, siccome la riceviamo da lui. *Ciò che anima dà Nome. *La Fede dà Nome di di-sper-azione alla Felicità possibileconoscibile poiché pulsante di speranza. No, non siamo usciti, non ci siamo auto-espulsi dalla Casa amica della di-sper-azione. Ce ne siamo trovati espulsi dal vento senza energia che impiomba la nostra fiducia nel dare Nomi altro che agli Oggetti. Ed eccoci concretizzati, concrezionati nella di-speranza.

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8. L’ottava interrogazione provoca la di-speranza. La disperanza non ascolta e non risponde. E tuttavia il suo non ascoltare ci invìa risposte. Ce le invìa cariche di senso, di significato e di simbolo. La di-speranza non è una Casa. E’ un nessun-dove della storia, della geografia, del pensiero, di un Ordine dato. In questo nessun-dove si materializza come concrezione il motore medesimo della Vita, colei che nella Vita è plasmata, che della Vita è costituita, dalla Vita è delegata a generare Vita: la femmina. Terra e Ventre. Abissalmente oltre il sintomo, l’Obesità è il senso femmineo della di-speranza: la perdita del cordone ombelicale dell’Ordine Naturale. Daccapo: La Materialità. La non-Maternità. La Materia contro l’Ordine. La stratificazione contro la Generatività. La Carne contro il Corpo. L’in-azione contro la Fede suprema. Non una Casa. Non un Sintomo. Non un Cenno. Non un… No! La femmina obesa NON afferma – non testimonia – non mette in scena la di-speranza. E’ la di-speranza. In essa la di-speranza sta. La di-speranza “stazza”. La femmina ne è “stazzata”. E così il Bambino della femmina è stazzato nella femmina.

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La femmina & il bambino: il chiasmo vitale è stoppato da un overlapping. Overlapped! La femmina & il bambino: non li unisce una poppata, non li scandisce un’eredità. Né un “processo”: nemmeno una clonazione. E’ stuff. Tutto è stuff. 9. Perché l’Obesità? Perché l’abbandono di Dio? Perché la sua messa-a-morte scellerata? Perché l’esercizio umano della Commisurazione con l’Incommensurabile? Perché il culto della concretezza? Perché la messa-a-morte della Parola? Perché l’Errore della Ragione nella messa-a-morte dell’Errare? Perché l’Orrore dell’Ignoto? Perché la chiusura dell’Ovvio mediante la liturgia dell’Ottuso? E dunque, perché il fraintendimento sull’Ovvio, e la sua materializzazione come “materiale vile”? E non come uno stare nell’Aperto, pure nella superfluità, nella “inutilità” dell’oziare? Perché il dis-adattamento al pensare come “pensiero del non-pensato”, e la sua riduzione a spirale e concrezione del già-pensato? Perché l’ottundimento storico alla “mondità” come Ventre Materno, come spalancamento dell’Essere nel senso della vita? Perché l’Obesità? L’interrogazione concerne l’andare dimorando nella Casa del Senso. L’interrogazione concerne la generatività della femmina in quanto Mondo.

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La femmina è la donna e il suo bambino e il viandante del mondo che è l’uomo. La femmina è la Casa del Mondo. E’ l’integrità del Corpo interrogante se stesso. Cioè la totalità. La porta si apre per accogliere; poi si chiude per proteggere e allevare. La pelle e lo sguardo si spalancano verso il Sole, Maschio della Terra; poi si rinserrano nel contenimento fertilizzatore del frutto. La femmina è la ragione e la pulsione, l’economia e lo scialo, la provvidenza e la previdenza. La femmina è il Sé e l’Altro. Contenuto-contenente il Mondo. Il Mondo è il suo divenire. L’Obesità è il sintomo che ci parla del Mondo.

10. Decido di interrompere qui la teoria delle interrogazioni. Non ho niente da chiedere alla Scienza Tecnica e alle sue disciplinarietà. Essa segue le sue strade, segnalate da cartelli indicatori: di qua si va a Lione, di là a Vienna, di là a Palermo… e, a seconda della direzione scelta, si equipaggia di risposte. Essa non può indugiare nei sentieri del bosco, gli Holzwege, i cui segnali stanno nel dimorare nell’ascolto e nello sguardo, e nei quali l’errare non è un errore: si sa che quasi sempre se non sempre, quei sentieri menano a niente, cioè al Tutto che non si conosce. D’altra parte, si dice, se non ci fosse la Scienza Tecnica della Cura-per-la.guarigione, vivremmo con mille paure… Il fatto è che oggi viviamo nella… Paura. E c’è chi crede – io tra costoro - che un’altra via per vivere il Mondo sia interrogare la Paura, dare del Tu al Dolore e alla

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Morte, ascoltare il Bambino neo-nato invece di fargli versi caricaturali e parodistici in nome dell’…amore. Be’ un’ultima interrogazione m’è venuta voglia di rivolgerla ai Pediatri. Non in nome della loro dottrina disciplinare bensì in nome della loro vicinanza al Corpo del Bambino. E’ un’interrogazione che, in altri tempi, si sarebbe chiamata “di buonsenso”. E oggi rischia di passare per una provocazione. No, non è una provocazione ma una “vocazione”: rivolgere lo Sguardo a Quel Bambino, proprio a quel Michelino lì, che sta davanti. Uno Sguardo né sintomatico né diagnostico né farmacologico. Uno Sguardo. E, ri-guardando quello stesso Bambino Michelino o quell’altro bambino Giuseppe, cercare di vedere in lui, attraverso lui, l’intero Bambino del Mondo. E ascoltare se stesso “Mario”, prima che Medico, prima che Pediatra, prima che Partita IVA, fino ad arrivare all’origine. Non, beninteso, ai ricordi dell’Origine, bensì alla Memoria dell’Ordine Naturale, del Ventre materno, del Ventre-terra.

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Nota Com’è evidente, in queste pagine non ho fatto alcun cenno alla Nutrizione e all’Equilibrio Nutrizionale in rapporto all’ Obesità e in riferimento all’Alimentazione quotidiana del bambino. Aldilà della mia conoscenza veritiera della Ferrero, di cui la Fondazione – sostenitrice di questi studi – è il cuore; aldilà della certezza della cura e della dedizione con cui questa ammirevole Azienda Italiana produce per centinaia di milioni di Persone; aldilà della stima e dell’affetto che la Ferrero si è conquistata in tutto il Mondo; io non ho interrogazioni da rivolgere ai Luoghi di indagine sul rapporto tra Alimentazione e Obesità. Non ho interrogazioni da porre, così come – immodestamente – non le ha il Pensiero moderno e contemporaneo postmetafisico. Ho domande, invece, da rivolgere al Pensare; al Pensare ciò che non è stato ancora pensato; a ciò che non è considerato “pertinente”; a ciò che sembra destinato ad occupare i margini periferici del discorso scientifico; a ciò che, una volta per tutte, non è considerato avere statuto di scienza e dunque di ricerca scientifica; a ciò che, tuttavia, sempre e da sempre, ha costituito il crinale umano d’ogni rivoluzione scientifica. Ho domande da rivolgere, dunque e in modo speciale, ai Giovani Pediatri, ai Giovani Pensatori d’ogni disciplina e anche d’ogni in-disciplina, a chi abita l’ignoto – il non conosciuto – come la propria Casa. Ed ho un invito da rivolgere alla Ferrero, tramite questa sua Fondazione: affinché da oggi sostenga le “interrogazioni alla Scienza” con la stessa cura e la stessa serietà con le quali ha sostenuto le risposte della Scienza.

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