FORSE LIBERO?” I detenuti di Velletri portano in scena san Paolo
appiamo che a fianco di Gesù, quando entrò nella gloria, c’era un reo confesso: «In verità io ti dico, oggi con me sarai nel paradiso». Da parte sua, Gesù perdonò anche a chi lo aveva condannato a morte (Lc 24,34), ma solo a chi riconosce la propria colpa e si ravvede (Lc 24,3943) egli poteva assicurare la salvezza. Malfattori e carceri non mancano nel Nuovo Testamento. Ai primi viene annunciata una parola di conversione, mentre in prigione vengono condotti costantemente gli apostoli. Quello che dicono non piace. Perché rende immuni alle minacce di tortura e di morte. I primi cristiani subiscono persecuzioni e in cambio... benedicono. San Paolo viene incarcerato più volte, eppure scopre lì una dimensione della libertà intima e profonda, che nessuno può sottrargli. La Parola di Dio non
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può essere incatenata. E lo annuncia attraverso le sue lettere. Proprio Paolo, colui che «conduceva in catene» (At 9,2) i cristiani, si trova ora dietro le sbarre. Ma la sua libertà è tale da permettergli di annunciare la speranza cristiana anche lì, convertendo sia carcerieri che carcerati (At 16,25-34). È proprio questo atteggiamento che ha affascinato il regista Antonio Lauritano, invitato dal Centro Comunicazione e Cultura Paoline a elaborare uno spettacolo sull’Apostolo con i detenuti della Casa Circondariale di Velletri, con cui Lauritano lavora da tempo. Il copione s’intitola Non sono io forse libero?, e ha una densità di contenuti davvero insolita, anche per uno spettacolo religioso. I temi affrontati sono tanti. Il credere nella possibilità del cambiamento. Il significato del pentimento autentico. Giudicare ed essere giudicati. Il significato di una pena da espiare. Lauritano (foto in alto a sinistra) conduce laboratori teatrali con detenuti dal 1993 e nel 2006 ha fondato la compagnia “Il Ponte magico” presso il penitenziario di Velletri. Crede profondamente nel valore pedagogico della recitazione. «Forse è qualcosa che aiuta molto più me che loro – confessa – perché quando entro nel carcere, mi sento paradossalmente libero. Ma proprio per questo spero e credo che l’attività teatrale renda liberi interiormente anche loro. In fondo chi vive una situazione di detenzione temporanea, vive una situazione privilegiata: molti non conoscono il
carcere, eppure vivono prigionieri di se stessi per tutta la vita. Invece chi è recluso ha la possibilità di ritrovare il senso del condividere la vita comune. Può imparare di nuovo come vivere liberamente dentro alle regole». Anche Amalia Di Giorgio, educatrice, ne è convinta: «La pena deve tendere al ricupero della persona, ma in sezione il detenuto si trova in situazioni in cui l’importante è sopravvivere, quindi è facile che adotti strategie prevaricatrici. Il teatro, invece, è un’esperienza aggregante, che fa cadere le sovrastrutture dei detenuti e fa nascere uno spirito di collaborazione. Insegna a sostituire leadership negative – a chi proviene dal crimine organizzato – con il rispetto per un’autorità positiva. E insegna a rispettare delle regole – c’è il copione, ci sono dei ruoli, c’è un regista – senza sopraffare l’altro. Fa
FOTO P. PEGORARO
“NON SONO IO
Un momento dello spettacolo andato in scena nel Santuario Regina degli Apostoli a Roma. I costumi sono stati ideati e realizzati dalle detenute della Casa Circondariale di Latina.
nascere l’apprezzamento per il lavoro altrui. Ti fa essere protagonista positivo quando invece, fino a poco fa, eri sempre stato l’eroe negativo. Scopri che sei capace di fare altro. Che puoi essere un altro». «Tutti gli istituti di pena che hanno al loro interno laboratori teatrali godono una migliore qualità della vita – ci assicura Giuseppe Makovec, direttore del carcere di Velletri. – Perché il teatro mette in gioco, fa riflettere, sviluppa la fantasia e la comunicazione. E questo ha un effetto a cascata su tutto l’istituto».
L’esperienza sul palco Parole che trovano una conferma immediata nell’esperienza dei detenuti. «Come puoi immaginare – ci racconta Riccardo – il carcere è un luogo di “repressione”, anche emotiva. Mentre l’immedesimarsi in un personaggio, studiare le parti, fare tuo il linguaggio del corpo, ti aiuta a esprimere quello che senti dentro. All’inizio ero scettico, era solo un modo per fare qualcosa di nuovo e passare del tempo fuori dal carcere. Poi è venuta la passione. È un’esperienza forte, che mi ha cambiato il modo di pensare». In che modo? «È come se il mondo in cui vivevo prima fosse stato coperto dalla nebbia. Ero preso in un turbine di
emozioni e di cose, una giungla che ti porta a trasgredire senza neanche rendertene conto. Facendo teatro ho cominciato a socializzare con altri e a lavorare sul mio modo di pormi. Fino a quando, un giorno, ti rendi conto che c’è stato un cambiamento positivo». Massimo, che è uscito per lo spettacolo dopo due anni di detenzione, ha ricominciato a percepire il significato della libertà. Se l’era dimenticato: «Stare di nuovo in mezzo alle persone è stato un impatto forte, ma molto positivo. Guardare a lungo il cielo, i prati, le macchine, tutto il movimento che c’è. Ti rendi conto che in carcere, anche se vieni aiutato molto, vivi sempre in ritardo... cancelli da aprire, richieste alle guardie se vuoi camminare... sei chiuso in una dipendenza continua. Eppure proprio lì ho saputo conquistarmi un posto di lavoro, e la fiducia di educatori e agenti. E questo mi ha reso molto contento». A Roberto, ex detenuto che continua a partecipare al laboratorio teatrale, domandiamo cos’ha significato confrontarsi con la figura di san Paolo. «È stato portare sul palcoscenico quello che pensi costantemente – ci spiega. – Si raccomanda spesso di non frequentare le cattive compagnie, ma com’è
possibile se le cattive compagnie sono parte della nostra stessa natura umana? E infatti all’interno del carcere c’è gente che peggiora. Come si fa a non sbagliare? Solo per paura di ricadere in situazioni che ti hanno ferito? ma quando la paura viene meno? Questo riguarda anche la fede. Come posso diventare un timorato di Dio proprio io, che sono stato un detenuto? Come posso sostituire una paura con un’altra? Forse perché la fede è qualcosa di diverso dalla paura: significa fidarsi, lasciarsi andare». «Di san Paolo – aggiunge Riccardo – mi sorprende che abbia scritto queste cose quasi duemila anni fa. La cattiveria, le infedeltà, le pene capitali, non sono mai cambiate. Eppure le risposte che dà Paolo a queste realtà sono ancora attuali. Questo mi ha anche riavvicinato alla fede. Sono stato battezzato e cresimato, ma mi ero allontanato dalla fede perché era diventata un’abitudine. Davanti alla cattiveria del mondo avevo perso la speranza. Ma leggendo quello che Paolo ha scritto... le sue parole sono un inno alla generosità e all’amore da duemila anni. Anche l’amore e la generosità sono rimaste nei secoli. Nessuna cattiveria è riuscita a cancellarle del tutto». Paolo Pegoraro ANNO I - N. 9 MARZO 2009
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