FERDINANDO RANCAN
LA MONETA DEL TEMPO Un calendario per l’anima
PRESENTAZIONE Questo scritto raccoglie la seconda parte del volume “Il Tempo - l’Eternità” edito nel 1994, in occasione delle celebrazione per gli 800 anni della Consacrazione della Pieve dei Santi Apostoli in Verona. Il presente titolo ricorda una espressione di Sant’Agostino: “Il tempo è la moneta con cui possiamo comprare l’eternità”. In queste pagine ci siamo proposti di seguire i suggerimenti di un grande santo dei nostri giorni, San Josemaria Escrivà, che apre le sue considerazioni in “Cammino” con il seguente invito: “Che la tua vita non sia una vita sterile. Sii utile, lascia traccia. Illumina con la fiamma della tua fede e del tuo amore. Cancella, con la tua vita di apostolo, l’impronta viscida e sudicia che i seminatori impuri dell’odio hanno lasciato. E incendia tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che porti nel cuore”Ci auguriamo che, assieme al “Senso del vivere”, il testo che raccoglie la prima parte del volume “Il Tempo - l’Eternità” stampato dalle EDIZIONI ARES di Milano, anche questa fatica sia di aiuto alla fede e alla vita interiore di tanti cristiani e anche di tanti uomini che sinceramente desiderano incontrare Dio.
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INTRODUZIONE
L’uomo è creatura e come tale è relativo a Dio; da Lui ha ricevuto l’essere, l’esistenza ed ogni cosa. Tale rapporto con Dio è dunque radicato nell’essere stesso dell’uomo e inscritto nella sua stessa natura; costituisce, perciò, il fondamento di ogni religione. L’uomo è, appunto, “animal religiosum”. Dalla consapevolezza della propria creaturalità e dall’accettazione del proprio legame con Dio, nasce nel cuore dell’uomo il sentimento di un dovere morale, quello di esprimere a Dio l’adorazione, la lode, il riconoscimento della sua grandezza e della sua benevolenza. L’insieme di questi sentimenti e le loro manifestazioni concrete prendono il nome di culto, culto verso Dio e verso le persone e le cose che a lui si riferiscono. Proprio perché inscritto nell’essere dell’uomo, il culto verso Dio rispecchia la nostra natura umana che è contemporaneamente corporea e spirituale, e ha quindi una dimensione sensibile, con manifestazioni esteriori (culto esterno) e una dimensione interiore, spirituale (culto interno). E’ ovvio che questi due aspetti della religiosità e del culto sono intimamente correlati tra di loro: il culto esterno senza il culto interno sarebbe un falso o 3
una ipocrisia, mentre il culto interno senza la sua professione esteriore finirebbe con lo spegnersi totalmente. Certamente il culto non esprime tutta la religiosità umana; essa ha altre componenti fondamentali e ugualmente importanti: un insieme di conoscenze religiose e la vita morale. Queste due componenti sono particolarmente importanti nel Cristianesimo. Infatti, le conoscenze, soprattutto quelle riguardanti Dio e le sue opere, sono frutto di una rivelazione che Dio stesso ha fatto all’umanità e sono perciò oggetto di fede che chiamiamo “fede divina” perché ha come fondamento la Parola di Dio. Analogamente, anche la vita morale: essa non consiste semplicemente in un comportamento onesto che fa dell’uomo una persona umanamente corretta e civile, ma è la manifestazione coerente di una realtà nuova concessa al credente: la grazia santificante, cioè la partecipazione alla vita divina che dà all’uomo una nuova identità, quella di figlio di Dio. Centro e Mediatore di ogni religiosità umana è Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo; è lui, infatti, la Parola che illumina l’intelligenza degli uomini sulla verità; è lui la causa e il fondamento di una vita morale all’altezza della nostra dignità di figli di Dio, la santità; è lui, infine, il protagonista assoluto che orienta a Dio tutto il culto cristiano. Perciò, il vero culto verso Dio è possibile solo attraverso Gesù Cristo. Con la sua Incarnazione e con la sua Morte di croce, Gesù ha tolto di mezzo il muro, l’ostacolo che ci separava da Dio: l’inimicizia del peccato, e ha così ricomposto il rapporto dell’uomo con Dio. Gesù, Uomo-Dio, è dunque il vero adoratore del Padre e continua ad esserlo attraverso la Chiesa e nella Chiesa. Il 4
culto cristiano che la Chiesa, come Corpo Mistico di Cristo, offre a Dio, si chiama “Liturgia” e ha la sua espressione culminante nella Santa Messa. Ci sono tuttavia altre espressioni concrete del culto che, pur sempre radicate nella Liturgia, interessano particolarmente la sfera della pietà - la “Pietas” - cioè la religiosità interiore con tutti i sentimenti che la accompagnano: sono le “devozioni”. Per devozione s’intende appunto l’atteggia-mento interiore particolarmente vivo e profondo di venerazione con cui si vive il rapporto con una persona, ad esempio verso i genitori. Nel caso di devozioni legate alla religiosità e alla pietà cristiana, le persone sono: Dio, la Vergine, i Santi. Nel culto verso Dio il sentimento fondamentale è quello della adorazione, atteggiamento che è riservato in modo esclusivo soltanto a Dio. “Adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo servirai”. Nella devozione verso i Santi, l’atteggiamento fondamentale è quello della venerazione, che assume una particolare intensità e singolarità nel caso della Madonna. A lei si deve una venerazione tutta speciale come conviene a Colei che è Madre di Cristo e Madre della Chiesa. Queste cose l’uomo secolarizzato del nostro tempo le ignora; se gli vengono insegnate non le capisce e quando se le sente proporre le rifiuta come assurde e ridicole, comunque assolutamente insignificanti e senza importanza per la propria vita. L’uomo secolarizzato di oggi è l’ultimo prodotto di una cultura e di una società che esclude Dio dalla vita dell’uomo dichiarandolo inutile ai fini del progresso e insignificante per dare senso all’esistenza umana sulla ter5
ra. Inutile dire che, liberatosi dall’ipo-tesi-Dio, l’uomo attuale ha perso completamente il senso religioso, e il culto verso Dio gli appare sorpassato, sintomo di superstizione e di bigottismo, comunque privo di qualunque interesse. L’indifferen-za religiosa è la forma più blanda di questo degrado spirituale che affligge il nostro mondo occidentale. Altra forma ben più grave e acuta di questo degrado è lo sforzo, comune a tutte le concezioni materialistiche dell’uomo e del mondo, di costruire una società senza religione, o di elaborare una “religione” dell’uomo e per l’uomo, come sognano da secoli i movimenti massonici, i vari socialismi, lo scientismo presuntuoso e irridente. Sotto la spinta della secolarizzazione imperante, anche molti cristiani hanno affievolito il senso religioso e sono arrivati a considerare il culto verso Dio come secondario, come qualcosa di poco importante rispetto ad altri imperativi della vocazione cristiana. Così, si pensa a una fede senza contenuto dottrinale, a un culto senza Liturgia e senza “formalità” cultuali; si pretende una vita morale senza comandamenti o limitata ai soli comandamenti “sociali”: il quinto e il settimo; si vuole un cristianesimo senza la Chiesa e perciò senza Cristo, che viene presentato semplicemente come un nobile esempio di difensore degli ultimi; insomma, una “religione” senza religione, dove gli unici valori riconosciuti sono i valori del-l’uomo e per l’uomo. Sembra che le tragiche lezioni che ci sono venute dal nazismo, dal comunismo, dal libertinaggio laicista e da tutte le deliranti ideologie del nostro secolo, non abbiano insegnato nulla agli uomini di oggi. Non è possibile 6
emarginare Dio e pensare di poter costruire una civiltà degna dell’uomo, tanto meno la civiltà dell’amore. Se vogliamo veramente recuperare l’uomo, dobbiamo recuperare Dio, se intendiamo difendere l’amore verso l’uomo, dobbiamo affermare l’amore verso Dio. Non si può separare l’amore del prossimo dall’amore di Dio; in questo modo si finisce col negare Dio e uccidere l’amore. È questo un inganno diabolico, tanto nefasto quanto sottile. E la società scristianizzata di oggi si è prestata al gioco esaltando la solidarietà come valore assoluto negando la dimensione religiosa dell’amore, e dichiarando inutile e senza importanza il culto verso Dio. La solidarietà è certo un valore gradito a Dio e degno di considerazione e di rispetto, ma la solidarietà del cristiano ha un’altra dimensione, quella dell’amore che nasce da Dio e conduce a Dio “Amatevi come io vi ho amato”. Proprio in questo amore umano e divino sta l’impegno fondamentale del cristiano. Il tempo e la vita su questa terra ci sono dati per amare. Solo questo amore può redimere il tempo e dare ad esso valore di eternità. È l’invito di San Paolo agli Efesini: “Tempus redimentes”. Dobbiamo redimere il tempo o, come dice la traduzione italiana ufficiale, dobbiamo “approfittare del tempo presente”. Redimere: cioè riscattare il tempo dalla precarietà che gli è propria, perché “tutto passa”, e ancor più riscattarlo dalla sua negatività, perché tutte le creature sono sotto il segno del peccato e hanno bisogno di redenzione. Di tutto ciò che passa rimarrà solo quello che è nato dall’amore ed è stato realizzato nell’amore, cioè quello che è passato attraverso la croce di Cristo. In altre parole, redimere il tempo equivale per noi all’impegno di 7
santificare la nostra vita e di orientare a Dio tutte le realtà umane. Questo significa fare della nostra vita quotidiana il luogo del nostro incontro con Dio per servire il suo disegno di amore e di misericordia verso l’uma-nità. Il tempo si carica così di eternità, viene sottratto alla caducità e liberato da tutto ciò che di falso o di negativo vi abbia introdotto la superbia umana e l’azione del Maligno. Tutto passa, tutto è precario ed effimero tranne il legame che le cose hanno con Dio e il rapporto che noi abbiamo saputo vivere con Lui. L’importanza della storia umana sta tutta qui: nel contenuto di eternità che la nostra libera corrispondenza all’amore di Dio ha saputo mettervi. Con ragione affermava Sant’Agostino: “... L’eternità si compra con la moneta del tempo”. In queste pagine vogliamo riflettere su come possiamo santificare i nostri giorni sulla terra vivendo da buoni figli di Dio: • nel primo capitolo consideriamo quelle norme di pietà che ci aiutano a santificare le ore del giorno. Siamo chiamati infatti a vivere la nostra fede nei vari ambienti dove scorre la nostra vita quotidiana: la famiglia, la scuola, il lavoro, la professione...; chiamati a santificarci coltivando la presenza di Dio, la rettitudine d’intenzione, l’esercizio delle virtù umane, la disponibilità apostolica verso i familiari, gli amici, i colleghi. In altre parole l’eserci-zio della pietà cristiana è un mezzo per alimentare in noi la vita interiore, cioè il senso di Dio e la religiosità del cuore che devono accompagnare la nostra vita di figli di Dio sulla terra. • nel secondo capitolo ricordiamo le devozioni che nella tradizione cristiana sono in qualche modo collegate con i giorni della settimana, dal lunedì al sabato. 8
Un posto a sé occupa la Domenica, in quanto è il “Giorno del Signore” non legato a particolari devozioni ma al culto di Dio visto come Creatore e Redentore. Perciò le riflessioni sui giorni della settimana sono precedute da alcune considerazioni sulla Domenica e sul tempo festivo essendo il “Giorno del Signore” il momento fondamentale non solo per la Liturgia della Chiesa ma anche per la vita stessa del cristiano. • il terzo capitolo è dedicato all’Anno Liturgico nel quale noi possiamo rivivere la storia della nostra salvezza attraverso gli interventi compiuti da Dio nella storia dell’umanità, interventi culminati con la Passione, Morte e Risurrezione di Cristo, dal quale abbiamo ricevuto il dono dello Spirito Santo nella Pentecoste.Redimere il tempo. E’ compito di noi cristiani, come figli di Dio nella Chiesa, riproporre Cristo come luce del mondo e ricondurre gli uomini a Dio nella Verità e nell’Amore. Sono queste, la Verità e l’Amore, le coordinate che nascono da Dio e che a Dio conducono, come Papa Benedetto sta proclamando a tutti gli uomini del nostro tempo, vittime della più terribile delle dittature: quella del relativismo. Solo così noi cristiani possiamo dare un’anima alla nostra civiltà e costruire un mondo degno dell’uomo.
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IL GIORNO
La vita è Cristo
1 - Il giorno e la vita Il giorno è l'unità elementare del tempo. È un’unità ciclica perché la sua alternanza di luce e di tenebre - il giorno e la notte - costituisce un ciclo naturale che si ripete ininterrottamente. È la ruota del tempo nel suo scorrere inarrestabile. Tuttavia, pur presentandosi come un'unità ciclica, il giorno è sempre stato percepito dall'uomo come un evento lineare, una retta, o un arco, con un inizio e una conclusione, dall'alba al tramonto. Una retta che venne poi suddivisa in segmenti uguali: le ore del giorno.1 Questa unità elementare scandisce il ritmo del tempo e scandisce anche il ritmo della vita, tanto che viene 1
- Probabilmente si deve ai Babilonesi la suddivisione del giorno in ore.
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considerata come il paradigma, il simbolo che rappresenta il corso della nostra esistenza terrena. Le diverse età della vita vengono paragonate alle successive parti del giorno: la vita ha un mattino, un meriggio, una sera e il tramonto. Questa concezione del giorno come una realtà lineare non ciclica, conferma una convinzione da sempre presente nella coscienza umana: la vita è irripetibile. La vita umana è come una retta collocata nel tempo; ha un inizio e una fine; è una retta che non si ripete, non ricomincia. La nostra vita è un'occasione unica, e perciò è un'occasione da non perdere, da non sciupare; è un'occasione che non dobbiamo sbagliare perché non possiamo più tornare indietro. In alcuni ambienti filosofico-religiosi si è formulata l’idea della reincarnazione delle anime. Essa esprime solamente la convinzione insita nel cuore umano che non tutto muore di noi. Esprime il bisogno di eternità presente nella coscienza dell’uomo. Ma non è così. "Si vive una volta sola", come dice un ritornello popolare. E’ un ritornello che viene utilizzato con significati differenti e contrastanti. I pagani concludono che bisogna spremere dalla vita il massimo possibile di piacere e di godimento; l'ambizioso si propone di realizzare il massimo di gloria e di successo, l'avaro guarda a quest'unica occasione per accumulare il massimo di beni e di ricchezze. Il cristiano perfetto, invece, sa che vive una volta sola ed è l'unica occasione che ha per essere santo, per realizzare il disegno di Dio, per fare tutto il bene possibile e mettere il massimo di amore di Dio in ogni cosa; per essere, come vedremo fra poco, un altro Cristo. Si è soliti, anche, paragonare la vita a un giorno per indicare la brevità dell'esistenza umana. Brevis est vita hominis super terram; è come il fiore del campo che 11
fiorisce al mattino, nella rugiada, e al tramonto è già appassito. "Rivelami, Signore, la mia fine; quale sia la misura dei miei giorni e saprò quanto è breve la mia vita. Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni, la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra è l'uomo che passa; solo un soffio che si agita, accumula le ricchezze e non sa chi le raccolga".2 La brevità del tempo e la fugacità della vita riempiono di tristezza gli uomini di questo mondo, perché essi non hanno altra prospettiva che la vita presente, una vita che ha le sole dimensioni del tempo. Il cristiano, invece, sa di aver ricevuto il germe di un'altra vita, la vita divina che dà alla vita presente la dimensione dell'eternità. L'uomo è così chiamato a vivere nel tempo una vita eterna, a vivere nella sua esistenza naturale una vita soprannaturale, ad essere figlio dell'uomo ma insieme figlio di Dio. 2 - Cristo: l’oggi del cristiano. Tutto questo è possibile perché Dio lo ha realizzato in Gesù Cristo. E' il mistero grande e commovente della Incarnazione. "Quando venne la pienezza del tempo, Iddio mandò il suo Figlio, fatto da donna, fatto sotto la Legge, per riscattare quelli che erano soggetti alla legge, affinché ricevessimo l'adozione a figli".3 Cristo è la vera "novità", la sua vita ha rinnovato l'esistenza umana, ha inaugurato un modo nuovo di vivere sulla 2 3
Salmo n. 38,5-7 Galati, 4,4
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terra, un modo soprannaturale che anticipa e prepara la nostra condizione definitiva nel Cielo. Per mezzo di Cristo, Dio ha voluto anche riscattare la storia umana; solo in Cristo essa acquista valore e significato. Senza Cristo, senza la sua vita umana e divina, tutta la vicenda terrena dell'uomo sarebbe senza speranza, apparirebbe come una vicenda al buio, che si interrompe nella morte. Gesù stesso lo ha ricordato: “Io sono la luce del mondo (...) sono venuto perché abbiano la vita".4 Questa dimensione cosmica e universale della vita di Cristo, che porterà alla trasformazione di tutto il creato, è ordinata all'uomo e, come abbiamo visto, presuppone la sua partecipazione alla vita divina. Tutta la nostra giornata terrena ha, dunque, per noi cristiani questo significato: rivivere la vita di Cristo, identificarci in Lui, trasformarci in un altro Cristo. S. Paolo lo ricordava ai primi cristiani paragonandosi a una madre che soffre le doglie del parto donec formetur Christus in vobis, finche non si fosse formato Cristo in loro. E' un'immagine che S. Paolo utilizza per sé, ma che va attribuita alla Chiesa, perché è nella Chiesa che veniamo generati come figli di Dio per opera dello Spirito Santo. Tutto è cominciato nel giorno del nostro Battesimo, quando il sacerdote ha versato sul nostro capo l'acqua del fonte battesimale, dicendo: "Io ti battezzo nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo". In quel momento lo Spirito Santo ha divinizzato la nostra anima col dono della Grazia santificante rendendoci partecipi della natura divina. Ora, la stessa e unica natura divina è presente nel Padre e nel Figlio e nello Spirito San4
Gv. 10,10
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to secondo tre proprietà diverse fondate su tre relazioni personali distinte: la paternità, la filiazione, la spirazione. In noi la partecipazione alla natura divina avviene come filiazione, quella propria del Figlio, che Gesù ci ha portato in dono. Diventiamo perciò figli nel Figlio, e attraverso il Figlio entriamo in comunione col Padre e con lo Spirito Santo. E' un mistero grande, immenso, inimmaginabile, che comprenderemo soltanto in Cielo. Qui, sulla terra, dobbiamo affidarci alla luce della fede e alla comprensione interiore che può darcene lo Spirito Santo. Nell'Incarnazione il Figlio di Dio, facendosi uomo, è diventato Sacerdote, Re e Profeta, e, perciò, quando noi nel Battesimo riceviamo la sua filiazione divina veniamo "configurati" a Cristo, veniamo cioè modellati su di lui secondo la sua triplice prerogativa. E' come se lo Spirito Santo imprimesse nella nostra anima i lineamenti di Gesù, la sua fisionomia, così che il Padre guardandoci può dire: "Tu sei mio figlio!". Questa modificazione della nostra anima è soprannaturale, ma reale e indelebile, e viene indicata dal catechismo col termine di "carattere". Da quel giorno è iniziato in noi il dinamismo della grazia, che lungo la nostra vita terrena tenderà a farci sempre più simili a Cristo, fino a identificarci con Lui. Perciò come l'Incarnazione è stata per Gesù l'inizio della sua vita di Uomo-Dio, vita che ha raggiunto il culmine nel mistero pasquale della sua morte e risurrezione, allo stesso modo il battesimo ha segnato per noi l'inizio della nostra vita di figli di Dio, vita che trova il suo culmine nella partecipazione all'Eucaristia, sacramento della Pasqua del Signore.
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3 - La vita terrena dell’Uomo-Dio Ora, l'Incarnazione non è stata l'evento di un momento; essa ha inaugurato uno stato di cose nuovo, un modo nuovo di essere, che è di Cristo ma che è destinato a tutti gli uomini e che resterà per sempre. Per tutta l'eternità infatti sarà vero che un uomo è Dio, che una umanità come la nostra è personalmente unita alla divinità, che la vita di un Uomo "in tutto simile a noi tranne che nel peccato" 5, è stata ed è la vita del Figlio di Dio. Perciò, quel neonato che nella grotta di Betlemme piange per il freddo e per la fame, è Dio che piange; quel ragazzo che gioca per le strade di Nazareth con i compagni del paese e torna a casa, accaldato e spettinato, come tutti i ragazzi di questo mondo, a chiedere a sua Madre una ciotola d'acqua fresca, è Dio che gioca con i figli dell'uomo, è Dio che si disseta sotto lo sguardo estasiato di sua Madre; quel giovane Uomo che lavora nella bottega di Giuseppe, è Dio che lavora; e più tardi, quell'uomo che si stanca sulle strade della Palestina, che incontra le folle, che sana gli ammalati, che abbraccia i bambini, che crolla di stanchezza e di sonno nella barca di Pietro, che si siede assetato al pozzo di Sichem e chiede da bere alla donna di Samaria, quell’uomo che piange sulla sua città e sul destino che la attende, e si commuove davanti al dolore di Marta e di Maria per la morte di Lazzaro, quell'Uomo è Dio; è Dio che cammina sulle strade della terra, è Dio che parla, che guarisce, che crolla di stanchezza e di sonno, che ha sete e che piange, che si intenerisce e si commuove, quell'Uomo è Dio tra gli uomini. Ancora, quell'Uomo che vediamo incatenato e 5
Ebrei, 4,15
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trascinato davanti ai tribunali, che vediamo deriso e insultato, quell'Uomo che viene colpito con calci e bastoni, con schiaffi e flagelli, quell'uomo irriconoscibile, diventato una maschera, un "quadro di dolori", quell'Uomo è Dio. E' Dio incatenato e trascinato davanti ai tribunali degli uomini, è Dio deriso e flagellato, coperto di sputi e di piaghe, è Dio trattato da imbroglione e vestito da pazzo; infine, quell'Uomo crocifisso sul Golgota, che strappa con un grido la vita al suo corpo nudo davanti al cielo e alla terra, è Dio-crocifisso, è Dio che muore. "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!".6 Mai espressione fu più vera e reale di questa, pronunciata dal centurione pagano davanti a Cristo crocifisso. E noi non possiamo contemplare la vita di Gesù senza pensare che è la vita dell'Uomo per gli uomini e insieme la vita del Figlio di Dio per i figli di Dio. Si capisce allora l'amore immenso che i Santi nutrivano per il Vangelo. "Dobbiamo infatti riprodurre la vita di Cristo nella nostra vita. Ma ciò non è possibile se non attraverso la conoscenza di Cristo che si acquista leggendo e rileggendo la Sacra Scrittura e meditandola assiduamente nell'orazione".7 4 - Il cristiano, un altro Cristo La figura di Gesù deve diventarci così famigliare da sentirla vicina, presente nelle varie circostanze della nostra giornata. Ci troveremo a vivere infatti negli stessi ambienti e nelle stesse situazioni in cui Egli è vissuto: la famiglia, il lavoro, le amicizie, i rapporti sociali, così come 6 7
Mc. 15,39 San J. Escrivà, E' Gesù che passa n.14
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la stanchezza, la fame, il riposo, le contrarietà; e non mancherà nemmeno la croce, che rappresenta il culmine a cui è giunta la vita terrena di Gesù. Inoltre le scene stesse del Vangelo ci risulteranno a poco a poco sempre più familiari e finiremo col sentirci anche noi presenti e partecipi a quegli episodi insieme agli altri personaggi. Così, "la vita di Gesù Cristo, se gli siamo fedeli, si ripete in qualche modo in quella di ciascuno di noi, tanto nel suo processo interno - la santificazione - quanto nella condotta esterna".8 Non si tratta di una finzione psicologica, né di un gioco di fantasia, ma di un vero processo spirituale della nostra anima ed è opera esclusiva della grazia. Come nell'Incarnazione lo Spirito Santo ha operato nel grembo verginale di Maria il concepimento dell'Umanità santissima di Gesù, così nel Battesimo lo Spirito Santo opera nella nostra anima il concepimento di quella "creatura nuova" che porta la fisionomia stessa di Gesù perché partecipa alla sua filiazione divina. Questa creatura la portiamo in noi durante la nostra vita terrena come in gestazione, con l'impegnativa responsabilità di farla vivere e crescere fino alla pienezza dell'età di Cristo,9 quando verrà partorita alla vita eterna nel giorno della nostra morte, che è il suo dies natalis, il suo giorno natalizio. In questo processo, che dura tutta la vita, la nostra anima va liberandosi dalle vecchie sembianze, quelle dell'uomo secondo Adamo, si purifica dal male e dalle scorie del peccato rivestendosi delle virtù di Cristo. In certo qual modo prenderanno posto in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù...;10 cominceremo a 8
Forgia, n. 418 Ef. 4,18 10 Fil. 2,5 9
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pensare secondo il modo insegnatoci da Gesù, ad amare quello che Egli ha amato, a cercare in ogni cosa la volontà di Dio. Ci dedicheremo ai doveri del nostro stato, in famiglia e nella società, imitando Gesù che "ha fatto bene ogni cosa",11 che ha santificato il lavoro nella bottega di Giuseppe, lavorando con amore a lode del Padre, offrendo la fatica e le contrarietà come espiazione dei peccati. Ci sforzeremo di seguire il suo esempio quando dedica tempo al colloquio intimo col Padre nell'orazione, quando si è fatto tutto a tutti nella comprensione, nell'amabilità paziente, nella misericordia operosa, "benefaciendo omnes", facendo il bene a tutti; in altre parole cercheremo di nutrire in noi sentimenti di pace, di gioia, di misericordia, di pazienza, di fortezza, di fedeltà, di mitezza, di obbedienza al Padre, di amore verso gli uomini; metteremo i nostri passi sulle orme che lui ci ha lasciato, camminando dove lui ha camminato. In questo modo, seguendo le orme di Cristo, è certo che incontreremo la croce, perché Cristo ha voluto attraverso la croce salvare l'umanità. Perciò incontrare la croce è incontrare Cristo; allora la croce non è più una disgrazia, non è più una condanna o una maledizione, diventa la strada verso la vita, verso la nostra pace e la nostra gioia. "Segni certi della vera Croce di Cristo: la serenità, un profondo senso di pace, un amore disposto a qualsiasi sacrificio, un'efficacia grande che sgorga dal Costato stesso di Gesù, e sempre - in modo evidente - la gioia: una gioia che proviene dal sapere che chi si dona davvero è vicino alla croce e, di conseguenza, è vicino a nostro Signore".12 11 12
Mc. 7,37 Forgia, n.772
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Così, il nostro atteggiamento interiore di fronte alla croce di Cristo rivela la nostra maturità nella vita cristiana, la maturità dei figli di Dio che hanno imparato a giudicare le cose della terra e di questa vita con la saggezza della fede. La paura della Croce, la ribellione davanti alla croce, l'insofferenza, la tristezza e la stessa rassegnazione sono sintomi di immaturità spirituale perché senza il crogiolo del dolore, della umiliazione e della sofferenza, non è possibile capire Cristo e il suo amore per noi. Di solito si tratta delle croci piccole della vita quotidiana, ma in esse, a poco a poco, con l'aiuto di Dio, la nostra anima si fortificherà, comprenderà con chiarezza sempre più profonda la preziosità della vita eterna di fronte alle effimere consolazioni mondane, perderà la paura del sacrificio e andrà progredendo in tutte le virtù cristiane. L'orazione, poi, farà il resto, finche Dio, facendoci assaporare la realtà dolcissima della filiazione divina, ci riempirà di pace, ci darà un desiderio sempre più vivo di servirlo e di farlo conoscere e amare anche dagli altri. In definitiva, noi cristiani siamo chiamati a continuare nel mondo questo modo nuovo di essere e di vivere sulla terra, un modo umano-divino inaugurato da Cristo con la sua Incarnazione e culminato nella sua morte e risurrezione. E' un modo di essere di natura sacramentale, che viene a noi comunicato attraverso i Sacramenti - dal battesimo all'eucaristia al matrimonio... - e si sviluppa come imitazione di Cristo nei cammini dell'orazione e della croce. Lo scopo di queste pagine è tutto qui: aiutare ciascuno di noi ad entrare sempre più profondamente in quella “intimità personale con Gesù vivo e presente” alla 19
quale Papa Benedetto sta invitandoci, con commovente insistenza fin dall’inizio del suo Pontificato, come programma centrale del suo ministero Non solo dunque, togliere distanze di spazio e di tempo fra noi e Gesù, ma anche e soprattutto far tacere le insinuazioni del maligno e le voci stonate del nostro io, affinchè Cristo possa occupare tutto lo spazio della nostra anima e del nostro cuore. Potessimo davvero dire con San Paolo: “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me.”
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LE “ORE” DEL GIORNO
5 - Le “ore” e l’orario Abbiamo già visto che la nostra giornata terrena deve essere vissuta da figli di Dio, e perciò dobbiamo identificarci con Gesù rivivendo la sua stessa vita. Abbiamo anche detto che la nostra vita è come una giornata: dal mattino al tramonto, e che ogni giorno è come la vita. Perciò dobbiamo vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo e nello stesso tempo come se fosse tutta intera la nostra vita. Per questo la Chiesa ha voluto santificare le varie ore del giorno con espressioni liturgiche che fossero di aiuto alla nostra vita interiore e alimentassero il nostro desiderio di unione con Cristo. Espressione tipica di questa liturgia è l'insieme di quegli atti di culto che va sotto il nome di "Liturgia delle Ore". Sono momenti di preghiera, distribuiti lungo le ore del giorno e anche della notte, in modo che tutto il nostro tempo venga santificato, diventi tutto "tempo di Dio". Prima di descrivere le varie preghiere delle ore (preces horariae) è opportuno ricordare l'importanza di avere un "orario" che regoli e conduca la nostra giornata. Non dev'essere un orario rigido che ci pesi addosso come una forzatura, né un artifizio che tolga spontaneità alla nostra vita, ma un orario teso a rendere più ordinato ed efficace il nostro lavoro, e a liberare in modo costrut21
tivo le nostre energie interiori. Ogni persona matura, infatti, ha un orario nella propria vita famigliare e nella propria attività professionale. Così anche la nostra vita spirituale ha bisogno di un orario per non cadere nel disordine o nella pigrizia o, viceversa, per non essere travolta da un attivismo alienante e dispersivo. Del resto, tutta la nostra esistenza scorre dentro un orario. La nostra vita non è condotta dal caso o da forze cieche ed oscure, e nemmeno è governata da misteriose congiunzioni stellari che solo abili oroscopi possono decifrare. L'orologio della nostra vita è nelle mani della Provvidenza di Dio. Egli ha le sue ore, scadenze ben precise della sua grazia che segna i momenti fondamentali della nostra vita; sono "i tempi e i momenti" che il Padre ha messo nel suo arcano, provvidenziale disegno. Le "ore" di Dio sono determinanti per la nostra vita, come lo sono anche per la storia degli uomini, e mancare all'appuntamento con la Grazia è troppo pericoloso per il nostro destino eterno, è un rischio che non dobbiamo correre. Dio ha fissato un suo orario per la nostra vita, noi dobbiamo proporci un orario nella nostra giornata. Sarà un orario flessibile che potrà variare adattandosi alle circostanze e alle situazioni di lavoro e di famiglia; ma sarà sempre un orario adatto a difendere i nostri appuntamenti quotidiani con Dio. Sono appuntamenti d'amore da parte di Dio, dovranno esserlo anche da parte nostra. 6 - Ora Prima: il mattino La prima delle "Preces Horariae" coincide evidentemente col mattino e segna l'inizio della giornata: è la preghiera 22
del mattino. Essa si compone essenzialmente di due atti: alzata ad ora fissa e offerta delle azioni. L'ora dell'alzata non è senza significato, e non viene determinata esclusivamente in riferimento al lavoro o agli impegni che mi attendono nella giornata. L'ora fissa conferisce all'alzata dal letto un valore obbedienziale e la fa diventare preghiera. E' come riconoscere che il tempo non è lasciato al mio capriccio o al mio arbitrio e che l'inizio di ogni giorno esige la risposta ad una chiamata. L'atteggiamento del cristiano, quando si alza al mattino, dovrebbe essere quello del servo fedele pronto alla voce del suo Signore che lo chiama a servirlo o, se vogliamo, l'atteggiamento del figlio docile e obbediente che risponde a suo padre: eccomi! Si comprende così la consuetudine praticata da molti cristiani che, uscendo prontamente dal letto, baciano il pavimento dicendo in cuor loro: "Ti servirò, Signore!". Vuol essere un gesto di riparazione al "Non serviam!" di Lucifero, che ha contagiato i nostri progenitori e minaccia continuamente tutti noi con la tentazione di tanti "no" alla volontà di Dio. Del resto, uscire dal sonno è come rinascere alla vita, anzi è come ricevere l'esistenza. Non siamo venuti al mondo per caso, né quando abbiamo voluto noi, a nostra discrezione. C'è una “ora fissa" nel quadrante di Dio, il momento preciso in cui Dio ha detto di noi: Fiat! - Si faccia! - come per la luce, per le stelle, per il firmamento. Dio ci ha fatti uscire dal nostro nulla quando Lui ha voluto, e ci ha posti nell'esistenza con un atto liberissimo della sua volontà, alla quale non abbiamo potuto far altro che rispondere: Eccomi! Servire Dio per amore e trasformare tutta la nostra giornata in un servizio d'amore, è l'unica cosa importante che possiamo fare sulla terra. Ricordarlo tutte le mattine è un dovere - siamo crea23
ture! - e farà un gran bene alla nostra anima; certamente darà un tono diverso all'inizio delle nostre giornate. Al "Serviam!" iniziale segue, come conseguenza, l'offerta delle azioni. Dobbiamo orientare a Dio tutto ciò che in quella giornata ci passerà nel cuore, nei pensieri, nelle mani e anche tutto ciò che ci accadrà di buono o di spiacevole, al di là di ogni nostra previsione. Ma per poterle offrire a Dio, è necessario non solo che le nostre azioni siano buone in sé stesse, occorre che sia retta anche l'intenzione che ci muove ad agire. Per un cristiano, rettitudine d'intenzione significa che devono essere umanamente nobili le motivazioni del suo agire, lavorare per la famiglia, per i figli, per il bene della società ecc. - ma significa anche che il fine del suo agire deve essere soprannaturale. Può capitare infatti che facciamo con cura cose ottime e meritevoli, le più nobili e generose, e tuttavia che vengano ad infiltrarsi nel nostro cuore l'amor proprio e la vanità, la ricerca del successo, del plauso o dell'interesse esclusivamente personale. E' l'atteggiamento che Gesù rimproverava ai Farisei: "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini".13 Il cristiano invece si propone, in ogni cosa, di glorificare Dio. "Dà a Dio tutta la gloria”. "Spremi" con la tua volontà, aiutato dalla Grazia, ognuna delle tue azioni, affinché in esse non resti nulla che odori di superbia umana, di compiacenza del tuo io".14
13 14
Mt. 23,5 Cammino n.784
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7 – La preghiera del mattino Tutto questo viene espresso in modo molto semplice ma efficace dalla "Preghiera del mattino" che appartiene alla pietà cristiana tradizionale e che abbiamo imparato dalle labbra di nostra madre: "Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore..." Adorare Dio e fare tutto per suo amore è dare a lui tutta la gloria. "Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte." Ringraziare è riconoscere i doni di Dio e dargli lode per la sua gloria. Gesù dirà al lebbroso guarito che tornò a ringraziarlo: "Non si è trovato chi tornasse a dare gloria a Dio se non questo straniero".15 Adorare e ringraziare è come cantare le lodi al Signore. Nella Liturgia delle Ore, infatti, la preghiera del mattino è chiamata: Lodi mattutine. I Salmi e gli inni di questa preghiera fanno riferimento alla creazione (il Mattino del Cosmo), ed esprimono lode a Dio per l'aurora, la luce, il sole nascente (simbolo di Cristo Risorto), che viene ad illuminare la terra e a riscaldare la vita degli uomini. Le preghiere delle Lodi fanno poi riferimento al comando che Dio diede all'uomo nell'affidargli la creazione: prendere possesso del mondo e plasmarlo con un’attività intelligente e costruttiva. La lode di Dio va dunque unita all'offerta della giornata lavorativa, che diventa così un "sacrificio di lode", e anche tutte le azioni vengono dedicate, come primizia, a Dio con l'intenzione di compiere fedelmente la sua volontà. Continua infatti la preghiera: "Ti offro le azioni della giornata, fa che siano tutte secondo la tua santa volontà e per la maggior tua gloria". 15
Lc. 17,18
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La preghiera si conclude con una petizione di grazia per sé stessi, per le persone care e, in definitiva, per tutta la Chiesa. "Preservami dal peccato e da ogni male, la tua grazia sia sempre con me e con tutti i miei cari, Amen". E' consuetudine, infine, rivolgersi a Dio con la preghiera del Padre nostro, e affidarsi alla protezione della Santa Vergine e degli Angeli Custodi. Con questa preghiera ogni cristiano può unirsi alla preghiera liturgica di tutta la Chiesa che nelle Lodi mattutine fa proprie le preghiere del mattino di tutti i fedeli sparsi nel mondo. Vista in questo modo la preghiera del mattino non sembra certamente una preghiera riservata ai bambini, come comunemente si crede. Tutt'altro! Essa richiede, invece, grande maturità spirituale. Ringraziare Dio e dargli lode col proprio lavoro e con la propria vita è l'atteggiamento specifico di un cristiano adulto, consapevole che Dio è "il Primo" e viene al primo posto: - "Io sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il Principio e la Fine" 16 -, e consapevole anche della propria responsabilità di figlio di Dio nel mondo e nella Chiesa. Purtroppo, sono molti i cristiani che mancano a questo primo appuntamento con Dio all'inizio della loro giornata. La causa è senza dubbio l'ignoranza: non si pensa, non si conosce il valore e il contenuto di questa preghiera e il significato importante che essa riveste nella nostra vita; ma anche hanno il loro peso la pigrizia: - ci si alza all'ultimo momento, si è presi dalla fretta, dall'assillo del lavoro ecc. - la poca fede, e soprattutto la scomparsa quasi totale del senso religioso della vita. Si è dominati da una visione materialistica delle cose e da una sorta di 16 Ap.
22,13
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ateismo pratico che si è infiltrato nella mentalità corrente e che ormai orienta il modo di vivere abituale della società contemporanea. E' dovere di noi cristiani reagire. Dio ha diritto al primo posto nella nostra vita e dobbiamo dedicare a lui il primo pensiero della giornata; a Lui la nostra adorazione e la nostra lode, a lui il nostro cuore e le nostre opere. E' un modo concreto di far posto a Dio nella nostra vita, e portarlo poi con noi, nelle nostre famiglie e nella società in cui viviamo. 8 – Meditazione e orazione La "Liturgia delle Ore" è chiamata nel rito orientale bizantino: Orologio. Il nome fa ovvio riferimento alle ore della giornata. Sono ore che la Liturgia ci invita a santificare, a trasformare cioè in occasione di lode a Dio ritmandole con espressioni di preghiera. Sul quadrante dell'orologio liturgico della Chiesa, un momento al quale viene attribuita notevole importanza è quello chiamato "Ufficio delle lezioni". L'espressione fa capire che l'elemento principale di questa Ora Liturgica è la lettura della Parola di Dio. In essa vengono offerti alla nostra meditazione passi della Sacra Scrittura in modo sistematico e ordinato: la Chiesa fa scorrere davanti alla nostra contemplazione le meraviglie compiute da Dio per la salvezza dell'uomo, soprattutto il mistero di Cristo nel quale si è rivelato l'amore di Dio per noi e si è compiuta l'opera della Redenzione. E' dunque tempo di silenzio e di ascolto, è un incontro con Dio che parla alla nostra anima. Anticamente, e ancor oggi nei monasteri, quest'ora veniva collocata nel cuore 27
della notte per facilitare il raccoglimento e l'ascolto di Colui che è "Mistero inaccessibile". La Parola di Dio è nutrimento indispensabile per le nostre anime e non può mancare nella vita di un cristiano; perciò, come ogni nutrimento, dovrebbe figurare ogni giorno nel programma spirituale di chi vuol seguire Cristo da vicino. Solamente, per il cristiano che vive nel mondo, questo incontro con Dio non avverrà né in una cella né di notte, ma nel cuore della propria giornata e possibilmente davanti a un Tabernacolo o in un angolo tranquillo della propria casa. Se qualche volta ciò non fosse possibile, si possono utilizzare i tempi che non impegnano mentalmente: durante il viaggio in autobus, dando la pappa al bambino..., al limite, nel bel mezzo della strada. Dio può parlarci dappertutto e può darci la grazia di saperlo ascoltare in qualsiasi momento, in qualunque situazione. Quello che occorre da parte nostra è desiderare sinceramente questo incontro, volerlo con tutto il cuore e con tutto il nostro impegno fissandone il momento nella giornata e il luogo, e poi proteggendolo dai vari rischi come gli imprevisti, la stanchezza, l'aridità, non esclusi i pretesti della pigrizia e della malavoglia. "Non esitate a pregare: chi vi ascolta è dentro di voi. Non volgete i vostri occhi verso una qualsiasi montagna, verso le stelle, il sole, la luna; purifica invece la cella del tuo cuore; in qualsiasi luogo tu andrai, in qualunque posto ti metterai a pregare, dentro di te è chi ti ascolta, dentro nel segreto... non andare lontano...".17 Senza la meditazione assidua, quotidiana, della Parola di Dio il cristiano resterà inevitabilmente un me17
S.Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 10,1
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diocre nella vita spirituale, fiacco e incerto nella sua fede, facile ai cedimenti morali e alle debolezze umane, spento come testimone di Cristo in mezzo agli altri. E' indispensabile però che la meditazione della Parola di Dio diventi orazione, si apra cioè al colloquio intimo e filiale con Dio. Troppi cristiani si fermano alla semplice riflessione o meditazione, che spesso diventa un alibi nel rapporto con Dio, un modo per nascondersi, per non arrivare faccia a faccia col Signore e incontrarsi col suo sguardo, amabile ma esigente. La meditazione, se rimane solo meditazione, rischia di fare della Parola di Dio un bene di consumo, e finisce nell'anonimato o conduce al timore. Manca infatti l'amore. Quando due persone si amano, hanno assoluto bisogno di comunicare, di "parlarsi", e quanto più l'amore è autentico e profondo tanto più il colloquio si fa personale ed intimo. Ora, l'orazione è precisamente questo: un dialogo d'amore tra l'anima e Dio. "Mi hai scritto: "Pregare è parlare con Dio. Ma, di che cosa?" - Di che cosa? Di Lui, di te: gioie, tristezze, successi e insuccessi, nobili ambizioni, preoccupazioni quotidiane..., debolezze! E atti di ringraziamento e suppliche: e Amore e riparazione. In due parole: conoscerlo e conoscerti: "frequentarsi"!18 La vera penetrazione della Parola di Dio e la conoscenza intima di Lui non ce la da la meditazione ma l'orazione; è lì che Dio rivela il suo volto, si apre alla nostra anima, la illumina e la riscalda con il calore della sua presenza. Sulla necessità dell'orazione e di una orazione continua - "Pregate sempre" - l'esempio di Gesù è stato 18
Cammino n. 91
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esplicito; il suo colloquio con il Padre era continuo, ininterrotto e spesso diventava esclusivo: di notte, all'alba, a sera, improvvisamente lungo la giornata...; la meditazione non può essere continua perché non si può concentrare la riflessione simultaneamente sulla Parola di Dio e sul lavoro o su altre preoccupazioni, ma l'orazione sì, perché si può amare sempre, l'amore non conosce interruzioni e può entrare in qualsiasi cosa facciamo. E' infatti l'amore, l'amore vivo, attuale, che lega il nostro cuore a Dio, e trasforma il lavoro, lo studio, le faccende quotidiane in orazione. Questa orazione continua non si improvvisa; è un traguardo, una meta. Ed è un dono; bisogna perciò chiederlo al Signore. Dobbiamo chiederlo ogni volta, mettendoci con umiltà alla presenza di Dio: "Signore mio e Dio mio, credo fermamente che sei qui, che mi vedi, che mi ascolti..." , gli chiediamo poi perdono dei peccati e la grazia di ricavare frutto da quella orazione. Da parte nostra occorre la perseveranza. Santa Teresa lamentava che sono molti quelli che cominciano ma sono pochi quelli che perseverano. L'orazione quotidiana è come l'orologio della nostra pietà: se si ferma, si ferma il tempo di Dio nella nostra anima. E perdiamo anche la sintonia con l'Orologio liturgico della Chiesa. 9 – Liturgia del lavoro Nella "Liturgia delle Ore" la Chiesa dedica alla preghiera altri tre momenti di preghiera nel corso della giornata; corrispondono a tre ore intermedie comprese tra il mattino e la sera e prendono il nome di Ora Terza, Ora Sesta e Ora Nona, secondo la divisione del giorno in 30
uso presso i Romani. Esse corrispondono all'incirca alle ore nove, alle ore dodici e alle ore tre pomeridiane, cioè al tempo dedicato di solito al lavoro. Anticamente il lavoro non era considerato un elemento importante, e ancor meno come costitutivo della vita umana. Il lavoro manuale era riservato agli schiavi e le altre attività, dette liberali, non erano considerate lavoro. Le tre ore intermedie infatti nella Liturgia delle Ore non fanno alcun riferimento al lavoro; ricordano invece avvenimenti decisivi nella storia della salvezza: la crocifissione di Cristo, la sua morte, la discesa dello Spirito Santo. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che Gesù ha passato più di trent'anni della sua vita nella bottega di Giuseppe a Nazareth, lavorando molte ore al giorno ed essendo anche allora Salvatore del mondo; ha voluto dare anche al lavoro una dimensione e un valore redentivo. L'uomo moderno ha riscoperto il lavoro sia come valore fondante della vita sociale ed economica, sia come valore essenziale nella vita della persona umana. Tanto che la dignità e la qualità del lavoro sono state al centro di tutte le rivoluzioni ideologiche e sociali degli ultimi secoli. Anche la teologia e l'ascetica cristiana hanno riscoperto il lavoro come elemento essenziale nella vita spirituale del cristiano. L'attenzione al lavoro non è mai mancata nell'insegnamento della Chiesa; tutti ricordiamo il motto che costituisce il fondamento della Regola benedettina: "ora et labora", preghiera e lavoro. Si deve all'impegno e allo spirito che hanno animato i monaci di S. Benedetto se i loro monasteri furono, nei secoli che prepararono l'Europa, non solo centri di evangelizzazione 31
ma anche fari di civiltà e di progresso sociale ed economico. Tuttavia il lavoro inteso e praticato dai monaci aveva un duplice significato: un significato ascetico - doveva preservare i monaci dall'ozio - e un significato di supplenza, nasceva cioè dalla necessità di colmare un vuoto nella vita sociale delle popolazioni di allora che discendevano quasi tutte dai barbari e non conoscevano il lavoro. Si deve al carisma di uno dei santi più incisivi nella storia della spiritualità cristiana, San J. Escrivà, la riscoperta del lavoro umano come elemento essenziale materia prima - nella santificazione del cristiano. I fedeli laici che vivono nel mondo sono chiamati a realizzare la "consecratio mundi", cioè a orientare a Dio, mediante il lavoro santificato, tutte le cose create. Per usare un'espressione dello stesso santo, è missione e compito dei laici, loro specifica vocazione, "santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro, santificare gli altri con il lavoro". Possiamo dire, in certo qual modo, che il lavoro quotidiano, se santificato diventa preghiera, una sorta di "Ora Media" del laico cristiano. L'Ora Media della Liturgia, pur non facendo riferimento al lavoro quotidiano, presenta tuttavia due aspetti che hanno essenziale importanza per la santificazione del lavoro: il primo è la presenza nelle tre ore medie - Terza, Sesta, Nona -, in tutti i giorni della settimana, del salmo n. 118. E' un salmo particolare, il più lungo tra tutti i Salmi della Bibbia, e ha come argomento la Legge di Dio, dono prezioso del Signore per il nostro cammino sulla terra. Tutti i versetti di questo salmo sono espressioni appassionate di lode e di gratitudine a Dio che ci ha dato la possibilità, con la sua legge santa, di 32
comportarci rettamente e con giustizia nella nostra vita quotidiana. Ebbene, il cristiano che vuole santificare il suo lavoro deve innanzitutto comportarsi con onestà e con rettitudine, con giustizia e con la dovuta preparazione nei suoi compiti professionali, appunto come vuole la legge di Dio. Osservare i Comandamenti e vivere nel lavoro le virtù umane, le virtù morali e professionali, è un presupposto indispensabile perché il lavoro possa essere offerto a Dio e possa perciò diventare preghiera. Questo non sempre è facile, perché l'ambiente di lavoro è spesso dominato da egoismi, da invidie, da divisioni tra i colleghi, da arrivismi e concorrenze sleali, da criteri che non rispettano il merito e la capacità professionale ma obbediscono a clientelismi e appoggi politici; ma il cristiano non può lasciarsi intimorire o condizionare da tutto questo, saprà mostrare ai colleghi, con l'esempio e con la dottrina, che un lavoro compiuto non onestamente e non secondo Dio, lungi dall'essere collaborazione con Lui a servizio del bene comune, diventa un tarlo che corrompe la vita sociale e famigliare, e anche se può apparire economicamente vantaggioso e umanamente gratificante non potrà mai essere benedetto da Dio e apprezzato dagli uomini. Un cristiano che lavora con onestà, rettitudine, competenza, lealtà e giustizia è come se recitasse ogni giorno il salmo 118, e possiamo dire che le ore di lavoro sono come "l'Ora Media" del cristiano. 10 – Il lavoro e la Redezione Il secondo aspetto che l'Ora Media ci ricorda per la santificazione del lavoro è il riferimento all'opera della 33
salvezza che si è compiuta in Cristo. Infatti, l'Ora Terza ricorda la crocifissione di Gesù e, nella domenica, la discesa dello Spirito Santo; l'Ora Sesta ricorda l'agonia di Gesù e la sua ascensione al cielo; l'Ora nona ricorda la sua Morte sulla croce. Questi riferimenti ci dicono che con la venuta di Cristo il lavoro ha acquistato valore redentivo. Sappiamo che il peccato ha portato nel mondo il dolore; dolore che, nel caso del lavoro, significa sforzo, fatica, stanchezza: "Con il sudore della fronte mangerai il pane".19 Possiamo pensare al contadino che coltiva la terra, all'operaio nella sua officina, a una commessa che deve stare molte ore in piedi a servizio dei clienti; pensiamo a una madre di famiglia che deve governare la casa, all'insegnante nel faticoso compito di aprire l'intelligenza degli alunni al sapere, all'infermiera che deve dimenticare totalmente sé stessa nell'assistenza ai malati, e a tante impegnative situazioni in cui l'attività umana è chiamata ad esprimersi: lo studio, la ricerca scientifica, la pubblica amministrazione, le responsabilità di governo ecc. Ogni campo dell'attività umana ha le sue difficoltà, le sue fatiche, le sue stanchezze, il suo "peso". Ed è questo peso portato ogni giorno con serenità, con gioia, con fortezza, che rende il nostro lavoro partecipe della croce di Cristo e gli conferisce un valore redentivo. Questi aspetti che configurano l'attività dell'uomo nel disegno di Dio Creatore e Redentore, ci costringono a rivedere i nostri criteri di giudizio sul valore del lavoro umano. Agli occhi del mondo ha più valore un lavoro che procura gloria umana, che è fonte di grandi guadagni, che è coronato da successo, da notorietà e prestigio 19
Gen. 3,19
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umano; ma agli occhi di Dio non è così. Prendiamo il lavoro umile, silenzioso, sacrificato di una madre di famiglia che si dedica alla casa e ai figli o il lavoro di un netturbino che tiene pulite le strade delle nostre città finche tutti dormono, e prendiamo il lavoro di un ministro, di un grande scienziato o di un potente uomo d'affari: quali di questi lavori vale di più davanti a Dio? Quello fatto con più amore, con più spirito di servizio, con più allegria. Fermo restando che il lavoro di un uomo politico, di uno scienziato o di un imprenditore che disponga di tanti mezzi economici può incidere sulla vita sociale, culturale e morale di un popolo più intensamente e con maggior efficacia umana per il bene comune che non il lavoro socialmente meno rilevante di un operaio, di un contadino o di una commessa, resta però vero che, davanti a Dio, il contenuto d'amore, di fede e di umile disponibilità costituisce il vero parametro di valore per ogni attività umana. Semmai, le eventuali maggiori responsabilità devono costituire per il cristiano un più forte motivo per agire rettamente e con amore di Dio in ogni attività a vantaggio del bene comune. Ognuno di noi, lì dove svolge il proprio lavoro quotidiano, tra le mura domestiche, nell'officina, allo sportello di un'agenzia, al volante di un autobus, come fra le aule dell'università, o nell'emiciclo di un parlamento, lì deve santificare il suo lavoro, santificarsi nel suo lavoro, aiutare gli altri a santificarsi nel proprio lavoro, trasformando in preghiera e in partecipazione alla croce di Cristo ogni attività umana nobile e onesta. Per ricordarci di tutto questo possiamo servirci di un richiamo un'immagine, un piccolo Crocifisso, o un altro segno nel luogo dove lavoriamo: sul tavolo di studio, in ufficio, in cucina, nell'auto, accanto al telefono..., e accompagna35
re i momenti del lavoro con frequenti giaculatorie, atti di riparazione, ringraziamenti, piccoli sacrifici come la puntualità, la pazienza, il sorriso nonostante la stanchezza, l'amabilità con le persone; tutto con ottimismo e buon umore. Possiamo con ragione dire che questa è la "Liturgia dell'Ora Media", liturgia del lavoro che ogni cristiano è chiamato a celebrare ogni giorno. 11 – L’ora dei Vespri Nell'Orologio liturgico della Chiesa, un’altra preghiera oraria di particolare importanza è l'Ora dei Vespri, o preghiera vespertina. Coincide col tramonto del sole, e segna la conclusione della giornata lavorativa. E' questo il primo significato dei Vespri; preghiera della sera, cioè preghiera che ha lo scopo di ringraziare Dio per tutto ciò che nella giornata abbiamo ricevuto, per il bene che ci è stato dato e per il bene che, con l'aiuto della grazia, abbiamo potuto compiere. Il ringraziamento porta necessariamente a rettificare quanto non è stato fatto con rettitudine e fedeltà: "Perdona il male oggi commesso e, se qualche bene ho compiuto, accettalo." L'abitudine a rettificare dovrebbe accompagnare il nostro agire lungo tutta la giornata, così come a bordo di un'imbarcazione il timoniere si sforza di correggere continuamente la rotta ogni volta che qualche ostacolo una corrente, un colpo di vento o altra circostanza - minacciano di deviarla dal giusto percorso. E' un impegno che richiede di non perdere mai di vista la meta e di agire abitualmente alla presenza di Dio. Il Signore concede questo dono a quanti lo chiedono e lottano per vivere di 36
fede, sapendo di essere sempre accompagnati dallo sguardo amoroso di Dio che vede le intenzioni del cuore e la sincerità del nostro amore. Il tutto dentro un senso vivo della filiazione divina. L'Ora dei Vespri, poi, è un momento di intima nostalgia e di soffusa dolcezza. Chi viaggia pensa a casa, agli affetti più cari; e chi ha terminato il lavoro torna in famiglia e sogna un dolce riposo tra pareti amiche che offrono il calore di presenze amate. E' l'ora in cui si ricompone la famiglia, si ritrovano i volti mai dimenticati che ci hanno accompagnato lungo tutta la giornata. E' l'ora in cui cessano i rapporti ufficiali dettati dal lavoro o dall'attività professionale e lasciano il posto alla gerarchia dell'amore. E' l'ora in cui la presenza della persona amata o delle persone care diventa un desiderio imperioso, dolcemente irresistibile. La Chiesa, che ha camminato nella sua giornata insieme con Cristo, esprime questo vivo desiderio ricordando la preghiera dei discepoli di Emmaus: "Rimani con noi, o Signore, perché si fa sera".20 La solitudine è una delle paure che maggiormente spaventano il cuore umano ed è particolarmente temuta dalle persone che vivono sole. Molti cristiani hanno l'abitudine di passare, nel pomeriggio o alla sera, dentro una chiesa per salutare il Signore che rimane, notte e giorno, "Prigioniero d'Amore" nei nostri tabernacoli. Tutti noi possiamo stare qualche minuto in silenzio davanti a lui, aprirgli la nostra anima con fiducia ed effondere nel suo Cuore le cose che si sono accumulate dentro di noi lungo la giornata, dirgli con l'affetto e la fiducia di un amico: “Signore, grazie che sei qui! che sei rimasto con noi; 20
Lc. 24,29
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non lasciarci soli. Vorrei portarti con me; vorrei riceverti con la purezza, l'umiltà, la devozione con cui ti ricevette la tua Santissima Madre, con lo spirito e il fervore dei Santi!". E' questo un modo cristiano di vincere la solitudine; inoltre il cristiano ha la certezza che Dio abita anche nella sua anima e lo avvolge col suo amore paterno; e perciò sa di non essere mai solo. La famiglia che a sera, dopo una giornata di lavoro, si ricompone tra le pareti domestiche, e riscopre sé stessa nei valori che la costituiscono: l'amore coniugale fedele, gioioso e fecondo, la paternità, la maternità, l'amicizia semplice e sincera che unisce tra loro i membri della famiglia, è un fatto di enorme importanza, soprattutto nell'attuale congiuntura socio-culturale. Tutti sappiamo che l'organizzazione della vita sociale è oggi dominata da ritmi e da strutture che non favoriscono la vita famigliare; inoltre stiamo soffrendo le conseguenze di una sistematica e progressiva demolizione dei valori della famiglia , demolizione operata dalle ideologie marxista e laicista che hanno lasciato le attuali generazioni impoverite e impaurite di fronte alla vita. Perciò, a parte i momenti particolarmente difficili legati a situazioni eccezionali che di tanto in tanto possono verificarsi, il rientro serale a casa col ricomporsi dell'ambiente famigliare è un momento estremamente delicato nella nostra vita ordinaria. Esso rivela la maturità umana e cristiana degli sposi. Lì si vede quanto le "categorie dell'amore" abbiano sostituito le "categorie dell'egoismo" e quanto la "legge" del dono di sé abbia forgiato i comportamenti che riguardano la vita famigliare. Infatti, la tentazione di scaricare l'uno sull'altro il peso negativo 38
della giornata e di rifarsi delle frustrazioni personali è sempre in agguato dietro la porta di casa. 12 – L’ “ora” della famiglia Quando un marito torna a casa dopo una giornata pesante: fatica fisica, imprevisti sul lavoro, contrasti coi colleghi, incomprensioni con il capo-ufficio o con i clienti, ecc. e non si sforza di lasciare tutto questo fuori della porta di casa per offrire a sua moglie, anziché una faccia lunga e tirata, un sorriso aperto e vivo per la gioia di rivederla e di riabbracciare i suoi bambini...; e similmente, quando la moglie attende il marito e anziché accoglierlo ordinata nella persona, dicendogli con un sorriso o magari con un abbraccio affettuoso la gioia per il suo ritorno, gli scarica addosso il nervosismo accumulato nell'intera giornata, ciò che hanno combinato i figli, i capricci dei più piccoli o le pretese dei più grandi, gli inconvenienti del lavoro domestico o le ansie del lavoro extra-famigliare, e poi...la suocera, la vicina di casa, e giù tutto l'elenco delle cose storte della giornata..., ebbene costoro non hanno ancora imparato ad amare, di quell'amore coniugale che richiede fortezza, maturità umana, dimenticanza di sé stessi, umiltà, ottimismo, pazienza e tutte quelle virtù familiari che rendono l'ambiente di casa non solo vivibile ma fruibile, desiderabile e appagante. Raccontarsi le cose anche quelle negative, ma dopo aver assaporato la gioia di ritrovarsi insieme, e perciò con l'animo disteso, più sereno, capaci di sdrammatizzare le situazioni e di ritrovare soluzioni positive ai problemi famigliari, è un raccontare diverso da quello impregnato di nervosismo e di irritazione. Caratteristi39
ca dell'amore è il dialogo; elemento essenziale nella vita coniugale e famigliare è "raccontarsi le cose". La famiglia è stata da sempre, nella storia dell'umanità, il luogo dove si sono conservate le "tradizioni". Le generazioni hanno raccontato alle generazioni consuetudini, principi, amicizie, memorie. Racconti, appunto! Tutti noi, che abbiamo avuto una normale esperienza di vita di famiglia, sappiamo di quale ricchezza siamo debitori all'ambiente famigliare. Purtroppo, oggi non sappiamo più trovare il tempo per stare insieme e soprattutto non sappiamo più stare insieme. Sempre più la casa diventa il luogo dove si va a dormire, magari tardi, oppure il luogo non condivisibile della propria comodità personale, spesso diventa un museo fossile delle proprie vanità o semplicemente il luogo dove hanno la residenza i propri genitori. Quando due coniugi non sanno dirsi più niente e le generazioni non hanno più nulla da raccontarsi, è come se si interrompesse il filo della vita. Allora, a raccontare saranno i telegiornali o le cronache dei mass-media; ma essi non raccontano, essi filtrano ciò che accade nel mondo e lo strumentalizzano, fanno scorrere davanti a noi l'effimero che non lascia traccia, che il mattino dopo è già vecchio e dimenticato. Si può misurare il livello umano e la qualità di una famiglia dalla libertà che essa ha raggiunto di spegnere il televisore, di mettere da parte i giornali e di rinunciare alle varie evasioni serali estranee alla vita famigliare. E' vero che oggi ci sono tempi e modi nuovi di stare insieme - week-end, ferie, vacanze - ma essi non possono sostituire il vivere insieme quotidiano, il normale raccontarsi la vita di ogni giorno tra le pareti domestiche. 40
E' compito di noi cristiani recuperare la famiglia secondo il disegno di Dio, non solo nei suoi valori e nei principi che la costituiscono come istituto naturale voluto dal Creatore, ma anche come ambiente di vita, come luogo dell'amore e del dono reciproco, il luogo dove nessuno si sente solo, dove nessuno ha paura o timore, dove nessuno si sente schiavo. Ci sarà questo ambiente di libertà responsabile, di ottimismo, di allegria, di fiducia e di rispetto se i coniugi cristiani si ameranno profondamente, sinceramente, al di là di ogni merito e di ogni altra valutazione, se sapranno dirsi le cose con lealtà, con garbo e con atteggiamento positivo che non sappia di critica o di giudizio ma di stima e di incoraggiamento; se, nel caso di inevitabili divergenze di opinione, sapranno venirsi incontro rinunciando ciascuno a qualche posizione personale o comunque alla pretesa di imporre con la forza, anche solo della voce, le proprie decisioni; e ancora se sapranno non dirsi più "sono fatto così, questo è il mio carattere, queste le mie abitudini..."; e nei momenti di incomprensione non produrranno immediatamente la lista dei torti e delle ragioni tenuta a portata di mano e mai dimenticata. Insomma, dovranno ricordarsi gli sposi cristiani, ciò che si sono detti nel giorno del matrimonio: "...ti prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita." Quel "sempre" significa dunque "tutti i giorni", perché l'amore non è mai ovvio o scontato, ma ha bisogno di rinnovarsi e di alimentarsi ogni giorno. "Si tratta - scrive San J. Escrivà - di santificare giorno per giorno la vita domestica, creando con l'affetto reciproco, un autentico ambiente di famiglia. (...). La vita famigliare, i rapporti coniugali, la cura e l'educazio41
ne dei figli, lo sforzo economico per sostenere la famiglia, darne sicurezza e migliorarne le condizioni, il tratto con gli altri componenti della comunità sociale: sono queste le situazioni umane più comuni che gli sposi cristiani devono soprannaturalizzare".21 13 – La famiglia: chiesa domestica E' così che i focolari cristiani diventano piccole chiese domestiche dove si trasmette la fede e l'amore di Dio, dove si impara a conoscere Gesù e ad innamorarsi di lui, e diventano scuola vivente di virtù umane e cristiane perché trovano nell'esempio dei genitori, vissuto con naturalezza e normalità, l'insegnamento più autentico ed efficace. Un aspetto importante di questa pedagogia della fede è la preghiera comune. Oggi la mentalità laicista che ha ridotto la religiosità a un fatto puramente soggettivo, da praticare solo privatamente, ha influito pesantemente sulla pratica religiosa in famiglia e in particolare sulla preghiera in comune. Uno strano pudore di farsi vedere a pregare si è diffuso tra i membri di una stessa famiglia, per cui le uniche preghiere recitate pubblicamente in casa sono le "preghierine" dei bambini; poi ognuno tende a pregare per conto suo che spesso significa non pregare più. Eppure, il Signore ha dato grande importanza alla preghiera comune: "Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro".22 21 22
San J. Escrivà, E' Gesù che passa, n. 23 Mt. 18,19
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Perciò due genitori che si riuniscono per chiedere insieme la stessa cosa per i loro figli, se perseverano con fede, saranno sicuramente esauditi, perché Dio non può mentire. Una famiglia unita nella preghiera può disporre della forza di Dio. Poche cose alimentano l'unità tra i membri di una famiglia come la preghiera comune. Pensiamo alla preghiera prima dei pasti: è la preghiera che forse risulta più naturale e di facile comprensione per tutti. Già dal punto di vista umano, condividere il cibo alla stessa tavola è un fatto di notevole valore aggregante. Ci si rende conto chiaramente di partecipare tutti allo stesso dono, il dono del "pane quotidiano". Il pane ci ricorda che tutto nella vita è dono e che anche ognuno di noi deve farsi dono per gli altri. La tavola è simbolo di condivisione, di amicizia, di intimità, di spirito di servizio come dono di sé. Per questo, essere insieme alla stessa tavola è, tra i momenti della vita umana legati al tempo, quello che ha un più forte rimando al trascendente, all'eterno. Gesù stesso, quando parla della nostra comunione con lui nella vita eterna, dice: "Io preparo per voi un Regno come il Padre l'ha preparato per me, affinché mangiate e beviate alla mia tavola nel mio regno".23 Perciò, il trovarsi a tavola insieme è fonte di gioia, di consolazione, di felicità. Diviene così spontaneo il ringraziamento a Dio che ci fa partecipi dei suoi doni e ci invita a fomentare quella condivisione fraterna che, sola, può trasformare l'umanità intera in una famiglia. Spetta ai genitori educare al senso cristiano della tavola facendola diventare un arredo significativo dell'ambiente famigliare. E' vero che oggi l'organizzazione della vita sociale sotto la spinta dell'efficientismo produt23
Lc. 20,30
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tivo ha portato, soprattutto la madre di famiglia, a stare molte ore al giorno fuori di casa, offrendo tristi surrogati alla tavola: fast-food, self-service, snack-bar...; ed è anche vero che la debolezza umana può talvolta trasformare la tavola in una greppia o in un festino per quanti "hanno come dio il loro ventre"24; ma proprio per questo la preghiera prima dei pasti può presentarsi come un mezzo estremamente efficace per farci recuperare il significato così umano e cristiano della tavola, e insieme farci ritrovare il senso gioioso della famiglia. Se non altro, la preghiera prima dei pasti servirà a ricordarci che non dobbiamo stare a tavola come i pagani che non conoscono Dio, potrà anzi aiutarci ad elevare lo spirito mentre nutriamo il corpo, e a "mettere una piccola croce in ogni piatto" (Escrivà). Ci ricorderemo così che al nostro corpo dobbiamo dare ma anche chiedere, perché non diventi un asinello che tira calci e si ribella. 14 – Due “ospiti” d’eccezione in casa Altri due momenti di preghiera comune che possono fomentare l'unione in famiglia sono: una breve lettura del Vangelo e la recita del Santo Rosario. Il Vangelo, lo sappiamo, è il codice della vita cristiana. Un codice non astratto e impersonale, ma vivo, incarnato nella persona e nella viva voce di Gesù. Perciò, leggere insieme una pagina di Vangelo è come ospitare in casa Gesù stesso, è come se tutta la famiglia si raccogliesse intorno a lui per ascoltarlo.
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Fil. 3,19
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E' vero che la lettura del Vangelo è fatta di solito personalmente, perché la conoscenza di Gesù e il rapporto con Lui non possono essere che personali, ma resta vero che la lettura in comune del Vangelo, sia pure fatta ogni tanto, è uno stimolo al dialogo tra genitori e figli e rimane uno dei canali più efficaci per la trasmissione della fede tra le generazioni. E' dunque impensabile una famiglia cristiana che non tenga in casa, a portata di mano, un Vangelo. A portata di mano! Che non rimanga, cioè, polveroso negli scaffali di casa. Un altro modo di "raccontarsi la fede" tra generazioni è la recita del Santo Rosario. E' una delle forme di preghiera più complete; unisce infatti la preghiera vocale alla meditazione, la semplicità alla profondità, riunisce insieme le formule di preghiera più sante: il Padre nostro, l'Ave Maria, il Gloria. E' anche una preghiera squisitamente "dialogica"; si presta cioè ad essere pregata insieme. Se leggere il Vangelo è come ospitare Gesù in casa, possiamo dire che pregare il Rosario è come ospitare la Madonna in famiglia. In certo qual modo, è raccogliersi tutti intorno a lei e farci raccontare da lei gli episodi principali della vita di Gesù, gli episodi di cui lei stessa è stata testimone e protagonista; e da parte nostra, le rispondiamo con parole di lode e di affetto. Del resto, ciò che la Madonna desidera ardentemente è che noi cresciamo sempre più nella conoscenza di Gesù, suo Figlio, e che gli vogliamo bene, che gli restiamo fedeli e lo facciamo amare dagli altri. Il Rosario dunque è tutto qui: un incontro, un intrattenimento filiale e affettuoso con Santa Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, che vuole farci crescere come figli, come altrettanti Gesù. Questo spiega il perché la preghiera del Rosario sia così gradita alla Madonna, l'abbia chiesta fre45
quentemente e abbia promesso di colmare di benedizioni le famiglie dove viene recitata. Per capire il Rosario occorre farsi piccoli; i bambini sono semplici, hanno fantasia e sono affettuosi. Anche noi dobbiamo essere semplici per non scoraggiarci delle distrazioni e per non nasconderci dietro il solito pregiudizio della monotonia; dobbiamo avere fantasia per metterci anche noi negli episodi della vita di Gesù raccontati nei "misteri" del Rosario; e dobbiamo essere affettuosi per saper dire alla Madonna mille volte le stesse parole belle come fanno gli innamorati. 15 – “Tutto è compiuto” Infine, l'ultima preghiera che conclude la "Liturgia delle Ore", e conclude anche l'intera giornata, è la preghiera di Compieta. E' una preghiera breve, ma ricca di significati. Il nome "Compieta" infatti più che significare conclusione di una cosa, allude alla sua compiutezza; il cristiano conclude la sua giornata portandola a termine con la maggior perfezione possibile, si sforza di fare della propria giornata una cosa "compiuta". Di solito, si insiste molto sull'importanza di cominciare bene le cose: "Chi ben comincia - si dice - è alla metà dell'opera"; è poco ricordato invece il fatto, ancora più importante, di finire bene le cose, di portare a termine con perfezione il lavoro cominciato. Se, come abbiamo visto, il giorno è la misura del tempo che ci ricorda l'arco della nostra vita, dobbiamo senz'altro dire che terminare bene la nostra giornata terrena è assai più importante che averla cominciata con buone intenzioni. Dovremmo poter terminare dicendo, come Gesù: "Consum46
matum est!" Tutto ho portato a compimento di quello che il Padre mi ha dato da compiere: e perciò: in manus tuas commendo spiritum meum! - nelle tue mani affido la mia vita. Chiudere nelle mani di Dio la nostra vita è un dono immenso che dobbiamo chiedere tutti i giorni; la Chiesa lo chiama "perseveranza finale" facendo riferimento al battesimo che ha dato in noi inizio alla vita cristiana. La Grazia santificante che abbiamo ricevuto nel battesimo è la veste nuziale che dobbiamo portare integra e senza macchia davanti a Dio. Ora mentre sappiamo quando termina il giorno, non sappiamo quando termina la nostra vita. Perciò Gesù stesso, quando nel Vangelo ci parla della perseveranza finale, ci raccomanda la vigilanza come fa il servo buono e fedele che rimane intento al suo lavoro fino all'ultimo momento, in attesa del suo padrone.25 Infatti, se concludiamo la nostra giornata terrena vicini a Dio, come amici e figli suoi, resteremo tali per tutta l'eternità e ci sentiremo dire: “Bene, servo buono e fedele, entra nella gioia del tuo Signore”. Ma se ci sorprende "la notte" e siamo lontani da lui, o peggio, a lui nemici, resteremo tali per sempre, e quindi perduti, in una condizione tragica e disperata, nelle "tenebre esteriori dove è pianto e stridore di denti". Può capitarci di vedere qualche persona del mondo che ha vissuto la sua vita lontano da Dio, dedita ai propri piaceri e ai propri egoismi, ed essere, negli ultimi momenti della sua vita, raggiunta dalla Grazia, salvata come si dice - per i capelli. La tentazione può essere allora quella della ribellione come di fronte a un'ingiustizia o addirittura quella dell' invidia. Purtroppo manchiamo 25
Lc. 12,36
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talmente di fede e di senso soprannaturale da giudicare come "fortuna" una vita vissuta lontano da Dio; non pensiamo invece che vivere sulla terra per quasi tutti i nostri giorni lontani da Dio è già di per sé una vera disgrazia. Essere stati fedeli a Dio fin dalla nostra giovinezza e, nonostante le nostre miserie, non esserci mai allontanati da lui, è una delle più grandi "fortune" che possa capitarci, una grande grazia di Dio! 16 – La preghiera della sera L'ora di Compieta, cioè la preghiera della sera, ha lo scopo di farci chiudere la giornata vicino al Signore. Infatti anche le preghiere della sera hanno due momenti principali: l'esame di coscienza e l'affidamento del proprio riposo a Dio. Essi hanno il significato di santificare il tempo notturno. L'esame di coscienza è una preghiera; lo si fa cioè alla presenza di Dio. Non si tratta di una introspezione di sé stessi e con sé stessi, una specie di libro dei conti che tiriamo fuori di nascosto quando siamo soli. In questo modo si cade nella tentazione di autogiudicarci e di autogiustificarci, e soprattutto si rischia l'insincerità che porta al rimorso, allo scoraggiamento, alla tristezza. San J. Escrivà ci avverte: "Al momento dell'esame sta in guardia contro il demonio muto".26 Siamo muti quando non apriamo a Dio la nostra anima ma ci chiudiamo in noi stessi. Ed è come mettersi al buio. Nell'esame invece, abbiamo bisogno di luce, di una luce forte, che illumini il cuore sulla reale situazione della nostra anima e in particolare sulla nostra condotta 26
Cammino, n. 236
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di quella giornata. Questa luce è lo sguardo di Dio, nostro Padre; uno sguardo che non terrorizza, non umilia, non incute timore. E' uno sguardo che guarisce, che consola, che fortifica; che spinge all'amore: al dolore d'Amore. E così la nostra giornata finisce tutta nelle mani di Dio con le cose buone che abbiamo fatto e che abbiamo ricevuto, rendendogli grazie di tutto e con tutto il cuore, e anche con le cose brutte che abbiamo commesso, i cedimenti, le pigrizie, le cattiverie, le inadempienze..., tutto ciò che è dispiaciuto a Dio, riparando con un atto d'amore il disamore della giornata. E il proposito, per il giorno dopo, di lottare con più impegno concluderà il nostro esame. Nelle nostre famiglie c'è anche l'abitudine di darsi la buona notte prima di andare a letto. L'esame di coscienza è darsi la buonanotte col Signore, serenamente riconciliati con lui. Solo così santificheremo il nostro riposo, perché anche il riposo, come tutti i momenti che fanno parte della vita, va santificato, va offerto a Dio e accompagnato da pensieri buoni. Nell'ora di Compieta, si legge un salmo scelto tra quelli che contengono pensieri di fiducia in Dio, di abbandono alla sua volontà, e che ispirano sentimenti di pace dovuti alla certezza che Dio veglia sul nostro riposo e che gli Angeli custodiscono le nostre case. Entrare nel riposo del tempo notturno con pensieri di pace e di serenità dipende molto da come viviamo le ultime ore della nostra giornata. Se sciupiamo le ore serali in occupazioni sciocche, egoistiche o alienanti, o peggio in cose che offendono Dio o sporcano il nostro cuore, vivremo il tempo notturno con l'anima 49
torpida e appesantita, con un fondo di tristezza e di solitudine che ha per compagni i fantasmi e le paure. Alcuni hanno l'abitudine di farsi la doccia prima di andare a letto. Il riposo vero, tonificante, è la pace interiore, il cuore pulito e la coscienza luminosa di chi si addormenta nelle braccia di Dio. "Illumina, questa notte, o Signore, perché dopo un sonno tranquillo, ci risvegliamo alla luce del nuovo giorno, per camminare lieti nel tuo nome".27 Terminata Compieta, la Chiesa suggerisce di concludere l'intera Liturgia delle Ore con un Canto alla Madonna, una Antifona mariana. Le più conosciute sono "Alma Madre del Redentore" (Alma Redemptoris Mater), e la Salve Regina. E' del tutto naturale e molto umano addormentarsi col pensiero della madre; è lei di solito a coricarsi per ultima, dopo aver fatto l'ispezione della casa per verificare che tutto sia in ordine e al sicuro, e dopo aver dato un ultimo sguardo ai figli per assicurarsi sulle loro condizioni. Questo pensiero conclusivo alla Madonna può essere vissuto in molti modi: uno sguardo affettuoso alla sua immagine che certamente portiamo nella nostra camera da letto; i giovani, salutandola con l'Ave Maria, perché custodisca la loro purezza; i genitori, soprattutto la madre, invocando la benedizione di Dio sulla casa e su tutti i famigliari, seguendo - perché no? - una consuetudine delle vecchie famiglie cristiane, dove ogni sera la madre aspergeva con l'acqua benedetta i figli e tutta la famiglia. La benedizione della madre ha grande peso davanti a Dio, ed è fonte di grazia e di protezione. Il tempo notturno diventa così tempo di vero riposo e di pace, sapendo che la benedizione di Dio custo27
Orazione, Compieta del martedì
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disce le nostre case e che i suoi Angeli vegliano su di noi tenendo lontane le insidie del Nemico.
17 - La “normalità” del cristiano A questo punto può venirci spontanea una domanda: è possibile vivere la giornata in questo modo? Come si può dare alle ore del giorno un valore e un significato così diverso da come si presentano normalmente nella vita della gente? E anche fosse possibile, non ha, tutto questo, un sapore di forzatura, di esagerazione, per non dire di anormalità, così da farci apparire persone strane, eccentriche, in mezzo alla massa della gente? Una vita come questa poteva andar bene in altri tempi, quando il nostro modo di vivere non era così incalzante, così stressante, così intenso e la gente aveva più tempo per fare le cose, più "tempo per vivere"! Certamente vivere in questo modo una giornata suppone una diversa visione della vita, una visione appunto "cristiana", incentrata cioè su Cristo, che, essendo vero uomo e vero Dio, ci ha insegnato come possiamo vivere da figli di Dio sulla terra. E' dunque un problema di fede. La fede, dicevamo, è saper vedere Dio in tutte le cose, e soprattutto la sua presenza amorosa e salvifica in noi e nelle circostanze ordinarie della nostra vita. Se dunque "viviamo di fede" e ci lasciamo guidare dalla sua luce, impareremo, a poco a poco, a condurre un dialogo continuo con Dio, e ci diventerà del tutto "normale" trasformare le ore della giornata, con il loro contenuto di lavoro e di doveri, di fatica, di gioia o di contrarietà, in una "Liturgia di Lode", e verrà il momen51
to in cui non ci sarà più separazione tra preghiera e lavoro, tra la dedizione anche appassionata alle cose di questo mondo - alle cose oneste - e la dedizione piena al Signore e alle cose che lo riguardano. E' certamente un traguardo non immediato; si comincia con alcune devozioni, come gradini di una scala ascendente; ma se ci convinciamo che questa è la strada normale del cristiano e corrispondiamo senza stancarci alla grazia di Dio, saliremo velocemente questa scala, alla sommità della quale, come nella visione di Giacobbe, c'è la contemplazione di Dio, una vita di amore e di unione con lui. Del resto, affermare che è "normale" vivere le ore della giornata in questo modo è come dire che siamo chiamati alla santità. Ed è questo ciò che Gesù ci ha ricordato. Perciò, nella vita cristiana la normalità non è mediocrità, una "via di mezzo", che poi significa la via delle mezze virtù, ma è la santità. La "norma" per un cristiano è la vita di Cristo e non una vita da persone perbene o anche semplicemente la vita dei buoni cristiani. Certamente, se viviamo sul serio la vita di Cristo, non possiamo passare inosservati, ma nella vita di Cristo vediamo la compresenza di tutto ciò che è umanamente nobile e retto e amabile con la realtà della sua vita divina. Gesù infatti è vero uomo e vero Dio, perfetto uomo e perfetto Dio; la sua vita, una e unica, fu insieme umana e divina; è stata questa appunto la sua normalità. Questa deve essere anche la nostra normalità. Una normalità sempre da costruire perché in noi il disordine del peccato ha rotto quell'armonia e quella perfetta unità di vita che vediamo in Gesù. Ma egli ci ha assicurato la sua grazia: "Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso se non rimane 52
nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto perché senza di me non potete far nulla".28 Inoltre Egli ha pregato per noi: "Padre, non chiedo che tu li tolga dal mondo ma che tu li custodisca dal maligno".29 Così noi viviamo nel mondo e ci comportiamo nel lavoro, negli affari, nella vita sociale e nella famiglia, con la stessa naturalezza di tutti gli altri uomini, ma anche con la stessa naturalezza rifiutiamo comportamenti e modi di vivere incompatibili con la nostra fede; anzi, proprio in forza della nostra fede e del nostro essere figli di Dio, amiamo il mondo con tutto ciò che di buono esso contiene, partecipandovi a pieno titolo e con maggior diritto degli altri, perché vogliamo - è questa la nostra missione - aprire il mondo alla Redenzione di Cristo e orientarlo a Dio, alla sua gloria. Per noi cristiani la santità è appunto la naturalezza che Dio ci chiede. 18 – La Grande Preghiera: la S. Messa Seguendo la falsariga della Liturgia delle Ore, abbiamo descritto la giornata di un cristiano scandendola con momenti di preghiera - “preghiere orarie” - che, pur non essendo Liturgia in senso stretto e ufficiale del termine, tuttavia partecipano alla preghiera della Chiesa perché i cristiani che in quei momenti, in forza della loro fede, si uniscono a Cristo, sono anch’essi “Chiesa che prega”. Ma c'è una preghiera che non fa parte della Liturgia delle Ore e nemmeno può considerarsi una "preghie28 29
Gv. 15,4 Gv. 17,15
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ra oraria" perché non è legata a nessuna ora particolare del giorno, e tuttavia rappresenta il vertice di ogni preghiera, fonte e radice di tutta la liturgia della Chiesa, potremmo dire l'unica, grande, sublime "Preghiera" di tutta l'umanità: la Santa Messa. Le preghiere orarie, così come le abbiamo descritte e che costituiscono un "piano di vita spirituale" di un cristiano, mancherebbero del loro centro e del loro fondamentale riferimento senza la Messa. Ormai non è più possibile far arrivare al cielo un solo gemito, una sola invocazione, una sola lagrima di contrizione senza passare attraverso Cristo orante sulla croce. Il sacrificio del Calvario è ormai il nodo di ogni rapporto tra gli uomini e Dio. E' il nodo di tutta la vita di Cristo, cominciando dall'Incarnazione. Nell’Incarnazione, infatti, viene preparata la materia per il sacrificio, cioè il Corpo, integro e verginale, che sarebbe stato immolato sulla croce. La stessa Resurrezione non sarebbe stata possibile e non avrebbe rinnovato il mondo se Cristo non avesse meritato la vittoria sul peccato e sulla morte col sacrificio del Calvario. Possiamo comprendere questa centralità della croce ricordando le parole di Gesù stesso: "Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutto a me".30 I quattro bracci della croce che reggono il Sacerdote Eterno, immolato e sacrificato per volontà del Padre, orientati verso le quattro parti dell'universo - "l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza, la profondità" - ci ricordano l'infinita grandezza del mistero di Cristo, la totalità della sua Redenzione, e anche ci ricordano che lì, su quel legno, tutte le cose create, quelle del cielo e quelle della terra, sono state riconci30
Gv. 12,32
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liate con Dio. Ed è appunto attraverso la croce di Cristo che noi cristiani dobbiamo orientare a Dio tutte le cose della terra. L'abisso di questo mistero resterà sempre insondabile per la nostra mente e il nostro cuore non avrà pensieri abbastanza profondi per comprenderne la bellezza e la ricchezza. Non è qui il luogo per esporre tutta la dottrina teologica intorno al sacrificio della croce e alla Eucarestia, ma è necessario ricordare che il sacrificio redentore di Gesù Cristo, compiuto una volta per sempre sul Calvario, si fa presente sui nostri altari fino al suo ritorno glorioso alla fine del mondo attraverso il sacrificio eucaristico della Santa Messa. Il Corpo sacrificato e il Sangue versato del nostro Redentore, attraverso i segni sacramentali dell'Eucaristia, giungono fino a noi per essere fonte e nutrimento della nostra vita cristiana, e della vita di tutta la Chiesa. Non è possibile, perciò, pensare alla giornata di un cristiano senza questo "centro" al quale deve riferirsi ogni momento della vita quotidiana, e che deve diventare il "cuore" del nostro rapporto con Dio. Deve "diventare" perché le cose non si fanno da sole; bisogna volerle, e perciò occorre impegno, convinzione, perseveranza; in una parola, occorre fede. "Lotta per far si che il santo Sacrificio dell'altare sia il centro e la radice della tua vita interiore, in modo che tutta la giornata si trasformi in un atto di culto, - prolungamento della Messa che hai ascoltato e preparazione alla successiva - , che trabocca in giaculatorie, visite al Santissimo, nell'offerta del tuo lavoro professionale e della tua vita famigliare...".31 Sono appunto quelle varie preghiere "orarie" che abbiamo de31
Forgia, n. 69
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scritto, e che ricevono dalla Santa Messa il valore di culto a Dio; diventano cioè la "nostra" messa che, unita a quella di Cristo, partecipa ai fini per i quali egli l'ha celebrata sul Calvario. 19 - I fini della S. Messa Il fine primario del Sacrificio della Croce è l'adorazione, il riconoscimento della trascendenza di Dio e della nostra creaturalità; quel sacrificio, prima ancora di essere un atto di riparazione per i nostri peccati, è un atto di culto, un atto di adorazione e quindi di obbedienza al Padre, quell'obbedienza che noi creature gli abbiamo negato. La morte di Cristo è redentiva proprio perché è un gesto di suprema e totale obbedienza: "Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti".32 Le preghiere del mattino come atto di obbedienza a Dio e come atto di adorazione alla sua sovranità possono essere il primo gesto di preparazione alla Messa e possono dare, fin dal primo inizio, un senso eucaristico alla nostra giornata. Il secondo fine del Sacrificio della Croce è il rendimento di grazie che è legato strettamente alla lode di Dio. Lodare Dio vuol dire riconoscerlo fonte di ogni bene e insieme ringraziarlo per tutti i doni che ci ha dato, soprattutto di averci colmati della sua misericordia. La Messa è il più sublime inno di lode ed è il massimo rendimento di grazie alla bontà di Dio, perché dalla Messa ci vengono tutti i tesori di misericordia e di grazia. Sono 32
Rom. 5,19
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assai espressive le parole con le quali il sacerdote conclude la preghiera eucaristica; egli, innalzando il calice e l'ostia consacrata, dice con voce solenne: "Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli". Le espressioni di lode e di ringraziamento a Dio contenute nelle preghiere del mattino e della sera, e quelle sparse lungo tutta la giornata, possono aiutarci a vivere la preparazione e il ringraziamento alla Messa estendendo all'intera giornata il valore "eucaristico", cioè di ringraziamento che è proprio del sacrificio di Cristo. Il terzo fine del Sacrificio del Calvario è l'espiazione. Gesù ha dato la sua vita in espiazione per i nostri peccati. Ottenendoci il perdono delle colpe e la remissione della pena, egli è diventato Vittima propiziatrice che ha soddisfatto per noi ogni nostro debito con Dio. Se amiamo i piccoli sacrifici della giornata: la fatica del lavoro, il peso delle contrarietà, la sofferenza per il male, l'ansia per le preoccupazioni, e tanti piccoli inconvenienti del nostro vivere quotidiano, e portiamo con garbo tutto questo guardando alla Messa, comprenderemo facilmente il significato di quelle gocce d'acqua che il sacerdote, al momento di preparare le offerte, mette nel calice unendole al vino. Così, tutto il "peso" della nostra giornata, - che da sola varrebbe ben poco, non sarebbe che poche gocce d'acqua - unito al Sangue divino del Redentore diventa Sacrificio di Cristo, diventa anch'esso espiazione per i nostri peccati e per quelli del mondo intero. Non c'è modo migliore, un modo più "cristiano", di santificare la fatica del lavoro e tutta l'attività della nostra giornata. 57
Da ultimo, il quarto fine del Sacrificio del Calvario è l'impetrazione. Gesù è il Grande Intercessore per l'umanità intera. Innalzato sulla croce, sospeso tra cielo e terra, egli è la Vittima "pura, santa, immacolata" che supplica il Padre e chiede per noi ogni grazia. Egli ci ha meritato innanzitutto tre doni fondamentali: il perdono dei peccati, la grazia santificante che ci fa figli di Dio, e il diritto alla gloria del cielo. Sono i doni che abbiamo ricevuto nel Battesimo, e la S. Messa ce li accresce perché nell'Eucaristia incontriamo l'autore stesso della grazia. La sua presenza sull'altare è una presenza reale anche se è diverso lo stato e il modo rispetto alla presenza sulla croce: lo stato è quello di vittima gloriosa, il modo è incruento e a modo di sostanza. Gesù, salito al cielo, siede glorioso alla destra del Padre, ma la sua umanità glorificata porta i segni della passione; è quindi la Vittima vivente e santa che non cessa di intercedere per noi presentando al Padre le suppliche di tutta la Chiesa e di tutta l'umanità. Tale è la sua presenza sull'altare. Non c'è dunque preghiera che abbia la forza di penetrare nel cuore di Dio, e che abbia quindi efficacia di intercessione, come la Santa Messa. Anzi, possiamo dire che nessuna petizione di grazia può pretendere di essere esaudita se non passa in un modo o nell'altro attraverso l'intercessione di Cristo. E' per questo che la Chiesa conclude sempre le sue petizioni: "Per Gesù Cristo nostro Signore". Sono petizioni espresse dalla Chiesa nella Santa Messa, che abbracciano l'immenso panorama delle necessità del popolo cristiano e dell'umanità intera, necessità temporali e soprattutto necessità spirituali. E' antica consuetudine presso i fedeli di offrire la Santa Messa quasi esclusivamente in suffragio dei defun58
ti. Ed è giusto e doveroso ricordare le anime del Purgatorio, dal momento che grandi sono i loro patimenti e non possono fare più nulla per sé stesse, per abbreviare cioè la loro purificazione. Ma limitarsi a questa sola intenzione è ridurre enormemente il significato impetratorio della Messa. La Chiesa, nel messale romano, accanto ad alcune Messe per i defunti, presenta un lungo elenco di Messe per le varie necessità dei vivi, come ad esempio per le varie categorie di persone: gli infermi, i prigionieri, i profughi, i carcerati, i moribondi...; per le necessità spirituali: la conversione dei peccatori, la remissione dei peccati, per l'unità della famiglia, per chiedere la virtù della carità...; in occasione di calamità naturali o per altre intenzioni, ad esempio per la pace, per l'unità dei cristiani, per la santificazione del lavoro, ecc. Davvero "le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini, soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono" 33, la Chiesa le sente come proprie e le porta davanti a Dio attraverso Cristo che, con il suo sacrificio sulla croce, è diventato l'unico, vero, mediatore tra Dio e gli uomini. 20 – Se tu conoscessi il dono di Dio Del resto, la Messa è un momento di intensa comunione fraterna. Ci unisce un vincolo che non è soltanto umano, di natura sociale o affettiva, ma soprannaturale: il vincolo che nel Battesimo ci ha uniti come membra dell'unico corpo di Cristo. Nella Messa siamo la Chiesa, Capo e membra, che celebra l'unico e perfetto sacrificio di Cristo. Dobbiamo allora essere uniti anche nel chiedere per le stesse intenzioni: chiediamo quello 33
Gaudium et Spes, n. 1
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che chiede il Papa, uniti alla sua Messa, chiediamo quello che chiedono i Vescovi uniti con lui, facciamo nostre le intenzioni e le necessità dei nostri fratelli presenti e lontani; di più, chiediamo quello che chiedono i santi nel cielo, quello che chiede la Madonna e quello che sta chiedendo Gesù a gloria del Padre e per la salvezza del mondo. Il valore della Messa è infinito e non dobbiamo temere di diminuirlo se offriamo la Santa Messa per le intenzioni di tutta la Chiesa e di tutto il mondo. Quello, semmai, che impedisce i frutti della Santa Messa è la nostra poca fede. Fanno difetto le nostre disposizioni interiori: veniamo alla Messa in fretta, a freddo, all'ultimo momento, senza un'adeguata preparazione. Se è domenica, veniamo più per soddisfare un precetto che per amore, stiamo in chiesa passivamente, sbadatamente, con il cuore arido e con la mente piena di altri pensieri... Non parliamo qui di stati d'animo indipendenti dalla nostra volontà, ma di disposizioni interiori volute e accettate passivamente, senza lottare, senza reagire. Sono duemila anni che Gesù ci aspetta a questi appuntamenti che sono di grazia, di amore e di misericordia. Non possiamo lasciarci dominare dalla malavoglia o dalla pigrizia. Il Signore Gesù ci viene incontro dall'eternità con le mani colme dei suoi doni e incontra invece la nostra indifferenza, la nostra ignoranza, la nostra ottusità. "Se tu conoscessi il dono di Dio!" 34 potrebbe dire Gesù a tanti di noi. E' triste vedere cristiani che non amano la Messa, non la desiderano, non la cercano; spesso basta loro una piccola difficoltà, un motivo banale per sentirsi dispensati. "Non ama Cristo chi non ama la Santa Messa, 34
Gv. 4,10
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chi non si sforza di viverla con calma e con serenità, con devozione, con amore".35 Può esserci di aiuto immaginare l'altare come se fosse il Calvario, e noi ai piedi della croce, con Maria, con Giovanni e con gli Angeli; e Gesù che dall'alto della croce ci guarda con uno sguardo pieno di amore, di perdono, di bontà; non una parola di rimprovero, non un gesto di condanna; invece tutte parole di incoraggiamento che riecheggiano quelle dell'ultima Cena: "Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi", (...) questo è il calice del mio Sangue... versato per voi" 36, e semmai si lascia sfuggire un sospiro che è un desiderio ardente: "Sitio! - Ho sete!". Il Signore ha sete di te, del tuo amore, della tua donazione, della tua corrispondenza, ha sete della tua fedeltà, della tua testimonianza. Gli duole che per tanti di noi il suo sacrificio sia stato inutile e che il suo sangue prezioso sia stato sparso invano. Perciò ha sete di anime, ha sete del nostro apostolato. Ecco perché tutte le persone che abbiamo incontrato e che incontreremo in quella giornata dovrebbero sentire il calore della nostra fede, dell'incontro di grazia che abbiamo avuto con Cristo. Perché un giorno il mondo diventi un altare sul quale si innalzi Cristo trafitto sulla croce per attirare tutti e tutto al suo amore, occorre che per ciascuno di noi la santa Messa diventi il "cuore" di ogni giornata, un cuore vivo, pulsante, che irrori sangue divino alla nostra anima e a tutte le nostre opere, così da poter dire con San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me".37 35 36
ne 37
San J. Escrivà, E' Gesù che passa, n. 92 Santa Messa:, Preghiera eucaristica: formula della consacrazioGal. 2,20
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21 – La “Pienezza del tempo” Abbiamo detto che la Santa Messa non appartiene alla Liturgia delle Ore perché è la liturgia di tutte le ore; non ha orario perché, a qualsiasi ora venga celebrata, essa appartiene a tutta la giornata, perché appartiene alla vita. C'è però una preghiera che, fra tutte quelle ricordate, è la più legata al tempo e appartiene a un'ora precisa, a un'ora importante della giornata, il mezzogiorno: è la preghiera dell’Angelus. Le ore dodici non segnano soltanto la metà del tempo diurno, metà giornata, ma rappresentano un vertice; sono come un apice dove culmina il tempo. Anche il sole, a mezzogiorno, è al culmine del suo corso, splende alto nel cielo ed è al massimo del suo splendore. In altre parole, il mezzogiorno può significarci la "Pienezza del tempo". Questa pienezza è il "mezzogiorno di Dio", il momento in cui l'Eternità tocca il tempo e lo invade; è il momento dell'Incarnazione, il momento in cui il Figlio di Dio appare alto nel cielo della storia umana e la illumina tutta. Se la mezzanotte può significarci l'Eternità fuori del tempo, quando ancora nulla aveva avuto inizio, il mezzogiorno è l'Eternità nel tempo, il momento in cui Dio compie e rivela il mistero nascosto dai secoli, il mistero di Cristo. In lui tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, vengono ricapitolate, ricondotte alla loro pienezza; è il momento delle Nozze fra Dio e l'umanità, fra il tempo e l'Eternità. Le parole di San Paolo ai Galati sono luminose: "Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna,... perché ricevessimo l'adozione
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a figli".38 Questo mistero immenso e commovente del Figlio di Dio che, nel grembo verginale di una Donna, prende la nostra umanità povera e passibile e la unisce alla sua divinità, questo mistero è la "Pienezza del tempo", e a questa Donna il cielo e la terra s'inchinano quando l'Angelo di Dio la saluta "piena di Grazia" e le annuncia che Dio l'ha scelta per essere il talamo nuziale del Verbo di Dio. L’”Angelus” ha assunto così il significato di una preghiera mariana, e ormai da secoli il popolo cristiano rivolge, a mezzogiorno, questo saluto angelico alla Madonna. In effetti, è difficile immaginare il mistero dell'Incarnazione senza pensare al luogo dove esso si compie, cioè a Colei che ne è stata strumento ineffabile, non passivo ma docile e fedelissimo nelle mani di Dio. Il vaticinio di Isaia: "Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emanuele, Dio-connoi",39 proietta la Madonna sull'orizzonte della storia umana e vede in lei la personificazione della "pienezza del tempo". Anche per noi recitare l'Angelus di mezzogiorno, interrompendo per qualche minuto il lavoro lì dove siamo: in casa, in ufficio, in viaggio, possibilmente rivolti a qualche sua immagine, è mettere la Madonna nel punto centrale della nostra giornata, come se essa dovesse ricordarci il valore divino del tempo, il significato soprannaturale di ogni nostra attività, la presenza di Cristo fatto carne nella nostra vita. Così, sull'orologio della nostra giornata, tutte le ore sono ore di Dio, ore di grazia. Le lancette scorrono sul quadrante dell'amore senza soluzione di continuità, come il respiro, come il battito del cuore. Al centro del 38 39
Galati, 4,4 Is. 7,14
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quadrante è l'Eternità: lì le lancette sono immobili, l'amore non ha più bisogno del tempo...:è un lampo abbagliante di luce nella contemplazione del volto di Dio.
LA SETTIMANA Tempo festivo - Tempo feriale
22 – I luminari del cielo "Dio disse: Ci siano luci nel firmamento del cielo per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni. E Dio fece due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno, la luce minore per regolare la notte, e le stelle. 40 Dunque, sole e luna sono gli astri che Dio ha messo al servizio dell'uomo: con la loro luce illuminano il nostro pianeta, con il loro influsso intervengono nei fenomeni vitali della natura, con il loro moto ci danno la possibilità di misurare il tempo. Il sole, signore del giorno, dà luce e calore ad ogni cosa. Fucina inesauribile di energia, esso presiede 40
Gn. 1, 14 -18
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alla maggior parte dei fenomeni naturali che avvengono sulla terra, soprattutto al "miracolo" della vita. Il suo moto apparente intorno alla terra è stato il primo moto astrale che gli uomini hanno osservato e la sua durata elementare - l'intervallo tra due passaggi successivi allo zenit - costituisce l'unità di misura più nota e universale del tempo: il giorno. Quanto alla luna, essa ha avuto un posto singolare nelle tradizioni popolari e nelle mitologie antiche. A differenza del sole, ha sempre suscitato nell'animo umano una profonda suggestione e insieme un vago senso di timore. Forse per essere l'astro notturno, signora della notte, forse per la sua faccia pallida e piena di mistero, forse per le sue fasi così enigmatiche o per l'influsso misterioso da essa esercitato sui vari fenomeni della natura, la luna ha contribuito alla formazione di miti e di credenze che troviamo nel patrimonio religioso e culturale di tutti i popoli. Lo stesso San Zeno, Vescovo e patrono di Verona, nei suoi sermoni allude al continuo "risorgere della luna", e vede nel ciclo delle fasi lunari il paradigma dell'esistenza umana. In particolare, l'influsso della luna sui fenomeni della fertilità - la semina, la covatura delle uova, il trattamento del vino, l'attecchimento degli innesti, la fertilità negli animali...., ha portato a considerare la lunazione, cioè la durata del moto lunare nel susseguirsi delle quattro fasi, come misura di un tempo ciclico più ampio: il mese. Sta di fatto che il libro della Genesi vede nel sole e nella luna "segni" a servizio dell'uomo; all'uomo, infatti, essi sono serviti non solo per scandire il tempo di due unità cronologiche cicliche fondamentali: il giorno e l'anno, ma anche per scandire il ritmo della vita. Tuttavia il testo biblico afferma con forza e senza equi65
voci che il sole, la luna e gli astri sono creature di Dio, creature limitate e deboli; non sono affatto divinità e non hanno nulla a che vedere con presunte forze cosmiche che presiedano alla vita e alla vicenda degli uomini. Queste affermazioni dell'antico testo biblico hanno un valore polemico nei confronti delle religioni semitiche che esasperavano le forze puramente naturali possedute dai corpi celesti, i quali, come sorgenti di energia, esercitano un influsso - ancor oggi non pienamente conosciuto - sulla natura; ma esse sono attuali anche ai nostri giorni, pur vivendo noi nell'epoca della scienza, perché la pratica dell'occultismo, della magia e delle arti divinatorie hanno oggi un rigurgito inquietante, soprattutto presso molte sette pseudo-religiose e stravaganti. Tutte le pratiche occulte, esoteriche, astrologiche sono pura superstizione, spesso legata a ignoranza, a debole intelligenza e scarsa formazione, sempre a mancanza di fede. Negli uomini d'oggi, là dove manca la fede prospera la superstizione, e la stessa scienza non regge a lungo di fronte al mistero dell'inconoscibile che sempre permane nelle creature e nel cosmo. La Bibbia afferma che tutto nel cosmo è a servizio dell'uomo e l'uomo non rimane asservito al cosmo, come vorrebbero le teorie astrologiche; egli invece è l'unica creatura che, portando in sé l'immagine di Dio, rimane nello spirito autonoma e trascendente, custodita e guidata dalla Provvidenza divina. E’ vero tuttavia che i cicli naturali che misurano il tempo - le ore del giorno, i mesi dell’anno - rivestono un significato cultuale e liturgico che possono alludere al rapporto dell’uomo con Dio e collegarsi alla stessa vita spirituale di noi cristiani, come abbiamo visto per la “Liturgia delle Ore”; qui, in questo capitolo, vogliamo ora 66
fermare la nostra attenzione su un’altra unità cronologica che non appartiene strettamente a cicli naturali come il giorno e l’anno, e tuttavia riveste notevole importanza nella vita personale e sociale: il ciclo di sette giorni che prende appunto il nome di settimana. Abbiamo già detto che essa non è un ciclo cronologico legato alla natura, anche se in qualche modo potrebbe collegarsi alle quattro fasi lunari ognuna delle quali dura infatti circa sette giorni; è invece un'unità cronologica indipendente, collegata ad aspetti della vita civile e religiosa, in particolare alla festa. 23 – La festa La festa corrisponde a una dimensione specifica dell'animo umano: la dimensione "celebrativa"; appartiene perciò alla cultura di ogni popolo. E' legata a una divisione qualitativa del tempo: tempo festivo e tempo ordinario, divisione che può avere un andamento ciclico oppure occasionale, essendo la festa una "celebrazione" di avvenimenti che appartengono alla vita dell'uomo e a libere espressioni della sua attività spirituale. Si celebrano nascite, morti, matrimoni, incoronazioni di re o di autorità, vittorie militari o sportive ecc. Ma c'è anche una festività ciclica legata al tempo naturale, cosmico o biologico: le semine, i raccolti, le cacce, il ritorno delle stagioni... Questa festività naturale, raggiunge talvolta forme popolari e rituali degenerate, con manifestazioni disordinate: esplosioni collettive, eccessi agonistici accompagnati da violenza ludica, festini, baccanali e danze orgiastiche, riti profani e altre manifestazioni intemperanti; 67
tuttavia essa assolve ad una funzione liberatoria e diversiva; esprime infatti il bisogno di libertà, il desiderio di ritrovare sé stessi e il rapporto autentico con la natura, nonché il dialogo interpersonale con gli altri così da riscoprire la vera dimensione della socialità. Ma il significato più profondo della festa lo troviamo nella celebrazione di valori che ricordano all'uomo la sua trascendenza; la festa vera ha rapporto con la divinità ed esprime il legame del tempo con l'eternità. Nelle varie civiltà e in quasi tutte le religioni questo rapporto tempo-eternità è stato risolto nel dualistico tempo sacrotempo profano come ritmi della vita individuale e sociale, ritmi che si susseguono ciclicamente e in contrapposizione tra di loro. Il tempo sacro era tempo festivo, anche se le manifestazioni erano spesso "profane", mentre il tempo profano era il tempo ordinario, tempo della fatica, dell'attività produttiva, delle occupazioni ordinarie. Il vero ricupero della festa nel suo significato umano e nel suo contenuto religioso l'ha operato il cristianesimo. Già nell'ebraismo la festa aveva un valore strettamente religioso; non solo le grandi feste annuali: Pasqua, Pentecoste, la Festa delle Capanne e quelle più strettamente cultuali, quali il Kippur e la Dedicazione, ma lo stesso Sabato, il settimo giorno, faceva riferimento al Dio dell'Alleanza, al Dio che aveva "scelto", eletto, Israele come suo popolo. E tuttavia da giorno della libertà, una libertà finalizzata a celebrare la liberazione operata da Dio per il suo popolo, - era essenziale nel sabato la lettura, nella Sinagoga, della Legge e dei Profeti per ricordare le grandi opere di Dio - il sabato divenne una "schiavitù", un riposo che non era più cultuale, ma fine a sé stesso e ignorava il cuore stesso del culto: la misericordia. Perciò 68
Gesù, che pure osservava il sabato, ha dovuto sopportare l'ostilità dei Farisei e dei sacerdoti per ridare al sabato il suo significato di Festa della Salvezza. Perciò operava le guarigioni in giorno di sabato, per "proclamare ai prigionieri la liberazione, e ai ciechi la vista, per mettere in libertà gli oppressi e predicare un "anno di grazia" del Signore".41 Del resto, proprio il sabato è l'unica festa inclusa nei Comandamenti, e concretamente nel Terzo Comandamento che, con i primi due, riguarda Dio, riguarda quindi la religiosità umana e la sua espressione nel culto. Il sabato era anche l'unica festa che si poteva celebrare fuori del Tempio; per cui il sabato è l'unica festa attualmente rimasta di tutto l'impianto cultuale ebraico. Tutto questo è servito a Gesù per far crollare la distinzione dualistica di tempo sacro e tempo profano: "Credimi, donna - dirà alla Samaritana - è giunto il momento in cui né su questo monte (il Garizim) né in Gerusalemme adorerete il Padre (...) perché i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità".42 Gesù abolisce così due categorie che non erano nelle intenzioni di Dio: infatti tutto ciò che Dio ha creato è santo. E' questa appunto la categoria che Gesù intende ripristinare: la santità. E' la categoria dei veri adoratori del Padre, di coloro che lo adorano "in spirito e verità". Questo non significa che Gesù abolisce il tempio e il culto; al contrario, come vedremo, l'uomo ha bisogno del tempio e del culto. Gesù è venuto a proclamare che tutta la vita dell'uomo dev'essere santa: la vita di lavoro, la vita di famiglia, l'attività sociale e pubblica... 41 42
Lc. 4,19 Gv. 4,21
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Nei luoghi dove si svolge la vita di ogni giorno, lì il cristiano deve saper incontrare Dio. Quello che spesso accade è che l'uomo immerso nel suo lavoro, nei suoi affari terreni, nella sua attività pubblica o nei suoi interessi personali si dimentica di Dio e del suo rapporto con lui. Perciò il Signore ha voluto il settimo giorno, e lo ha inserito nei suoi Comandamenti. E lo ha inserito proprio così, con l'espressione: Ricordati!... Ricordati che sei creatura di Dio e la natura è il dono che egli ti ha affidato; ricordati che sei libero e non devi farti schiavo delle cose; ricordati che non sei solo e devi farti dono per gli altri; ricordati che Dio ti ha riconciliato col sangue prezioso del suo Figlio e devi proclamare nel perdono la sua misericordia; ricordati che sei "nuova creatura" e Cristo risorto vuole, con te, ricondurre al Padre tutte le cose; insomma, ricordati che sei figlio di Dio e il tempo della tua vita ti è dato per conoscere, amare e servire Lui, con cuore grato e fedele. La "festa" è tutto questo e, in un certo senso, si identifica con la persona di Cristo: Gesù è la vera Festa dell'umanità. In Lui tutti i valori dell'uomo, della natura, della società umana, tutti i valori di grazia e di redenzione contenuti in quel: "Ricordati di santificare il giorno del Signore" vengono ricuperati, riproposti e celebrati. Tutto il valore della creazione viene da Cristo assunto e inserito nei "tempi nuovi" che egli ha inaugurato, i tempi dello "Sposo", che invita alla sua festa di nozze tutta l'umanità. 24 – Tempo sacro e tempo profano
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Così la festa si presenta come il luogo dei "fini" e il tempo feriale come luogo dei "mezzi": il lavoro, lo studio, la legge, la fatica, il dolore ecc. Senza la festa l'uomo non sa più perché lavora, perché soffre, perché è soggetto alla legge e perché deve impegnarsi; senza la festa i mezzi rischiano di diventare un fine: si lavora per il successo, per il guadagno, per la carriera... si lavora per il lavoro. La festa ricupera il valore e il significato della vita "feriale" e dei mezzi che essa comporta. Ma d'altra parte la ferialità impedisce che la festa divida l'uomo, lo chiuda in uno spazio "sacro" dove l'uomo si rifugia e dal quale l'uomo esorcizzi il profano. E' l'antica tentazione dualistica di contrapporre il sacro al profano, di vedere incompatibilità tra la festa e il lavoro. E' una contrapposizione che poi finisce per escludere o l'uno o l'altra. Nel mondo antico si tendeva ad eliminare il lavoro "sacralizzandolo", collegandolo a qualche divinità, perché si vedeva il lavoro come una condanna, espressione del male. Il mondo moderno, che a differenza del mondo pagano è ateo o areligioso, tende invece ad eliminare la festa. La rivoluzione francese aveva trasformato l'intero calendario in tempo profano, con giorni e mesi totalmente feriali, e con struttura e nomenclatura prive di qualsiasi riferimento religioso; tutto era pensato sulla vita feriale, con un giorno di riposo per ogni decade lavorativa. Ma anche la società attuale, considerando il lavoro necessità e finalizzandolo alla produzione, ha ridotto la festa a "tempo libero", che in realtà significa tempo vuoto col problema di trovare i riempitivi che diano l'illusione della festa, se non altro "consumando" quanto si è prodotto nei giorni feriali. Ne è venuta fuori una parodia della festa, con i suoi contenuti di evasione, di 71
stordimento, di tifo, di varie droghe, compresi l'alcool e il sesso. La festa ci ricorda che il lavoro, pur non essendo il fine dell'uomo, è tuttavia un grande privilegio concesso dal Creatore alla creatura; è nel lavoro e con il lavoro che l'uomo è chiamato a partecipare alla creazione. Dio, infatti, pose l'uomo nell'Eden - sulla terra - ut operaretur, perché lavorasse, ma lo creò "a sua immagine e somiglianza" perché potesse conoscere Lui, amare Lui, e realizzare in Lui il suo fine. Ritroveremo questo riferimento quando mediteremo sul significato biblico del settimo giorno. I sei giorni della creazione sono il "tempo di lavoro" di Dio. Dio compiendo l'opera grandiosa e splendida della creazione manifesta le sue perfezioni e la sua gloria; nel settimo giorno Dio si ferma e "riposa". E' un riposo "contemplativo”: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona".43 Sappiamo infatti che Dio opera sempre. Ai Giudei che gli rimproveravano di non rispettare il sabato, Gesù rispose: "Il Padre mio opera sempre e anch'io opero".44 Dio non cessa di creare perché continua a partecipare l'essere e l'agire a tutte le creature, e a governarle con la sua provvidenza. Il riposo contemplativo di Dio ha dunque un valore esemplare per l'uomo. E' l'uomo che ha bisogno di "fermarsi", di lasciare il lavoro, cioè il tempo feriale, per contemplare ciò che Dio ha fatto, per immergersi nel tempo festivo, cioè nella gloria di Dio, e dare al tempo la dimensione dell'eternità.
43 44
Gn. 1, 31 Gv. 5, 17
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25 – Le dimensioni della festa La festa è dunque un ritrovarsi davanti a Dio; è considerare le sue perfezioni, ascoltare la sua voce. Egli attraverso le creature ci parla e si rivela; la festa è cercare e incontrare il volto di Dio per adorarlo. Così la festa ci fa ricuperare le "proporzioni"; ci ricorda il posto e la condizione delle creature davanti al loro creatore, il posto dell'uomo davanti a Dio e davanti agli altri uomini. Lo sguardo dell'anima ritrova così le distanze reali, la prospettiva giusta e si apre all'ossequio verso Dio, all'adorazione, al "santo timore". E il cuore si riempie di stupore e di meraviglia. La festa è appunto il tempo della fruizione; il lavoro esprime il dominio sulle creature, le utilizza, anche le strumentalizza; la festa gioisce di ogni cosa, percepisce le creature come dono, le "contempla" per goderne la bellezza, la magnificenza, la sovrabbondanza. La festa è perciò essenzialmente legata alla gioia. Non c'è festa se non c'è gioia e non c'è gioia se non si riesce a vedere il volto di Dio. La festa è il tempo della libertà; libertà dalle cose, libertà dai "doveri". Il lavoro crea legami, crea i rapporti di dipendenza: il servitore e il suo padrone, l'operaio e il datore di lavoro, l'impiegato e il direttore..., e crea rapporti di necessità: le necessità della vita, delle prestazioni, dei servizi... Il lavoro è rimunerato dal salario, perciò il tempo feriale è regolato dalla giustizia; la festa è gratuità, è il tempo del "non-dovuto", è governata dall'amore. La festa è tempo della libertà, non del tempo libero; il tempo libero è una situazione esteriore, la libertà è una dimensione dello spirito e solo questa permette 73
la fruizione di sé stessi, della propria persona e del proprio tempo. La festa annulla le distanze sociali; è il tempo della vera uguaglianza. Tutti ugualmente commensali al tavolo di Dio: il creato, e soprattutto tutti commensali intorno al tavolo di Cristo, alla mensa dell'altare, dove a tutti vengono offerti il Pane e la Parola. Nella festa nessuno è debitore e insieme tutti siamo debitori gli uni degli altri, debitori di stima, di onore, di gratitudine. La festa affranca dalla servitù; ogni uomo è padrone, dispone pienamente di sé stesso, del suo tempo, dei suoi talenti; è il giorno in cui l'uomo è felice di essere uomo. La festa è tutta e solo dono, dono che si riceve da Dio e dai fratelli. La festa quindi non si compra; non esiste denaro né appoggio di potenti che possano procurarcela. Si può orchestrare la fenomenologia della festa, si possono al limite sponsorizzare le manifestazioni esteriori: giochi, premi, sagre e altri divertimenti legati a tradizioni popolari, ma la festa è un'altra cosa e non abita lì; la festa viene dal cuore, quando è pulito, luminoso, nella pace. Che si possa comprare la festa è uno degli inganni della nostra cultura secolarizzata ed è tipico della società dei consumi. Il consumismo è la negazione della festa. L'uomo consumista ha il cuore vuoto e vuole riempirlo dall'esterno con le cose, con i prodotti effimeri e bugiardi dell'edonismo. Comprare la festa è sinonimo ed è frutto di superstizione. L'uomo areligioso o miscredente della nostra epoca cade nella magia più primitiva quando ha la pretesa di captare la festa con gli amuleti del consumismo. La festa ha invece una dimensione comunitaria. Non si può far festa da soli perché la festa è "partecipa74
zione". Si può far festa "in solitudine", con la sola presenza di sé stessi, se il cuore è aperto all'amore, al dono, alla contemplazione. Ma normalmente si fa festa "in compagnia", con presenze che esprimano partecipazione, condivisione di un bene che è di tutti e per tutti; la festa non è proprietà esclusiva di nessuno, non è un bene privato per alcuni privilegiati. La festa è un bene che più viene condiviso e più cresce; la partecipazione di molti fa diventare la festa più grande, più intensa e più fastosa. La festa è un canto dell'anima, un canto che conosce l'assolo ma che normalmente si esprime in un coro a più voci, in una polifonia a tutto campo, senza limiti di voci, di strumenti, di temi e di melodie. E' un canto che può coinvolgere popoli interi. Nel Cielo la festa è "moltitudine": "Dopo ciò udii come una voce potente di una folla immensa (...) simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano: "alleluia!".45 In cielo infatti la gioia di uno è gioia di tutti e la gioia di tutti inonda il cuore di ciascuno. Il cielo è tutto e solo festa, la Grande Festa, perché sono finiti i giorni della fatica, i giorni del sudore e della necessità, e "Dio, che ha terso le lagrime dai loro occhi, sarà tutto in tutti". Qui sulla terra la festa non è mai compiuta né completa. Conosce i limiti e le vicissitudini dell'animo umano: le lagrime si mescolano al sorriso, la gioia al dolore e si fondono insieme la fatica e il riposo, l'odio e l'amore, la morte e la vita. Qui sulla terra la festa porta il peso della nostra condizione umana. 26 – Il “nemico” della festa 45 Ap.
19,6
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Da tutto questo è facile capire che il vero nemico della festa non è il lavoro, non è la fatica, non è neppure il dolore: la liturgia della Chiesa celebra la Festa della Croce! Il vero nemico della festa è il peccato perché ci occulta il volto di Dio, ci separa dai fratelli, ci impedisce la fruizione del creato e di ogni altro dono di Dio. Il peccato ha introdotto la "ferialità" nel lavoro, la fatica nel dovere, il dolore nella maternità, la schiavitù nel rapporto fra gli uomini. "La Festa è finita" può essere un titolo del dramma consumato nell'Eden dai nostri progenitori. Il peccato, infatti, ha sostituito alla felicità il piacere, alla pace la paura, alla verità la menzogna, al dialogo la contesa, all'amore l'egoismo. La festa, che pur è rimasta una dimensione dell'animo umano, ha imboccato così le strade della solitudine, dello stordimento, della noia, della nudità. Col peccato è entrata nel mondo la contraffazione della gioia festiva, la sua antitesi: la tristezza. La gente può cantare, ballare, divertirsi senza che per questo ci sia festa. Quanto vuoto, quanta insoddisfazione e tristezza contrassegnano il tramonto di tante giornate "festive"! Ma il nemico della festa non è soltanto il peccato dei "cattivi", il peccato palese, trasgressivo, ma anche il peccato dei "buoni"; è un nemico subdolo, silenzioso, ma ugualmente paludato di tristezza antifestiva: è la tiepidezza, la mediocrità consapevole e voluta nella vita spirituale. Il peccato della tiepidezza ha il nome con sé: il vocabolario la definisce come "atteggiamento che denota poco amore e poco entusiasmo". Più che un peccato esplicito è perciò uno "stato" dell'anima, uno stato paragonabile a una malattia debilitante, che toglie slancio e vitalità alla vita cristiana. 76
Il tiepido porta un'anima grigia, pigra e indifferente, che ha perso interesse alle cose di Dio e si limita a non trasgredire gravemente i suoi Comandamenti. I Comandamenti stessi sono sentiti come un peso al quale si vorrebbe volentieri sottrarsi. Questo stato dell'anima tiepida si esprime tuttavia in molti, piccoli, sintomi che ne fanno una malattia ad ampio spettro. "Sei tiepido se fai pigramente e di malavoglia le cose che si riferiscono al Signore; se vai cercando con calcolo e con furbizia il modo di diminuire i tuoi doveri; se non pensi che a te stesso e alle tue comodità; se le tue conversazioni sono oziose e vane; se non aborrisci il peccato veniale; se agisci per motivi umani".46 Questi ed altri sintomi, tutti all'insegna del compromesso in favore della comodità e della vanità, rivelano una situazione interiore di piatta "ferialità", dove va spegnendosi ogni ideale di santità, ogni slancio di generosità, ogni moto d'amore verso Dio e il prossimo. Così il tiepido riduce tutto alla legge e trasforma anche la festa in un obbligo, dimenticando lo spirito del terzo Comandamento che è l'unico a non usare la terminologia ingiuntiva propria della legge. Dice infatti: "Ricordati" di santificare la festa; proprio perché la festa non si può imporre, non si può comandare, come non si può comandare la gioia, l'amore, il dono di sé. Per il tiepido anche la Messa domenicale è un "dare", quasi un pedaggio da pagare, anziché un "ricevere". Così, la conseguenza di questa opaca ferialità è la tristezza, l'incapacità di fare festa, di vivere la gioia. Perciò, San Tommaso d'Aquino definisce la tiepidezza: "Una specie di tristezza che rende l'uomo tardo a com46San
Escrivà, Cammino, n. 331
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piere gli esercizi dello spirito per lo sforzo che essi comportano".47 Un cristiano che si trovi in queste condizioni ha bisogno di un forte intervento di Dio, gli occorre una sorta di elettroshock della grazia che lo aiuti a reagire, a scuotersi dal torpore e dall'accidia e ad accostarsi a Colui che è venuto a portare il fuoco sulla terra, e che solo può riscaldare il cuore e dire alla volontà: Alzati e cammina. Gli occorre perciò l'umiltà della preghiera, della penitenza, del sacramento della Confessione, che in questo caso diventa per davvero il sacramento della gioia, una celebrazione di festa. 27 – La settimana Ci siamo soffermati sulla festa perché l'antichissima e universale distinzione tra tempo festivo e tempo feriale ha ricevuto nella nostra cultura occidentale una configurazione stabile e ben definita nel ciclo settimanale, ciclo che la pietà cristiana, ispirata dalla Liturgia della Chiesa, ha poi collegato con alcune devozioni che ricordano il mistero di Cristo. La settimana, abbiamo detto, non è strettamente legata a fenomeni ciclici della natura, ma fa riferimento, da una parte ad aspetti della vita civile: il lavoro, il commercio, le pubbliche attività e, dall'altra, a manifestazioni della vita religiosa: celebrazioni, ricorrenze, riti cultuali, ecc. La durata settimanale di sette giorni la dobbiamo ai Babilonesi - i Greci e gli Egiziani contavano per decadi probabilmente per un qualche significato nefasto attribuito al numero sette e ai suoi multipli, oppure in riferimen47
S. Tommaso, Summa theologica II II q.35 a.3
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to ai sette corpi celesti da essi conosciuti. Ma saranno i Romani, che pure non conoscevano la settimana e chiamavano i giorni col nome generico di feria, a collegare i giorni della settimana all'influsso dei pianeti e in definitiva alla protezione degli dèi, cominciando dal "dies Saturni" (il sabato), dies Solis, (domenica), dies Lunae (lunedì), dies Martis (martedì), dies Mercurii (mercoledì), dies Jovis (giovedì), dies Veneris (Venerdì); nomenclatura che è rimasta fino ai nostri giorni. Presso gli Ebrei, la settimana acquista un significato strettamente religioso, biblico. Ricorda i sei giorni della creazione - il "lavoro" di Dio - mentre il settimo iorno ricorda il "riposo" di Dio; è quindi il giorno da dedicare al culto di Dio perché è il "suo" giorno. Ma sarà soprattutto la Chiesa a dare un senso totalmente nuovo alla settimana, a partire proprio dal primo giorno, il giorno dopo il sabato, che diventa il giorno solenne, il giorno del Signore e perciò "la Festa" per eccellenza, "Festa primordiale", che trasfigura tutti gli altri giorni, tutto il tempo feriale. Esso infatti, non è più un tempo profano e nemmeno un tempo sacro, è semplicemente tempo divino, anzi umano e divino insieme, tempo di Dio e tempo dell'uomo come l'ha inaugurato Cristo, vero Dio e vero uomo. Con Gesù infatti, la festa non è più l'ultimo giorno della settimana, il settimo, il giorno del "riposo", ma diventa il primo giorno della settimana che dà significato e valore nuovi a tutti gli altri giorni. Così i giorni feriali vengono santificati dal primo giorno della settimana e pur restando giorni di lavoro cessano di essere "tempo feriale", sono diventati "tempo da santificare”.La nomenclatura astrale dei giorni della settimana resterà nel calendario civile, la Chiesa invece per eliminare ogni contaminazione col paganesimo continuerà a indicare i giorni 79
settimanali col nome generico di feria numerandoli con numerazione romana dalla feria seconda alla feria sesta, cui seguirà il Sabato. Infatti la feria prima, il dies Solis, diventerà ben presto "la primizia" di tutti i giorni, il Giorno del Signore, il giorno fatto da lui e per lui.
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LA D O M E N I C A
28 – Il Giorno del Signore La liturgia della Chiesa, per indicare la domenica, utilizza l'espressione del Salmo 117: "Questo è il giorno che ha fatto il Signore", e la utilizza in due sensi: primo, la domenica è il giorno che ricorda e celebra le grandi opere fatte dal Signore, le meraviglie da lui compiute; secondo, è il giorno che il Signore ha fatto per noi; quel giorno cioè è un regalo, un dono di Dio per gli uomini. La domenica è il Giorno del Signore proprio perché in esso Dio ha compiuto le sue grandi opere a favore dell'uomo. Innanzitutto l'opera della creazione. Infatti, così comincia il primo libro della Bibbia: "In principio Dio creò il cielo e la terra"; fu il primo giorno, il giorno della creazione. In esso ha avuto inizio il tempo e tutto ciò che esiste. Fu come l'esplosione dell'eternità, il big-bang della potenza di Dio, che ha dato origine a tutte le cose. Nessun uomo, nessuna mente o fantasia di creatura potranno mai ricostruire quel primo istante di tutto l'universo. Ciò che precede il primo giorno è la lunga notte del nulla delle cose, l'infinito silenzio di Dio che tutto abbracciava, perché ogni essere ha le sue radici nell'eternità di Dio, nella sua sapienza e nella sua potenza che sono 81
senza tempo. Perciò la domenica, è il primo e insieme è l'ottavo giorno del Signore, il "giorno dell'eternità". Tutto questo si addice anche all'altra opera compiuta da Dio: la Risurrezione di Gesù. Anch'essa è un "segreto" di Dio, custodito nel silenzio della sua onnipotenza che per ogni mente creata è come una notte inaccessibile, impenetrabile. Nessuno ha potuto essere testimone di questa esplosione del Risorto, di questo nuovo big-bang della potenza di Dio. Il terremoto che accompagnò la Risurrezione mise in fuga le guardie che rimasero terrorizzate, stordite, perché nessuna mente umana può cogliere l'istante in cui il Verbo eterno rinnova la sua Umanità sepolta nella morte e la ri-crea nella gloria facendola entrare nella condizione definitiva, immortale ed eterna. La Risurrezione di Gesù è come una seconda creazione o, come si esprime San Paolo, è la creazione rinnovata. La Risurrezione di Cristo rinnova l'umanità: la riconcilia con il Padre, la libera dal peccato e dalla condanna, la riveste di immortalità e di gloria. Cristo risorto anticipa la nostra condizione futura, quando saremo con lui e come lui nella domenica senza tempo. Anche la domenica della Risurrezione è dunque il primo e insieme l'ottavo giorno della settimana; tutti e due portano "il sigillo del Signore" (Sant'Agostino). Infatti, "mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!" E dopo aver mostrato loro le mani e il costato rinnovò il saluto: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". Detto questo alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li ri82
metterete, resteranno non rimessi".48 La pace, la remissione dei peccati, l'effusione dello Spirito Santo: sono il frutto della Pasqua e insieme i segni della creazione rinnovata. Questa effusione dello Spirito Santo riguardava soprattutto i singoli apostoli che ricevevano così il potere di rimettere i peccati, ma preludeva alla grande effusione dello Spirito nella domenica di Pentecoste. In quel giorno la discesa dello Spirito Santo avviene su tutta la Chiesa con destinazione a tutti i popoli della terra. "Manda il tuo Spirito, o Signore, e rinnoverai la faccia della terra". E' questa l'altra grande opera di Dio ricordata e celebrata nella domenica. Nasce in quel giorno la Chiesa e in essa il genere umano potrà trovare la sua unità; lo Spirito Santo compirà il prodigio di riunire tutte le razze, le lingue e le nazioni della terra in un unico popolo, il nuovo Popolo di Dio, con una sola fede, un solo battesimo, un solo Maestro e un solo Padre. La creazione, che si ronnoverà nella risurrezione finale, viene preparata dallo Spirito Santo per il giorno della glorificazione alla fine dei tempi. Allora, l'ottavo giorno sarà l'unico giorno dell'universo e dell'umanità intera, il solo e l'unico giorno senza fine e senza tramonto. 29 – La Liturgia domenicale Sono queste, dunque, le grandi "opere" di Dio, che fanno della domenica "il Giorno del Signore", il giorno fatto per la Festa, per la celebrazione delle "Meraviglie" di Dio. "Celebrate con me il Signore, perché è 48
Gv. 20,22
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buono, perché eterna è la sua misericordia".49 Celebrare: non semplicemente ricordare, commemorare, immaginare un passato che non esiste più. Si "celebra" una realtà presente, attuale, che è viva adesso. La creazione è sotto i nostri occhi e si sta facendo continuamente; la Redenzione, realizzata in Cristo morto e risorto, è attuale oggi, perché Gesù è vivo e continua ad offrirsi al Padre per noi; lo Spirito Santo, principio vitale della Chiesa, continua ad effondersi nelle anime, purificando, illuminando, santificando. Le "opere di Dio" compiute nel tempo non sono limitate dal tempo, ma lo pervadono interamente con la loro presenza e la loro efficacia. Cristo è di ieri, di oggi, dei secoli. Questa convinzione dovrebbe essere ben presente e viva nell'animo di ogni cristiano quando si reca in chiesa per celebrare il giorno del Signore. Molti cristiani assistono alla liturgia domenicale come spettatori passivi; stanno ad osservare con curiosità scontata un cerimoniale già noto e rimangono interiormente estranei come se la cosa non li riguardasse; tutt'al più stanno ad aspettare che finisca. Non pensano che si stanno compiendo davanti a loro e per loro le grandi "Meraviglie di Dio". Il cuore della domenica è la liturgia eucaristica. La celebrazione dell'Eucarestia è un fatto trinitario e riassume tutto ciò che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno compiuto per la salvezza del mondo, salvezza che lì sull'altare viene offerta a ciascuno di noi. Per questo la Chiesa fin dai primissimi tempi ha visto la santificazione del Giorno del Signore indissolubilmente legata alla celebrazione dell'Eucaristia, così da farne un obbligo grave per ogni cristiano. Non c'è domenica, non c'è 49
Salmo 117, 29
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vera festa cristiana, se manca l'Eucaristia. Il cristiano che senza un motivo proporzionato non partecipa con la fede dovuta alla liturgia eucaristica domenicale, non solo esclude sé stesso dai doni di salvezza che Dio ci offre, ma anche fa violenza al significato stesso del tempo; per lui, infatti, la domenica non è più il "Giorno del Signore", il giorno di festa che lo unisce agli altri fratelli nella fede, ma soltanto un giorno di riposo, tempo libero, tempo di divertimento o altro, in ogni caso tempo "mondano". E anche quando fosse fisicamente impedito, il cristiano sa che può unirsi spiritualmente alla Chiesa che, sparsa nel mondo intero, celebra il mistero di Cristo, e può dedicare qualche minuto alla lettura meditata della Parola di Dio e partecipare in spirito e col desiderio al sacrificio dell'altare. 30 – Il Giorno della Chiesa La domenica infatti, è anche il "Giorno della Chiesa"; non solo perché la Chiesa è nata ed è stata rivelata al mondo nel giorno della Pentecoste, ma anche perché proprio celebrando la domenica essa si scopre comunità di credenti, Popolo di Dio adunato nel nome di Cristo intorno alla mensa della Parola e del Pane. Già il fatto di riunirsi da varie parti, fedeli di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i ceti, in un unico luogo per un'unica celebrazione, esprime visibilmente il significato del termine con cui viene designato il popolo dei credenti: Chiesa (Ecclesia), cioè assemblea dei "chiamati". Il cristiano è per vocazione un chiamato: è chiamato ad aderire a Cristo mediante la fede, è chiamato a formare il nuovo popolo di Dio gerarchicamente costi85
tuito, ed è chiamato alla Vita Eterna, ad entrare nella comunione con Dio per sempre. Tutti questi aspetti vocazionali della vita cristiana sono presenti e visibilmente significati nella celebrazione liturgica domenicale. E' la fede, infatti, che ci muove verso la casa di Dio e ci riunisce tutti, dapprima intorno all'ambone per ascoltare la Parola di Dio, e poi intorno all'altare per partecipare al sacrificio di Cristo nei segni sacramentali del Pane e del Vino. Esiste un rapporto reciproco tra Vangelo e fede: il Vangelo, come ogni Parola di Dio, suscita in noi la fede, la ravviva e la rafforza; la fede, poi, ci aiuta a comprendere sempre più la Parola di Dio e ci fa aderire a Cristo sempre più consapevolmente. La risposta alla Parola di Dio è appunto la professione di fede, che l'assemblea liturgica proclama con il Credo. Il Credo esprime il contenuto della nostra fede, che è la fede della Chiesa, la fede degli Apostoli. Racconta San Luca50 che la prima comunità cristiana di Gerusalemme era fraternamente unita nell'ascolto dell'insegnamento degli Apostoli, nella "frazione del Pane" e nella preghiera. Da allora fino alla fine dei tempi la Chiesa, popolo di Dio, si edifica e si ritrova sul fondamento della fede degli Apostoli, sulla Eucaristia, e sulla comune preghiera, che possiamo riassumere nella preghiera "domenicale": il Padre nostro. Recitare il Credo è accettare la fede della Chiesa, è partecipare alla fede di tutti i credenti che furono, che sono e che aderiranno a Cristo nei secoli. Quando diciamo: "Io credo..." non intendiamo una fede soggettiva, su misura delle nostre personali convinzioni, quel "Io credo..." significa: Io credo ciò che la Chiesa crede, ciò che gli Apostoli ci hanno insegnato. 50
cfr. Atti, 2, 42
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Perciò la recita del Credo come risposta alla Parola di Dio è un momento di intensa ecclesialità. 31 – La fraternità cristiana "Giorno della Chiesa", la domenica ci fa sentire più fratelli e facilita il nostro reciproco rapporto di credenti. Un momento di intensa fraternità ci viene offerto innanzitutto dalla liturgia domenicale. Lì, davanti all'altare, cadono tutte le barriere, svanisce tutto ciò che può diventare motivo di separazione: il colore della pelle, la lingua, il censo, la professione, l'appartenenza sociale; lì, davanti a Cristo che ci parla e che si dona, ognuno di noi si scopre fratello del proprio vicino, il quale non appare più straniero o semplicemente compagno, collega, concittadino, tanto meno un rivale o un nemico, ma figlio dell'unico e comune Padre del cielo, discepolo del solo e unico maestro, Gesù. La fraternità cristiana non è dunque qualcosa di vago, di sentimentale, di altruistico, o qualcosa che si possa confondere con la solidarietà. La solidarietà, oggi tanto invocata e proclamata, esprime un legame fondato sull'altruismo e sulla partecipazione, legame che regola soprattutto il rapporto tra gruppi: gruppi sociali, gruppi di categoria, cittadini o famiglie di un quartiere, di una città, fino ai popoli e alle nazioni sparse nei vari continenti; una solidarietà che unisce i gruppi intorno a necessità gravi, di particolare emergenza, o intorno a interessi comuni che pongono problemi non superabili senza il concorso di tutti. Di solidarietà si sente oggi impellente bisogno, dato il divario ormai insostenibile tra le varie parti del mondo e tra i diversi gruppi sociali all'interno di 87
una stessa comunità. Iniziative che diffondano e alimentino lo spirito di solidarietà sono, oggi, uno dei mezzi più urgenti ed efficaci per rendere più umano il mondo del nostro tempo, per combattere le ingiustizie, le violenze, le guerre, e per garantire nel mondo il dono inestimabile della pace. Ma la fraternità cristiana è di altra natura e ha un diverso fondamento. Nasce dal battesimo e stabilisce tra noi un legame essenzialmente soprannaturale che esige la fede. E' anche più impegnativa da praticare perché esige umiltà, distacco, rinnegamento di sé stessi; è partecipazione all'amore con cui Cristo ci ama. La fraternità va alla persona come tale e nella persona vede l'immagine di Dio e il volto di Cristo. La fede, infatti, ci ricorda che nel battesimo siamo diventati membra di Cristo, del suo Corpo Mistico, e perciò membra gli uni degli altri, uniti da un legame che non nasce dalla natura ma è opera dello Spirito Santo. La fraternità cristiana ha dunque il suo fondamento in Cristo che è diventato, nell'Incarnazione e con la sua morte sulla croce, il "primogenito tra molti fratelli". Solo in questa luce anche le situazioni, i bisogni e le necessità delle persone sono viste nella giusta prospettiva e rivelano tutto il peso vincolante della loro motivazione. Tutto questo diventa quasi tangibile nella celebrazione eucaristica domenicale. L'unico termine usato dalla Liturgia nel rivolgersi ai fedeli è: fratelli; ogni altra categoria di rapporti è ignorata; il legame che ci tiene uniti passa attraverso Gesù e ci fa partecipi all'unica fede in Lui, all'unico pane e all'unico calice del suo sacrificio. Accade invece che, una volta usciti dalla chiesa, questo legame sembra venir meno; quasi fatalmente 88
prendono il sopravvento i legami di natura puramente umana, legami sociali, legami affettivi, compresi i loro contrari che ci dividono, ci rendono ancora una volta estranei o semplicemente dei "vicini"; e dobbiamo ricorrere alla solidarietà. Dicevamo che la fraternità cristiana è di natura soprannaturale ed esige la fede; ora può essere proprio questo, la nostra poca fede, il motivo per cui non riusciamo a ricordarci della fraternità cristiana nei giorni feriali. Se non altro, è questa la riprova di quanto manchi di unità la nostra vita di cristiani. A volte abbiamo l'impressione di essere una persona in chiesa e un'altra persona nel lavoro, in famiglia, negli ambienti sociali, come se la fede e la vita andassero ciascuna per conto proprio. Sta di fatto che la fraternità cristiana non è spontanea; richiede lotta e impegno interiore, esercizio quotidiano di virtù di cui Cristo si è fatto modello ed esempio. Soltanto da lui possiamo imparare ad amare e a lui dobbiamo chiedere di saper amare. La domenica diventa così il giorno adatto alle opere di fraternità: visita ai genitori lontani, alle persone sole, agli ammalati, assistenza agli orfani e alle persone in difficoltà, e tanti altri gesti di amore fraterno che hanno nella celebrazione eucaristica la loro vera e profonda motivazione. 32 – Il giorno del “riposo” Abbiamo visto che la domenica è anche il giorno del riposo. Anticamente si intendeva il riposo come astensione dai lavori manuali, i lavori pesanti o di fatica, quelli riservati agli schiavi e detti appunto "servili". In realtà il significato biblico di riposo è più ampio ed è col89
legato al culto di Dio. Il riposo coincide infatti con il Giorno del Signore, con la festa. Ciò significa che il riposo è la condizione ultima e definitiva dell'uomo, appartiene allo stato della beatitudine. Come dire che il lavoro appartiene al tempo, il riposo all'eternità. Quando Dio crea l'uomo, lo introduce nell'Eden nel tempo - ut operaretur, col comando di lavorare. Il lavoro diventa il modo proprio dell'uomo di partecipare alla creazione. Ma Dio nella creazione rimane immutabile, non consuma energie, non ha bisogno di riposo; egli opera incessantemente perché continuamente interviene nella creazione, ma non conosce stanchezze, non ha bisogno di rifocillarsi. "Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica né si stanca...".51 L'uomo invece vive nel tempo e opera nel tempo, conosce quindi le vicissitudini del tempo. L'uomo è un essere faticabile. Come collaboratore di Dio nella creazione, l'uomo deve lavorare intensamente, positivamente e gioiosamente, ma come creatura limitata e faticabile l'uomo deve avere l'umiltà del riposo, del ricupero di energie, del ricominciare accettando i ritmi del tempo. In questo senso il riposo fa parte del lavoro ed è altrettanto doveroso quanto il lavoro, e in certo qual modo deve essere proporzionato al lavoro. La pretesa dell'infaticabilità è un peccato di superbia, è il rifiuto della creaturalità, la presunzione di essere come Dio. Nel compiere il suo lavoro l'uomo deve modellarsi sul lavoro di Dio: dovrà quindi lavorare - qualunque sia l'attività svolta - con intenti positivi e costruttivi, intensamente, con rettitudine e nobiltà d'animo; similmente anche nel riposo l'uomo dovrà ispirarsi al riposo di Dio. 51
Is. 40,26
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Leggiamo nella Bibbia che, portata a termine la creazione, "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona".52 Abbiamo visto che il riposo di Dio è un riposo contemplativo. In verità, Egli non ha bisogno di contemplare quello che ha fatto, siamo noi che abbiamo bisogno di contemplare le opere di Dio per renderGli gloria. Per noi, dunque, il riposo domenicale non significa semplicemente interruzione del lavoro, ma implica anche un "distacco" dal lavoro. In altre parole abbiamo bisogno di prendere le distanze dal nostro lavoro per vederlo nella prospettiva della gloria di Dio e per togliere da noi ogni atteggiamento egoistico che sappia di attaccamento interessato. L'uomo è capace di brutalizzare il suo lavoro piegandolo al proprio interesse egoistico, all'oppressione e all'ingiustizia; allo stesso modo può profanare il suo riposo distogliendolo dalla contemplazione per consumarlo nella evasione. 33 – Riposo e vita famigliare L'uomo è anche un essere relazionale: appartiene ad una famiglia e ad una società, con doveri e diritti che sono essenziali alla sua vita personale. Perciò il riposo domenicale ha un significato anche sociale; esso ci permette di ricuperare nella loro integrità originale quei rapporti naturali contrassegnati dalla gratuità e dall'amore, interrompendo i rapporti gerarchici, spesso artificiali, creati dall'uomo e contrassegnati dalla necessità e dalla legge. Durante il lavoro un padre di famiglia non appar52
Gn. 1, 31
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tiene totalmente ai figli, non è fruibile pienamente nella sua paternità; la sua attività professionale, pur importante e necessaria, lo toglie in maniera più o meno rilevante all'ambiente famigliare, sia in termini di tempo che di energie e di partecipazione. Lo stesso avviene per la madre, che è anche sposa, e per i figli. Nella domenica la famiglia deve ritrovare sé stessa pienamente; i genitori devono essere totalmente per i figli, fruibili in tutta la loro dimensione di paternità e di maternità; la moglie deve ritrovare sé stessa nella pienezza della sua femminilità e del suo ruolo, e fruire pienamente della sua famiglia. Proprio la donna è maggiormente esposta ad essere derubata del riposo domenicale; facilmente la domenica può diventare un giorno di riposo per tutti eccetto che per la donna. Perciò anche i lavori domestici devono essere ridotti al minimo e su di essi devono prevalere le persone. Spesso il lavoro si frappone tra le persone e crea tra loro distanze; il riposo serve a togliere barriere e a permettere alle persone di incontrarsi nella gratuità, nella libertà del dialogo, nella totale disponibilità reciproca, perché tutto lo spazio sia lasciato ai legami e agli affetti familiari, all'attività dello spirito, alla partecipazione agli atti di culto. Perciò contrastano col riposo domenicale la vana dissipazione, il divertimento stupido o peggio immorale, l'ozio neghittoso ed egoistico. Anche sul piano fisiologico e psicologico il riposo consiste spesso nel cambiare di attività, nel passare ad una attività meno impegnativa che può essere manuale o spirituale, sociale o artistica, personale o collettiva, ma sempre espressione di valori umani autentici e promozionali della persona. Ora, la dissipazione non è riposo e nemmeno lavoro, è un macinare a 92
vuoto energie con progressivo impoverimento interiore; così il divertimento disordinato e malsano, non è né riposo né lavoro, è spreco di energie, stordimento da evasione che finisce in un'inutile fatica; e neanche l'ozio neghittoso è riposo e tanto meno è lavoro: chiudersi nella propria accidia è tradire la festa, è negarsi al dono e alla fraternità. In queste situazioni il riposo domenicale anziché riunire la famiglia, la disperde, disunisce i suoi membri e li isola, finisce tutt'al più col creare incontri fittizi, rapporti che mancano di autenticità e sincerità, e che spesso finiscono nell'inganno reciproco e in una squallida complicità. Così, il riposo festivo si chiude nel vuoto sterile di una giornata senza valori, lasciandoci più soli e più poveri, spesso più affaticati e insoddisfatti. 34 – Riposo ed eternità Abbiamo visto il significato umano del riposo come interruzione del lavoro per ricuperare energie fisiche e psichiche, e soprattutto per assicurare spazio a certi valori fondamentali della vita personale, famigliare e sociale. Abbiamo visto anche il significato biblico del riposo come ricupero della contemplazione onde fare memoria e celebrare le grandi opere di Dio, nel culto a Lui dovuto. Ma il significato biblico del riposo va ancora oltre e in Cristo raggiunge un significato ancora più alto, più soprannaturale. Il riposo di Dio non è interruzione del lavoro, ma conseguenza dell'aver portato a termine il lavoro. "Così furono portati a compimento il cielo e la terra (...) Allora Dio nel settimo giorno portò a termine
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il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro".53 Anche Gesù, prima di morire, con forte grido esclamò: "Tutto è compiuto!" E chinato il capo, spirò.54 Nel testo greco l'espressione "chinare il capo" è resa con il verbo klineìn che indica l'atto di riposare nel sonno dopo la fatica. La morte di Cristo è il "riposo" del Figlio di Dio che "tutto ha compiuto", ha portato a compimento il lavoro che il Padre gli aveva affidato: la Redenzione del mondo. Questo riposo non finisce nel sepolcro perché la morte di Cristo è sorgente di vita - la Croce è l'Albero della Vita - e perciò si apre sulla risurrezione e sulla glorificazione alla destra del Padre. E' questo appunto il vero riposo: la destra del Padre, il Cielo; riposo che presuppone l'aver portato a compimento il lavoro, il compito o la missione che Dio ha affidato. Dio vuole portare a compimento in tutto e in tutti il suo misterioso e misericordioso disegno di salvezza. E' la condizione perché ogni cosa "entri nel suo riposo". Non tutti infatti vi entrano; coloro che induriscono il loro cuore e non camminano nelle vie del Signore "non entreranno nel luogo del (suo) riposo".55 Questo riposo in Dio - il Cielo - è il riposo dell'ottavo giorno, significato e anticipato nel riposo domenicale. Tra il riposo del primo giorno, la domenica, e il riposo dell'ottavo giorno, l'eternità, c'è in mezzo la settimana della storia umana dove il “lavoro di Dio” e il “lavoro dell’uomo” si intrecciano, dove cioè la libertà dell’uomo è perennemente interpellata dal progetto di Dio, un progetto che deve compiersi in ogni uomo e 53
Gn. 2, 1 Gv. 19, 30 55 Salmo 95, 11 54
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poi sull'intera umanità, finché non sia completato il "numero degli eletti". E' un grande mistero questo della corresponsabilità dell'uomo col disegno di Dio: dipende da noi che si affretti o si allontani il giorno del riposo; dipende dal modo con cui rispondiamo al lavoro di Dio, alla sua grazia, che maturino "i tempi e i momenti" che il Padre ha riservato a sé, che, cioè, finiscano i "tempi della fatica" e della prova e giunga il momento in cui "tutto è compiuto", il momento in cui il libro, nel quale vengono scritti i nomi di tutti gli eletti, sia giunto alla sua ultima pagina. Allora ogni cosa entrerà nel riposo di Dio, nella partecipazione e nella contemplazione della sua gloria. Il riposo domenicale deve aiutare il cristiano a guardare alla settimana come al luogo dove si attua la sua vocazione, quella di collaborare al lavoro di Dio, quella di mettere la propria libertà a servizio dei fratelli, del loro bene temporale finalizzato al loro bene eterno, alla loro salvezza. I giorni "feriali" nella settimana del cristiano sono i giorni della "fatica di Dio", che vuole salvare gli uomini contando sulla loro libertà, sono i giorni della "fatica di Cristo" che, avendo riconciliato con il Padre tutte le cose mediante la Croce, la offre a noi come luogo del suo riposo: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi ed io vi ristorerò. Prendete su di voi il mio giogo (...) il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero e troverete riposo per le vostre anime".56 Se la domenica è il giorno in cui cantiamo il "Gloria a Dio ", e l'ottavo giorno è il giorno del "Te Deum laudamus", i giorni feriali della settimana sono i giorni del “Padre nostro”. L'impegno di collaborare col disegno di Dio per la salvezza del mondo, che 56
Mt.11,28-29
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cos'è se non un modo concreto di dire al Padre che "sia santificato il suo nome, che venga il suo regno e che si compia la sua volontà qui sulla terra con la perfezione e la compiutezza con cui si compie nel cielo? Recitare il Padre nostro con la vita, corrispondendo ogni giorno al disegno di Dio e alla sua grazia è far camminare l'umanità verso la "terra promessa", verso il luogo del riposo, quando completato il numero degli eletti, Dio sarà tutto in tutti e tergerà ogni lagrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate.57 Allora non ci sarà più distinzione tra "lavoro e riposo" perché il nostro riposo sarà la beatitudine e il nostro lavoro sarà cantare senza fine la lode di Dio, di colui che tutte le creature del cielo e della terra proclameranno tre volte Santo, per sempre.
57 Ap.
21,4
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L U N E D I’
35 – La devozione Ci siamo fermati a lungo sul valore e sul significato della domenica perché la liturgia della Chiesa, fin dagli inizi e facendo eco al terzo comandamento, ha dato al primo giorno della settimana un'importanza primaria e fondamentale. Gli altri giorni della settimana si continuò ad indicarli e a numerarli col nome generico di ferie. Ma lungo i secoli la pietà cristiana è andata collegando i sei giorni della settimana con particolari devozioni quasi volesse soppiantare i riferimenti astrali o idolatrici che essi avevano nel mondo pagano. L'influsso maggiore sul ciclo settimanale l'ha esercitato da principio la Settimana Santa, soprattutto con il Triduo pasquale che orientava la pietà dei fedeli verso i Misteri della Passione del Signore, includendo nel Triduo anche il mercoledì (giorno del tradimento di Giuda), giorno di penitenza e di digiuno. Ma l'impulso decisivo venne dalla riforma liturgica adottata da Carlo Magno, nel sec. VIII; egli inserì nel Sacramentario (antico messale) sette formulari di messe votive per i giorni della settimana, formulari elaborati probabilmente dal monaco benedettino irlandese Alcuino. Successivamente vennero aggiunti altri formulari, variamente utilizzati; essi finirono per associare ad ogni giorno della settimana alcune 97
devozioni che si prestavano ad alimentare la pietà e a dare concretezza alla devozione. Ma che cosa intendiamo per “devozione”? In uno dei suoi significati più comuni, essa indica un rapporto particolarmente profondo e vivo con una persona: un rapporto che implica rispetto e venerazione. Si parla così di devozione verso i genitori, verso persone costituite in autorità, ma soprattutto si parla di devozione verso Dio, verso Gesù Cristo e le persone a lui vicine, in particolare verso la Vergine e i Santi. La devozione coinvolge soprattutto i sentimenti dell'animo, muove il cuore; è fatta perciò di fiducia, di affetto, di affidamento alla persona che è oggetto di devozione. Si stabilisce una sorta di "simpatia", cioè di intesa affettiva e di comunanza di sentimenti tra la persona devota e il santo, simpatia che si esprime in atti di devozione come la venerazione delle immagini, il culto delle reliquie, la celebrazione della festa, offerte votive di fiori, di ceri, di cose personali care o preziose, pellegrinaggi, ecc. Quando poi la devozione si dirige alle Persone divine, allora essa si esprime in sentimenti di adorazione, di lode, di ringraziamento. La componente affettiva, che spesso viene intensamente coinvolta, può esporre la devozione al pericolo di varie deformazioni, quali il sentimentalismo superficiale e puramente emotivo, forme strane di pratiche devozionali che sfiorano la superstizione, maniere goffe e affettate di religiosità che prendono l'aspetto del bigottismo. Tutto questo rende antipatica la devozione e rischia di allontanare molte anime "normali" dalla fede. Invece occorre, appunto, normalità. La normalità nelle devozioni presenta due elementi essenziali: la semplicità e l'autenticità. La semplicità riguarda l'atteggiamento e le disposizioni interiori della persona devota. 98
Essere semplici non è facile, specialmente nelle persone adulte; in esse prevale l'aspetto "sociale" nelle relazioni con le persone, mentre la semplicità è caratterizzata dall'aspetto "famigliare" nel rapporto con gli altri. In famiglia non ci sono le complicazioni, le forzature, le coperture che spesso prevalgono nella vita sociale. Per capire e vivere le devozioni - la devozione a Gesù Cristo, alla Madonna, ai Santi - occorre ritrovare la dimensione famigliare del nostro rapporto con Dio, occorre, se necessario, farci piccoli, semplici come bambini; occorre la "pietà". Intendiamo qui la pietà vera, nel suo significato cristiano più autentico e profondo, quello che corrisponde al dono dello Spirito Santo, il dono, appunto, della Pietà. E' il dono che ci dà il senso gustoso e gioioso della nostra filiazione divina, della dimensione appunto famigliare e filiale del nostro rapporto con Dio. Farci piccoli e saper tornare semplici come bambini è una vera conversione alla quale Gesù stesso ci chiama. Certamente nell'adulto questa semplicità di bambini deve irrobustirsi con una solida pietà dottrinale che tiene la devozione, soprattutto se intensa e fervorosa, solidamente ancorata alle verità della fede. "Pietà di bambini e dottrina di sicuri teologi" era solito dire San J. Escrivà,58 ed è come dire che alla semplicità deve andare unita l'autenticità. E' questo l'altro elemento della vera devozione e riguarda il contenuto delle devozioni. Deve essere un contenuto dottrinalmente sicuro, approvato dalla Chiesa, che ha almeno implicitamente il suo riscontro nella Liturgia. Una pietà liturgica ha già in sé una garanzia di autenticità. 58
San J. Escrivà, E' Gesù che passa, n. 10
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E proprio con l'occhio rivolto alla Liturgia della Chiesa possiamo ora vedere le devozioni che la pietà cristiana ha collegato con i singoli giorni della settimana. 36 – Devozione alla Santissima Trinità La "feria seconda" della settimana era per i Romani il giorno della Luna, il Lunedì. Nella pietà cristiana andò formandosi la tradizione di dedicare il lunedì a due devozioni: la devozione alla Santissima Trinità e la devozione alle Anime del Purgatorio. Sembrano devozioni molto lontane tra loro, in realtà fanno ambedue riferimento alla Liturgia domenicale. Abbiamo visto, infatti, che la domenica è il Giorno del Signore, delle sue "opere", ed è il giorno della Chiesa. Ora, la nostra anima, quando è mossa dalla fede e dall'amore, sente il bisogno di passare dalla celebrazione delle opere di Dio alla contemplazione del mistero stesso di Dio, Uno e Trino, e di vivere un rapporto più profondo con le singole Persone divine. Nel messale romano la prima delle messe votive è appunto quella dedicata al mistero della Santissima Trinità. E' il mistero che racchiude tutta la nostra fede e fonda l'essenza stessa della vita cristiana. Infatti anche il mistero di Cristo discende dal mistero trinitario, tanto che San Giovanni ha potuto scrivere che tutto il vissuto della fede cristiana sta nel rapporto intimo - conversatio - con il Padre, con il Figlio nello Spirito Santo. La vita cristiana è dunque "vita trinitaria", e noi, senza la rivelazione di questo mistero, mai avremmo potuto conoscere Dio veramente e con pienezza. 100
Dio è amore, e l'amore è "effusivo", ha bisogno cioè di manifestarsi e di comunicarsi. E quanto più l'amore è grande e profondo, tanto più tende ad effondersi e a donarsi in ciò che di più personale e di più intimo esso possiede. Ora, essendo puro e solo Amore, Dio non può che rivelare sé stesso, la sua intimità più profonda. La Trinità è appunto "l'intimità di Dio", l'abisso abbagliante della sua vita intima, che è vita tri-personale. La Trinità costituisce dunque ciò che è più proprio di Dio, esclusivo e costitutivo del suo Essere divino. Nessuno avrebbe potuto conoscere questo mistero se Dio non lo avesse rivelato; è perciò il mistero qualificante ed esclusivo della fede cristiana. In ogni altra religione l'unità di Dio rimane qualcosa di vago e astratto, tanto che la divinità stessa resta così lontana da perdere quasi ogni legame con il mondo e con gli uomini. Oppure si arriva a considerare le perfezioni divine come altrettanti dei, che spesso degenerano in forme umane con i limiti e le debolezze proprie degli uomini. D'altra parte, il politeismo delle religioni, frantumando l'unità di Dio, ne falsa profondamente il concetto e la natura, e ne corrompe il culto. La stessa Trimurti induista non è che una forma di politeismo che, in mezzo a una innumerevole moltitudine di divinità minori, ricorda solo numericamente la Trinità ma non contiene alcuna analogia col grande mistero della nostra fede. D'altro lato, il monoteismo islamico, pur affermando un unico Dio, personale e trascendente, giusto e rimuneratore, considera la divinità come qualcosa di monolitico, che incombe sull'uomo, lasciando ben poco spazio alla sua libertà e vincolandolo con un rapporto prevalentemente esteriore, legale e cultuale. Oltre al mistero trinitario, l'Islamismo ignora completamente il mistero 101
della grazia; non riconosce in Gesù il Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto per noi, il quale ha ottenuto che gli uomini vivessero un rapporto con Dio totalmente nuovo e gratuito, quello di figli. Anche il codice della religiosità islamica - il Corano - viene applicato come legge sociale e ordinamento politico, mentre il culto assorbe gran parte della morale. In realtà, il Dio rivelatosi in Gesù è Padre, Figlio e Spirito Santo, e si è rivelato come il Signore di tutti i popoli della terra e insieme come Redentore di ogni uomo. Ci tornano alla mente nel loro significato più profondo le parole di Gesù alla Samaritana: "Credimi, o donna, è giunto il momento (ed è questo) in cui né su questo monte (il Garizim), né in Gerusalemme adorerete il Padre...".59 In senso allegorico la Samaritana è come la personificazione dell'umanità e i vari mariti che la donna ha avuto possono significare allegoricamente i vari dèi che l'umanità ha adorato e servito. Ma ora Gesù si è seduto al pozzo della nostra sete, sete di verità, la sete bruciante che divora il cuore degli uomini. Gli rispose la donna: ”So che deve venire il Messia; quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa. Le disse Gesù: "Sono io, che ti parlo". Gesù dunque non è un semplice uomo che può avere avuto delle rivelazioni divine, è il Figlio di Dio, l'inviato del Padre; in Lui Dio si è aperto all'uomo, ha spalancato le profondità del suo essere divino, l'infinito mistero della sua vita intima. Cristo ha rivelato Dio all'uomo e, attraverso Cristo, l'uomo può entrare nella "intimità di Dio". Come la Samaritana, anche l'umanità può dire di Cristo: Ecco Colui che mi ha detto tutto quello
59
Gv. 4,21
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che ho fatto, tutti i mariti che ho avuto, tutte le false divinità che ho adorato. 37 – La Trinità: dono d’amore Dio è Amore. La rivelazione che Egli ha fatto della sua vita trinitaria, della sua "intimità", è una solenne conferma di questa commovente verità. Succede così anche nel comportamento umano. Quando una persona ci manifesta il suo mondo interiore, la parte più intima di sé stessa, compie un gesto di grande fiducia e di stima verso di noi. Noi stessi, quando ci confidiamo e apriamo la nostra intimità ad un altro, sentiamo di fare una cosa molto delicata e importante. E' come se facessimo dono di noi stessi, è come se affidassimo ad altri ciò che siamo, ciò che abbiamo di più personale e prezioso. Ebbene, nel manifestarci la sua intimità, la sua vita trinitaria, Dio ha voluto compiere verso di noi il più grande gesto d'amore. Dio infatti non si è limitato a farci conoscere il mistero del suo essere tripersonale, ce ne ha fatto dono realmente, ci ha introdotti a partecipare alla sua intimità. Così il Padre ha voluto che la sua paternità nella quale genera eternamente il Figlio, si estendesse anche a noi, e ci ha fatti "figli adottivi"; il Figlio, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce 60 e diventando così "figlio dell'uomo" si è fatto nostro 60
Fil. 2,6 - 8
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fratello primogenito; infine, lo Spirito Santo che "inabita" nel Padre e nel Figlio come loro Amore, volle estendere la sua inabitazione in noi effondendosi nei nostri cuori, diventando "l'ospite dolce" della nostra anima. Dio, che cosa poteva fare di più per noi? A pensarci bene, c'è da impazzire di felicità, di commozione, di gratitudine; e c'è anche da coprirci di vergogna per la nostra indifferenza, ignoranza e ingratitudine. Solo in cielo avremo l'esperienza diretta di questo Abisso di luce e di gloria, di questo Oceano senza sponde, quando immersi totalmente nel mistero trinitario, contempleremo le singole Persone divine nelle relazioni ineffabili che le distinguono e insieme nella infinita unità della loro unica natura divina. 38 – L’inabitazione della S.ma Trinità nell’anima Abbiamo detto che la vita cristiana è vita trinitaria, è l'intimità col Padre, con il Figlio e con lo Spirito Santo. Perciò la devozione alla Santissima Trinità non è una semplice devozione ma è l'essenza stessa della vita cristiana. Il fondamento di questa devozione sta appunto in quella verità consolantissima che esprime l'amore infinito di Dio per noi: l'inabitazione delle tre Persone divine nella nostra anima in grazia. Gesù afferma esplicitamente che se uno lo ama e fa la volontà del Padre “verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.61 Sappiamo poi che nel Battesimo Dio ha santificato la nostra anima e ci ha fatti diventare tempio della sua inabitazione. 61
Gv. 14,23
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Ma la devozione alla Santissima Trinità, oltre che una diretta conseguenza della inabitazione divina è anche la caratteristica che esprime lo sviluppo autentico della vita battesimale. Possiamo dire che il tratto intimo con le singole Persone della Santissima Trinità rappresenta il vertice più alto della pietà cristiana. "Il cuore sente il bisogno, allora, di distinguere le Persone divine e di adorarle a una a una. In un certo senso, questa scoperta che l'anima fa nella vita soprannaturale è simile a quella di un infante che apre gli occhi all'esistenza. L'anima si intrattiene amorosamente con il Padre, con il Figlio, con lo Spirito Santo; e si sottomette agevolmente all'attività del Paraclito vivificante, che ci viene dato senza nostro merito: i doni e le virtù soprannaturali!".62 L'inabitazione della Trinità nella nostra anima ci porta a rientrare in noi stessi, a scendere profondamente nell'intimo della nostra coscienza e ad aprirci totalmente a Colui che è l'unico, vero, interlocutore del cuore umano e che, secondo l'espressione di Sant'Agostino, è “intimior intimo meo"63, è cioè presente al mio essere più intimamente di quanto non sia presente io a me stesso. Questo non significa che la devozione alla Santissima Trinità sia intimistica, una sorta di ripiegamento su noi stessi o di chiusura nel nostro io. Tutt'altro! Il rapporto con le tre Persone Divine, quando è vissuto con pietà autentica e sincera, ci porta invece fuori dal nostro isolamento egoistico e dalla nostra mediocrità. Avvertiamo che Dio prende la nostra anima e le fa sentire che Egli "in altis habitat" - abita le altezze, le altezze vertiginose della santità assoluta, davanti alla quale la nostra anima si sente infinitamente piccola e impotente, e le vie62 63
San J. Escrivà, Amici di Dio, n. 306 Confessioni, 3,6,11
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ne spontaneo il grido di Pietro sul lago di Tiberiade: Iube me venire ad te! Signore, comandamelo tu di venire fino a te! Così l'anima si rivolge innanzitutto al Padre, lo invoca e gli chiede di salire fino al suo cuore: ad cor tuum, dives in misericordia, fino a te, o Padre mio, fino al tuo cuore paterno, ricco di misericordia! Pensando allora alla caratteristica che identifica la prima Persona, la paternità, ci torna alla memoria la figura commovente del Padre buono nella parabola evangelica di Luca, quel padre che non ha cessato un solo giorno di scrutare l'orizzonte in attesa del figlio che l'aveva abbandonato, quel padre che, scorgendo la figura barcollante del figlio, ridotto da una vita disordinata e dalla sua stupidità ad un rudere irriconoscibile, "quand'era ancora lontano, gli corse incontro commosso, gli si gettò al collo e lo baciò".64 E ci immaginiamo la forza di quelle braccia immense che avvolgono, come per nasconderla, la miseria e le ferite del figlio ritrovato, la tenerezza di quell'abbraccio interminabile, il calore di quelle lagrime che rigavano la polvere su quel povero corpo sfinito per l'inedia e la fatica, che si sforzava di mormorare: "Non sono più tuo figlio!". Un figlio perduto e ritrovato, un figlio tornato a vivere sul petto di suo padre, dal quale uscivano, come esplosioni di misericordia, i battiti di un cuore capace solo di amare. E ripetutamente gli diciamo: "Padre mio, fammi salire fino a te, fino al tuo cuore ricco di misericordia!" La nostra anima si rivolge poi al Figlio, perché la strada che porta alla casa paterna, alle braccia del Padre ricco di misericordia, non l'hanno tracciata gli 64
Lc. 15,20
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uomini, non l'abbiamo aperta noi con la nostra volontà umana, l'ha tracciata con le sue orme insanguinate il Figlio di Dio fatto uomo, Gesù, seconda Persona della Santissima Trinità. Egli, facendoci partecipi della sua filiazione divina, che è la caratteristica che lo identifica, si è fatto per noi strada e cammino di salvezza: ”Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me... Io sono la Via, la Verità, la Vita”.65 Così, la strada del nostro ritorno l'ha scavata la croce sulla Carne del Figlio dell'uomo, dove l'Amore ha aperto brecce ormai per sempre spalancate sull'oceano della misericordia divina. Lì trova rifugio la nostra debolezza, lì ricevono sollievo le nostre ferite, di lì passa la nostra fatica di peccatori che vogliono dimenticare le ghiande contese ai porci. E la nostra invocazione: "Comandami, Signore, di venire fino a te!" diventa allora un grido umile e forte all'Umanità crocifissa di Cristo: "Intra tua vulnera absconde me!, dentro le tue ferite nascondimi, o Signore!" "Dentro le tue ferite! ...Incomincia così la nostra divina avventura che ci porta a "scoprire" a una a una le piaghe aperte di Cristo crocifisso. La piaga delle mani, quelle mani che tanto hanno operato sulla nostra umanità smarrita e dolente: la mano destra, che ha accarezzato bambini, che ha risanato infermi, sollevato peccatori e si è posata dolcemente sul capo di Giovanni; la mano sinistra, così forte nel cacciare demoni, così decisa nel vibrare la frusta contro i venditori del tempio, così tremante di tristezza nell'offrire il boccone al traditore svelato; e poi le ferite dei piedi, quei piedi che tanto hanno camminato sulle strade degli uomini in fuga dalla casa paterna, i 65
Gv. 14,6
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piedi che si sono impolverati, affaticati e feriti sui sentieri del Tabor, sulle pietre della via dolorosa, i piedi che lagrime di pentimento hanno lavato, che baci ardenti hanno coperto d'amore, che olio di nardo prezioso ha impregnato di devozione; i piedi di Dio, che hanno lasciato sulla terra orme divine per i piedi degli uomini, per i piedi di quanti vogliono seguirlo per annunciare nel mondo il suo amore e la sua pace. "Dentro le tue piaghe nascondimi!"... E' un modo efficace per entrare nella vita di Cristo e percorrere il cammino del pentimento, della purificazione, della conversione che porta alla casa paterna. "Ti sei "messo" nella Piaga santissima della mano destra del tuo Signore, e mi hai domandato: "Se una sola ferita di Cristo lava, risana, acquieta, fortifica e infiamma e innamora, che mai faranno le cinque Piaghe aperte sul legno della Croce?".66 Fra quelle cinque piaghe, la grande ferita che porta all'intimità con Dio, ad incontrare la misericordia del Padre e la grazia dello Spirito Santo, è la ferita del costato: “Uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia...” - il testo latino dice "aperuit", gli aprì; non la lancia ma l'amore ha spalancato il Cuore del Figlio di Dio - Da quella piaga si è aperto l'Oceano ed è traboccato sul mondo: "...e subito ne uscì sangue ed acqua".67 Il sangue, le ultime gocce di sangue: esse esprimono il sacrificio totale di Cristo, il quale avendo amato i suoi, li amò sino alla fine, e l'acqua: essa indica il dono dello Spirito Santo; perciò il sangue e l'acqua alludono alla Eucaristia e al Battesimo, i sacramenti che edificano la Chiesa. E' 66 67
San Escrivà, Cammino, n. 555 Gv. 19,34
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lei la Sposa, senza ruga e senza macchia, nata dal fianco di Cristo crocifisso. A questa Piaga, breccia immensa e dolcissima del Cuore di Cristo ormai spalancato per sempre sull'Oceano della misericordia, a questa Piaga alludeva Gesù quando disse: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascoli (...) Sono venuto infatti perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza”.68 A tutto questo vogliamo pensare quando guardiamo a Gesù Crocifisso e gli diciamo: "Dentro le tue piaghe nascondimi, o Signore". Dal fianco trafitto di Cristo è sgorgata l'acqua salutare e vitale che allude allo Spirito Santo, terza Persona della Santissima Trinità. Dono di Dio, dono meritatoci da Cristo, lo Spirito Santo è stato effuso nella nostra anima per essere luce e guida alla verità di Dio: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità (...) Egli vi guiderà alla verità tutta intera”.69 Perciò lo Spirito Santo, nella caratteristica che lo identifica, la spirazione divina, per cui egli procede dal Padre e dal Figlio, diventa per noi anche guida che conduce al Padre e al Figlio; Egli è perciò la Luce dell'Amore, è lo "splendore" della Verità. Così, la nostra preghiera: "Jube me venire ad te, comandami, Signore, di venire fino a te!" si completa con l'invocazione: "ad lucem quam inhabitas!, fino a te, fino alla luce nella quale abiti!" Lo Spirito Santo abita nella luce, è lo splendore della luce. E' la Montagna di Dio. La vetta di una montagna è sempre nella luce. Si veste di luce nel primo mattino quando ancora le tenebre ristagnano nelle valli e nelle 68 69
Gv. 10,10 Gv. 16,16
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pianure, rimane immersa nella luce anche dopo il tramonto del sole quando le tenebre hanno già invaso la terra. Perfino di notte una montagna rimane in certo qual modo luminosa, come se una luce incantata, quella di tutte le stelle del firmamento, la toccasse. Abitare nella luce è abitare nello Spirito Santo. Egli conduce al Padre e al Figlio, allo splendore della Verità. Jube me venire! dimmi tu di salire fino a te, Signore, ad lucem quam inhabitas!, alla luce dove tu abiti, eternamente! Padre dia! Gesù:
Jube me venire ad te: ad cor tuum, dives in misericor-
Jube me venire ad te: intra tua vulnera! Spirito Santo Jube me venire ad te ad lucem quam inhabitas! Queste giaculatorie che rivolgiamo alle singole Persone della Santissima Trinità possono aiutarci a vivere un rapporto sempre più intimo e profondo con Dio che, per mezzo della grazia, si è fatto presente e inabitante nella nostra anima. 39 – La devozione alle anime del Purgatorio. Dicevamo anche che il lunedì è dedicato dalla pietà cristiana al suffragio e alla devozione alle anime del Purgatorio. Il culto dei morti è stato praticato da sempre presso gli uomini, ma diventa per noi cristiani espressione di fondamentali verità della nostra fede. Nella domenica celebriamo le opere di Dio, il lunedì contempliamo 110
Dio stesso nella sua unità trinitaria; similmente, nella domenica celebriamo il mistero della Chiesa pellegrinante, il lunedì ricordiamo la Chiesa purgante; ricordiamo cioè le anime che, avendo terminato il loro viaggio terreno, hanno bisogno di essere purificate per entrare nella visione beatifica della Santissima Trinità. E' una verità rivelata da Dio che, dopo la nostra morte, “tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male”.70 Come avvenga questo giudizio è variamente descritto dai teologi e dai santi. La cosa importante è che l'anima, dopo la morte, viene a trovarsi "sola" con il suo Dio; sola, cioè senza veli, senza schermi, senza lo specchio del corpo che le faceva percepire i suoi moti, le sue decisioni, il suo atteggiamento più profondo: il suo "essere-nel-tempo". Ora, Dio è il tre-volte-Santo, la santità assoluta, e nulla di imperfetto o di minimamente impuro può coesistere con la perfetta comunione con lui, dalla quale deriva la nostra beatitudine eterna. Un'anima che, al momento della morte, non abbia completato la sua purificazione da tutto ciò che è incompatibile col perfetto amore di Dio - peccati veniali, abitudini non completamente rettificate, attaccamenti disordinati alle cose di questo mondo, peccati ai quali non è seguito un perfetto pentimento o un'adeguata penitenza, ecc. - un'anima in siffatte condizioni non è pronta per entrare nella vita eterna, cioè nella gloria del Cielo. E' necessaria una purificazione che solo Dio, con la sua misericordiosa giustizia, può compiere. Infatti, separata dal suo corpo, l'anima ha cessato il suo "essere-nel-tempo", 70
2 Cor. 5,10
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e rimane perciò impotente, incapace di compiere una qualsiasi cosa per sé stessa. E pur ardendo di intenso desiderio di purificazione, perché l'amore di Dio è ormai perfetto e definitivo in lei, non può essere aiutata che da altri. Il Purgatorio - così si chiama la condizione della anime che hanno bisogno di completare la loro purificazione - ci rivela così una bellissima e commovente verità della nostra fede: la Comunione dei Santi. Noi, che formiamo la Chiesa ancora pellegrina sulla terra, possiamo aiutare i nostri fratelli della Chiesa purgante con la preghiera, con i suffragi, attingendo ai meriti di Cristo, della Vergine e dei Santi; soprattutto possiamo ricorrere al sacrificio eucaristico della Santa Messa. D'altra parte, le anime del Purgatorio possono pregare e intercedere per noi, per le nostre necessità, particolarmente per le necessità spirituali. "Le anime sante del Purgatorio. - Per dovere di carità, di giustizia, e anche per giustificabile egoismo - sono così potenti davanti a Dio! - tienile molto presenti nei tuoi sacrifici e nella tua orazione. Potessi tu dire, nel nominarle: "Le mie buone amiche, le anime del Purgatorio...".71 40 – I suffragi Come ogni trasgressione, anche il peccato comporta una colpa e una pena. Ci sono colpe "mortali" che comportano una pena eterna perché ci separano da Dio e ci fanno perdere la comunione con Lui, e ci sono altre colpe, dette veniali, che non ci separano da Dio ma ci 71
San Escrivà, Cammino, n. 571
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raffreddano nell'amore verso di Lui e comportano una pena temporale. La colpa viene tolta da Dio con il pentimento sincero e con la contrizione del cuore nel Sacramento del Perdono, la pena viene cancellata con la riparazione e l'espiazione. Perciò "il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell'"uomo vecchio" e a rivestire "l'uomo nuovo".72 Una possibilità di remissione della pena temporale per i peccati già rimessi quanto alla colpa è offerta dalla Chiesa con le indulgenze. La Chiesa è ministra della Redenzione, e ha ricevuto l'autorità di attingere al tesoro dell'espiazione di Cristo, della Vergine e dei Santi per dispensarlo alle anime che abbiano le dovute disposizioni. Le anime del Purgatorio presentano le necessarie disposizioni perché sono ormai pervase dall'amore di Dio che le spinge a un vivo desiderio di espiazione. Fin dai primi tempi la Chiesa ha fatto memoria dei defunti e ha offerto suffragi per la loro purificazione. Lo testimoniano le innumerevoli invocazioni disseminate nei cimiteri cristiani e soprattutto la Liturgia per la sepoltura e la commemorazione dei fedeli "che si sono addormentati in Cristo". Le varie liturgie eucaristiche per i defunti sono tutte pervase da speranza, da fiducia nella misericordia di Dio alla quale viene affidata l'anima che ha lasciato questo mondo, perché, purificata totalmente dal 72
Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1473
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sacrificio e dal sangue di Cristo, possa entrare nel "riposo e nella pace" del Cielo. Perciò, preghiere di suffragio, elemosine, indulgenze, e soprattutto il sacrificio della Santa Messa costituiscono un modo squisito e assai gradito a Dio di praticare l’amore fraterno verso i defunti e di vivere la Comunione dei Santi. La stessa commemorazione liturgica del 2 novembre è nata come prolungamento e completamento della solennità di Tutti i Santi. Sappiamo che la morte non spezza i legami che ci uniscono a Cristo e nemmeno i legami che, per la fede in Cristo, ci tengono uniti ai nostri cari, anzi, essi diventano stabili e ancor più profondi; solo l'inferno ci distacca totalmente e per sempre da Dio e perciò perdiamo irrimediabilmente i nostri cari. Nel Purgatorio le anime sono assetate di Dio, e il desiderio di dargli gloria e di lodarlo nel cielo le divora. Il loro amore a Dio, ormai perfetto, e la brama di purificarsi le rende immensamente gradite al Signore, e perciò Egli è incline ad esaudirle nelle preghiere che esse gli rivolgono per noi. Si stabilisce perciò una meravigliosa comunione di beni tra i santi che sono in cielo, i defunti che stanno in attesa della vita eterna e noi che ancora stiamo lottando sulla terra per mantenerci fedeli e arrivare alla meta. Nel dedicare la feria del lunedì alla memoria dei defunti, la Liturgia della Chiesa e la pietà cristiana si trovano così misticamente concordi nel celebrare la misericordia del Signore che purifica e che salva, nel proclamare davanti agli uomini la propria fede nella resurrezione della carne e nella vita eterna, e nell'impetrare per i defunti la luce e il riposo eterno.
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MARTED Ì
41 – Devozione agli Angeli Custodi La pietà cristiana ha dedicato la feria terza, giorno intitolato a Marte, dio della guerra - dies Martis, martedì - alla devozione verso gli Angeli Custodi, a quegli spiriti celesti che hanno ricevuto da Dio il compito di mettersi a custodia e a difesa degli uomini durante il tempo della prova, il tempo della loro vita terrena. Nella Bibbia, sono molti i passi che fanno riferimento agli spiriti celesti e ce ne descrivono i ruoli e le mansioni. Possiamo riassumerli in tre incarichi principali. Innanzitutto gli angeli hanno l'incarico di proteggere e difendere le creature di Dio in particolare le creature umane; stanno poi davanti a Dio per servirlo e sono suoi messaggeri presso gli uomini; infine portano davanti al trono di Dio le nostre preghiere, i nostri sacrifici e le nostre opere buone. Gli Angeli sono chiamati "milizie celesti" perché hanno contrastato il demonio e i suoi angeli ribelli a Dio. “Ci fu grande battaglia in cielo: Michele e i suoi Angeli combatterono contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo”.73 Quella battaglia non è fini73 Ap.
12,7 - 9
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ta, si è spostata sulla terra. Il demonio ha sedotto l'umanità trascinandola nella ribellione e, benché sconfitto da Cristo, esso continua a contendersi il cuore degli uomini. La vita dell'uomo sulla terra è diventata così "una milizia" - Militia est vita hominis super terram -. E’ una battaglia che si combatte su più fronti: uno è dentro di noi, ed è costituito dal disordine delle passioni provocato in noi dal peccato. Un altro è quello aperto dalle continue insidie del Maligno, che viene descritto da San Pietro come "un leone ruggente che ci gira attorno cercando chi divorare".74 Effettivamente, non potendo nulla contro Dio, il demonio e i suoi angeli si accaniscono contro l'uomo che porta l'immagine di Dio. Un altro fronte ancora vede in azione i complici e gli alleati del maligno, cioè lo spirito del mondo e i suoi discepoli. Ebbene, il Signore non ci ha lasciati soli in questa battaglia; i suoi Angeli, che hanno contrastato Lucifero nel cielo, continuano la loro battaglia sulla terra proteggendo ed aiutando tutti noi nella lotta contro l’angelo delle tenebre e contro il suo potere. E' poi convinzione diffusa nella tradizione della Chiesa che, non solo le singole persone hanno il loro angelo custode, ma anche le famiglie, le istituzioni, le città, gli Stati; le persone stesse che siano rivestite di una particolare missione hanno un angelo tutelare; così i genitori, i sacerdoti, i vescovi... hanno un loro angelo "ministeriale". Il Signore sa che la nostra battaglia non conosce frontiere né di spazio né di tempo; il demonio e i suoi angeli non si concedono tregua: seminano errori, suscitano eresie, diffondono menzogne; non solo, ma cercano anche di impedire in tutti i modi l'azione salvifica della 74
1 Pt. 5,8
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Chiesa: ostacolano il lavoro dei sacerdoti e dei genitori cristiani, suggestionano l'intelligenza di molti con dottrine false e talvolta deliranti, scatenano persecuzioni ora subdole, ora violente contro la Chiesa, seminano divisioni nelle famiglie e nella società, sollevano popolo contro popolo scatenando guerre crudeli e feroci... In questa lotta dove entrano la cattiveria umana e l'azione del demonio in un miscuglio funesto e tragico possiamo contare innanzitutto sulla grazia che Dio non ci fa mai mancare, e sulla potente protezione della Madonna che possiamo ben chiamare "terrore dei demoni", ma anche sull'aiuto e sulla collaborazione di quegli spiriti celesti che Dio ha mandato a nostra custodia e protezione. Sacerdoti e Vescovi per la comunità dei fedeli, ma anche governatori di città e reggitori di popoli possono affidarsi alla potente custodia degli angeli tutelari. Soprattutto i genitori dovrebbero coltivare la cristiana abitudine di ricorrere tutte le sere agli angeli custodi della loro famiglia e della loro casa. Così dice una preghiera della Chiesa: "O Dio onnipotente ed eterno, manda dal cielo il tuo santo angelo a custodire, confortare, proteggere, visitare e difendere quanti abitano questa casa". 42 – Gli Angeli: nostri amici Gli Angeli Custodi, pur essendo al nostro fianco come amici e compagni di viaggio, e come protettori e alleati nelle nostre battaglie contro il male, non hanno lasciato la loro condizione di spiriti beati, cioè di spiriti che godono in cielo la visione di Dio e della sua gloria. Gesù stesso, richiamando duramente coloro che attentano al117
l'innocenza dei bambini, ammoniva: “I loro Angeli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”.75 Da questa condizione inerente al loro stato di beatitudine discende l'altra missione loro affidata da Dio, missione che la Chiesa ci ricorda nella sua Liturgia: "Fa o Signore, che possiamo godere la protezione degli Spiriti beati che stanno sempre davanti a te per servirti e contemplano la gloria del tuo volto". Gli Angeli dunque stanno accanto a noi per proteggerci e stanno davanti a Dio per servirlo. Essi servono Dio sia come "potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola" 76, sia come messaggeri - "angeli" - di Dio presso gli uomini. Nella Bibbia si narrano molti episodi nei quali gli Angeli sono annunciatori dei comandi e delle opere di Dio agli uomini. I più noti e i più importanti sono certamente quelli che riguardano la vita di Cristo. E' l'Arcangelo Gabriele che annuncia a Maria il disegno di Dio che la voleva Madre del Redentore; è il coro festoso degli angeli che nel cielo di Betlemme annuncia la nascita del Salvatore; è l'angelo che in sogno indica a Giuseppe le decisioni da prendere in conformità ai compiti che Dio gli affidava; sono ancora gli Angeli che annunciano alle donne che Gesù è risorto e poi ricordano agli apostoli che Gesù, salito al cielo, tornerà alla fine dei tempi. Ora, questo ruolo di messaggeri di Dio, gli Angeli continuano a svolgerlo per ciascuno di noi. Sono gli Angeli custodi che, con le loro ispirazioni, i loro suggerimenti, le loro luci interiori vanno ricordandoci la volontà di Dio, le sue "chiamate", incoraggiandoci ad essere anche noi docili e fedeli ai suoi comandi. 75 76
Mt. 18,10 Salmo 103,2
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Molti cristiani pensano che la devozione agli Angeli custodi sia una devozione per bambini; non avendo essi né esperienza, né capacità di difendersi, la provvidenza di Dio li avrebbe affidati alla custodia di un angelo; quando, infatti, si è adulti servono molto di più l'esperienza, la scaltrezza, le proprie risorse personali per affrontare le contingenze della vita. Troviamo invece che Gesù stesso, fatto adulto e umanamente in pieno possesso della sua forza, nei momenti più impegnativi e decisivi della sua missione è attorniato ed assistito dagli Angeli. Così, dopo il suo digiuno nel deserto e nella sua lotta contro il Maligno: ...Vennero gli Angeli e lo servivano; così nel momento più duro della sua lotta, l'agonia nell'orto degli ulivi, venne un angelo a confortarlo. Perciò, siamo noi adulti che abbiamo maggiormente bisogno dell'aiuto degli Angeli, noi adulti nelle nostre lotte interiori, nelle tentazioni e nelle insidie tese dal Nemico, nei momenti delle decisioni più impegnative della vita, noi adulti con tanto di esperienza e di vita vissuta, consapevoli e sicuri di noi stessi e delle nostre forze e tuttavia così facili all'inganno della superbia, così inclini alla presunzione e alle sicurezze mondane, mai al sicuro dalla improvvise impennate delle passioni. Non solo dunque i bambini ma anche noi adulti dobbiamo ricordarci che i nostri angeli "vedono sempre la faccia del Padre che è nei cieli" e che abbiamo bisogno delle loro ispirazioni quando dobbiamo insegnare, esortare, consigliare, prendere decisioni per noi o per gli altri. La devozione agli Angeli custodi può fare un gran bene alla nostra anima ed essere di grande efficacia nell'apostolato. Quando vogliamo avvicinare a Dio persone che sono lontane dalla fede o dalla vita cristiana, gli Angeli custodi di quelle persone e quelli nostri possono es119
sere buoni complici del nostro lavoro ed efficaci collaboratori della grazia di Dio. Non dimentichiamo che anche noi dobbiamo essere angeli per i nostri amici, angeli che sanno annunciare Cristo e testimoniare a tutti le grandi opere dell'amore di Dio. 43 – Gli Angeli, nostri messaggeri presso Dio L'essere contemporaneamente davanti a Dio e accanto agli uomini, permette agli angeli di farsi messaggeri di Dio presso gli uomini e insieme ambasciatori degli uomini presso Dio. Nella preghiera eucaristica della Messa il sacerdote si rivolge al Padre con queste parole: "... fa che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull'altare del cielo, davanti alla tua maestà divina...". Gli Angeli stanno dunque intorno all'altare con l'incarico di portare davanti a Dio il sacrificio di Cristo insieme al nostro sacrificio. San Giovanni nell'Apocalisse così descrive questo ruolo degli angeli: “Poi venne un angelo e si fermò all'altare reggendo un incensiere d'oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi (...) e dalla mano dell'angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi.77 Quando l'arcangelo Raffaele, "uno dei sette che stanno sempre davanti al trono di Dio", si manifesta a Tobi e a Sara, dice loro: “Sappiate dunque che, quando tu e Sara eravate in preghiera, io presentavo l'attestato della vostra preghiera davanti alla gloria del Signore”.78 Bossuet, parlando degli angeli custodi, dice 77 Ap. 78
8,3-4 Tob. 12,12
120
che essi "sono angeli di Dio perché egli li manda a noi per assisterci, e sono angeli degli uomini perché noi li rinviamo a Dio per ottenere la sua misericordia. Vengono a noi carichi dei doni di Dio e tornano a Dio carichi delle nostre preghiere; discendono per guidarci e salgono per portare a Dio i nostri desideri e le nostre opere buone".79 Per questo gli angeli sono buoni testimoni della nostra vita davanti a Dio. Se il demonio è il "grande accusatore" degli uomini, gli angeli sono i nostri buoni avvocati. Essi saranno i buoni testimoni del bene da noi compiuto e saranno nostri difensori davanti a Dio nel giorno del giudizio, e infine parteciperanno alla nostra gioia "quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli".80 La devozione agli angeli custodi fa parte della spiritualità cristiana di tutti i tempi, e ha alimentato in varia misura la pietà dei Padri e dei Santi nella Chiesa. Oggi un diffuso atteggiamento di sospetto e di scetticismo circonda questa devozione; ma noi dobbiamo ricorrere con fede e convinzione al nostro angelo custode, affidandogli molti incarichi in molte cose. Non abbiamo sulla terra un amico più potente e più fedele dell'angelo custode. Sarà nostro compagno nel servire Dio qui sulla terra e sarà poi insieme con noi a lodarlo e benedirlo nel Cielo. "L'Angelo custode ci accompagna sempre come testimone di grande spicco. Sarà Lui che, nel tuo giudizio particolare, ricorderà le delicatezze che avrai avuto verso nostro Signore durante la tua vita. Di più: qualora ti sentissi perduto per le tremende accuse del nemico, il tuo Angelo presenterà quegli slanci intimi del cuore forse da te stesso dimenticati - , quelle manifestazioni di 79 80
Bossuet, Sermone per la festa degli Angeli Custodi Mt. 25,31
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amore che avrai dedicato a Dio Padre, a Dio Figlio, a Dio Spirito Santo. Per questo, non dimenticare mai il tuo Angelo Custode, e questo Principe del Cielo non ti abbandonerà né adesso né al momento decisivo".81 44 – Gli Arcangeli Degli angeli che stanno davanti al trono di Dio per servirlo, la Bibbia ne ricorda in particolare tre, attribuendo ad essi un nome che è significativo della loro missione: sono gli Arcangeli San Michele, San Gabriele e San Raffaele. La Liturgia li ricorda insieme il 29 settembre. L'Arcangelo San Michele il cui nome significa "Chi è come Dio?", è ricordato nella Sacra Scrittura come l'antagonista di Lucifero. E' chiamato "Principe delle schiere celesti", perché ha contrastato con i suoi angeli rimasti fedeli la ribellione di Lucifero il quale, sconfitto e scacciato dal cielo, divenne invece il "principe di questo mondo", l'angelo delle tenebre. San Michele viene quindi raffigurato nell'iconografia cristiana come un guerriero, con corazza e spada, ora in atteggiamento di difesa, ora nell'atteggiamento di attacco contro il "drago" (Satana) secondo l'immagine descritta nell'Apocalisse. Perciò San Michele è da sempre invocato come protettore del popolo di Dio, sia dell'antico Israele, sia della Chiesa, il nuovo Israele inaugurato da Cristo. La Liturgia della Chiesa ci ha consegnato bellissime preghiere per chiedere la protezione del grande Ar81
San Escrivà, Solco, n. 693
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cangelo, soprattutto per i tempi di prova, come gli attuali: "O Dio, fa' che il glorioso Principe San Michele venga in aiuto al tuo popolo, e lo difenda contro Satana e i suoi alleati". - “O Arcangelo San Michele, difendici nella lotta; contro le perfide insidie del demonio sii nostro presidio. “Lo respinga Iddio!" imploriamo supplichevoli. E tu, principe delle schiere angeliche, ricaccia nell'inferno, con la forza di Dio, Satana e gli altri spiriti del male che si aggirano nel mondo a rovina delle anime". E proprio a difesa di ogni singola anima San Michele è invocato nel momento della prova decisiva, il momento della morte, quando Satana si contende ogni anima che lascia questo mondo. "Che il vessillifero San Michele presenti quell'anima davanti alla luce santa di Dio”. L'altro Arcangelo ricordato dalla Bibbia è San Gabriele. Il suo nome significa "potenza di Dio". Egli infatti è l'Angelo per eccellenza, il messaggero e annunciatore delle grandi opere di Dio, le opere compiute dalla potenza del Signore. E' il messaggero della vita e della salvezza; preannuncia a Zaccaria il concepimento di Giovanni Battista, e soprattutto annuncia a Santa Maria il concepimento di Gesù. Viene perciò raffigurato quasi sempre nel momento in cui porta il "lieto annuncio" alla Madonna, in atteggiamento di grande venerazione verso la Vergine, alla quale rivolge le parole ormai entrate per sempre nella preghiera del popolo cristiano: "Ave, piena di grazia, il Signore è con te."; un atteggiamento che è anche adorazione del Figlio di Dio fatto uomo nel grembo verginale: “...introducendo il Primogenito nel mondo disse: lo adorino tutti i suoi angeli”. 82 Si pensa poi che 82
Eb. 1,6
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fu San Gabriele l'angelo che nella notte di Natale annunciò ai pastori la nascita del Bambino.83 Nella tradizione cristiana, la missione affidata a San Gabriele, missione di essere annunciatore della vita nascente, ha fatto del grande arcangelo il protettore della famiglia, in particolare delle coppie che desiderano o attendono un figlio. Dopo la Santa famiglia di Nazareth - Gesù, Giuseppe e Maria - la famiglia cristiana non può contare su un protettore e un intercessore più efficace dell'arcangelo San Gabriele. E' una devozione che i genitori cristiani dovrebbero coltivare in modo da prendere ogni figlio che arriva come una visita del dolce arcangelo dell'Annunciazione, sapendo che un figlio non arriva mai da solo ma sempre coperto dalla "potenza di Dio" e accompagnato dalla sua provvidenza. Purtroppo, oggi, molti genitori "temono" l'arrivo di un figlio, lo paventano, e molti lo evitano volutamente, e altri addirittura lo rifiutano o lo uccidono quando è già germogliato nel grembo materno. Si dice che i genitori della società consumistica "hanno ucciso la cicogna"; in realtà rifiutano la visita dell'arcangelo del Signore e soprattutto fanno offesa all'Annunciazione del Signore. Un figlio è qualcosa di eterno, di immensamente prezioso; le ricchezze di questo mondo passano, e passano gli agi, le comodità, i piaceri... come anche finiscono le fatiche, i sacrifici, le lagrime di questa vita; un figlio dura 83
La figura dell'Arcangelo San Gabriele come messaggero di Dio, ha fatto pensare a Maometto di aver ricevuto il suo "Corano" proprio da San Gabriele. E', ovviamente, una contraddizione, dal momento che l'arcangelo non poteva rivelare cose o principi che sono in contrasto e addirittura sono la negazione di quanto aveva rivelato alla Vergine, a Zaccaria, ai pastori di Betlemme. Oppure, se di angelo si è trattato, non può essere stato certamente un angelo del Signore, e tanto meno l'arcangelo San Gabriele.
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per sempre. Nella vita eterna, una sola creatura in più rende felici per sempre il cielo e la terra e costituisce il trofeo più splendido e prezioso per una madre. Le famiglie generose nell'accogliere la vita godono di una particolare protezione dell'arcangelo San Gabriele. La Liturgia lo accomuna sempre al grande evento dell'Incarnazione: quando una donna dice "sì" alla vita, partecipa al fiat di Maria, riceve l'omaggio dell'Arcangelo e godrà del suo aiuto e della sua protezione. Infine, la Bibbia ci ricorda un terzo arcangelo dei sette che stanno sempre davanti alla maestà di Dio: San Raffaele. E' l'arcangelo conosciuto soprattutto come protagonista della storia di Tobia. Quella storia è come il paradigma della vita umana. Tobia, figlio di Tobi, era un ragazzo quando dovette affrontare un lungo viaggio. Inesperto e per nulla pratico della strada cercò chi lo accompagnasse; "...uscì e si trovò davanti l'angelo Raffaele". Tobia non sapeva che fosse un angelo ma ne sperimentò la protezione lungo tutto il viaggio: quell’Angelo lo salvò da molti pericoli, gli fece trovare il suo parente Raguele e dopo averne guarita la figlia, Sara, gliela ottenne in moglie. Riportato Tobia sano e salvo a casa, l'arcangelo guarì anche il padre, Tobi, dalla sua cecità portando consolazione e benedizione su tutta la casa. Raffaele significa appunto "medicina di Dio", Dio guarisce e consola. San Raffaele venne così considerato e invocato come protettore dei giovani, soprattutto dei giovani che stanno intraprendendo il viaggio della loro vita attraverso scelte e decisioni che impegneranno tutta la loro esistenza. Sono le decisioni vocazionali, quelle cioè che costituiscono la risposta a una chiamata di Dio secondo il 125
suo disegno. “Come ridevi, schiettamente, quando ti consigliai di porre i tuoi verdi anni sotto la protezione di San Raffaele! Perché ti conduca, come il giovane Tobia, a un matrimonio santo, con una moglie buona, bella e ricca - ti dissi scherzando. E poi, come sei rimasto pensoso, quando aggiunsi il consiglio di metterti anche sotto il patrocinio dell’apostolo adolescente, Giovanni: se mai il Signore ti chiedesse di più”.84 Del resto, per tutti la vita è un viaggio; un viaggio più o meno lungo, con tante o poche difficoltà, ma per tutti è un viaggio in cui le occasioni di sbagliare strada, di restare vittime di errori o di imboscate, di tentazioni o di stanchezze, sono sempre possibili e rischiano di compromettere la riuscita del nostro cammino. Avere un San Raffaele che ci accompagna, che ci assiste nei momenti più difficili, che ci ottenga la luce necessaria per fare le scelte più giuste e la forza per portare a compimento quello che Dio vuole da noi è un dono prezioso della provvidenza di Dio. A volte l'arcangelo che Dio ci fa incontrare può essere il confessore, un buon direttore spirituale, o anche un amico ben formato che, con l'esempio e il consiglio, ci può aiutare nelle scelte decisive. Del resto, ognuno di noi, se vive vicino a Dio e cura la propria formazione interiore, può diventare lampada che illumina il cammino di quanti gli passano accanto, secondo il monito di Gesù: “Voi siete la luce del mondo”. L'amicizia autentica, sincera e disinteressata, è sempre il mezzo più efficace per farsi compagni di viaggio di chi cerca e desidera l'incontro con Cristo.
84
San J. Escrivà, Cammino, n. 360.
126
45 – La Regina degli Angeli Il culto degli angeli e degli arcangeli appartiene alla più antica tradizione della Chiesa, anche se le loro feste liturgiche - 2 ottobre per gli Angeli Custodi, 29 settembre per gli Arcangeli - appaiono nella Liturgia solo più tardi. Tuttavia il riferimento agli spiriti celesti è ampiamente presente in tutta la liturgia, specialmente nei testi che esprimono la lode e la gloria di Dio. Ricordiamo fra tutti l'inno che introduce la preghiera eucaristica della Messa: il Prefazio. E' un inno che presenta una grande varietà di formule in relazione alla festa liturgica che viene celebrata, ma la conclusione contiene sempre il riferimento agli angeli: "... E noi uniti agli Angeli e agli Arcangeli, ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti cantiamo l'inno della tua lode". Così gli Angeli non cessano di proclamare Dio "tre volte santo", essendo egli il Signore degli eserciti, colui che siede sui Cherubini. Ma la devozione agli angeli è intensamente radicata e diffusa nella pietà cristiana, soprattutto popolare. Un accostamento ormai consacrato dalla tradizione è l'accostamento degli angeli alla Madonna. Raramente si trovano raffigurazioni o immagini della Vergine senza un corredo angelico. Angeli di tutte le "età": putti alati o angeli solenni e forti, e negli atteggiamenti più diversi: dalla venerazione alla difesa, all'atteggiamento di servizio o semplicemente di contemplazione. E' ampiamente giustificato il titolo mariano di "Regina degli Angeli". Inoltre la preghiera all'Angelo Custode e a San Michele Arcangelo, l'invocazione agli angeli all'inizio di un viaggio o per qualche necessità sono ormai entrate nel repertorio delle preghiere di devozione. Ed è a que127
sta pietà cristiana che forse si deve la consuetudine di dedicare agli angeli la liturgia del martedì con la Santa Messa votiva in loro onore. E proprio la preghiera-colletta della Messa votiva può aiutarci a rafforzare in noi la devozione a questi grandi amici di Dio e potenti amici dell'uomo: "O Dio, che chiami gli angeli e gli uomini a cooperare al tuo disegno di salvezza, concedi a noi pellegrini sulla terra la protezione degli spiriti beati, che in cielo stanno davanti a te per servirti e contemplano la gloria del tuo volto".85
85
Preghiera colletta nella festa degli Arcangeli
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M E R C O LE D Ì
46 – La devozione agli Apostoli Nella nomenclatura pagana, il mercoledì - dies Mercurii - era dedicato al dio Mercurio, una divinità alata perché si riteneva che fosse il messaggero degli dei. Questo potrebbe far pensare agli angeli; in realtà nessun accostamento è possibile tra il dio pagano e una qualche entità della nostra fede. La pietà cristiana, invece, ha collegato il mercoledì a due devozioni che sono tra loro molto diverse ma sono accomunate dal riferimento alla realtà della Chiesa: la devozione agli Apostoli e la devozione a San Giuseppe. Sono devozioni che, anche nella Liturgia, hanno acquistato nel corso dei secoli un posto sempre più evidente. Gli Apostoli furono scelti da Gesù in numero di dodici, secondo le dodici tribù d'Israele, a conferma che la Chiesa, edificata sul fondamento degli Apostoli, doveva essere il nuovo Israele, il nuovo popolo di Dio. Nella Liturgia essi vengono ricordati singolarmente con festa propria; non esiste infatti una festa liturgica che li accomuni in un'unica celebrazione. Tuttavia, pur avendo ciascuno personalmente le prerogative proprie del carisma apostolico e pur avendo ognuno doti di natura, di carattere e di appartenenza sociale molto diverse, essi forma129
vano un "collegio", un corpo unitario con a capo San Pietro. Così infatti vengono raffigurati fin dai primi tempi nelle catacombe, nei sarcofagi, nei mosaici absidali delle basiliche: tutti insieme attorno a Cristo rappresentato quasi sempre nelle vesti di Buon Pastore e di Maestro. Naturalmente, il raffigurarli insieme fa intendere che venivano pensati insieme e onorati insieme, tanto che era diventato usuale chiamarli col termine evangelico: i "Dodici". Solo più tardi si sviluppò il culto per i singoli apostoli, culto legato di solito al sorgere delle chiese locali che vantavano la loro fondazione dall'uno o dall'altro dei Dodici. Sta di fatto che gli apostoli hanno sempre evocato nella liturgia e nel pensiero cristiano l'immagine della Chiesa. Oltre ad essere associati alla figura di Cristo come Pastore e Maestro, immagine che richiama le prerogative apostoliche, gli Apostoli venivano ricordati in alcuni momenti particolari, legati alla loro esperienza comune: quello della tempesta sul lago, che ricorda il monito del Signore a non temere le persecuzioni contro la barca della Chiesa perché le "porte degli inferi non prevarranno"86; la moltiplicazione dei pani, che adombrava il compito di distribuire il pane all'umanità affamata di verità e di giustizia. Ma i momenti più significativi furono quelli vissuti nel Cenacolo: l'ultima Cena e la Pentecoste; sono questi gli episodi che ricorrono più frequentemente nelle raffigurazioni. Del resto è nell'ultima Cena che Cristo affida agli Apostoli il suo sacrificio, costituendoli in quel momento sacerdoti, unendo così indissolubilmente Sacerdozio e Sacrificio, le due realtà che costituiscono l’essenza stessa 86
Mt. 16,18
130
della Chiesa come sacramento di salvezza. Spesso l'ultima Cena viene raffigurata nel momento in cui Gesù svela il traditore, dipingendo lo sconcerto e lo stupore sul volto dei Dodici; dal punto di vista umano è certamente il momento più drammatico, ma non è il più importante né il più intenso. Il momento centrale e determinante della Cena è quello in cui Gesù, distribuito il pane e il vino convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue, conclude: “Fate questo in memoria di me”.87 Da quel momento fino alla fine dei tempi la Chiesa, fondata sugli Apostoli, avrà il compito di perpetuare il Sacerdozio e il Sacrificio di Cristo per la salvezza di tutta l'umanità. Gli Apostoli chiameranno quel momento "fractio panis", il rito di “spezzare il Pane”, rito che diventerà il cuore di tutta la Liturgia. L'altro momento che vede gli Apostoli tutti insieme nel Cenacolo è il momento della Pentecoste. Nel Cenacolo sono presenti Maria, gli Apostoli e i pochi discepoli rimasti fedeli. E’ tutta la Chiesa, la Chiesa nascente; ma è ancora come un corpo senza la sua anima. Quando lo Spirito Santo discenderà su Maria e da lei sugli Apostoli e su tutti i presenti, quel corpo viene percorso da un “alito di vita”, e quell’assemblea di persone diventa la Chiesa vivente. E' il vero “momento” degli Apostoli. Se nell'ultima Cena essi diventano sacerdoti di Cristo per tutta la Chiesa, nella Pentecoste vengono consacrati "apostoli" per tutta l'umanità. C'è infine un altro momento, non documentato dai Vangeli ma desunto dalla Tradizione, forse l’ultimo, in cui gli Apostoli sono di nuovo riuniti insieme e richiamano tutta la Chiesa: il momento della "Dormizione del87
Lc. 22,19
131
la Vergine Maria”. Vengono raffigurati intorno al sepolcro vuoto della Madonna o, come nelle icone orientali, intorno al letto regale della loro Regina "addormentata" nelle braccia di Dio. Le feste liturgiche che ricordano questi momenti - il giovedì santo, la Pentecoste, l'Ascensione e l'Assunzione di Maria - non sono propriamente feste degli apostoli, sono semmai feste della Chiesa perché celebrano il "mistero della Chiesa", ma proprio per questo la presenza del Collegio apostolico acquista un valore e un significato determinanti: da allora fino alla fine dei tempi, lì dove sono gli Apostoli, lì troviamo la Chiesa. Ed è per questo che la Chiesa è contrassegnata dalla nota di "apostolica". 47 – La Chiesa è “apostolica” La devozione agli Apostoli in quanto "collegio dei Dodici" - le dodici colonne della Chiesa - come appaiono nei grandi cicli musivi o pittorici delle antiche chiese, non è molto presente nel popolo cristiano, il quale ha invece orientato la sua devozione ai singoli apostoli, soprattutto, com'era naturale, agli apostoli più famosi: Pietro, Paolo, Giovanni, Andrea. La memoria di tutti gli Apostoli si è conservata invece nella liturgia che assegna la Messa votiva degli Apostoli alla feria quarta della settimana, il mercoledì. I testi liturgici che appaiono nella messa votiva non fanno riferimento agli avvenimenti che invece vengono raffigurati dalla iconografia tradizionale, bensì al ruolo e alla missione specifica che i Dodici hanno ricevuto da Cristo stesso: essere testimoni della sua persona e della sua vita, araldi autoritativi del suo Van132
gelo e depositari dei mezzi da Lui istituiti per la salvezza degli uomini: i Sacramenti. Questa missione e questi poteri sono passati ai successori degli Apostoli: il Papa e i Vescovi. Perciò, quando essi agiscono come pastori della Chiesa, agiscono sempre con l'autorità degli Apostoli. Tuttavia i Dodici resteranno il fondamento di tutta la Chiesa; il loro insegnamento - la Tradizione apostolica - resterà per sempre il termine di riferimento della fede di tutti i credenti, e la loro testimonianza la prova irrefutabile per ogni certezza. Per questo saranno anche i giudici delle dodici tribù d'Israele e di quanti hanno fatto parte del gregge di Cristo. Tutto questo lo troviamo espresso nelle preghiere della Messa votiva: "Esulti sempre, o Signore, la tua Chiesa, radunata nella memoria gloriosa dei santi Apostoli, e fedele alla dottrina e all'esempio dei suoi primi pastori, proceda sicura sotto la loro guida e protezione".88 E conclude: "Concedi a noi tuoi fedeli, Signore, ad imitazione della prima comunità cristiana, di perseverare nella dottrina degli Apostoli, nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere". Assieme alla missione apostolica dei Dodici, missione che continua nel tempo l'opera di Cristo, la Liturgia ricorda due aspetti che interessano tutti noi: il loro esempio e la loro protezione. Tutta la Chiesa è apostolica, e non solo perché è fondata sugli Apostoli, ma anche perché è animata da spirito apostolico. Ogni cristiano, sull'esempio degli Apostoli, deve considerarsi e comportarsi da testimone e annunciatore di Cristo. La mattina stessa della 88
Messa votiva degli apostoli: Preghiera - colletta
133
Pentecoste, i Dodici, prima timidi, incerti, addirittura paurosi, si lanciano coraggiosamente nelle piazze di Gerusalemme e nel Tempio, a proclamare Cristo con forza, con sicurezza, con passione. Non hanno timore né vergogna di presentarsi come seguaci di un "giustiziato" sulla croce, di uno che i capi hanno rifiutato e condannato come impostore; non si curano di essere considerati ubriachi o fanatici, né di qualsiasi altro giudizio su di loro, e non si meravigliano né si lamentano di incontrare l'incomprensione e la persecuzione, ma se ne vanno “… lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù. E ogni giorno (...) non cessavano di insegnare e di portare il lieto annuncio che Gesù è il Cristo”.89 Probabilmente noi non dovremo comparire davanti a tribunali, o subire violenze per il nome di Cristo; dovremo invece testimoniare la nostra fede in un ambiente scristianizzato che considera Dio un sovrappiù inutile, la religione una cosa superata, la Chiesa un ente per il volontariato e la beneficenza. Dobbiamo accettare con pace e insieme con consapevole fierezza il fatto che, essere cristiani coerenti con la propria fede significa andare contro corrente, significa vivere in una società dove l'arma del ridicolo, dell'emarginazione o della squalifica per chi è credente, può essere usata contro di noi in tutti gli ambienti ufficiali: la cultura, la politica, gli ambienti di lavoro e gli ambienti professionali. Ma dobbiamo anche ricordarci che accanto alla predicazione solenne e autoritativa degli Apostoli c'era l'umile e silenziosa testimonianza del cristiano "corrente", la catechesi semplice ma efficace dell'amico con l'amico, del soldato col compagno d'armi, della schiava con la sua padrona, e 89 Atti,
5,41-42
134
soprattutto della madre col figlio e col marito, del fratello col fratello...; e tutto veniva confermato con l'esempio di una vita coerente con la fede professata. Molti cristiani sanno parlare con grande entusiasmo e con passione del proprio lavoro, della propria famiglia, dei propri ideali politici, o anche semplicemente dei propri hobbies o della "squadra del cuore", ma restano muti e impacciati quando si tratta di parlare di Gesù Cristo, della fede o dei comandamenti di Dio. E questo sotto la singolare giustificazione che queste cose sono del tutto personali e ognuno le risolve nella propria coscienza, lontano da qualsiasi interferenza esterna, oppure sotto la strana convinzione che bisogna portare rispetto alle opinioni altrui, come se dissentire fosse un'offesa e quasi dovessimo chiedere scusa per essere credenti. La realtà è che manchiamo di formazione, formazione religiosa ma anche formazione umana: chiarezza interiore, fortezza d'animo, fermezza di convinzioni e amabilità di carattere, lealtà, ottimismo, capacità di amicizia... Ma soprattutto ci manca un vero e profondo amore a Gesù Cristo, e una sincera preoccupazione per gli altri, per la loro anima e per la loro salvezza eterna. Per essere apostoli di Gesù Cristo occorre vivere molto vicini a lui - “Chiamò a sé quelli che egli volle... Ne costituì Dodici che stessero con lui” 90 - ; occorre cioè molta vita interiore, fatta di amicizia, di consuetudine, di tratto assiduo e intimo con Gesù, così da comprendere l'urgenza che ardeva nel suo cuore: ignem veni mittere in terram! - Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! 91 "Devi com90 91
Mc. 3, 13 Lc. 12, 49
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portarti come una brace ardente, che appicca fuoco ovunque si trovi; o per lo meno, fa' in modo di innalzare la temperatura spirituale di quanti ti stanno intorno, portandoli a vivere un'intensa vita cristiana".92 “D'altronde, chi ha detto che per parlare di Cristo, per diffondere la sua dottrina, sia necessario fare cose speciali e strane? Vivi la tua vita ordinaria, lavora dove già sei, adempi i doveri del tuo stato e compi fino in fondo gli obblighi corrispondenti alla tua professione o al tuo mestiere, maturando, migliorando ogni giorno. Sii leale, comprensivo con gli altri, esigente verso te stesso. Sii mortificato e allegro. Sarà questo il tuo apostolato. E senza che tu ne comprenda il perché, data la tua pochezza, le persone del tuo ambiente ti cercheranno e converseranno con te in modo naturale, semplice - all'uscita dal lavoro, in una riunione di famiglia, nell'autobus, passeggiando o non importa dove -: parlerete delle inquietudini che si trovano nel cuore di tutti, anche se a volte alcuni non vogliono rendersene conto. Le capiranno meglio quando cominceranno a cercare Dio davvero".93 Se ci sforzeremo di seguire l'esempio degli Apostoli ed essere anche noi annunciatori di Cristo al mondo di oggi potremo contare certamente sulla loro intercessione e sulla loro protezione. 48 – La devozione a S. Giuseppe L'altra devozione alla quale la pietà cristiana ha dedicato il mercoledì è la devozione a San Giuseppe. Anche la Liturgia prevede una messa votiva al santo Pa92 93
San Escrivà, Forgia, n. 570 San J. Escrivà, Amici di Dio, n. 273
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triarca nella feria quarta della settimana. La sorte toccata al culto di San Giuseppe è simile a quella toccata al culto verso Santa Maria. Agli inizi era Cristo la figura che concentrava tutta l'attenzione, la riflessione, e il culto della Chiesa. Man mano però che essa penetrò il mistero di Cristo vide sempre più chiaramente il ruolo e la parte che ebbero in questo mistero personaggi che Dio stesso aveva scelto perché cooperassero all'opera della Redenzione: gli stessi Apostoli, e soprattutto la Madonna e, accanto a Lei, San Giuseppe. Giuseppe è l'uomo del silenzio - non una parola di lui è riportata nel Vangelo -, ma il suo silenzio è scandito da un servizio eroicamente umile, assoluto, sacrificato, al disegno di Dio; per cui da quel silenzio è venuta a poco a poco emergendo la figura gigantesca di un Patriarca che ha servito Dio come nessun altro, con compiti e responsabilità uniche nella storia della salvezza. Da esse deriva anche la sua grande dignità che lo colloca al di sopra di tutti i santi, inferiore soltanto alla Vergine Maria. Egli fu prima di tutto questo: lo sposo verginale della Madre di Dio. Fu vero sposo, unito a Maria da vero vincolo sponsale, ratificato da un esplicito intervento di Dio: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa...” 94 Come la maternità divina è stata il fondamento di tutti i privilegi di Maria Santissima, così l'essere stato lo sposo della Madre di Dio costituisce il fondamento della grandezza e della eccelsa dignità di San Giuseppe. Sappiamo che il suo amore per Maria non fu un amore coniugale, bensì verginale; ma questo lo portò ad amare la sua sposa di un profondo 94
Mt. 1, 20
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e tenerissimo amore sponsale, assolutamente rispettoso del mistero compiuto in lei da Dio, e di cui divenne delicato e fedele custode. “Virginum custos et pater” è chiamato dalla Liturgia, - Custode di vergini e padre. Sono queste le altre due prerogative che lo costituiscono grande e unico. Come vero sposo di Maria, egli divenne vero padre di Gesù nell'ordine legale, padre "putativo" secondo la legge, per cui trasmise a Gesù tutto ciò che la paternità umana comporta. Tuttavia, la paternità legale di Giuseppe fu profondamente diversa dalla paternità legale secondo la legge puramente umana. Gesù, infatti, era figlio verginale di Maria, concepito e generato secondo la carne esclusivamente da Lei, che era vera sposa, non soltanto “legale”, di Giuseppe. Egli pertanto divenne padre di Colui che era vero figlio esclusivamente della sua sposa. Infine la sua paternità legale non gli derivava primieramente dalla legge umana, ma da un intervento divino, da una vocazione e da una missione conferitagli da Dio. 49 – La santità di san Giuseppe Da quanto abbiamo detto deriva che l'amore di Giuseppe per Gesù fu un amore veramente paterno; il Santo Patriarca amò il Figlio di Dio e Figlio di Maria con profondissimo e tenerissimo affetto di padre, con le espressioni più proprie e commoventi della paternità. Un'antica preghiera, che il sacerdote recitava in preparazione alla messa, si rivolge a San Giuseppe con queste parole: "O beato Giuseppe, uomo felice e benedetto, al quale è stato concesso non solo di vedere colui che molti re desiderarono vedere e non videro, udire e non udirono, ma anche 138
di abbracciarlo, baciarlo, vestirlo e custodirlo..." Tutti noi possiamo immaginare di quale tenerezza, attenzione e dedizione doveva essere capace un uomo così puro, integro, forte e consapevole del privilegio che Dio gli aveva concesso, un uomo così ricco di umanità e di grazia. Del resto, numerose raffigurazioni ce lo presentano col piccolo Gesù tenuto per mano quasi a insegnargli i primi passi, o con il Bambino in braccio teneramente stretto alla sua guancia in atteggiamento di affettuosa intimità. Giuseppe fu dunque custode del mistero della maternità di Maria, maternità divina e verginale, che riguardava il Figlio di Dio fatto uomo. Perciò la paternità di Giuseppe si trovò in una relazione unica e diretta con il mistero dell'Incarnazione, e di conseguenza la sua paternità, analogamente alla maternità di Maria - anche se a titolo ben diverso - si estende a tutto il Corpo Mistico di Cristo. Egli perciò è venerato come protettore di tutta la Chiesa. Del resto, Dio lo aveva scelto proprio perché custodisse, come padre, Gesù e Maria, cioè i due più grandi tesori della terra. Di lui si servì il Signore per proteggere il Bambino e sua Madre dalle insidie del Maligno, per portarli in salvo dai soldati di Erode, per mantenerli col lavoro delle sue mani, per garantire la loro vita famigliare. Fu custode con sacrificio personale, pagando di persona il proprio servizio, senza rivendicare compensi o gratificazioni. In tutto questo risplende la grande santità di Giuseppe. Vir iustus - uomo "giusto" - lo definisce il Vangelo. "Giustizia", nel senso biblico, significa appunto santità, fedeltà piena e totale a Dio. Ora, continua la Bibbia, "Il giusto vive di fede".95. E dalla fede si è sempre lascia95 Ab.
2, 4
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to condurre Giuseppe, una fede profonda, senza incertezze, che ha illuminato soprannaturalmente tutte le sue decisioni nelle quali, tuttavia, egli non ha mai abdicato alla sua personale responsabilità, al suo realismo, alla sua prudenza intelligente e generosa. Una fede che lo ha portato ad abbandonarsi con assoluta docilità a Dio e al suo disegno senza mai chiedere perché, senza mai aspettarsi o pretendere miracoli, ma mettendo a disposizione di Dio la propria intelligenza, la propria iniziativa, la propria fatica, il proprio sacrificio silenzioso e gioioso. In questa fede con opere risplende anche l'umiltà di Giuseppe, la sua fortezza, la sua integrità morale, nonché la sua purezza verginale, la sua fedeltà a Maria e alla missione affidatagli da Dio. 50 – San Giuseppe, Custode di Vergini e Padre Questi aspetti che configurano la missione e la personalità di San Giuseppe hanno contribuito non solo a una sempre più profonda conoscenza del santo Patriarca, ma anche a diffonderne sempre più la devozione nel popolo cristiano. Egli viene così venerato come patrono dei padri di famiglia, come protettore della Chiesa universale e come intercessore per la vita spirituale. I padri di famiglia trovano in lui l'esempio e il modello di tutte le virtù familiari. Pur essendo l'ultimo della famiglia per dignità e santità, fu tuttavia il primo nell'autorità e nella responsabilità: Gesù e Maria erano a lui sottomessi. Giuseppe non ha mai abdicato al suo ruolo, né si è mai astenuto dall'esercitare la sua autorità, pur avendo molti motivi per farlo. Autorità e responsabilità che gli costarono lavoro, sacrificio, fatica. E tuttavia il suo modo di eserci140
tarle non fu mai autoritario o ingombrante; rivestì sempre una forma squisita, delicata e silenziosa di servizio a Gesù e Maria. Il rapporto di Giuseppe con la Madonna rimane uno degli aspetti più affascinanti della famiglia di Nazareth. Nessun uomo ha mai trattato con maggiore rispetto, tenerezza e venerazione la propria sposa come Giuseppe. Aveva deciso di esporre sé stesso all'infamia per salvare l'onore di Maria, e si addossò l'umiliazione di tanti rifiuti per ottenere a Maria un alloggio dignitoso. In ogni circostanza protesse con estrema delicatezza la sua sposa, ne custodì l'integrità verginale e il segreto dolcissimo della sua maternità, e partecipò con una intensità piena di discrezione alle gioie e alle preoccupazioni della Madre per il "suo" Bambino. Maria fu certamente la sposa più amabile e santa, ma essa ebbe accanto a sé lo sposo più devoto e fedele. Dio lo scelse e lo preparò per essere un padre di famiglia esemplare e perfetto: "Dio lo costituì padre del Re e signore di tutta la sua casa".... Avendo ricevuto in custodia Gesù e Maria, Giuseppe cooperò ai primordi della redenzione. "O Dio onnipotente, che hai voluto affidare gli inizi della nostra redenzione alla premurosa custodia di San Giuseppe...".96 La Liturgia quindi riconosce esplicitamente il patrocinio di San Giuseppe sulla Chiesa universale. Questo patrocinio, riconosciuto fin dall'antichità è stato solennemente proclamato da Pio IX proprio l'8 dicembre 1870 su richiesta dei Padri del Concilio Vaticano I. Erano tempi difficili per la Chiesa; ma quei tempi non sono finiti, e in realtà mai finiranno finché sulla terra sarà presente il "mistero dell'iniquità", il principe di questo mondo. Perciò la 96
Messa votiva di San Giuseppe: preghiera colletta
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Chiesa avrà sempre bisogno di ricorrere al patrocinio del custode di Gesù e di Maria, come si esprime una delle preghiere più note nella pietà cristiana: "...proteggi, o provvido custode della divina famiglia, l'eletta prole di Gesù Cristo (...) e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità..." Infine, San Giuseppe è invocato come modello e intercessore per la vita interiore. Per vita interiore s’intende il rapporto personale di ciascuno di noi con Dio; un rapporto intimo e famigliare con la Trinità del cielo e con quella che il Beato Escrivà chiamava la "Trinità della terra", cioè Giuseppe, Maria e Gesù. Ora, proprio Giuseppe fu la persona che sulla terra ebbe il rapporto più profondo e personale con Gesù e con Maria, e fu servitore di Dio nella sua opera di salvezza. Nessuno come lui ha potuto trattare con maggiore intimità i due tesori del nostro amore: il Signore Gesù e la Vergine Maria. E se fondamento della vita interiore è lo spirito di orazione, lo spirito di sacrificio e la contemplazione, nessuno come Giuseppe ha condotto un dialogo tanto diretto e continuo, tanto semplice e amoroso con Gesù e con la Madonna, nessuno ha avuto una comunione di vita con il Figlio di Dio fatto uomo e con la Vergine santa altrettanto piena e profonda. Ecco perché Santa Teresa d'Avila proclamò San Giuseppe patrono della vita contemplativa. Tutto questo ci spinge a onorare San Giuseppe e a ricorrere alla sua intercessione non solo ogni mercoledì della settimana ma ogni giorno, per affidargli le nostre famiglie e in particolare i papà, per invocare il suo patrocinio su tutta la Chiesa e infine perché ottenga a ciascu142
no di noi il dono dell'orazione e la grazia di saper santificare il nostro lavoro quotidiano, santificandoci in esso e collaborando, con il lavoro, alla redenzione del mondo. 51 – La devozione a San Pietro e al Papa Infine, accanto alla memoria dei Dodici - il Collegio degli Apostoli - e accanto alla memoria di San Giuseppe, il Messale romano prevede nella feria quarta, mercoledì, una Messa votiva in memoria dell'apostolo San Pietro. La liturgia unisce in una stessa solennità il ricordo degli apostoli Pietro e Paolo da quando il martirio nella stessa persecuzione e nella stessa città di Roma li ha accomunati anche nel culto. Tuttavia l'accento nella celebrazione della Messa votiva è posto soprattutto sulla figura di Pietro. Egli viene riconosciuto come la "roccia" della Chiesa, secondo le parole stesse di Gesù il quale, "fissando lo sguardo su di lui, disse: Tu sei Simone...; ti chiamerai "Cefa".97 Cefa significa "pietra" e significa "capo": due titoli che esprimono il ruolo e la missione affidata da Gesù all'Apostolo. Come roccia, Pietro è fondamento della nostra fede; la fede della Chiesa poggia sulla fede di Pietro. E' la fede ispirata dal Cielo, fede che gli ha fatto proclamare: "Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente". Su questa fede, come su una roccia, "Io edificherò - rispose Gesù la mia Chiesa".98 E' la fede che poi Gesù renderà indefettibile con la sua preghiera: “Io ho pregato per te, Pietro, perché non venga meno la tua fede" e tu possa con97 98
Gv. 1, 42 Mt. 16, 16-18
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fermare in essa i tuoi fratelli.99 Così Pietro è diventato segno visibile dell'unità della Chiesa nell'unica fede e perciò garanzia di verità per tutti i credenti. Non ringrazieremo mai abbastanza il Signore per averci lasciato questo dono, guida sicura per la nostra fede. In mezzo a innumerevoli voci assordanti e discordanti che si levano nella Chiesa e fuori di essa - spesso sono vere allucinazioni diaboliche - la voce di Pietro rimane l'unica vera certezza per la nostra vita di credenti in Cristo. La fede di Pietro - del Papa che ne è il successore - è norma per la nostra fede. Infatti la professione di Pietro è stata convalidata da Gesù come rivelazione del Padre e perciò ha la certezza della verità. Chi si allontana dalla fede di Pietro non ha in sé la verità di Cristo. E' la condizione dolorosa di tanti fratelli nostri delle confessioni protestanti, senza dire delle sètte che pullulano ininterrottamente nel mondo confuso e lacerato dei nostri giorni. Se non ascoltiamo la voce di Pietro e non aderiamo alla sua fede non ci restano che le opinioni degli uomini. Ora l'oggetto della nostra fede non sono le opinioni degli uomini ma la verità rivelataci da Cristo e professata da Pietro. "Cefa" significa poi capo. E come capo del collegio apostolico e di tutta la Chiesa, Pietro ha il compito di condurre e governare il gregge di Cristo con l'autorità e con la cura del pastore. "Pasci i miei agnelli... pasci le mie pecorelle". "A te darò le chiavi del Regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli...".100 E’ un'autorità che non deriva dall'uomo ma da Cristo, e di Cristo, come pastore e guida, continua nel mondo la missione. 99
Lc. 22, 32 Mt. 16, 19
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Pietro rese testimonianza a Cristo e alla fede con il martirio subito nell'anno 67, quando era Vescovo di Roma. Così il suo ufficio di Roccia, di Capo e Pastore della Chiesa universale passò ai suoi successori nella sede di Roma (la Santa Sede). Percorrere una strada senza la certezza di essere nella verità non solo è frustrante perché si cammina col dubbio di sprecare energie e fatiche inutilmente, ma anche provoca un senso di solitudine e di smarrimento; il fatto, poi, di essere in molti a percorrerla non toglie l'angoscia ma piuttosto la dilata. Il dubbio, anche se condiviso in molti, non fa mai compagnia; è molto simile al crepuscolo dove tutte le strade si incrociano e si perdono, e dove si mescolano le voci discordi e confuse dei compagni di viaggio. Avere una guida sicura che conosce la strada è come incontrare la luce. Per noi camminare con Pietro è camminare con "il dolce Cristo in terra", è come avere per compagno Gesù stesso, pastore e guida delle nostre anime. Ogni mercoledì - ma possiamo farlo ogni giorno abbiamo l'occasione di innalzare una preghiera particolare per il Papa e per le sue intenzioni, e di alimentare così nel nostro cuore un amore sempre più grande per la sua persona. L'affetto e la stima che nutriremo per lui chiunque egli sia - ci porteranno a difenderlo dagli attacchi, spesso violenti, dei nemici della Chiesa, e ad accogliere con filiale adesione il suo Magistero con l'impegno di conoscere e diffondere i suoi insegnamenti.
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GIOVEDÌ
52 – L’Eucaristia nella Chiesa Gli ultimi tre giorni della settimana - il giovedì, il venerdì, il sabato - sono legati alla Liturgia del Triduo Pasquale; essa ha orientato la pietà cristiana verso il ricordo e la meditazione sulla vita di Gesù nei dolorosi avvenimenti che si sono compiuti in quei giorni, e che furono causa della nostra salvezza. Innanzitutto il giovedì: esso viene ricordato come "feria quinta in Coena Domini", il giovedì nella Cena del Signore. Quello che Gesù ha compiuto in quella sera durante la Cena pasquale rimane un gesto fondamentale nella storia dell'umanità. Istituendo l'Eucaristia e il Sacerdozio, Gesù ha voluto che fosse possibile ad ogni uomo incontrare la salvezza. Forse per questo quel giovedì fu il giorno più atteso dal Signore, il più desiderato dal suo cuore: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione...".101 Desiderio ardente che era amore, l'amore di colui che, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”.102 E l'Eucaristia è precisamente questo: la prova suprema dell'amore di Cristo per noi. L'amore non poteva inventare una cosa più grande, non 101 102
Lc. 22, 15 Gv. 13, 1
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poteva trovare un modo più efficace e radicale per donarsi. L'Eucaristia è il centro della vita della Chiesa ed è il centro della vita del cristiano; perciò la devozione all'Eucaristia trova profondamente unite la Liturgia e la Pietà. La Liturgia ha nel mistero eucaristico la sua ragion d'essere; tutto infatti nella Liturgia - i riti, i tempi, i luoghi liturgici - sono orientati ad esprimere e a celebrare il "Memoriale della Pasqua del Signore", così come tutta la vita spirituale del cristiano sgorga e insieme culmina nella partecipazione al mistero di Cristo, morto e risorto per noi. Celebrare e vivere l'Eucaristia è qualificante per il cristiano; vale a dire che non c'è una vita cristiana vera e autentica senza l'Eucaristia. Ciò che identifica il cristiano non è la preghiera - in tutte le religioni si prega - non sono le altre espressioni della religiosità: pellegrinaggi, sacrifici, voti o processioni, non è nemmeno l'esercizio delle virtù morali: la giustizia, la lealtà, l'onore, il rispetto, la fedeltà, l'onestà; tutto questo fa di una persona un uomo pio, un uomo onesto, un uomo d'onore, ma non ancora un cristiano, anche se tutte queste virtù con gli altri valori umani che ne derivano formano un presupposto indispensabile e insieme sono conseguenza di un'autentica vita cristiana. Abbiamo ripetuto più volte che la vita cristiana è la vita di Cristo in noi. Ora, Gesù è stato esplicito: ”Se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue non avrete in voi la vita (...) Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”.103
103
Gv. 6,53-56
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Questa dunque è l'identità del cristiano: essere un altro Cristo. E questa identità si esprime, si realizza e si manifesta, nella partecipazione al mistero eucaristico. 53 – Il Mistero dell’Eucaristia Per comprendere meglio tutto questo e poter arrivare ad una devozione eucaristica retta e autentica, giova richiamare ancora una volta gli elementi fondamentali della dottrina della Chiesa intorno a questo grande mistero della nostra fede. L'Eucaristia si presenta sotto un triplice aspetto: è mistero, è sacrificio, è sacramento. Per mistero s’intende una presenza particolare e insieme nascosta di Dio nella storia umana; in ogni caso è sempre una presenza salvifica. Ebbene, nell’Eucaristia come “mistero” si ha la presenza di Cristo redentore nei "segni" sacramentali del pane e del vino. E' una presenza reale non simbolica, una presenza vera non apparente, una presenza sostanziale perché contiene la sostanza dell'umanità di Cristo unita alla divinità del Verbo. Perciò nell'Eucaristia ciò che "appare" è il pane e il vino, ciò che "è" è il Corpo e il Sangue di Cristo. I nostri sensi s'ingannano sulla realtà delle "specie" eucaristiche (Sacre Specie), nelle quali tutta la sostanza del pane è stata trasformata nella sostanza del corpo di Cristo, e tutta la sostanza del vino è stata trasformata nella sostanza del sangue di Cristo.104 104
La teologia e lo stesso Magistero della Chiesa indicano con il termine di transustanziazione la "conversione misteriosa e ineffabile ma reale di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del Sangue di Cristo" (Concilio di Trento)
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E' il grande miracolo che avviene nella Santa Messa al momento della consacrazione. Il sacerdote compie gli stessi gesti e pronuncia le stesse parole di Gesù e, in forza del sacerdozio che lo unisce a Cristo, agisce in "persona Christi", nella persona stessa di Cristo. In quel momento le parole del sacerdote non hanno un valore semplicemente "narrativo", ma "ministeriale" e sacramentale; hanno cioè la stessa efficacia che hanno avuto sulle labbra di Cristo nell'ultima Cena. Inoltre la presenza reale di Cristo nell'Eucaristia non è transitoria, legata soltanto alla significazione rituale presente durante la celebrazione, ma è permanente, dura cioè finché durano le "specie" eucaristiche. Si tratta, dicevamo, di una presenza "salvifica", che opera cioè la salvezza dell'uomo. E' l’Eucaristia come sacrificio. La salvezza infatti si è compiuta mediante il Sacrificio della Croce, e Gesù ha voluto che il suo sacrificio si perpetuasse nei secoli fino al suo ritorno. L'oblazione sacrificale compiuta da Cristo sul Calvario è stata un gesto divino e perciò eterno; non conosce confini di spazio e di tempo. Le specie sacramentali del pane e del vino sono il "luogo" dove si rende presente ineffabilmente ma realmente il sacrificio di Gesù. Perciò la Santa Messa è chiamata anche il "sacrificio dell'altare". Ne consegue che la presenza di Cristo nell'Eucaristia è quella di Vittima immolata per noi. Del resto, le parole di Gesù sono chiare ed esplicite: "...Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi", "...Questo è il calice del mio Sangue versato ... in remissione dei peccati". Esse esprimono e rendono presente l'unico ed eterno atto oblativo di Cristo. Perciò il sacrificio dell'altare e il sacrificio del Calvario sono lo stesso e identico sacrificio. Sono diversi soltanto il modo e lo stato della Vitti149
ma: nel sacrificio dell'altare il modo è incruento e lo stato della Vittima è quello glorioso, quello cioè proprio del corpo glorificato del Risorto. La Santa Messa diventa perciò il "Memoriale" vivente di tutto il mistero di Cristo, nella sua totalità e completezza. Così si esprime la preghiera eucaristica subito dopo la consacrazione: "In questo memoriale della nostra redenzione celebriamo, Padre, la morte di Cristo, la sua discesa agli inferi, proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo, dove siede alla tua destra, e, in attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo il suo corpo e il suo sangue, sacrificio a te gradito, per la salvezza del mondo". Presenza salvifica, dunque; Gesù, mediante l'Eucaristia, ha voluto in modo mirabile, ma semplice e accessibile, far giungere a tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, il suo sacrificio redentore; così l'Eucaristia come sacramento rende possibile ad ogni credente l’incontro con Cristo e, in lui, l’incontro con la misericordia del Padre celeste. Ovviamente non basta che Gesù abbia istituito questo sacramento, occorre che noi vi partecipiamo attraverso la comunione che viene appunto chiamata eucaristica. Anche qui Gesù è stato categorico sulla necessità di partecipare sacramentalmente al suo sacrificio: "In verità, vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita. (...) Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui".105 Così tutto l'ordine sacramentale trova nell'Eucaristia la sua espressione possiamo dire totalizzante, perché 105
Gv. 6, 53-56
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tutti i sacramenti nel loro dinamismo soprannaturale convergono verso il mistero eucaristico, così come tutta la vita di Cristo, dalla Incarnazione all’Ascensione gloriosa alla destra del Padre, ha nell'evento pasquale - Morte e Risurrezione - il suo centro e il suo culmine. 54 – Il culto dell’Eucaristia Abbiamo richiamato gli elementi essenziali della dottrina della Chiesa intorno al grande mistero del Corpo e del Sangue di Cristo per renderci conto di quello che Dio ha fatto per noi. Se Gesù, per darci l'Eucaristia, ha sospeso leggi fondamentali della natura fino al punto di compiere tanti miracoli: il pane che non è più pane, il vino che non è più vino; l'umanità di Cristo che è senza le sue proprietà visibili; un evento che da due millenni si perpetua nel tempo e nello spazio; un rito sensibile che realizza una comunione con Cristo estremamente intima, soprannaturale, e altri autentici miracoli che accompagnano il mistero eucaristico..., se dunque Gesù ha voluto compiere tutto questo per noi, allora l'Eucaristia rimane il documento più sconvolgente e commovente dell'amore di Dio. Diventa perciò incomprensibile, triste e doloroso, il comportamento di tanti cristiani verso questo ineffabile sacramento: indifferenza, freddezza, incomprensione, ignoranza supina e grossolana insensibilità che conducono all'abbandono e spesso alla profanazione di così grande dono di Dio. Ora, tenendo presente il triplice aspetto dell’Eucaristia, sono molte le espressioni che, accanto alle celebrazioni eucaristiche, la pietà cristiana ha maturato come risposta della fede e dell'amore al grande dono lasciatoci 151
da Cristo. Sono espressioni non sostitutive della liturgia eucaristica, soprattutto della Santa Messa, ma dalla liturgia traggono origine e alla liturgia conducono, essendo la Messa, come abbiamo visto, il cuore non solo di tutta la liturgia della Chiesa, ma anche della pietà e della devozione del popolo cristiano. Innanzitutto dicevamo che la transustanziazione non è transitoria e perciò la presenza di Cristo-Vittima si prolunga oltre la Santa Messa, nelle specie eucaristiche consacrate. Nei primi tempi esse venivano conservate nelle case dove si celebrava l'Eucaristia, a disposizione dei malati e di coloro che non avevano la possibilità di partecipare alla celebrazione. Con la costruzione dei luoghi di culto si passò a conservare l'Eucaristia nella chiesa o nella sacrestia, in vasi possibilmente preziosi. Infine, quando accanto alla semplice conservazione delle Sacre Specie si sviluppò il culto di adorazione all'Eucaristia, apparvero anche i tabernacoli veri e propri, di varie forme, sempre più evidenti ed ornati. Singolare era il tabernacolo a forma di colomba, la Colomba eucaristica. Era costituito da una colomba d'oro o dorata che pendeva dal ciborio o dal baldacchino e alludeva al rapporto tra l'Eucaristia e lo Spirito Santo. In tutti i casi, la devozione al Tabernacolo, intesa come devozione a Cristo che nell'Eucaristia rimane notte e giorno in mezzo a noi, è andata crescendo sempre più nei fedeli man mano che la percezione della fede - il sensus fidei - ha fatto comprendere più profondamente il desiderio ardente di Cristo di non lasciarci soli, ma di restare con noi come compagno di viaggio allo stesso modo che per i discepoli di Emmaus. L'amore brama la presenza della persona amata, e quando questa persona viene a mancare, l'amore cerca in mille modi se152
gni e oggetti che valgano a perpetuare nel ricordo quella presenza amata. Scrive san Josemaria Escrivà: "Pensate all'esperienza così umana del commiato di due persone che si vogliono bene. Vorrebbero stare sempre insieme , però il dovere - qualunque dovere - li costringe a dividersi. Sognerebbero di stare uniti, ma non possono. E così l'amore umano, che per quanto grande è sempre limitato, ricorre a un simbolo: le due persone, prima di lasciarsi, si scambiano un ricordo, forse una fotografia, con una dedica così accesa che quasi potrebbe bruciare la carta. Non possono fare di più perché il potere delle creature non è all'altezza del loro volere. Ma ciò che noi non possiamo fare, lo può fare il Signore. Gesù Cristo, perfetto Dio e perfetto Uomo, non ci lascia un simbolo, ma la realtà: ci lascia sé stesso".106 Durante la permanenza del popolo ebreo nel deserto, Mosè, per comando di Dio, eresse in mezzo agli accampamenti una tenda - tabernaculum - dove collocò un'arca tutta d'oro per conservare le tavole della legge, la manna, e la verga di Aronne, cioè i "segni" della potenza salvifica di Dio in mezzo al suo popolo. Ebbene noi, che siamo il nuovo popolo di Dio, conserviamo al centro dei nostri "accampamenti" - le nostre città - una tenda, un tabernacolo ben più importante e prezioso che contiene non i simboli della potenza di Dio ma l'autore stesso della nostra salvezza: Gesù, sacrificato per noi. Egli, dunque, è lì, presente e nascosto, in mezzo alle nostre case, a pochi metri dalle nostre piazze, dalle scuole, dagli uffici, dai negozi, dai luoghi dove scorre la nostra vita quotidiana. Possiamo andare a fargli visita in qualsiasi momento, possiamo fermarci a tu per tu con lui 106
S. J. Escrivà, E' Gesù che passa n. 83
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ed aprirgli il cuore come all'amico più intimo e fedele - è lui il più grande Amico dell'uomo -, possiamo occupare il silenzio che circonda i nostri tabernacoli con la piena dei nostri sentimenti di adorazione, di ringraziamento, di impetrazione, di riparazione. I tabernacoli ci ricordano che Gesù ha voluto farsi "prigioniero d'amore" per realizzare alla lettera la sua promessa: "Ecco, sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo".107 55 – La devozione alla Eucaristia Dalla venerazione verso il Tabernacolo hanno preso origine alcune consuetudini diventate ormai patrimonio della pietà eucaristica. Vanno ricordate principalmente la visita al Santissimo Sacramento e l'adorazione all'Eucaristia solennemente esposta. Appassionato divulgatore della visita al Santissimo fu il santo vescovo Alfonso de' Liguori. Così si esprime in una delle sue preghiere più note: "Signore mio Gesù Cristo, che per l'amore che porti agli uomini te ne stai notte e giorno in questo sacramento, tutto pieno di pietà e di amore, aspettando, chiamando e accogliendo tutti coloro che vengono a visitarti, io ti credo presente nel Santissimo Sacramento dell'altare...". Il tabernacolo viene oggi collocato in una cappella a parte, la cappella del Santissimo Sacramento, che dev'essere facilmente accessibile, perché i fedeli abbiano la possibilità di sostare in un silenzio di orazione e di adorazione davanti a Gesù Sacramentato. "Accorri con perseveranza davanti al Tabernacolo, fisicamente o con il 107
Mt. 28, 20
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cuore, per sentirti sicuro, per sentirti sereno: ma anche per sentirti amato..., e per amare!". 108 Inoltre, in alcune chiese, il tabernacolo viene tenuto separato dall'altare della celebrazione; questo tuttavia non significa che l'Eucaristia conservata nel tabernacolo perda il suo legame col sacrificio della Messa, dal quale invece deriva quasi prolungandone la presenza. Perciò la Chiesa ha dato disposizione perché il tabernacolo sia posto in un luogo "distinto, visibile, decorosamente ornato, adatto alla preghiera",109 e che davanti ad esso "brilli perennemente una speciale lampada, mediante la quale venga indicata e sia onorata la presenza di Cristo".110 Quella lampada è dunque il segno visibile di una presenza invisibile, silenziosa ma operante, che esprime l'amore di colui del quale si è potuto dire: “Deliciae meae esse cum filiis hominum”, la mia delizia è stare con i figli dell'uomo.111 Ma quella fiamma dovrebbe anche significare il cuore di ogni cristiano che abbia il desiderio di vegliare accanto al suo Dio. Una espressione di questo desiderio è salutare il Signore con una giaculatoria quando si scorge una chiesa o si passa accanto ad essa. "Non essere così cieco e così sbadato da tralasciare di metterti dentro ogni Tabernacolo quando scorgi i muri o le torri delle case del Signore. Egli ti aspetta".112 Diventa quindi uno spettacolo triste il comportamento "disinvolto" - turistico - di tanta gente che visita le chiese senza un gesto di adorazione o un segno di saluto al Signore. Per amare il Tabernacolo oc108
Forgia, n. 837 Codice di Diritto canonico, can. 938,2 110 Idem, n. 940 111 Prov. 8, 31 112 Cammino, n. 269 109
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corre intrattenere una intensa e profonda amicizia con Gesù Cristo, occorre essere anime di Eucaristia e avere una grande familiarità col Vangelo. Queste sono anche le note che contrassegnano un'anima d'apostolo. "Sii anima di Eucarestia! - Se il centro dei tuoi pensieri e delle tue speranze è il Tabernacolo, come saranno abbondanti, figlio mio, i frutti di santità e di apostolato!".113 Si è detto che il mistero eucaristico ha il suo momento più solenne e culminante nella Santa Messa; perciò anche la pietà eucaristica deve accompagnare il sacrificio dell'altare con espressioni che ci aiutino a parteciparvi con frutto. A tale scopo i santi curavano con grande fervore e impegno la preparazione e il ringraziamento della Santa Messa. Alcuni, come san Josemaria Escrivà, dividevano il tempo della loro giornata in riferimento alla Santa Messa: una parte come preparazione e una parte come ringraziamento. Noi potremmo curare almeno la preparazione prossima, quella che precede immediatamente la celebrazione della santa Messa. Possiamo cioè recarci in chiesa per tempo e intrattenerci in orazione davanti al tabernacolo. Possiamo così richiamare alla nostra mente le intenzioni che desideriamo unire a quelle di Cristo nel suo sacrificio: cose personali, situazioni di famiglia, problemi o difficoltà delle persone che ci sono state affidate, iniziative apostoliche, le molteplici necessità che affliggono gli uomini del mondo intero, persone defunte che vorremmo suffragare... Ma la preparazione più importante è quella di trasformare in "materia" per il sacrificio tutta la nostra giornata: il lavoro, le fatiche o le preoccupazioni che accompagnano la nostra attività, le gioie 113
Forgia, n. 835
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e le sofferenze che incontreremo in quel giorno, i piccoli o grandi sacrifici che richiede il compimento dei nostri doveri, i propositi e i punti di lotta della nostra vita interiore... Tutto il vissuto della giornata può diventare la “nostra” Messa da unire a quella di Cristo.114 Allo stesso modo, la pietà eucaristica ci porterà a prolungare il tempo della santa Messa con espressioni di ringraziamento e di lode al Signore che ci ha fatto il dono immenso di incontrarlo così intimamente. Le giaculatorie e le comunioni spirituali lungo la giornata, come anche la testimonianza del nostro amore fraterno, ci aiuteranno poi a vivere la Messa come "centro e radice" di tutta la nostra vita cristiana. 56 – Eucaristia e Sacerdozio Il sacrificio del Calvario è stato offerto al Padre da Cristo stesso, perciò Egli è contemporaneamente Vittima, Altare e Sacerdote. L'offerta di vittime come atto fondamentale di culto a Dio è sempre stato un ufficio proprio del sacerdozio, ma l'offerta del sacrificio della croce, essendo il sacrificio dell'Umanità santissima di Cristo, non poteva essere fatta che da lui stesso, avendo egli pieno potere sulla propria vita. "... Io offro la mia vita (...) Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio".115 Proprio il Padre ha costituito Gesù Sommo ed Eterno Sacerdote, fin dal primo momento della sua incarnazione. "Per questo, entrando nel mondo, Cristo 114 115
cfr. nn. 17 e segg. Gv. 10, 18
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dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato".116 Abbiamo già detto che Gesù, nell'ultima Cena, consegnando agli apostoli il suo Sacrificio, trasmise loro anche il suo sacerdozio: "Fate questo in memoria di me". E' il sacerdozio "ministeriale"; il sacerdozio che conferisce il potere di agire nella persona stessa di Cristo. Del resto, non solo per celebrare l'Eucaristia, ma anche per prendervi parte è necessario essere partecipi del sacerdozio di Cristo. In effetti, anche il potere di unirsi al sacerdote per offrire e ricevere l'Eucaristia è un atto sacerdotale; appartiene al "sacerdozio comune" dei fedeli. La Chiesa, infatti, nella sua totalità, è stata costituita come popolo sacerdotale perché nel Battesimo noi tutti veniamo configurati a Cristo come Re, Profeta e Sacerdote. Questo spiega perché nelle Messe votive del giovedì, il messale romano fa seguire alla messa dell'Eucaristia una Messa votiva di Gesù, Sommo ed Eterno Sacerdote.117 I due sacramenti - l'Eucaristia e il Sacerdozio sono inscindibili, e costituiscono il grande dono lasciatoci da Gesù la sera del giovedì santo. Perciò alla pietà eucaristica dovrebbe accompagnarsi la venerazione verso il sacerdozio di Cristo che continua ad operare nella persona del sacerdote cattolico. Troppo spesso il sacerdote è visto in una prospettiva soltanto umana: un operatore sociale o un pubblico ufficiale che rilascia documenti ecclesiastici... La figura del sacerdote come "uomo di Dio", uomo che 116
Eb. 10, 5 La Liturgia prevede anche una "memoria liturgica" di Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, il giovedì dopo la Pentecoste 117
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nel nome di Cristo mi assolve dai peccati, mi alimenta con la Parola di Dio e con il Corpo di Cristo, offre a Dio le mie preghiere e le mie lagrime, stende la sua mano benedicente sugli affetti nobili e santi che fondano la famiglia, distribuisce la grazia divina che fortifica e consola davanti al dolore e davanti alla morte..., questa figura del sacerdote risulta lontana e spesso sbiadita agli occhi di molti fedeli; eppure, è del "sacerdote-uomo di Dio” che noi abbiamo bisogno se vogliamo incontrare Cristo nella sua Chiesa. Perciò Gesù stesso ci ha rivolto l'invito esplicito di pregare: pregare il Padre perché chiami operai per la sua messe. Pregare per il sacerdote perché sia buono e fedele, forte e compassionevole, amabile e perseverante nel sacrificio, uomo di orazione, uomo di perdono, uomo di unità nella Chiesa, è un dovere di giustizia per tutto quello che riceviamo da lui . Ma anche dobbiamo venerare il sacerdote e trattarlo con rispetto e con affetto chiunque egli sia, con i limiti, difetti - e con le debolezze - che egli possa avere, come faremmo con nostro padre. La mormorazione, la critica pubblica e negativa, o peggio la calunnia e il comportamento che mette in pericolo la fedeltà del sacerdote, sono cose che recano un grave danno alla Chiesa e non sono mai fonte di bene per chi le compie. Semmai dovremmo aiutare il sacerdote con un’opportuna e discreta correzione fraterna, con il consiglio e i suggerimenti che possono venire dall'esperienza, dall'età, dalla conoscenza di situazioni che richiedono l'intervento del suo ministero sacerdotale, ma anche con la stima, l'incoraggiamento, non esclusa l'assistenza alle sue necessità materiali e personali. I fedeli danno prova di grande amore a Cristo quando considerano il sacerdote un vero tesoro per la Chiesa e per il mondo. 159
57 – Devozione allo Spirito Snto Abbiamo visto che il giovedì è soprattutto il giorno dell'Eucaristia e del Sacerdozio. Ma nello stesso giorno il Messale romano prevede anche una Messa votiva dello Spirito Santo. La devozione verso la terza Persona della Santissima Trinità, fortemente radicata nella Liturgia fin dall'antichità, esprime la consapevolezza del popolo cristiano che tutto ciò che accade di soprannaturale nella Chiesa e nel mondo è opera dello Spirito Santo. Non solo la Chiesa, come Corpo Mistico di Cristo, è nata da una effusione dello Spirito, ma anche la vita spirituale di ogni fedele è frutto di un costante intervento del Paraclito. Il fatto stesso di assegnare la Messa votiva alla feria quinta, al giovedì, è segno che la Liturgia vede un legame particolare dello Spirito Santo con l'Eucaristia e con il Sacerdozio. In effetti, è lo Spirito Santo che agisce di volta in volta nei Sacramenti. Da sempre la Chiesa ha indicato l'effusione dello Spirito Santo con il gesto della "imposizione delle mani". E’ il gesto che il sacerdote compie sul pane e sul vino nella santa Messa prima della consacrazione, sul penitente nel sacramento della Confessione, sull'acqua del fonte battesimale e soprattutto sui Cresimandi e sugli Ordinandi al Sacerdozio nel momento di amministrare questi sacramenti. Ma l'azione dello Spirito Santo è incessante nella nostra vita interiore con la sua grazia e con i suoi doni: il dono della sapienza, dell'intelletto, del consiglio, della
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fortezza, della scienza, della pietà e del timore di Dio.118 Lo Spirito Santo è autore di tutto ciò che accade nella nostra anima: è lui l'autore della nostra preghiera119, è Lui l'autore della contrizione del cuore per un pentimento sincero dei nostri peccati120, è Lui l'autore della contemplazione per una conoscenza penetrante e gioiosa di Dio121, è Lui l'autore delle luci interiori che ci fanno conoscere la volontà di Dio e ci illuminano sulla nostra vocazione122, è Lui che ci dà la consapevolezza gioiosa della Filiazione divina e ci suggerisce le parole e i consigli opportuni per aiutare i nostri amici e le persone care, è Lui l'autore di tutti i moti della volontà verso propositi di santità, di lotta interiore, di fedeltà alla grazia,123 e infine è Lui l'autore della "gioia nella pace" che Cristo ci ha promesso. Così San Paolo riassume l'azione dello Spirito Santo: "Camminate secondo lo Spirito e non sarete por118
"...Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi?" (1 Cor. 3, 16). 119 "...Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi"(Rm. 8, 26). 120 "Dio Padre di misericordia, che nella morte e risurrezione di suo Figlio ha riconciliato a sé il mondo e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati,..." (Formula della assoluzione nel Sacramento della Confessione). 121 "...noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato" (1 Cor. 2, 12). 122 "...Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio" (Rm. 8, 14). 123 "La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rm. 5, 5).
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tati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito (...) Il frutto dello Spirito, invece, è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito".124 Ben a ragione quindi la Chiesa ci suggerisce di coltivare la devozione allo Spirito Santo, di invocarlo frequentemente e con fiducia, perché a Lui Gesù ha affidato, a nome del Padre, il compito di illuminare, purificare e santificare ogni anima che lo accolga e lo segua con docilità: "Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di Verità (...) Egli, il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa (...) e vi guiderà alla verità tutta intera". 125 La Liturgia ci offre una grande ricchezza di preghiere e di invocazioni che possono alimentare la nostra devozione allo Spirito Santo; eccone alcune tolte dalla sequenza nella solennità di Pentecoste:
Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori. 124 125
Consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo. Nella fatica riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto.
Gal. 3, 16...22, 25 Gv. 14, 16...26
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O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli.
Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato. Dona ai tuoi fedeli che solo in te confidano i tuoi santi doni,
Senza la tua forza, nulla è nell’uomo, nulla è senza colpa. Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.
dona virtù e premio, dona morte santa, dona eterna gioia. Amen
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VENERDÌ
58 – Dolore e Amore La feria sesta della settimana, il venerdì, era dedicata dai pagani alla dea della bellezza, a Venere, ma nella Liturgia della Chiesa il venerdì rivestirà un significato completamente nuovo, desunto dal venerdì più importante di tutto l'anno: il Venerdì Santo, la feria sexta in Passione Domini. L'accostamento può apparire stridente, ma non lo è: "il più bello tra i figli degli uomini" si presenta a noi nella Passione come "un quadro di dolori", ma la sofferenza non toglie bellezza a quel Volto; il sangue, gli sputi, la polvere, hanno velato ma non nascosto la perfezione delle sue fattezze forti e amabilissime, ne hanno invece accresciuto il fascino e lo splendore. Mai sulla terra un volto umano ha rivestito tanta bellezza, e nessuna bellezza ha suscitato nel mondo tanto amore! Analogamente, Colei che è "la bellissima fra tutte le donne" si rivolge a noi: "Voi tutti che passate per via, considerate e osservate se c'è un dolore simile al mio...!". Ma l'immenso dolore che ha trapassato l'anima di Maria non ha tolto grazia al suo viso, non ha oscurato lo splendore della sua bellezza, non ha impedito l'indicibile amabilità dei suoi occhi, del suo sorriso, di tutto il suo volto! Mai sulla terra una donna ha suscitato tanta commozione 126
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Ct. 1, 8 Lam. 1, 12
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nel cuore degli uomini, e nessuna maternità ha conferito tanta bellezza al volto di una donna. Il venerdì rimane anche per noi il giorno della bellezza. Non è la bellezza trasfigurata che contempleremo nel cielo e che riempirà di beatitudine i nostri occhi, è una bellezza ancora terrena, che conosce tutte le espressioni del dolore e della sofferenza umana; ma non è il dolore maledetto, rabbioso, urlato, che rivela tutta la sua deturpante bruttezza, è un dolore d'amore, forgiato e sorretto dall'amore, un amore senza limiti e senza durezze, un amore che è solo amore e trasfigura l'Umanità di Cristo e della Vergine Madre in un "quadro di bellezza". Dolore e Amore: è il binomio della Passione, le due braccia della Croce. Nel Venerdì santo si è compiuta la redenzione; in quel giorno l'Amore ha redento il dolore, e la croce ha cessato di essere maledizione; l'amore l'ha fatta diventare il sigillo del cristiano. Dolore e Amore: Gesù crocifisso e il Sacro Cuore. Il Venerdì ci ricorda queste due grandi devozioni che hanno forgiato molti santi e costituiscono un prezioso tesoro nel patrimonio della pietà cristiana. 59 – La Passione del Signore La prima Messa votiva che troviamo nel messale romano al venerdì è la Messa della Passione. Sappiamo che il racconto evangelico della passione del Signore costituisce il nucleo originario sia dei Vangeli scritti, sia della primitiva catechesi apostolica. Questa centralità del racconto della Passione ci dice la consapevolezza che avevano gli Apostoli dell'importanza del mistero pasquale del Signore, cioè della sua morte e risurrezione; mistero pasquale che 165
avevano compreso in profondità solo nella Pentecoste per opera dello Spirito Santo. Ma questa comprensione teologica non basta per spiegare un racconto che si distende in ampiezza e che si presenta con ricchezza di particolari come nessun altro racconto evangelico. Quello che era accaduto in poche ore e che si era abbattuto così improvviso e così inaspettato con incomprensibile crudeltà su Gesù - le violenze fisiche, i maltrattamenti, le umiliazioni di cui era stato fatto segno tutto questo aveva avuto le caratteristiche di una tale brutalità che non poteva essere facilmente dimenticato e, per di più, si trattava di una brutalità assolutamente gratuita. Gli altri due crocifissi, che pure erano ladroni e malfattori, non avevano ricevuto i maltrattamenti inflitti a Gesù; non avevano subito la terribile flagellazione romana, non erano stati trattati a pugni e calci né erano stati esposti alla derisione e agli insulti come Gesù, non la corona di spine, non le percosse e gli sputi, non il ludibrio e la burla...; lo stesso ladrone pentito non può fare a meno di osservare: "Costui non ha fatto nulla di male!", osservazione che ci fa capire quanto appariva assurdo agli occhi di tutti quello che era stato perpetrato contro Gesù. Perciò la Passione del Signore, anche dopo averla compresa nel suo significato - era il prezzo per la nostra redenzione e la condizione necessaria perché Gesù entrasse nella gloria del Padre - restava sempre agli occhi degli Apostoli un fatto traumatico, una ferita insanabile nell'animo e nella sensibilità di quanti avevano assistito al furore di tanto odio e di tanta cattiveria. I primi cristiani, molti dei quali erano stati testimoni di quelle vicende, portarono per sempre nel loro ricordo ciò che li aveva così profondamente scossi e turbati: da una parte le inenarrabili sofferenze del Signore, dall’altra la sua suprema dignità e la sua mitez128
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Lc. 23, 41
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za nel sopportare ogni cosa. Alle donne di Gerusalemme, che incontrandolo sulla via del Calvario non poterono trattenere la loro commozione e le loro lagrime, Gesù offre la chiave di lettura di tutta la sua passione: "Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli....perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?". Per noi la Passione del Signore nei suoi aspetti più drammatici e assurdi ci rivela due verità che dovrebbero costituire un motivo di ricorrente meditazione: la gravità e la malizia del peccato, l'amore senza limiti che Gesù ha avuto per noi. Se sapessimo stare con fede e umiltà davanti a Gesù crocifisso, quei segni tremendi della passione che egli porta nella sua carne ci direbbero: Vedi quanto costa il peccato?... Guarda fino a che punto ti ha amato! San Pietro scriveva ai primi cristiani: "Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro foste liberati dalla vostra vuota condotta... ma con il sangue prezioso di Cristo". Gesù crocifisso rimane la strada maestra per la nostra santità, scuola impareggiabile del dolore e dell'amore: un dolore che ci porta ad aborrire il peccato e un amore che ci spinge a dare anche noi la vita per servire il Signore. 129
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60 – Scuola di dolore e di amore La Passione di Cristo è per noi una scuola efficacissima; essa ci educa alla pietà e all'amore. Non dobbiamo intendere questo in senso emotivo; Gesù ha voluto soffrire tutto quello che ha sofferto non per commuoverci, ma per salvarci. Il peso della croce sulle spalle del Signore è il peso di ciascuno di noi. Dobbiamo renderci conto del posto 129 130
Lc. 23, 28 1 Pt. 1, 18
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che ognuno di noi occupa in quella vicenda di dolore e di amore, dove l'innocenza e la colpa si affrontano: la colpa diventa penitenza e l'innocenza diventa misericordia. Siamo presenti nella passione di Cristo in prima persona, ciascuno col peso della propria vita e delle proprie responsabilità. Troppa gente si sente estranea al dramma della Passione, perché - pensa - Gesù sulla croce ce l'hanno messo gli altri. E gli altri sono: i ladri, i corrotti, i bestemmiatori, i furfanti, i traditori... insomma i peccatori. "Ma io, che ho sempre cercato di vivere onestamente, che ho sempre compiuto il mio dovere e non ho mai fatto male a nessuno, io non c’entro in quella dolorosa e brutta vicenda che ha condotto Cristo sulla croce". Pensieri come questo possono nascere anche in noi, senza esplicita intenzione e in buona fede tanto da sentirci offesi se ci dicessero: "Tu hai gridato davanti al governatore Pilato: crocifiggilo!". La verità è che nessuno di noi è innocente. Perfino un bambino appena nato, nonostante la sua innocenza personale, porta con sé la triste eredità lasciata dai progenitori: il peccato originale. Sulla croce c'è l'unico Innocente che sia vissuto sulla terra, ed è salito sulla croce per obbedire al Padre e pagare per il nostro peccato. L'umiltà, che è verità, ci assicura che ognuno di noi ha il suo posto su quelle membra martoriate ed offese, ha messo la sua voce in quelle grida di scherno e di rifiuto, o per lo meno è rimasto inerte e passivo tra la folla degli spettatori, senza un gesto di pietà e di comprensione: "Ho atteso compassione ma invano, consolatori ma non ne ho trovati". Davanti a Gesù crocifisso ognuno di noi deve dire con San Paolo: "Dilexit me, et tradidit semetipsum pro me! - Mi ha amato e ha dato sé stesso per me!". 131
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Salmo 68, 21 Gal. 2, 20
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E' da questa consapevolezza che deve nascere nel nostro cuore il desiderio sincero della riparazione. Riparare vuol dire restaurare ciò che è stato rovinato o danneggiato. Gesù sulla croce ha innanzitutto restaurato la nostra dignità offesa e profanata, ma soprattutto ha restituito a Dio l'onore e l'adorazione che gli abbiamo negato col peccato. Gesù è il grande Riparatore, ma il peccato è nostro e abbiamo il dovere di partecipare da parte nostra alla riparazione compiuta da Gesù. Ora, San Paolo ci avverte che la nostra riparazione non è soltanto una partecipazione a quella di Cristo, infatti ad essa manca qualcosa che spetta a noi completare: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa" . Il peccato è una ferita inferta a Cristo, non solo nel suo corpo fisico ma anche nel suo Corpo Mistico, la Chiesa. Il peccato, anche quello più interno e personale, non è mai un male esclusivamente individuale; siamo membri gli uni degli altri, membri di una famiglia, e il peccato finisce per pesare negativamente su tutti, impoverisce la famiglia cui apparteniamo e diventa un ostacolo alla crescita della Chiesa. La riparazione intende rendere giustizia anche a colei che abbiamo danneggiato e derubato, la Famiglia dei figli di Dio, che ha diritto alla nostra fedeltà e alla nostra lealtà. Prende allora significato l'espiazione non solo per i nostri peccati ma anche per quelli dei nostri fratelli, e diventa un dovere di fraternità la preghiera per la conversione dei peccatori, per coloro cioè che vivono nel loro peccato. E' un dovere di giustizia e un obbligo d'amore, se non altro perché non possiamo sopportare che il Sangue di Cristo sia stato sparso invano per qualcuno dei nostri fratelli. 133
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Col. 1, 24
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61 – La Via Crucis Il Messale Romano, tra le Messe votive del Venerdì, annovera la Messa della Passione e la Messa del Preziosissimo Sangue. La celebrazione liturgica della Passione ha il suo riferimento più importante nel Venerdì della Settimana Santa, tanto che in quel giorno non si celebra la Messa ma si lascia posto alla lettura e alla meditazione del racconto evangelico della Passione. Sappiamo bene però che ogni Messa è celebrazione della Passione di Cristo, per cui ogni giorno è Venerdì Santo. Ma sappiamo anche che la Messa abbraccia tutto il Mistero di Cristo: la Messa è il memoriale della Pasqua del Signore, anzi Memoriale della sua Incarnazione, Passione, Morte, Risurrezione e Ascensione al Cielo. Tuttavia la Messa votiva della Passione vuole concentrare la nostra pietà liturgica su quell’aspetto particolare del mistero di Cristo che è stato descritto anche dal Profeta Isaia: il Servo di Jahvé, cioè il Cristo sofferente. Proprio per alimentare la nostra devozione a Cristo sofferente la pietà cristiana ci offre due pratiche largamente diffuse tra il popolo cristiano: la Via Crucis e la devozione al Crocifisso. La consuetudine di ripercorrere con la mente e con il cuore la via dolorosa che ha portato Gesù dal Pretorio di Pilato al Calvario è nata probabilmente con i pellegrinaggi a Gerusalemme durante i quali si visitavano i luoghi che erano legati al dramma della Passione del Signore. Nei secoli successivi, la pietà e l'amore hanno aggiunto altri episodi a quelli documentati dal Vangelo, arrivando, verso il primo '600, alla forma attuale della Via Crucis con 14 stazioni. 170
Poche devozioni fanno tanto bene alla nostra anima quanto l'esercizio della Via Crucis. Le anime che amano profondamente Gesù Cristo sentono il bisogno di non lasciarlo solo in mezzo al ludibrio e allo scherno della folla che faceva ala al suo passaggio. Il peso della croce, la fatica della strada, la debolezza estrema delle sue membra, erano nulla a paragone dell'amarezza interiore e del tedio spirituale e morale che affliggeva la sua anima. L'unica presenza in mezzo a tanto odio è stata la tenerezza silenziosa ma dolcissima di sua Madre, che Giovanni e le altre donne, prese più dal terrore e dallo smarrimento, non potevano capire. Mai strada fu tanto lunga e segnata da tanta solitudine come le poche centinaia di metri che portarono Gesù al Golgota: la lunghezza di quella strada fu pari alla nostra lontananza da Dio. Ancora una volta la via dolorosa del Signore ci ricorda la profonda malizia del peccato e l'immenso amore di Cristo per noi. Ripercorrere quella strada è rinnovare la contrizione, la gratitudine, la gioia, il proposito; è rinnovare l'amore. 62 – La devozione al Crocifisso Il Crocifisso occupa un posto fondamentale nella tradizione della Chiesa, a tutti i livelli: patristico, liturgico, ascetico. Questa centralità ha influito sulla fede e sulla pietà del popolo cristiano che ha fatto di Cristo crocifisso l'icona più universale, l'immagine più amata nella storia del cristianesimo. La devozione al Crocifisso non ha avuto storia facile nel tempo. Già per i primi cristiani presentarsi come seguaci di un Dio condannato ad un patibolo così infamante e ignominioso costituiva una prova eroica di coraggio e di fedeltà. San Paolo ne era pienamente consapevole quando 171
scriveva ai Corinzi: "Mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani". E solo la forza travolgente della sua esperienza personale con Cristo poteva fargli dire: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo", per cui: “Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso”. Occorre arrivare a dopo Costantino, superata la ripugnanza che la croce suscitava nei pagani, per vedere le prime raffigurazioni pubbliche di Cristo crocifisso. La Croce, soprattutto dopo il suo ritrovamento, venne fatta oggetto di culto e di adorazione, come se fosse Cristo stesso, dato il legame che essa ha avuto con il suo sacrificio. Così si cominciò a vedere la croce nella prospettiva della vittoria di Cristo, prospettiva cara soprattutto agli orientali presso i quali Cristo veniva spesso raffigurato sulla croce rivestito di abiti regali; era l'immagine solenne di un Re vittorioso. Nei secoli successivi, soprattutto nel Medio Evo, si scoprì la croce nel suo primitivo significato di simbolo della umiliazione di Cristo, della sua passione e del suo annientamento, secondo l'espressione di San Paolo: "Umiliò sè stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce". Cristo crocifisso viene così raffigurato nel suo aspetto di sofferenza, con il corpo affranto, accompagnato dai segni della passione e attorniato dalle figure dolenti che lo videro crocifisso sul calvario: Cristo doveva muovere 134
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1 Cor. 1, 22 Gal. 6, 4 136 1 Cor. 2, 2 137 Fil. 2, 8 135
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alla compassione, al dolore dei propri peccati, e al desiderio di partecipare alle sue sofferenze. Il Rinascimento ci ha restituito il Crocifisso nella sua integrità fisica e nella bellezza formale delle sue membra. Potremmo vederci un'allusione all'innocenza di Gesù e alla sua integrità morale; è una bellezza che il patire non ha oscurato né deturpato. Nella cultura attuale secolarizzata, il Crocifisso ha perduto quasi totalmente il suo significato e, o viene accettato come amuleto o come pendaglio ornamentale, oppure respinto come ingombrante e fastidioso, cacciato dagli ambienti pubblici. Per il cristiano, invece, il Crocifisso rimane il grande libro della sua vita; su quelle pagine con l'aiuto della Chiesa e con i sentimenti della pietà, il cristiano sa leggere tutto ciò che Dio ha voluto scrivere per noi. Su quelle pagine c'è scritta la giustizia di Dio perché la morte di Cristo è la condanna del nostro peccato, c'è scritta la misericordia di Dio perché il sacrificio di Cristo ha meritato il perdono delle nostre iniquità, c'è scritta l'onnipotenza di Dio perché la debolezza di Cristo è vittoria sulla forza del male, c'è scritta la sapienza di Dio perché si è compiuto nella passione di Cristo il disegno del Padre per la salvezza dell'uomo, c'è scritta la libertà di Dio che nell'obbedienza di Cristo ha liberato la libertà dell'uomo; in una parola, quelle pagine ci raccontano tutto l'amore di Dio per noi perché in Cristo, morto e risorto, il Padre ci ha donato ogni cosa, e la vita eterna. Dobbiamo mettere Cristo crocifisso al suo posto, sul Golgota della nostra carne, della nostra anima, di ogni realtà umana. Deve compiersi la volontà di Cristo: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutto (tutti) a me”. San Giovanni nota che nel linguaggio di Gesù essere 138
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Gv. 12, 32
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"innalzato" è indicativo della sua morte sulla croce, e insieme è annuncio della sua glorificazione. Il Padre infatti ha glorificato il Figlio proclamandolo, sulla croce, Salvatore del mondo. E' giunta l'ora che sia glorificato il figlio dell'uomo. Dall'alto della croce Cristo avrebbe "attirato" tutto e tutti a sé. Questa attrazione a Cristo crocifisso si rivela nel fatto che gli uomini "guarderanno" a lui attraverso la fede. “Chiunque vede il Figlio e crede in Lui ha la vita eterna". Mettere la croce di Cristo nel cuore di ogni uomo, sulla sommità di ogni valore e di ogni attività umana, perché tutto e tutti, passando attraverso la croce di Cristo, incontrino la salvezza, e Gesù Crocifisso sia glorificato sulla terra come Salvatore del mondo: è questa una delle grandi ispirazioni che Dio ha messo nel cuore di san. J. Escrivà; per tutta la vita egli ha cercato che questo diventasse l'impegno apostolico di migliaia di anime. La devozione e l'amore al Crocifisso è l'arma di ogni apostolo e la strada di ogni santità. "Il tuo Crocifisso. - Già come cristiano dovresti portare sempre con te il tuo Crocifisso. E metterlo sul tuo tavolo di lavoro. E baciarlo prima di addormentarti e al risveglio: e se il tuo povero corpo si ribella contro l'anima, bacialo anche allora". Perciò, "quando vedi una povera Croce di legno, sola, senza importanza e senza valore... e senza Crocifisso, non dimenticare che quella Croce è la tua Croce: quella d'ogni giorno, quella nascosta, senza splendore e senza consolazione..., 139
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"Questo diceva per indicare di quale morte doveva morire" (Gv.12, 33). 140 "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna" (Gv. 3, 15). 141 Gv. 6, 40 142 Cammino, n. 302.
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che sta aspettando il Crocifisso che le manca: e quel Crocifisso devi essere tu”. 143
63 – La devozione al Sacro Cuore La riparazione, come espiazione dei peccati e come espressione di un amore che vuole cancellare il disamore, è strettamente legata a una devozione che ha conosciuto uno sviluppo straordinario nel popolo cristiano soprattutto negli ultimi secoli: la devozione al Sacro Cuore di Gesù. Nata e sviluppatasi nel Medio Evo, questa devozione ebbe come apostoli ardenti San Giovanni Eudes e Santa Margherita Maria Alacoque. Fu ispirata da Cristo stesso in tempi difficili per la spiritualità cristiana; ma il culto al Cuore di Cristo ha le sue radici nel Vangelo e nella tradizione liturgica della Chiesa. L'evangelista San Giovanni, l'apostolo che Gesù amava e che ha riposato sul cuore di Lui nell'ultima Cena, ci narra l'episodio che resterà per sempre il documento dell'amore senza limiti che Gesù ha portato e porta a tutti gli uomini. “Vennero dunque i soldati ... da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua”. Gesù immolandosi sulla croce aveva dato tutto di sé stesso, eppure quel colpo di lancia che gli squarciò il cuore sembra dire che gli restava ancora qualcosa da dare: le ultime gocce di sangue. Egli non volle tenere per sé nemmeno quelle, le versò totalmente perché restassero come un simbolo e una prova. Abbiamo già ricordato che il sangue e l'acqua sono il simbolo di doni ben più grandi: il dono dello Spirito San144
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Cammino, n. 178 Gv. 19, 33
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to e il dono del Battesimo, cioè dei Sacramenti. Abbiamo anche visto il significato sponsale di quella ferita che ha spalancato il cuore divinamente innamorato di Cristo: come dal fianco di Adamo addormentato, Dio ha tratto la donna come sposa, così dal fianco aperto di Cristo "addormentato" sulla croce è nata la Chiesa, sua Sposa, che forma con Lui "una sola carne": il Corpo Mistico. Lo Spirito Santo, la Chiesa da lui vivificata, i Sacramenti che danno la salvezza: sono questi i doni inestimabili usciti dal cuore di Cristo crocifisso. Che altro poteva fare per noi il Signore? Che altro poteva darci? Infatti quel Cuore aperto è diventato la prova dell'amore di Cristo. Proprio Giovanni, l'Apostolo testimone e interprete di quel colpo di lancia vibrato dal soldato, narrando l'ultima Cena aveva scritto: “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine”. Ed è appunto questo Amore non amato, questo Fuoco acceso in un mare di indifferenza, questo Dono non accolto e disprezzato, il motivo per cui tante anime hanno sentito il bisogno di riparare, di esprimere nel culto al Cuore di Cristo il proprio amore, la propria fede, il proprio desiderio di alleviare il peso dell'amarezza e del dolore per tanta incorrispondenza. E' questo anche il lamento di Cristo con Santa Margherita Maria Alacoque: "Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini, e in cambio non riceve che ingratitudine!" Qui sulla terra l'amore è spesso fonte di dolore, perché mai possediamo pienamente ciò che amiamo e, viceversa, non siamo mai in grado di dare a misura dell'amore. Ma soprattutto il tormento che più ferisce il cuore umano è l'amore non corrisposto, l'amore non accolto o, peggio, l'amore deriso e disprezzato: una vera crudeltà che può con145
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Gv. 13, 1
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durre alla pazzia o alla morte. Su questa terra, solo Gesù ha posseduto pienamente ciò che amava: in lui abita "la pienezza della divinità" e in lui l'amore del Padre fu perfetto; così, soltanto Cristo ha potuto dare a misura del suo amore: ha amato fino in fondo, "sino alla fine" e "a quanti l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio", e, se figli, anche eredi, eredi di Dio, eredi del cielo. Invece, nessun uomo sulla terra ha provato la crudeltà dell'indifferenza, dell'amore non amato, del disprezzo e della derisione, come l'ha provato il cuore di Cristo, quel cuore che l'amore infinito ha spalancato verso gli uomini. E l'incorrispondenza che più ferisce, più ancora dell'odio dei nemici, è l'indifferenza degli amici, dei prediletti e dei beneficati. "Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia...". 146
64 – La riparazione Il venerdì, giorno dell'Amore tradito e dell'Amore non amato, deve diventare per noi il giorno della riparazione, dell'espiazione, dell'Amore corrisposto e condiviso, dell'Amore riamato. Il Cuore di Cristo trafitto sulla croce è il Cuore di Dio che parla al cuore dell'uomo. Non basta voler bene a una persona, occorre che essa lo sappia e se ne renda conto. Dio ci ama. Dio ama tutti gli uomini, ma essi non ne sono abbastanza convinti; il cuore di Cristo crocifisso è stato trafitto dall'amore, ma gli uomini non ci 146
Salmo 54, 13-14
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pensano o non se ne rendono conto. Noi stessi, i credenti, non ne sentiamo tutta la forza e non sperimentiamo tutta la sua efficacia, preoccupati come siamo di meritarci l'amore di Cristo con le nostre opere, preoccupazione che porta all'avvilimento per i nostri limiti e allo scoraggiamento per le nostre debolezze. La vera riparazione esige umiltà, l'umiltà di saperci amati da Dio gratuitamente e solo per amore. Il Signore vuole che ci affidiamo fiduciosamente al suo amore misericordioso con l'impegno di servirlo e di farlo amare. Sono appunto questi i due elementi essenziali della riparazione: lotta interiore per essere fedeli servitori e discepoli di Cristo, nonostante tutto, cioè nonostante ciò che di negativo può esserci nella nostra vita, e l'impegno di far conoscere e amare Cristo ai nostri amici, aiutandoli ad allontanarsi dal peccato e a lasciarsi amare da Colui che li ha redenti col suo sangue divino. Frutto di questo desiderio di riparazione sono alcune pratiche che si sono diffuse nella devozione del popolo cristiano: l'adorazione riparatrice davanti al Santissimo Sacramento. E' praticata in molte comunità alla sera o nelle ore notturne del primo giovedì del mese. Ricorda l'agonia di Gesù nell'Orto degli ulivi e vuol essere come una risposta all'invito di Gesù: "La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me". Molti fedeli la praticano privatamente, sempre nel primo giovedì del mese, davanti al tabernacolo; un'altra pratica è quella dei nove primi venerdì del mese. Proposta da Gesù stesso a Santa Margherita M. Alacoque, è chiamata la "grande promessa". Gesù, in una delle sue mistiche comunicazioni alla santa, promise la grazia della perseveranza finale a quanti si fossero accostati 147
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Mt. 26, 38
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alla confessione e alla comunione eucaristica nel primo venerdì di nove mesi consecutivi. Sono molti gli episodi nella letteratura agiografica che confermano questa grande promessa; altre pratiche riparatrici sono l'atto di consacrazione al Sacro Cuore e varie forme penitenziali, come digiuni e pellegrinaggi. Ma la forma di riparazione più efficace e importante rimane sempre la Santa Messa. La solennità del Sacro Cuore si celebra nel venerdì dopo la solennità del Corpus Domini; ma quella Liturgia può essere celebrata come votiva ogni venerdì della settimana.
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SABATO
65 – Il “giorno mariano” La feria settima della settimana, il giorno dedicato dai pagani a Saturno, venne sempre indicato nella Liturgia della Chiesa con il nome ebraico di "sabato". Conosciamo già il suo significato presso gli Ebrei. Ma nella tradizione cristiana il sabato era considerato un giorno di tristezza: ricordava la sepoltura di Gesù. Era perciò un giorno di penitenza e di digiuno, conformemente a quanto aveva predetto Gesù stesso: “Verranno i giorni quando sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno". Nel Triduo pasquale, il sabato rimaneva un giorno liturgicamente "vuoto", un giorno riservato al silenzio e alla riflessione. Veniva perciò spontaneo, dopo aver celebrato, nel venerdì, la Passione del Figlio, ricordare, nel sabato, il dolore e la "passione" della Madre che, ai piedi della croce, era stata intimamente unita al sacrificio di Cristo. Tanto più che in quel sabato, così "vuoto" e triste, l'unica persona che seppe conservare la fede in Gesù e la certezza che tutto si stava compiendo secondo il disegno di Dio, fu lei, la Madre del Redentore. Con il tempo, perduto il riferimento al sabato santo e sviluppandosi, nel Medio Evo, la devozione all'Addolorata come festa autonoma per celebrare tutto il dolore di Maria, il sabato cessò di essere un giorno "triste" e penitenzia148
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Mt. 9, 15
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le per diventare un giorno di gioia e di letizia; una gioia contenuta e sommessa, a dimensione, potremmo dire, famigliare, quella gioia che proviene dalla presenza abituale della madre in un focolare domestico. Un riferimento penitenziale, tuttavia, sopravvisse nella consuetudine, praticata da molti fedeli, di offrire ogni sabato una piccola mortificazione, un "fioretto", in onore della Vergine, come testimonianza di affetto e di devozione alla Madre di Dio. Non sappiamo se queste o altre furono le considerazioni che portarono la pietà cristiana a fare del sabato un giorno mariano, sta di fatto che tra tutte le devozioni ricordate nei vari giorni della settimana, questa, del sabato dedicato alla Madonna è, dopo quella del venerdì dedicato alla passione del Signore, la devozione più diffusa, più unanime e di più antica tradizione. Così pure resta il fatto che con la conoscenza sempre più profonda del mistero di Cristo, anche il ruolo di Maria si rivelò sempre più chiaramente nella sua grandezza e nella sua importanza. Ne danno testimonianza la progressiva presenza di Maria nella Liturgia della Chiesa, nel culto e nella fede del popolo cristiano, come anche nella stessa riflessione teologica, che hanno portato all'attuale calendario delle feste mariane e al nuovo Messale liturgico. Tutto questo riflette una sempre più profonda comprensione del mistero stesso di Gesù da parte della Chiesa, che ha compreso così, in modo sempre più chiaro, il posto unico di Maria nel piano salvifico di Dio. Questo ci aiuta a capire che la devozione alla Madre di Dio non è una devozione "facoltativa", puramente devozionale; essa risponde a una precisa volontà di Dio che ha affidato a Maria una missione unica e singolare riguardo agli uomini. "Porre Maria al posto che le compete per volontà divina nella storia della nostra salvezza: questo è essenziale. Quello che importa alla nostra fede e alla nostra pietà mariana è conoscere la sua missione salvifica così 181
come ci appare attraverso le pagine ispirate della Bibbia e della Tradizione vivente della Chiesa" (Hans Hasmussen). 66 – Lo specifico femminile: la maternità Il ruolo fondamentale che Dio, nel suo disegno di salvezza, ha affidato alla Madonna è quello della maternità. Del resto, non poteva affidarle un ruolo diverso dal momento che questa è la missione specifica e propria di ogni donna. Lo specifico femminile è quello di essere, nella maternità, una teofania di Dio: attraverso il mistero della vita la donna rivela Dio all'uomo. Lo rivela nei suoi tre aspetti fondamentali: come dono, perché Dio è Dono, e la donna è il dono fatto da Dio all'uomo; come vita, perché Dio è il Vivente, e la donna racchiude e custodisce in sé stessa il mistero della vita; infine, come amore, perché Dio è amore, e la donna ha reso possibile l'amore togliendo l'uomo dalla sua solitudine. Questa "missione profetica" della donna, come la chiama Giovanni Paolo II, esprime le prerogative che Dio ha messo nel cuore della donna in vista della sua missione fondamentale: l'accoglienza dell'essere umano. Quando Dio creò Eva non fu solo per farne un dono ad Adamo come "aiuto simile a lui", ma anche, e in senso assai più profondo, per affidare l'uomo alla donna; ciò significa che ogni essere umano è un dono che Dio affida alla donna. E' questo appunto il significato profondo della maternità. Infatti, in ebraico, Eva significa "vita"; Adamo chiamò la donna Eva "perché essa fu la madre di tutti i viventi". Perciò, se la donna come teofania della divinità, aiuta l'uomo a percepire Dio, l'uomo, da parte sua, aiuta la donna a capi149
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Gn. 3, 20
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re sé stessa nella sua identità più profonda: la maternità. Tutti questi motivi spiegano perché la donna sente una profonda attrattiva verso l'uomo, attrattiva che il peccato ha rovinato trasformandola in schiavitù, mentre, originariamente, era la voce limpida e gioiosa della sua femminilità che vedeva nell'uomo l'essere affidatole da Dio, voce che, per quanto venga soffocata, riecheggia continuamente nel suo intimo, soprattutto quando l'essere umano lo sente germogliare nel suo grembo, lo genera dentro di sé, lo sente crescere, farsi da lei, dalla sua carne e dal suo sangue. Ecco perché l'aborto è innanzitutto una violenza contro la donna, perché nell'aborto la donna non uccide soltanto l'essere umano che le è stato affidato, ma uccide anche sé stessa come donna. 67 – S. Maria nel disegno di Dio Ora, la maternità di Maria ricupera e riscatta la maternità di Eva, anzi riscatta tutta la maternità umana, quella dell'intera umanità. La maternità di Eva era diventata una maternità di dolore e di morte; essa generava dei condannati a morte, e tale maternità si prolungava lungo tutte le generazioni umane. Il peccato è sinonimo di morte - morte morieris, aveva detto Dio ad Adamo - e perciò il grembo che era per la vita si è trasformato in una tomba per la morte. Ora, Maria fu predestinata da Dio a soppiantare Eva e generare il nuovo Adamo, capostipite della nuova umanità. "In te, et per te, et de te, benigna manus omnipotentis, quidquid creaverat, recreavit - esclama San Bernardo -. In te, per te, e da te, la mano misericordiosa dell'Onnipotente, quanto aveva creato lo ha anche rinnova183
to (ri-creato)". Maria è il capolavoro della creazione rinnovata, il prototipo della nuova umanità. Due passi scritturistici ci aiutano a comprendere meglio questa antitesi Eva-Maria: 1) - Il protoevangelo: "Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insiderai il calcagno". Qual é questa inimicizia? Essa risiede nell'antitesi tra il comportamento del serpente, e perciò di Eva, e il comportamento di Maria. Lo fa notare S. Ireneo con la sua consueta lucidità: "Eva, ancora vergine, si fece disobbediente e divenne per sé e per tutto il genere umano causa di morte, Maria, Vergine obbediente, è divenuta per sé e per tutto il genere umano, causa di salvezza (...). Ed è così che la disobbedienza di Eva è stata riscattata dall'obbedienza di Maria: poiché ciò che la vergine Eva legò con l'incredulità, Maria l'ha sciolto con la fede". Maria dunque è un ritorno alle origini - S. Ireneo lo chiama "ricirculatio": un circuito contrario -; Maria ricupera Eva e la supera nella sua stessa giustizia originale, quella che essa aveva prima del peccato. Ma non è un ricupero puro e semplice che taglia fuori tutta la storia e la vicenda umana; è un ritorno - un ricupero - che passa attraverso l'opera della salvezza, attraverso il disegno salvifico del Padre. Questo significa che c'è antitesi ma c’è anche continuità tra Eva e Maria e, viceversa, tra Maria ed Eva. 2) - Possiamo cogliere la conferma a questo pensiero di S. Ireneo nei due passi evangelici che ricordano la ge150
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Gn. 3, 15 S. Ireneo, Adversus haereses, 3,22. S. Ireneo, che abbiamo già ricordato come padre dell'antropologia cristiana, è considerato anche padre della mariologia cattolica. 152 Vedremo più avanti che questa è una delle ragioni fondamentali dell'Immacolata Concezione. 151
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nealogia di Gesù: la genealogia "discendente" - da Abramo a Maria - descritta da Matteo, e quella "ascendente" - da Maria ad Adamo - descritta da Luca. In Matteo , Maria è il termine, il punto d'arrivo delle generazioni umane attraverso la promessa fatta ad Abramo e trasmessa alla discendenza ebraica. Così la maternità di Eva, lungo i millenni della storia umana, è diventata un grido immenso, un'attesa cosmica che invocava la salvezza. Quel verbo, "generò", ripetuto tante volte nell'elenco della genealogia messianica, quel "genuit... genuit... genuit..." in un susseguirsi serrato e apparentemente arido, è invece un susseguirsi carico di tensione. Le generazioni si succedono come l'incalzare progressivo delle onde di un oceano: ogni generazione riceve l'attesa e il desiderio delle generazioni precedenti, attesa che va crescendo, che si va gonfiando, diventa incontenibile..., è un mare sconfinato di occhi, di sguardi rivolti verso oriente per veder spuntare la salvezza; sembra quasi che le generazioni più lontane si alzino sulla punta dei piedi per scorgere Cristo nel suo apparire sull'orizzonte...; e finalmente: “L'Angelo Gabriele fu mandato da Dio... a una Vergine che si chiamava Maria, ed entrando da lei disse: Ti saluto o piena di grazia, il Signore è con te... su te scenderà lo Spirito Santo, e stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Perciò Colui che nascerà da te sarà santo e chiamato Figlio di Dio”. San Bernardo, in una pagina stupenda, immagina che tutta l'umanità stia assistendo al colloquio dell'Angelo con la Madonna; il mondo intero sta quasi trattenendo il respiro..., c'è un silenzio immenso in tutto il creato: nelle mani di Maria c'è in quel momento tutta l'attesa dell'umanità, tutta l'aspettativa degli uomini che furono, che sono e che verranno. San Bernardo si rivolge a Maria invitandola, supplicandola, a dire di sì all'An153
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Mt. 1, 1-17 Lc. 1, 26 segg.
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gelo, ad aprire il suo grembo allo Spirito Santo, a non temere la potenza di Dio che le affida il suo Verbo, a rispondere con la fede alla volontà dell'Altissimo. E quando la Madonna rompe il silenzio pronunciando il suo "fiat", un grido di gioia corre lungo i secoli e attraversa tutta la storia umana, un "brava!" immenso sale da tutte le generazioni umane: "Tutte le generazioni mi chiameranno beata!...", e il suo cantico di lode cancella le parole di condanna che erano state pronunciate nell'Eden. Maria ricupera Eva e, in Eva, ogni donna, perché ricupera la maternità umana e le conferisce una dimensione totalmente nuova che nessuna maternità aveva né poteva avere: la dimensione redentiva. Quella di Maria è una maternità di redenzione. Questa dimensione fondamentale della maternità di Maria ci illumina immediatamente sul rapporto unico che la Madonna ebbe con le Persone Divine della Trinità Santissima. 155
68 – Maternità divina e Paternità di Dio Innanzitutto il rapporto che unisce Maria con il Padre. E’ un rapporto che colloca la Madonna all’interno del piano della creazione. Abbiamo già osservato che Maria, come creatura del Padre, è modello e anticipazione della creazione rinnovata. In un certo senso Dio Padre, creatore del cielo e della terra, vedendosi deturpata la creatura che egli aveva fatto a “sua immagine e somiglianza”, fu preso da un moto di divina ribellione: non poteva tollerare che la 155
S. Bernardo, Omelie sulla Madonna, 4, 8-9
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creatura sulla quale aveva impresso il suo sigillo e che egli aveva posto come interprete dell’intero universo, restasse irreparabilmente ferita e rovinata in sé stessa e nella sua vocazione, trascinando nella propria rovina tutto il creato. Alla maniera di un grande artista che, vedendo infranto e demolito il suo capolavoro, stretto dal dolore e dall’amore decide di ricostruirlo più bello e più perfetto di prima, così Dio non si è rassegnato al peccato che ha deturpato l’uomo e rovinato l’immagine divina che era in lui, ma ha ri-creato una creatura più santa, più perfetta, più bella: ha inventato la Piena di Grazia, capolavoro della creazione, prototipo della nuova umanità che avrebbe avuto in Cristo la sua perfetta realizzazione. Maria è figlia eccelsa di Dio Padre, predestinata e scelta dall’eternità ad essere la sua “serva” in ordine al piano della salvezza. La sua maternità redenta è perciò strettamente legata alla paternità di Dio. Sta in questo il motivo fondamentale della Concezione Immacolata di Maria. Se infatti la maternità, come collaborazione della creatura con il creatore, si rivela segno della potenza generante del Dio Vivente, Fonte della vita, mentre il peccato si rivela come sinonimo di morte, allora la maternità è incompatibile con il peccato. Se il grembo di Maria doveva essere segno della fecondità e della vita, in quanto generava il Figlio dell’Eterno Padre, ed essere perciò epifania della paternità di Dio, allora Maria non poteva essere soggetta al peccato nemmeno per un solo istante, fin dalla sua concezione. Infatti, come avrebbe potuto Maria ricuperare la maternità di Eva che giaceva sotto il segno del peccato e generare il Figlio del Dio vivente, se essa stessa, Maria, fosse stata soggetta al peccato? Se dunque Maria doveva essere madre, di una maternità secondo il disegno di Dio, doveva essere immacolata. Il fatto poi di essere stata predestinata a una maternità di redenzione - Madre del Redentore - spiega per187
ché essa fu immacolata in vista e per i meriti del Sacrificio di Cristo. 69 – Madre di Dio-Figlio Una maternità redenta, quella di Maria, e insieme una maternità di redenzione, perché maternità divina. Maria, infatti "partorirà un figlio e lo chiamerà Gesù (=Salvatore): egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati". Si stabilisce così tra Maria e il Figlio di Dio, un rapporto unico e sublime che nessun'altra creatura potrà mai uguagliare. Ricuperando la maternità di Eva, Maria rimane profondamente legata all'umanità, a tutti noi, ma nella maternità divina Maria viene assunta in un rapporto con Cristo che rimane fondamento di tutta la sua missione e perciò della sua identità e della sua grandezza. Ora, Gesù è Dio, è il Messia, è il Redentore. Ciò significa che la maternità di Maria non è un fatto puramente naturale, ma un mistero divino, mistico, soprannaturale, e non solo nel modo e nella sostanza ma anche nella sua ampiezza e dimensione. Cioè la maternità divina lega profondamente Maria a Cristo come Dio (Mater Dei), come Messia (Mater Christi), come Redentore (Alma Redemptoris Mater). Maria è innanzitutto la Madre di Dio, la Theotokos (=Mater Dei). E' il titolo più alto e sublime che la Chiesa ha rivendicato per Maria. L'hanno proclamato solennemente i Padri nel Concilio di Efeso (431 d.C.), affermando che l'unica persona in Gesù è la Persona del Verbo, la seconda Persona della Trinità Santissima. Gesù è dunque il Figlio di Dio, e Colei che l'ha accolto nel suo grembo è vera Madre del Verbo. Maria ha veramente concepito e generato un es156
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Mt. 1, 21
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sere umano che nello stesso tempo è Dio. Egli, Figlio del Padre secondo la natura divina, è divenuto figlio di Maria secondo la natura umana. A partire dal Concilio di Efeso il culto di Maria entrò nella Liturgia della Chiesa e nella devozione del popolo cristiano con una dimensione più alta e solenne: pur restando "l'umile serva del Signore" - la Madre di Gesù, secondo l'espressione evangelica - Maria viene celebrata nella sua realtà di Madre del Signore, Madre del Re e perciò Regina e Signora. Da allora il nome di Maria sarà sempre accompagnato dall'appellativo Theotokos, che resterà il titolo principale ed esclusivo di Santa Maria. Nella Liturgia, nella pietà e anche nella letteratura orientale, una splendida fioritura di appellativi attribuiti alla Vergine Santa faranno sempre riferimento, come una corona, al titolo fondamentale di "Madre di Dio", titolo che apparirà nei corrispondenti monogrammi su tutte le icone. E proprio l'icona della Theotokos, della Madre di Dio che tiene tra le braccia il Bambino, sarà l'icona più riprodotta e più venerata in tutte le chiese d'Oriente, sarà la rappresentazione principale della Vergine Maria, l'icona regina di tutte le icone. Tra i vari episodi legati alla maternità divina di Maria, quello più rappresentato in assoluto nei primi secoli è l'adorazione dei Magi; viene poi la scena dell'Annunciazione dove l'Angelo appare sempre in atto di profonda venerazione verso Maria. In effetti, l'Incarnazione, il mistero del Verbo che si fece carne nel grembo di Maria, è il momento più intenso di tutta la storia umana. La separazione, la distanza invalicabile che separava l'uomo da Dio è stata vinta. Questa "vittoria" di Dio è stata infinitamente più grande della "sconfitta" dell'uomo. Dio ha superato la distanza che lo separava dalla creatura, non solo la distanza morale scavata dal peccato ma anche la distanza ontologica segnata dalla natura; l'ha annullata non semplicemente "avvicinan189
dosi" all'uomo scendendo dal cielo, ma si è "incarnato", è entrato profondamente nell'uomo; ha stabilito con lui non una semplice vicinanza per quanto intima, ma una "unione" così ineffabilmente profonda che ci permette di dire: un Uomo è anche Dio. Anzi, avendo Egli assunto non "una persona" umana ma "la natura" umana è come se avesse assunto tutti gli uomini; ha comunque reso possibile a tutti coloro che avrebbero aderito a Lui con la fede e con la grazia, la partecipazione alla sua filiazione divina: "A quanti l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio". La maternità divina di Maria è stata dunque una vera maternità; Maria ha dato un vero corpo a Gesù: Ave verum Corpus natum de Maria Virgine, canta la Chiesa, un vero corpo che Ella ha portato in gestazione nel suo grembo, lo ha partorito, sia pure verginalmente, dopo nove mesi, lo ha cresciuto, allattato, portato in braccio, recato al tempio..., fino ad accoglierlo tra le sue braccia deposto dalla croce. La maternità divina di Maria ha conosciuto tutte le espressioni della maternità umana: l'intimità, la tenerezza, le esperienze dolcissime che ogni madre sperimenta nel rapporto con la sua creatura; e tuttavia Ella era cosciente che in quel Corpo che stringeva fra le sue braccia c'era il Figlio di Dio. 157
70 – Madre di Cristo Nell'Incarnazione, la maternità divina di Maria si rivela anche come maternità messianica. Il Figlio di Dio, fatto uomo nel grembo di Maria, è l'Inviato del Padre, è il Messia promesso da Dio all'umanità, colui che i Patriarchi, i Profeti e tutto un popolo hanno atteso per secoli, deside157
Gv. 1, 12
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rato e invocato da intere generazioni. Come Messia, Cristo è il Mediatore tra Dio e l'uomo; è l'unico, vero, interlocutore degli uomini davanti al Padre. Vero Dio e vero uomo, Egli ricongiunge in sé la creatura con il suo creatore; ha gettato un ponte - è il grande Pontefice - sull'abisso che separava la terra dal cielo, e nel grembo di Maria, è stato "unto" (=Cristo) come Messia. Ormai non è più possibile arrivare a Dio se non per mezzo di Gesù: "Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". E' una mediazione, quella di Cristo, che non ha uguali: è unica, eterna, assoluta. E' unica perché Cristo è mediatore per natura essendo Dio-Uomo nell'unica Persona del Verbo; Maria è mediatrice per grazia, per volontà del Padre che l'ha inserita nel suo disegno di salvezza. La mediazione di Cristo è eterna, perché abbraccia tutto il tempo, dalla creazione alla risurrezione, alla glorificazione di tutte le cose: "Tutte le cose infatti sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui" , secondo il disegno prestabilito dal Padre, cioè di "ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra". Maria è mediatrice dalla Incarnazione alla Parusia, cioè nel tempo della misericordia - Mater Gratiae, Mater Misericordiae -. Infine la mediazione di Cristo è assoluta, non dipende da altre mediazioni, non è subalterna ad alcuna creatura e appartiene in assoluto a Cristo. Maria è mediatrice per partecipazione, subordinata a Cristo, partecipe dell'unica e perfetta mediazione di Cristo. E' tuttavia una mediazione materna e universale: nasce cioè dalla sua maternità messianica e abbraccia tutto ciò che Cristo ci ha meritato con la sua vita, morte e risurrezione. Non c'è dono, non c'è 158
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Gv. 14, 6 Col. 1, 16 160 Ef. 1, 10 159
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grazia che non passi attraverso le mani materne di Maria. Come una madre di famiglia che amministra il patrimonio famigliare, Maria amministra il tesoro infinito della Redenzione che Cristo le ha messo a disposizione. Maria dunque è intimamente legata alla missione mediatrice di Cristo. La sua maternità mediatrice si manifesta proprio a una festa di nozze, a Cana di Galilea. Gesù compie un miracolo in sé molto materiale ma dal significato estremamente profondo, perché raffigura il nuovo rapporto tra Dio e l'uomo inaugurato da Cristo nell'Incarnazione. Maria ottiene con la sua mediazione che Cristo si riveli come Messia, e che gli apostoli aderiscano a lui mediante la fede. "Si ha dunque una mediazione: Maria si pone tra suo Figlio e gli uomini (...). Si pone "in mezzo" cioè fa da mediatrice non come un'estranea, ma nella sua posizione di madre, consapevole che come tale può - anzi "ha il diritto" - di far presente al Figlio i bisogni degli uomini" : "...non hanno più vino". Maria si presenta poi davanti agli uomini come portavoce della volontà del Figlio: "Fate quello che vi dirà". 161
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71 – Madre del Redentore La maternità divina di Maria diventa così una maternità corredentrice; come madre del Redentore, la Madonna partecipa alla redenzione operata da Cristo. Già nell'Incarnazione il "sì" di Maria ha un valore salvifico, non per sé stesso ma perché partecipa ed è unito intimamente all'Eccomi di Cristo che obbedisce al Padre e prende il nostro corpo umano per farne sacrificio di salvezza. L'atto di 163
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Giovanni Paolo II, Redemptoris Mater, n.21 Gv. 2, 3-5 163 "Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà". (Eb.10,7) 162
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fede di Maria non si limita alla nascita di Gesù ma abbraccia tutto il messaggio dell'Angelo. In quel messaggio non le veniva chiesto il consenso per il concepimento di un bambino di cui avrebbe ignorato il destino: quel bambino doveva chiamarsi "Gesù" perché avrebbe liberato l'uomo dal suo peccato. Il "sì" di Maria all'Angelo abbracciava dunque tutto il mistero di Cristo: la sua Incarnazione e la sua nascita ma anche la sua passione e la sua morte redentrice. Maria infatti ne fu avvertita quaranta giorni dopo la nascita del Bambino, quando portò Gesù al Tempio per offrirlo al Padre: quel gesto ebbe un significato ben più profondo di quello inteso da Mosè che aveva ordinato agli Ebrei di offrire a Dio e poi di riscattare i primogeniti perché si ricordassero che la mano di Dio li aveva scampati dall'Angelo sterminatore. Nel ricevere tra le braccia il Bambino, il vecchio Simeone sarà esplicito con Maria: quel Bambino sarà salvezza e rovina di molti, e "Anche a te una spada trafiggerà l'anima". Il valore redentivo della maternità divina di Maria ha avuto la sua espressione più alta e commovente sul Calvario. Gesù è ormai immolato sull'altare della croce, Vittima e Sacerdote insieme; nel suo sacrificio si sta compiendo la redenzione del mondo. Gesù guarda Maria e le rivolge quell'espressione carica di mistero, così umana ma anche così divina: "Donna, ecco il tuo Figlio!" Gesù non la chiama madre ma "donna", come Adamo aveva chiamato Eva. Maria dunque ricupera la femminilità con tutti i suoi valori; cioè ricupera Eva e, in Eva, ogni donna. Poi aggiunge: Ecco tuo figlio! Questa espressione del Signore ha un duplice significato: in quel "figlio" Gesù indica innanzitutto sé stesso. Come dicesse: Tuo figlio è questo che tu vedi sacrificato sulla Croce per la salvezza degli uomini. In altre parole: "Tu sei madre della vittima immolata per il 164
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Lc. 2,35
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peccato, perciò la tua maternità è una maternità di redenzione perché essa ti fa partecipe del sacrificio del Figlio". Ma in quel figlio Gesù indica anche Giovanni, il discepolo amato. Ogni cristiano è un discepolo amato da Cristo e lì, ai piedi della Croce, diventa figlio di Maria. La conferma di questa verità viene da Gesù stesso che, rivolto a Giovanni dice: "Ecco la tua madre!". Lo dice a Giovanni ma, in lui, lo dice ad ogni uomo redento dal suo sacrificio: "Ricordati che mia madre, oggi, ti ha partorito nel suo dolore. La prenderai come tua madre, madre della tua salvezza". Nessuna madre ha sofferto tanto per partorire i suoi figli, e nessun figlio è costato tanto alla propria madre quanto è costato ognuno di noi alla madre di Cristo. Perciò le siamo infinitamente cari e ci ama come nessuna madre ha mai amato i propri figli, e ci guarda con occhi che non hanno riscontro con nessuno sguardo di donna e di madre. Giovanni, che la prese con sé e conobbe l'intima tenerezza della sua maternità, ha scritto nel suo Vangelo: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito", ma avendocelo dato attraverso e per le mani di Maria, Giovanni avrebbe potuto scrivere anche: "La Madre di Gesù ha tanto amato gli uomini, da dare per loro il suo Figlio unigenito". Questa maternità dolorosa e l'immenso affetto per noi che Maria porta nel suo cuore, è certezza e garanzia per ognuno di noi. Nessuno, infatti, che si affida a Lei e che la invoca con fiducia e perseveranza, può andare perduto. 165
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72 – Sposa dello Spirito Santo
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Gv. 19,26 Gv. 3,16
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La maternità messianica e redentiva costituisce Maria madre nostra, madre degli uomini, ma soprattutto madre dei credenti, Madre della Chiesa. Il titolo di "Mater Ecclesiae" entra definitivamente nella dottrina cattolica e nell'insegnamento ufficiale della Chiesa con Paolo VI alla conclusione del Concilio Vaticano II. La maternità divina non colloca Maria al di sopra o al di fuori della Chiesa; Maria è membro della Chiesa, membro perché anch'essa è redenta da Cristo per cui è "figlia del suo Figlio". E tuttavia è un membro eccelso e sovraeminente perché occupa nella Chiesa un posto unico e specifico, quello della maternità, il posto e il ruolo che ha una madre in seno ad una famiglia. Se Maria è "Madre di Cristo, è anche madre delle membra di Cristo; se è madre del Capo è madre anche del Corpo" (S.Agostino). La Chiesa nasce nel giorno della Pentecoste, ed è in quel momento che Maria è costituita Madre della Chiesa. Essa fu madre di Cristo per opera dello Spirito Santo, e ancora per opera dello Spirito Santo divenne Madre della Chiesa.. L'Incarnazione e la Pentecoste mettono in luce il rapporto unico e sublime che legò Maria allo Spirito Santo; è paragonabile al rapporto nuziale: Sposa di Dio-Spirito Santo. "Il seno di Maria - scrive San Gregorio Magno - è il talamo nuziale dove si compie lo sposalizio di Dio con l'uomo", e uno scrittore antico proclama Maria: "Totius Trinitatis nobile triclinium", nobile stanza nuziale della Santissima Trinità. Così Maria, come Madre della Chiesa, ne diventa anche il simbolo, la figura: Maria, Typus Ecclesiae. Cioè, la maternità di Maria non solo ricupera la maternità di Eva, ma anche prefigura e si continua nella maternità della Chiesa. Il grembo di Maria viene così paragonato al fonte battesimale, che è come il grembo della Chiesa: dal ventre di 195
Maria è nato Cristo, dal ventre della Chiesa, cioè dal fonte battesimale, nascono le membra di Cristo. Sant'Ambrogio applica a Maria una espressione del Cantico dei Cantici: "Venter tuus sicut acervus tritici..., il tuo ventre è un mucchio di grano". Maria ha generato quel "Grano di frumento" che, caduto nella terra del Calvario, ha fatto germinare la messe dei credenti. Nel grembo della Chiesa il Granello di frumento germinato nel grembo di Maria è diventato un cumulo di grano sparso nel mondo. Perciò quello che avvenne in Maria nell'Annunciazione e nella Pentecoste non può essere che opera dello Spirito Santo: "Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine". Quelle particelle "de" e "ex" del testo latino dicono molto di più di quello che dice la traduzione italiana: si è incarnato "nel" seno della Vergine Maria "per opera" dello Spirito Santo. Quel "nel seno" dovrebbe indicare molto di più che non semplicemente il luogo, un luogo "passivo", nel quale avvenne l'Incarnazione del Verbo; l'ex Maria del testo latino infatti, indica la collaborazione attiva di Maria al mistero del Dio Incarnato. Sappiamo che questa collaborazione attiva di Maria è stata, sì, fisica e biologica perché Maria ha forgiato nel suo ventre l'umanità di Gesù, ma è stata soprattutto collaborazione mediante la fede e l'umiltà dell'obbedienza. Nessuna creatura avrà mai un rapporto così intimo con Dio come Maria, nessuno mai entrerà così profondamente nel cuore di Dio e nelle profondità della sua intimità divina come vi entrò la Vergine Santa. E' difficile trattenere dentro il nostro cuore la commozione e la gioia per avere una madre così grande, così bella, così 167
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Ct. 5, 3 "...Granum tritici generabat..., sed de uno grano tritici acervus factus est... Ex illo ergo utero Mariae diffusus est in hunc mundum acervus tritici... quando natus est ex ea Christus", S.Ambrogio, De Virginitate (PL 16,327). 168
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amabile..., e così potente!. "...Canta davanti alla Vergine Immacolata e ricordale: ave Maria, Figlia di Dio Padre: ave Maria, Madre di Dio Figlio: ave Maria, Sposa di Dio Spirito Santo... Più di te, soltanto Dio". 169
73 – L’Immacolata Abbiamo già detto che la maternità di Maria, in quanto maternità messianica e in quanto rivelazione della paternità di Dio, esigeva l'Immacolata Concezione per cui Maria veniva preservata dal peccato originale e da ogni altra colpa. Questo aspetto, per così dire "negativo" (l'assenza di ogni colpa), risplende nell'Immacolata con lo splendore di una santità eccelsa. Maria non fu soltanto la "senzamacchia", ma fu anche la "tutta-santa". L'Angelo nell'Annunciazione la salutò: "piena di grazia", dimora di Dio: "Il Signore è con te". Maria ebbe la pienezza della vita divina, quanto poteva esserne capace un'anima umana. E con la grazia, Maria ebbe la pienezza delle virtù teologali: la fede, la speranza, la carità, e tutte le virtù morali che fanno di lei l'immagine più alta della santità creaturale, il modello ideale di creatura secondo il disegno di Dio Se la santità, intesa come compendio e perfezione di tutte le virtù, sta nella pienezza dell'amore, l'amore di Dio e l'amore agli uomini, la santità di Maria non ha eguali; in nessuna creatura l'amore di Dio è stato così pieno e perfetto, né l'amore per gli uomini è stato tanto intenso e totale. Nella fede e nell'amore Maria ci precede, e la sua santità sopravanza quella di tutti i santi che furono e che saranno. Perciò l'Immacolata è l'immagine di Maria che più di ogni altra ha esercitato fascino e attrattiva sul cuore dei cristiani, 169
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e più di ogni altra ha prodotto una ricchezza di metafore poetiche nel culto e nella pietà cristiana. In effetti, possiamo dire che l'Immacolata, la tuttapura, la tutta-santa, realizza il sogno di Dio. Egli ha disseminato la sua bellezza in tutto il creato, ha sparso il suo splendore su tutte le sue creature, eppure è lei, l'Immacolata, la Bellezza di ogni bellezza, lo splendore della luce che riverbera sul mondo. Alba incontaminata, tenerissima Aurora, fulgido meriggio: Maria è la bellezza della nuova creazione. La Liturgia della Chiesa utilizza le espressioni più poetiche della Sacra Scrittura per esaltare la bellezza di Maria: candor lucis aeternae... luminoso candore di eterna luce... specchio tersissimo senza macchia... quasi aurora consurgens, pulchra ut luna, electa ut sol: sei come l'aurora nascente, bella come la luna, fulgida come il sole, fai tremare come un esercito schierato a battaglia!... Tota pulchra es Maria, sei tutta bella, o Maria, senza macchia alcuna di peccato... la tua veste è candida come neve incontaminata, e il tuo volto radioso come il sole...; circondata di stelle, sorretta dalla luna, ammantata di sole... ornata di splendidi gioielli come una sposa adorna per il suo sposo...; al re è piaciuta la tua bellezza e in te ha posto la sua dimora...; diffusa est gratia in labiis tuis: sulle tue labbra si è diffusa la grazia, il candore, l'amabilità... Maria, possiamo ben dire, è come il sorriso di Dio sulla terra! L'Immacolata è festa di bellezza, festa di luce, festa di candore. Fiat lux: Sia la luce! - fu la prima parola pronunciata da Dio sull'abisso primordiale, e "fiat lux" fu ancora la parola che Dio pronunciò sul caos tenebroso del peccato..., e Maria apparve come la "Santa Montagna rimasta intatta, dimora di Dio, sulla quale non venne mai meno la luce". 198
74 – La “sempre-Vergine” Maria Altra prerogativa strettamente connessa con la divina maternità di Maria è la Verginità: la "sempre-Vergine Maria"; così è frequentemente indicata nella Liturgia. Quel "sempre" della verginità viene specificato dal Magistero della Chiesa come verginità prima del parto, durante il parto, e dopo il parto, cioè Gesù "non diminuì ma consacrò l'integrità della madre". Del resto, questa è la fede della Chiesa e del popolo cristiano fin dai primi tempi. Alcuni hanno negato e altri hanno combattuto questa verità della nostra fede che, insieme alla verità dell'Immacolata Concezione, della pienezza di Grazia, e della missione mediatrice costituisce una splendida gemma nel corredo delle "grandi cose" operate da Dio in Maria. La Verginità, come anche le altre prerogative, non fu soltanto un "privilegio" connesso alla persona della Madonna, ma rappresenta un elemento intrinsecamente collegato alla maternità divina. Abbiamo visto che Maria fu Madre del Redentore (Alma Redemptoris Mater); ora la Redenzione, cioè la salvezza, non può essere in nessun modo opera dell'uomo; l'uomo non è in grado di salvare sé stesso. La salvezza è dono totale ed esclusivo di Dio. Può venire solo da Lui. Perciò Gesù, cioè Colui che "salverà il popolo dai suoi peccati", non può essere opera dell'uomo ma soltanto di Dio. Maria stessa, nel concepimento di Gesù, non è stata l'artefice della generazione, ma è stata colei che "ha accol170
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Nel Vangelo, quando si parla di Maria, il verbo "generare" è usato sempre al passivo: "...Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale fu generato Gesù, chiamato Cristo". Così, l'Angelo disse a Giuseppe: "...non temere di prendere con te Maria, tua sposa, per-
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to" ciò che è venuto solo dalla potenza di Dio. Già abbiamo ricordato che la collaborazione attiva di Maria si è manifestata nell'obbedienza della fede. "Ecco la serva del Signore, avvenga in me quello che tu hai detto" ; tutto ciò che è avvenuto in lei è opera dello Spirito Santo. Anche nel parto Maria ebbe conservata la sua verginità. Gesù cioè uscì dal grembo materno in modo indolore e lasciando intatta l'integrità corporea della madre. E' un prodigio che ha valore di segno: indica in primo luogo l'integrità morale e spirituale di Maria, che appunto risana e ricupera la maternità di Eva ferita dal peccato e segnata dal dolore; in secondo luogo significa l'origine divina di Cristo e prefigura la sua risurrezione con la vittoria sul peccato e sulla morte. La totale integrità fisica di Maria stabilisce così un'ideale analogia tra il seno verginale della madre di Cristo e il seno del Padre dal quale il Verbo è eternamente generato; e ancora, tra il seno verginale di Maria e il grembo verginale della Chiesa che nel battesimo genera i nuovi figli di Dio. In altre parole il Cristo-totale, - Christus totus, come lo chiama Sant'Agostino - cioè Cristo nella sua divinità (vero Dio), nel suo corpo fisico (vero Uomo) e nel suo Corpo Mistico (la Chiesa), prende origine da una triplice generazione che è tutta, solo, opera di Dio, e trova nella verginità di Maria la sua ideale analogia, il comune riferimento. Così, il seno del Padre, il seno di Maria, il seno della Chiesa, sono il "luogo" verginale in cui prende origine Cristo, figlio di Dio e redentore dell'uomo, il quale, anche per questo, ha ricapitolato in sé tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. 171
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ché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo" (Mt. 1, 16-20). 171 Lc. 1, 37 172 Ef. 1, 10
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Della Verginità dopo il parto, conseguenza ovvia e diretta della totale integrità di Maria e della sua intenzione manifestata all'Angelo Gabriele, basta rileggere la esplicita definizione del Concilio Lateranense (649 d.C.). Semmai occorre ricordare che la maternità verginale di Maria non ha per nulla il significato di un deprezzamento del matrimonio e dell'amore coniugale tra gli sposi. L'unione casta e feconda dell'uomo e della donna ha una grandissima dignità tanto da essere inserita nel mistero di Cristo-Sposo, che ha dato sé stesso per la sua Chiesa. Tuttavia, essenzialmente diverso è il rapporto con Cristo-Sposo stabilito dalla verginità per il regno dei cieli. Matrimonio e Verginità, amore coniugale e amore verginale sono due modi essenzialmente diversi di seguire Cristo e di servire la Chiesa. Il matrimonio santifica una realtà terrena e transitoria, legata al tempo e alla nostra condizione terrena, la verginità anticipa sulla terra una condizione che caratterizza la vita eterna, nel cielo, ma soprattutto l'amore verginale è partecipazione alla "verginità" del Verbo, "all'amore verginale" che lo lega al Padre eternamente. La Madonna è davvero quel "Giardino chiuso" (Hortus conclusus), quella "Fontana sigillata" di cui si parla nel Cantico dei Cantici e che i Padri utilizzano per indicare la Verginità di Maria. 173
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Nel Vangelo si parla di "fratelli e sorelle" di Gesù nel senso generico di parentela, secondo la consuetudine in uso presso gli Ebrei. 174 "Se qualcuno non confessa che la Santa, semprevergine e Immacolata Maria sia in senso proprio e secondo verità Madre di Dio in quanto propriamente e veramente (...) ha concepito nello Spirito Santo, senza seme e partorito senza corruzione, permanendo anche dopo il parto la sua indissolubile Verginità, lo stesso Dio-Verbo, nato dal Padre prima di tutti i secoli, sia condannato" (Mansi 10,1151-1152).
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75 – L’Assunta L'ultima e conclusiva verità che riguarda la Vergine Maria è la sua esaltazione in corpo e anima nella gloria del Cielo. Verità conclusiva non solo perché riguarda la conclusione della sua vita terrena, ma anche perché conseguenza e insieme compendio di tutti i suoi privilegi; essi ricevono, nell'Assunzione gloriosa, il loro sigillo e la loro piena conferma; diventano come altrettante gemme che immerse nella luce rivelano tutto il loro splendore e tutta la loro bellezza. Il fondamento della glorificazione di tutto l'essere umano di Maria, anima e corpo, sta nell'unione intima e perfetta che Ella ha avuto con suo figlio Gesù. Come Madre del Verbo incarnato fu profondamente partecipe della vita e della missione del Figlio di Dio e ne condivide ora la sorte nel Cielo, dove continua la sua missione materna in una incessante ed efficace intercessione per noi, accanto a suo Figlio. Come nell'Immacolata Dio realizza la primizia della nuova creazione, così nell'Assunta anticipa la condizione gloriosa alla quale sono chiamati tutti gli uomini. L'Assunta è la festa mariana più antica. In Oriente era celebrata come "Dormitio Virginis", la Dormizione di Maria. Così viene raffigurata in molte splendide icone dell'antico Oriente: in esse, la Vergine appare distesa su un letto regale in atteggiamento maestoso e sereno, circondata dagli Apostoli; al centro, in secondo piano, appare Cristo circondato dal nimbo della luce divina e tiene tra le braccia una bambina neonata ancora in fasce: è il Figlio che accoglie sua madre; la guarda con atteggiamento di maestosa tenerezza e la solleva come chi si accinge a portarla verso l'alto. Alla sommità del nimbo appaiono l'eterno Padre e lo Spirito Santo, e lungo i fianchi del nimbo scendono gli An202
geli festanti come se andassero incontro alla loro regina. Sembra una raffigurazione ingenua ed è invece carica di significato teologico e di pietà. L'Assunta è il coronamento di tutte le meraviglie che Dio ha compiuto in Maria ma è anche il paradigma di come Dio porta a compimento la storia della salvezza operata per mezzo di Cristo. Anzi, di più: Maria è la sintesi di tutta la storia della salvezza, in Lei Dio ha scritto le sue meraviglie, quelle che egli vorrebbe compiere in ogni uomo, per tutta l'umanità. L’Immacolata - la Maternità verginale - l'Assunta: sono queste le tre grandi solennità mariane dell'anno liturgico. Esse celebrano ciò che Cristo ha compiuto in sua madre e ricordano appunto ciò che si compie in ogni uomo che accolga la salvezza. In ognuno di noi, infatti, Cristo è causa della purificazione dal peccato, della filiazione divina e della nostra glorificazione in cielo: sono le stesse meraviglie compiute in Maria, e che hanno fatto di lei un "signum magnum", il grande Segno apparso nel cielo e descritto dall'Apocalisse, "segno di sicura speranza e di consolazione". Non c'è dubbio che in cielo Maria sta vicina a Cristo, suo Figlio, e gli parla continuamente di noi, e un giorno la nostra felicità sarà contemplare Dio come egli è, ma anche contemplare la gloria di Cristo e la gloria della sua Santissima Madre. 175
76 – Santa Maria nella vita cistiana Ci siamo fermati sulle verità fondamentali della nostra fede che riguardano la Madre di Dio perché il giorno della settimana dedicato a Lei, il sabato, non rimanga un momento puramente devozionale, a livello esclusivamente 175
Concilio Vaticano II, Lumen Gentium n. 68
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emotivo. E' certo che la figura amabilissima e dolcissima di Maria va direttamente al cuore e tocca le corde più vive del sentimento; e tutto questo non solo è comprensibile ma è anche giusto e buono; anzi, non dobbiamo vergognarci di trattare la Madonna con la semplicità e l'affetto dei bambini; Maria è madre, e davanti a nostra madre cadono tutte le nostre complicazioni, sovrastrutture, i nostri titoli e le nostre insegne, restiamo disarmati di tutta la nostra importanza. Ma la Madonna è anche madre che ci vuole figli maturi, profondi, consapevoli; desidera che attraverso di lei sappiamo trovare Gesù, volergli bene e lavorare per Lui. Perciò la devozione alla Madonna deve saper coniugare l'aspetto umano e il senso soprannaturale, la tenerezza e la fortezza, il cuore e la consapevolezza; in una parola la dimensione umana della nostra devozione alla Madonna deve sgorgare dalla fede e dalla grazia. " La devozione alla Vergine non è qualcosa di dolciastro, di poco virile; è consolazione e gioia che riempiono l'anima proprio in quanto presuppongono un esercizio profondo e pieno della fede, tale da farci uscire da noi stessi e riporre la speranza nel Signore". Ma ognuno di noi saprà trovare un modo personale di vivere la devozione alla Madonna, un modo adatto alla propria sensibilità e alla propria formazione, un modo che gli permetterà di accogliere Santa Maria sempre più intimamente nella propria vita. Gesù, dall'alto della croce, consegnò sua madre a Giovanni: "Ecco la tua madre!". "Da quel momento - egli scrive - il discepolo la prese nella sua casa". Dobbiamo prendere la Madonna in casa, in quella casa dove viviamo abitualmente: la nostra anima, il nostro mondo interiore. Lì dove nascono i nostri pensieri, matura176
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San Escrivà, E' Gesù che passa, n. 143 Gv. 19, 27
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no le nostre decisioni, sorgono i nostri affetti..., lì dove combattiamo le nostre piccole e grandi battaglie della vita, lì dobbiamo cercare la presenza di Maria, dobbiamo abituarci a ricorrere a lei in ogni cosa. "Se si alzano i venti delle tentazioni, se urti contro gli scogli della tentazione, guarda alla Stella, invoca Maria. Se ti agitano le onde della superbia, dell'ambizione o dell'invidia, guarda la Stella, invoca Maria. Se l'ira, l'avarizia o l'impurità scuotono violentemente la nave della tua anima, guarda a Maria. Se turbato dal ricordo dei tuoi peccati, confuso davanti alla sporcizia della tua coscienza, spaventato al pensiero del giudizio, cominci a sprofondare nell'abisso senza fondo della tristezza o nel precipizio della disperazione, pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nei dubbi, pensa a Maria, invoca Maria. Non si allontani Maria dalla tua bocca, non si allontani dal tuo cuore; e per ottenere l'aiuto della sua intercessione, non allontanarti tu dagli esempi delle sue virtù. Se la segui non perderai il cammino, se la invochi non soccomberai alla disperazione, se pensi a Lei non andrai perduto. Non cadrai se ella ti tiene per mano; di nulla dovrai temere se lei ti protegge; non sentirai la fatica se lei sarà la tua guida e con la sua protezione arriverai felicemente alla meta". 178
77 – Le devozioni mariane Accanto alle grandi solennità liturgiche che celebrano i singoli "privilegi" concessi da Dio alla Vergine Santa, accanto ai tempi liturgici particolari (quarta domenica di 178
S. Bernardo, Omelie sulla Vergine Madre, 2
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Avvento, tempo di Natale, la Purificazione...), il sabato mariano è entrato nella liturgia devozionale come memoria di "Sancta Maria in sabato". Questa memoria liturgica settimanale può servirci a far crescere in noi l'amore e la devozione alla Vergine Santa. E' "memoria" e non "festa" e quindi lascia spazio alla più ampia iniziativa personale capace di inventare innumerevoli espressioni di devozione; comunque possiamo sempre attingere al ricchissimo patrimonio della pietà cristiana: bellissime invocazioni a Maria sotto i più diversi titoli, ferventi giaculatorie, consuetudini che provengono dalle più antiche tradizioni come lo scapolare, le rinunce penitenziali e tante piccole mortificazioni (fioretti), la venerazione alle sue immagini, il culto delle icone, la visita alle migliaia di chiese, piccole o grandi, dedicate alla Santa Madre di Dio, i pellegrinaggi agli innumerevoli Santuari, antichi o recenti, famosi o poco noti, grandiosi o semplici, ma tutti legati a commoventi storie d'amore tra la Madre e i suoi figli, tra Colei che non ha mai cessato di essere e Madre e Regina e avvocata e speranza e gioia nel cuore di tutti i credenti, di tutti i popoli e di tutte le generazioni; e infine le innumerevoli preghiere che lungo i secoli sono sgorgate dall'amore e dal dolore, dalla gratitudine e dal bisogno, dalla gioia e dalle lagrime di tante anime che hanno cercato e trovato accoglienza, rifugio e consolazione tra le braccia dolcissime della Vergine Maria: "In sinu tuo dulcissimo, o Mater!" - nel tuo grembo dolcissimo, o Madre! Di tante preghiere, a conclusione di queste riflessioni sulla Madre di Gesù e Madre nostra, ne vogliamo ricordare due: la più antica che si conosca, il "Sub tuum praesidium" - Sotto la tua protezione... - e la più recente, il "Totus tuus", preghiere che hanno lo stesso contenuto, quello di sempre, del quale la nostra anima sente il bisogno più urgente: l'affidamento a Maria. 206
Sotto la tua protezione veniamo a rifugiarci, Santa Madre di Dio; non respingere le suppliche che ti rivolgiamo nelle nostre necessità, ma liberaci sempre da tutti i pericoli, o Vergine gloriosa e benedetta! O Madre mia e Regina mia, io mi abbandono interamente a Te e in pegno della mia devozione consacro, oggi, al tuo Cuore Immacolato i miei occhi, la mia bocca, il mio cuore, tutto me stesso. E poiché sono TUTTO TUO, o mia buona Madre, custodiscimi come tua proprietà, proteggimi e difendimi dal Maligno, e da ogni male, conservami fedele al tuo Gesù nel servizio alla sua Santa Chiesa, per il bene di tutte le anime. Amen 78 – Le devozioni nella vita cristiana 207
Abbiamo percorso i giorni della settimana con lo sguardo della fede e della pietà cristiana. Abbiamo visto come, attraverso le devozioni, possiamo vivere in modo semplice e insieme profondo le realtà fondamentali della nostra fede. Ci siamo limitati a considerare l’aspetto liturgico e ascetico delle devozioni sviluppando, per quanto è pos sibile in poche pagine, il fondamento dottrinale di cui esse sono espressione. Si è tralasciato volutamente di parlare delle manifestazioni concrete con cui le devozioni si esprimono: preghiere particolari, novene, feste, processioni, pellegrinaggi ecc. perché in questo campo vige la più ampia libertà personale. Ognuno è libero di coltivare l’una o l’altra delle devozioni ed esprimerla con le manifestazioni che più si addicono alla propria sensibilità e sono maggiormente utili a fomentare la pietà personale. D’altra parte, le opere compiute da Dio per la nostra salvezza presentano tale ricchezza di aspetti e di contenuti da costituire una fonte inesauribile per la pietà cristiana; inoltre, lo Spirito Santo “soffia dove vuole”, e opera nelle anime con assoluta libertà, senza ripetersi, dando luci e ispirazioni che portano le anime a comprensioni del mistero di Cristo e a moti d’amore che trovano ampia varietà di manifestazione. Le devozioni poi possono cambiare con l’età, con le situazioni personali, nelle diverse circostanze della vita, secondo le necessità del momento. Se siamo semplici non avremo vergogna delle manifestazioni spontanee e umili della pietà che, quando è vera, trova sempre nelle verità della fede e nella Liturgia della Chiesa la sua garanzia di autenticità. Tuttavia, è consigliabile non avere molte devozioni e comunque non vestirle con espressioni troppo esteriori e superficiali, col pericolo di ridurle al solo folclore o esporle al contagio della superstizione. Abbiamo già ricordato che 208
occorre semplicità e autenticità. Solo così le devozioni garantiscono calore umano anche alle cose più spirituali e soprannaturali. Le devozioni, infatti, ci aiutano a vincere l’aridità del cuore, l’astrattismo intellettualistico nel vivere la fede, e anche la solitudine solipsistica della vita spirituale. Ci fanno sperimentare la dolcissima realtà della Comunione dei Santi, e ci fanno gustare quell’”aria di famiglia” che è caratteristica di una autentica vita cristiana. Un cristianesimo disincarnato, astratto, teorizzante è un inganno, contribuisce a ridurre la fede a una ideologia e toglie alla vita spirituale la sua dimensione dialogica, cioè la sua caratteristica di rapporto vivo e personale con Dio, con Gesù Cristo, con la Vergine e i Santi. Le devozioni sono nella Chiesa quello che le tradizioni sono nella vita famigliare. In ogni famiglia ci sono ricorrenze, consuetudini, tradizioni legate a particolari avvenimenti e alle persone che ne furono protagoniste. Così è nella Chiesa, che incarna storicamente l’opera della salvezza; fatti, avvenimenti, interventi di Dio attraverso i personaggi che ne furono testimoni personali ed ebbero il ruolo di strumenti nelle mani di Dio, la Chiesa li rivive e li celebra come il proprio vissuto famigliare.
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L'ANNO LITURGICO
Il tempo ciclico.
79 – Cristo: pienezza del tempo Esiste il “tempo delle cose”; cioè il moto naturale delle creature secondo le leggi che governano tutto l'universo. Esiste il “tempo dell'uomo”; cioè la vicenda terrena dell’umanità e di ogni singola persona, secondo la natura propria dell'essere umano. L'uomo, infatti, rappresenta una "discontinuità" nel creato per la dimensione spirituale che lo identifica e porta in sé "l'immagine" di Dio. Inoltre il suo essere spirituale è stato elevato a una dimensione soprannaturale, divina, che ha reso possibile un rapporto con Dio nuovo e sublime, destinato a completarsi nel Cielo in una comunione perfetta ed eterna con Lui. Questa dimensione costituisce la nuova dignità della persona umana, quella di figlio di Dio. Questa nuova identità dell'uomo, che implica il suo destino eterno, è opera di Dio, cioè Dio è entrato nel “tempo dell'uomo” compiendo meraviglie, cose meravigliose: sono esse il "tempo di Dio". Queste meraviglie corrono lungo tutta la storia umana, ma non come momenti separati, come interventi che si susseguono uno dopo l'altro alla 210
maniera degli avvenimenti umani; le "meraviglie" di Dio sono momenti di un unico, grande, intervento che, né il tempo né la storia possono contenere, e che tuttavia si rende presente in ogni punto del tempo e della storia; questo unico e sublime intervento di Dio nel mondo ha un nome: Gesù Cristo. In Lui hanno compimento tutte le meraviglie operate da Dio lungo i secoli, è lui la "linfa" che scorre lungo il tronco della storia umana e ne costituisce la vera unità, la vera misura e fecondità. Cristo: Alfa e Omega, Principio e Fine di tutte le vicende umane; Egli è di oggi, di ieri, dei secoli. San Paolo parla di Cristo come della "pienezza del tempo": Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessero l'adozione a figli". In poche righe è contenuto tutto il disegno di Dio realizzato in Gesù Cristo: Gesù è il Figlio di Dio, è l'eternità; nato da donna: entra nel tempo come vero uomo, assume la nostra umanità; nato sotto la legge: assume la natura umana come si presenta nella sua condizione storica: schiava del male, sottoposta al peccato; per riscattare coloro che erano sotto la legge: redime il tempo e la storia, libera l'uomo dalla schiavitù del peccato e dalla precarietà della morte; perché ricevessero l'adozione a figli: Gesù cambia la vita umana, dà una nuova dimensione, soprannaturale ed eterna, all'uomo e al suo destino; il tempo e la storia si aprono sull'eternità, e l'uomo può entrare in comunione con Dio. Cristo dà senso compiuto all'intera creazione, a tutta la storia dell'umanità e ad ogni singolo uomo in tutte le sue dimensioni; Cristo è davvero la "pienezza del tempo", e lo è in modo ineffabile e permanente, per sempre; Egli è l'eternità nel tempo. Il primo gesto liturgico che la Chiesa 179
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Gal. 4,4
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compie nella Veglia pasquale è la benedizione del cereo, simbolo di Cristo risorto; in quel rito la Chiesa proclama solennemente: "Cristo, ieri e oggi. Principio e Fine. Alfa ed Omega. A Lui appartengono il tempo e i secoli. A Lui la gloria e il potere per tutti i secoli, in eterno. Amen". 80 – Il “tempo di Dio” e il tempo dell’uomo Gesù Cristo è dunque il "tempo di Dio" nel tempo dell'uomo. Ora, Gesù è il Redentore, è la Salvezza degli uomini; perciò il tempo di Dio è tempo di salvezza, e tutto ciò che Dio ha compiuto in Cristo nella storia dell'umanità costituisce la "Storia della Salvezza". Abbiamo visto che l'uomo è la misura del tempo perché è nello spirito umano che esiste un passato, un presente, un futuro. Abbiamo anche ricordato le singole unità cronologiche: le ore, il giorno, la settimana, vedendone il significato in riferimento alla nostra vita spirituale. Rimane da considerare un'altra unità cronologica più ampia, che riguarda insieme l'uomo e la natura, le cose e l'esistenza umana: l'anno. Tutti conosciamo l'anno astronomico: il tempo tra due equinozi di primavera (anno tropico), o il tempo tra due passaggi successivi del sole allo stesso punto dell'eclittica (anno siderale). E' un tempo che determina in natura l'alternanza delle stagioni, ma anche riveste per l'uomo il significato di un paradigma sia della vita umana (le "stagioni" della vita) sia della storia dell'umanità; paradigma in cui compaiono la dimensione ciclica e insieme la dimensione ascendente del tempo. Sui cicli cosmici l'uomo ha costruito i suoi calendari, sui quali segnava feste e celebrazioni che sacralizzavano i ritmi della natura e della vita. Analogamente, per memorizzare la storia, faceva riferimento alle gene212
razioni, oppure ai regni e alle dinastie, o anche a personaggi o ad avvenimenti che determinavano un'epoca, e tutto confluiva nel patrimonio delle tradizioni storiche di un popolo. Non è qui il luogo per fare considerazioni sui corsi e ricorsi storici, o sui cicli cosmici ricordati e celebrati dai miti delle varie civiltà umane, e nemmeno vogliamo soffermarci a considerare l'anno civile che ritma la vita sociale di un popolo nelle sue varie espressioni: anno scolastico, anno finanziario, anno accademico, e tante altre annualità che contraddistinguono la vita civile del nostro tempo, un tempo che vede la società enormemente sviluppata nel campo politico, industriale e organizzativo. E nemmeno vogliamo soffermarci su una filosofia della storia che indaga quali sono, se ci sono, le leggi profonde che presiedono alle vicende dei popoli e delle civiltà umane. Quello che qui ci interessa è cogliere e comprendere la storia di Dio dentro la storia dell'uomo, tutto ciò che Dio ha fatto sull'uomo e per l'uomo in ordine al piano eternamente da Lui predisposto nella sua infinita sapienza e compiutamente realizzato nel tempo e nella storia. Il calendario di Dio prescinde dai vari calendari umani e dai cicli cosmici, ma non li ignora. Li percorre, li unisce e li tiene aperti all'azione della grazia perché non ricadano su sé stessi come anelli sciolti, che hanno perduto il loro appiglio. La storia, alla luce delle considerazioni umane, può anche apparire come un vagabondaggio nel tempo di popoli che percorrono strade già percorse o sentieri già battuti da altri secondo le leggi della casualità o quelle misteriose degli influssi astrali, ma in realtà è la traiettoria aperta dagli uomini con le loro decisioni intrise di bene e di male, di eroismi e di vergogne, e insieme è la traiettoria percorsa dalla presenza silenziosa di Dio che cammina con gli uomini e che rive213
la nella storia le meraviglie della sua potenza e della sua misericordia. 81 – I cicli dell’anima: “cominciare e ricominciare” Tuttavia, il succedersi delle stagioni, il rinascere della vita, come il risorgere del sole sull'orizzonte dopo il solstizio d'inverno, per quanto siano cicli annuali legati alla natura, hanno sempre avuto un significato traslato, simbolico, in riferimento alla vita e alla vitalità di una persona come alla storia delle civiltà. La vita che rinasce ha un suo fascino misterioso, e ha fatto sognare l'eterno ritorno delle cose. Tuttavia sappiamo che la nostra vita non ha ritorno, è un'occasione unica, che non si ripete. E’, questa, una caratteristica metafisica che riguarda la nostra persona. La persona umana, infatti, è unica e irrepetibile, e perciò trascende il tempo configurandosi come un evento di discontinuità nel mondo e nella natura. Si tratta, appunto, della dimensione spirituale del nostro essere; ed è proprio questa dimensione spirituale che genera in noi un'istintiva ripugnanza all'idea che la vita finisca, e ci fa sognare un suo eterno ritorno. D'altro canto, per il corpo noi siamo immersi in un universo che ha tutte le caratteristiche della ciclicità, di cui la stessa alternanza delle stagioni è specchio ed immagine. Lo stesso moto fisico dei corpi, è rettilineo nello spazio euclideo, ma nello spazio cosmico dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo, dove le tre coordinate dello spazio acquistano una quarta dimensione, il tempo, il moto risulterebbe non più rettilineo, lo spazio sarebbe curvo e l'universo chiuso. Del resto, la periodicità è una legge insita nella natura stessa delle cose: la forma sferoidale dei corpi, 214
la traiettoria delle orbite, la struttura stessa della materia con le orbite ( livelli energetici ) degli atomi e la distribuzione periodica degli elementi .... fino al fenomeno della vita governata, come abbiamo visto, da un "ciclo biologico"....; si può dire che, nel tempo, tutto ricomincia, tutto ritorna. Questo aspetto ciclico che la realtà presenta e la concezione ciclica che noi stessi abbiamo del tempo e della vita, se da una parte rivelano il senso e il bisogno di eternità che c'è nel cuore umano, dall'altra sono un invito a non considerarci mai arrivati, a non considerare mai chiusa la nostra partita. La nostra persona è, certamente, unica e irripetibile, e si conserva uguale e identica a sé stessa lungo tutto l'arco dell'esistenza temporale per poi attuarsi in modo definitivo e compiuto nella vita eterna, ma durante la sua vicenda terrena conosce tutte le vicissitudini del tempo: conosce l'oscurità e la luce, la forza e la stanchezza, il dubbio e la certezza, la gioia e il dolore, la fatica e il riposo, la vittoria e la sconfitta... ; in una parola, l'altalena del bene e del male è come un pendolo che scandisce le ore della nostra vita. Ce lo ricorda un'aforisma popolare che corre frequentemente sulla nostra bocca: "Nella vita non si è mai sicuri." Anche nella vita dell'anima, dobbiamo ricordarci che non siamo mai sicuri, e che il nostro cammino verso Dio non è mai concluso. Finché erano sulla terra, i Santi si consideravano capaci di tutte le miserie e di tutte le debolezze umane. Perciò è una legge legata al tempo e alla nostra fragilità, quella che ci costringe a "cominciare e ricominciare" molte volte nella nostra vita. Del resto, ogni mattina la vita ricomincia: si rinnova il proposito di servire, ricomincia il lavoro, la lotta, la gioia di amare. Ogni giorno, ogni anno, non sono mai la pura ripetizione del giorno passato o dell'anno trascorso; sono un giorno "nuo215
vo", una nuova occasione di vivere la nostra vita di figli di Dio nella sua pienezza e nella sua totalità. Dio non si ripete mai; Dio è l'eternità e, anche nel tempo, egli si è donato una volta per sempre alla nostra anima. E' invece la nostra anima che deve rinnovarsi continuamente nella contrizione e nell'umiltà del pentimento, nella speranza e nell'abbandono alla grazia, nella lotta e nella giovinezza dell'amore. "Nunc coepi!" - adesso comincio!: è il grido dell'anima innamorata che, in ogni momento, tanto se è stata fedele quanto se le è mancata generosità, rinnova il suo desiderio di servire - di amare! - con tutta lealtà il nostro Dio". 180
82 – L’uomo e la natura: “ordine e disordine” L'uomo, per creazione, è legato alla terra e alla natura; non può quindi prescindere dai cicli annuali e dal succedersi delle stagioni. Soprattutto nelle civiltà agricole, l'esplodere della primavera, la forza dell'estate, la ricchezza dell'autunno, il sonno e il silenzio dell'inverno, oltre a suscitare sentimenti che trovano nel linguaggio poetico una multiforme ricchezza di espressioni, suggeriscono la presenza, nelle leggi della natura, di un mistero che fa riferimento da una parte all'azione provvidente di Dio (gli dèi agresti dei pagani), e dall'altra al rapporto di schiavitù-amore che lega l'uomo alla terra. I due aspetti di questo mistero hanno una radice che li accomuna: il loro rapporto con il peccato dell'uomo. Dio, infatti, aveva creato la terra nella pace; tutto era regolato da leggi alle quali tutta la natura obbediva. Leggiamo nella Bibbia che Dio, dopo aver creato l'uomo e la donna, "li be180
Solco, n. 161
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nedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra..., io vi do in cibo ogni erba verde". Dunque Dio aveva creato ogni cosa "nella giustizia e nella pace". Il termine "giustizia" nella Bibbia ha un significato che va oltre quello puramente giuridico o morale; riveste una dimensione profondamente religiosa, a volte così alta da costituire un attributo esclusivo di Dio. Tuttavia anche il significato giuridico e morale non è estraneo a questa dimensione religiosa. Il Diritto, infatti, sancisce come giustizia: "Unicuique suum", a ciascuno ciò che gli compete come soggetto di diritto. Ma potremmo anche tradurre, allargando il significato: ogni cosa al suo posto; in altre parole, ogni essere deve occupare il posto che gli compete secondo la propria natura. Questo stare al proprio posto ci fa comprendere perché la giustizia e la pace siano, nell'intero universo, strettamente legate. Essendo la pace "tranquillitas ordinis" - la tranquillità dell'ordine (S. Agostino), possiamo dire che c'è veramente ordine, e quindi c'è pace, quando ogni cosa sta al proprio posto. Ora, Dio aveva creato l'universo "in numero, pondere et mensura", ogni cosa, appunto, con ordine e perciò nella pace: la natura obbediva alle proprie leggi e perciò l'uomo dominava la natura, il corpo obbediva all'anima, e ogni membro del corpo svolgeva la propria funzione con ordine, e l'anima era soggetta a Dio, la volontà seguiva l'intelligenza e questa obbediva alla verità. Nel mondo regnava l'ordine e la pace. Ma tutto finì con il peccato dell'uomo. La provvidenza di Dio continuerà a condurre le cose, ma esse hanno ormai subito lo sconquasso del peccato; l'uomo continuerà ad esercitare il suo dominio sulla natura ma nel segno della fatica e del disordine: la terra gli diventerà matrigna e si ribellerà al suo lavoro diventando uno schermo che riprodur181
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Gen. 1,28-31
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rà i conflitti e le disarmonie interiori del suo cuore. Così nessuna cosa è rimasta al proprio posto. Cos'è una malattia? Nient'altro che un "disordine biologico": un organo non rispetta più le sue funzioni. Cos'è un tumore? Cellule "disordinate" che escono dal loro posto, impazziscono e non obbediscono più alle loro leggi. E la morte? Il massimo del disordine, una catastrofe biologica che porta alla rottura del nostro essere naturale. Così il rapporto tra l'uomo e la terra, tra l'uomo e la natura, è diventato un rapporto reciproco di odio-amore, di schiavitù-dominio. Le parole di Dio ad Adamo sono quanto mai esplicite e pesano drammaticamente: "Poiché... hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, poiché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!". 182
83 – Riconciliarsi con la terra Il mondo attuale, dunque, anche quello fisico e il mondo della natura, non è come Dio l'avrebbe voluto, né come egli l'aveva effettivamente creato, nella giustizia e nella pace. Anche nella natura è entrata l'aggressività, la violenza e il disordine. Era opportuno ricordare tutto questo parlando delle stagioni e del rapporto dell'uomo con la natura perché molte calamità naturali sono sintomo e insieme effetto di un disordine provocato dal peccato. L'uomo dunque abita la terra e si nutre della terra, ma vi abita come un inquilino a rischio e il pane che racco182
Gen. 3,17-19
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glie ha spesso l'amaro sapore della fatica e del sudore. Le stagioni, abbiamo detto, parlano sì, con diversi linguaggi, agli occhi, alla fantasia, ai sentimenti, perfino alla pelle dell'uomo, ma il loro motivo fondamentale risiede nei frutti. E' dai frutti che si giudicano le stagioni: un'annata è buona o cattiva se il raccolto è abbondante o scarso. L'uomo del passato aveva imparato dalla terra la pazienza; sapeva che i frutti vanno attesi come un dono con la collaborazione paziente e sacrificata del proprio lavoro. Oggi l'uomo sta esercitando sulla natura un dominio che spesso è pericolosa violenza, e vuol quasi "costringere" la natura a dare frutti a tutte le stagioni. L'uomo ha bisogno di riconciliarsi con la natura, deve ricomporre con essa un dialogo che il peccato ha rovinato e distorto trasformandolo in ribellione e contesa reciproca. Cristo è venuto a riconciliare tutte le cose e, come segno di salvezza e di redenzione, ha più volte placato con autorità le forze di una natura ribelle ed aggressiva. L'uomo nuovo inaugurato da Cristo è chiamato a partecipare a questa missione di salvezza sia liberando la natura dal potere del maligno, che ancora esercita il suo influsso nefasto sul mondo, sia collaborando con le leggi della natura stessa per attuare un mondo degno dell'uomo e specchio della bontà di Dio. In ogni caso l'uomo deve guardarsi dal diventare complice del disordine utilizzando le leggi della natura, soprattutto le leggi della vita, contro il disegno di Dio. Ad ogni stagione dell'anno la liturgia implorava la benedizione di Dio sulla terra perché fosse benigna e feconda: era il rito delle "Rogazioni" che cadevano nelle quattro Tempora, le quattro stagioni dell'anno. La liturgia attuale ci offre uno splendido Prefazio che è proprio delle domeniche ordinarie, e che può diventare preghiera per implorare la riconciliazione tra l'uomo e la natura: 219
Dio onnipotente ed eterno, tu hai creato il mondo nella varietà dei suoi elementi, hai disposto l'avvicendarsi dei tempi e delle stagioni, e all'uomo, fatto a tua immagine, hai affidato le meraviglie dell'universo, perché, fedele interprete dei tuoi disegni, esercitasse il dominio su ogni creatura, e nelle tue opere glorificasse te, creatore e padre, per Cristo nostro Signore. Ancora una volta, Dio non abbandona l'uomo al suo disordine, ma con pazienza e amore lo aiuta a ritrovare l'ordine nel suo disordine, a riconciliare, per mezzo di Gesù, tutte le cose tra loro e con Lui, le cose del cielo e le cose della terra.
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IL TEMPO LITURGICO
84 – Quando Dio cerca l’uomo Dentro il tempo delle cose (i cicli naturali) e dentro il tempo dell'uomo (i cicli storici) scorre il tempo di Dio, cioè gli interventi di salvezza che egli ha operato nella storia umana. Abbiamo visto che essi costituiscono le "meraviglie" compiute da Dio per l'uomo, e hanno avuto il loro compimento in Cristo. Compiute una volta per sempre, queste meraviglie vengono "celebrate" dalla Chiesa nella sua Liturgia in un ciclo annuale che prende il nome di Anno Liturgico. Vengono "celebrate", non commemorate. Si commemora infatti un avvenimento passato di cui si vuole conservare il ricordo. Le opere di Dio non appartengono al passato; Dio le ha compiute nel tempo ma esse appartengono all'eternità. Perciò Dio può renderle presenti nel tempo in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. E' quanto avviene nella Liturgia della Chiesa. "Essa apre ai fedeli le ricchezze delle opere salvifiche e dei meriti del suo Signore, in modo tale da renderle come presenti a tutti i tempi perché i fedeli possano venirne a contatto ed essere ripieni della grazia della salvezza". Il rito liturgico è il momento significativo e celebrativo della presenza di Cristo nella vita dell'uomo. Così nel corso dell'anno liturgico viene celebrato 183
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Conc. Vaticano II. SC, n. 102
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tutto il mistero di Cristo, anzi, viene come percorsa tutta la Storia della Salvezza. Il primo ciclo dell'Anno Liturgico celebra il mistero del Natale, cioè il mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio. E' un ciclo costituito da tre momenti: l'Avvento, il Natale, l'Epifania, vale a dire l'attesa, la nascita, la rivelazione di Cristo. E' un ciclo di grande respiro; abbraccia la storia dell'umanità fino a Cristo e poi in Cristo illumina di significato tutta l'esistenza umana, quella di tutta l'umanità e quella di ciascun uomo. Il tempo dell'Avvento, che dà inizio all'Anno Liturgico, si propone come preparazione alla venuta - avvento - del Signore. Ma - come si esprime San Bernardo "noi conosciamo una triplice venuta del Signore: una venuta occulta che si colloca tra altre due che sono manifeste. Nella prima venuta Egli venne nella debolezza della carne (Natale), nell'ultima venuta verrà nella maestà della gloria (il Giudizio finale), nella venuta intermedia egli viene nella potenza dello Spirito (la Grazia)". Sono tre momenti diversi di un unico evento: il mistero dell'amore di Dio che cerca l'uomo; lo cerca, gli si manifesta, gli si dona. Dio ha cercato l'uomo fin dall'inizio, quando, nel Giardino, l'uomo si era a lui ribellato e si era nascosto al suo volto. Narra la Genesi che l'uomo e la donna dopo il peccato si accorsero di essere nudi, e "udirono il Signore Dio che passeggiava alla brezza del giorno... e si nascosero in mezzo agli alberi del Giardino. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: "Dove sei?" Rispose: "Ho udito il tuo passo... ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto". Il primo sentimento che l’uomo sperimenta quando si allontana da Dio è la paura. E' la paura che lo porta a du184
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S. Bernardo, Discorso 5 sull'Avvento. Gen. 3, 8-10
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bitare di se stesso, è la paura che lo costringe a nascondersi tra gli alberi dei propri peccati credendosi abbastanza protetto e sicuro, è la paura che lo spinge a nascondersi dietro la propria vergogna con il pretesto della sua nudità pensando di sfuggire allo sguardo di Dio, e quando ode nell'intimo della sua coscienza i passi di Dio che viene a cercarlo, è ancora la paura che gli fa credere di trovarsi davanti a un giudice che dà la caccia al colpevole per condannarlo. Quanto è diverso invece il comportamento di Dio descritto dalla Genesi! Dio interviene innanzitutto per disingannare l'uomo, per renderlo consapevole della sua condizione e del perché di essa: "Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?" Sono parole esprimono l'amarezza e la delusione di Dio riguardo la sua creatura perchè non si è fidata di lui, non gli ha creduto e si è lasciata ingannare dalla menzogna. Il Signore poi non umilia l'uomo; accoglie in un certo senso le sue giustificazioni, ma anche lo prepara ricordandogli le conseguenze del suo peccato. Adamo, quando incontrerà il dolore, la sofferenza e la morte, dovrà ricordarsi che Dio queste cose non le avrebbe volute, ma sono legate alla sua condizione di "nudità", cioè di debolezza, di miseria e di schiavitù che è propria del peccato. Quando poi il Signore fa cacciare l'uomo dal giardino ha un gesto che è quasi materno: "Il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì"; è Dio che si prende cura dell'uomo, lo protegge dalla sua debolezza, lo difende nella sua dignità, la dignità che egli stesso ha oltraggiato e ferito. Ma soprattutto Dio apre al cuore dell'uomo un futuro pieno di spersanza: la promessa di non abbandonarlo al proprio destino, anzi la promessa che un giorno, Lui, il Signore, sarebbe tornato a portargli la salvezza: sboccerà sulla terra il germoglio di una donna che schiaccerà la testa al Maligno. 223
Non dobbiamo dunque aver paura di Dio: il Signore viene in cerca di noi a Natale, nell'umiltà e nella debolezza di un bambino che prenderà il nome di Gesù, il Salvatore, che distruggerà sulla croce il nostro peccato; egli verrà alla fine dei tempi, nella maestà e potenza della sua gloria, per chiamarci ad entrare nel suo Regno: "Venite benedetti del Padre mio..."; viene continuamente alla nostra anima con la sua grazia, viene a chiamare la nostra intelligenza alla luce, la nostra volontà all'amore, il nostro cuore alla fedeltà. Non dobbiamo aver paura di Dio. Quando viene a cercarci è per la nostra salvezza. La differenza tra un credente e un non credente non sta nell'affermare o negare l'esistenza di Dio, ma nel fidarsi o non fidarsi di Dio, nel credere o non credere all'Amore.
85 – Isaia: il “desiderio” di Dio Il tempo di Avvento è tutto sotto il segno della fiducia e della speranza, che diventano umile attesa della Salvezza. Già nella prima domenica, che è ancora tutta rivolta all'ultima venuta di Gesù come Giudice alla fine dei tempi, la liturgia risuona del canto fiducioso del salmo 24: "A te, Signore, innalzo l'anima mia. Dio mio, in te confido, che io non resti confuso". Ma c'è da chiedersi: "Gli uomini sono ancora in attesa della salvezza? Che cosa attende l'uomo di oggi? Dove sta guardando?" Per capirlo bisogna vedere quali sono i suoi desideri. Il desiderio, infatti, esprime l'attesa, alimenta la fiducia, misura la speranza. Quali sono dunque i desideri del cuore umano? E noi stessi, quali desideri coltiviamo nella nostra anima? Dove sta andando il nostro cuore?... Ci sono desideri ignobili che spingono il cuore verso il tradimento, l'infedeltà, i piaceri vergognosi. Ci 224
sono desideri tristi, che avvelenano il cuore, lo nutrono di gelosia, di invidia, di vendetta. Ci sono desideri "aridi" che gelano il cuore e lo imprigionano nell'egoismo, nella sete di guadagno, nelle ambizioni della superbia. Ci sono poi i desideri buoni, il desiderio del bene, il desiderio della verità , il desiderio della pace, i desideri che aprono il cuore alla compunzione, alla generosità, all'amore. Ma c'è un desiderio che riassume tutti i desideri nobili dell'uomo, un desiderio che esprime l'insonne aspirazione dell'animo umano alla felicità: il desiderio di Dio. E' il desiderio che nelle anime grandi diventa sete incontenibile di vedere il volto di Dio, sete che si fa attesa, invocazione, ricerca mai sopita e mai appagata. Questo desiderio di Dio impregna tutto lo spirito dell'Avvento e se ne fa altissimo interprete il profeta Isaia. Ci sono tre figure che dominano la liturgia dell'Avvento: il più grande dei Profeti, Isaia; il più grande tra "i nati di donna", Giovanni il Battista; e soprattutto la più eccelsa fra tutte le creature, l'Immacolata. Con il Profeta Isaia, le cui pagine sublimi e struggenti rimangono uno dei più grandi tesori poetici e mistici dell'umanità, il desiderio di Dio raggiunge il grido più alto e più intenso. La sua invocazione più famosa risuona come un ritornello durante i giorni dell'Avvento: "Stillate, o cieli dall'alto la vostra rugiada, e le nubi piovano il giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore!" Questa e l'altra invocazione, la più ripetuta nella liturgia dell'Avvento: "Vieni o Signore Gesù; non tardare!", possono servirci per alimentare in noi il desiderio di Dio. Là dove questo desiderio viene meno, la vita spirituale languisce, ristagna. E' un sintomo preoccupante di tiepidezza o di sonno dello spirito, addirittura di un cuore spento. Perciò la Chiesa ci rivolge fin dalla prima domenica di Avvento le parole di S. Paolo: "Fratelli, è ormai tempo 225
di svegliarci dal sonno, perché la nostra salvezza è vicina..." Il primo sonno da rompere è il silenzio dell'anima che non sa più pregare, che ha abbandonato il suo colloquio con Dio e riempie il suo mondo interiore di chiacchiere inutili e vane. La preghiera è sempre il punto da cui si ricomincia. Per risvegliare in noi il desiderio di Dio, occorre cercarlo nell'orazione, invocarlo anche se ci appare lontano, aspettarlo pazientemente anche quando ci sembra di non vederlo. Avere il desiderio di Dio è già amarlo, è già possederlo. E tuttavia sulla terra questo amore non è mai un possesso, è sempre desiderio; e quando è autentico genera gioia e speranza ma anche spinge l'anima alla ricerca e all'attesa. Cercare Dio vuol dire averlo già trovato, ma vuol dire anche capire che trovare Dio è grazia, che è possibile trovare Dio solo quando o perché lui si dona. Perciò la ricerca di Dio è sempre attesa di lui, della sua epifania, di quel grido che rompe il buio della notte o del sonno: "Ecco, viene lo sposo! Andategli incontro!" Guai se il nostro cuore fosse chiuso o spento perché non abbiamo tenuto accesa, con desiderio d'amore, l'attesa dello Sposo! 186
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86 – Giovanni il Battista: “Preparate la via” Un cuore spento o un cuore chiuso non capirà mai il Natale, cioè l'amore di Dio, e non capirà nemmeno la Pasqua, la misericordia infinita del Padre, e neppure capirà la 186 187
Rom. 13,11 Mt. 25,6
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Chiesa che è nata dall'effusione dello Spirito Santo. Non basta che Dio venga, non basta che, spinto dal suo amore, Egli scenda a cercarci, se poi trova chiuse le strade del cuore. Perciò la Liturgia dell'Avvento è tutta percorsa dalla "voce di colui che grida: nel deserto preparate la via del Signore, spianate i suoi sentieri, Ogni burrone sia riempito, ogni monte e ogni colle sia abbassato; i passi tortuosi siano diritti; i luoghi impervi spianati". La figura austera ed esigente di Giovanni Battista campeggia nell'Avvento come un forte invito a cambiare il cuore, a sgombrarlo da tutto ciò che gli impedisce di accogliere l'amore di Dio. Innanzitutto "raddrizzare i suoi sentieri". Raddrizzare i sentieri del cuore significa sincerità interiore; non possiamo accontentarci delle parole, non possiamo fermarci ai propositi, e nemmeno alle buone intenzioni. Certamente dovremo anche rettificare, raddrizzare le intenzioni puntando lo sguardo dell'anima verso la giusta direzione, cioè verso la volontà di Dio, ma la sincerità del cuore consiste nel "volere" ciò che vuole Dio, senza falsi problemi, senza i pretesti e le giustificazioni create dalla pigrizia, dall'egoismo o dalla sensualità. Esige, in una parola, la lotta ascetica, l'impegno interiore a spianare "le asperità" del carattere e delle cattive abitudini, a riparare con la penitenza e la contrizione le "buche" dei nostri peccati e delle nostre omissioni; esige una lotta interiore che porta alla purezza del cuore per cui possiamo vedere Dio e accoglierlo. Questo fu il battesimo di Giovanni, un battesimo di penitenza e di conversione. Come conseguenza di questa lotta interiore, sincera e concreta, Giovanni chiedeva la coerenza della vita, una condotta esteriore che rivelasse un "cuore ben disposto". 188
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87 – L’Immacolata: la “dimora” degna di Dio L'esempio più perfetto di "un cuore ben disposto" per accogliere il Redentore è l'Immacolata, la figura amabilissima di Maria che illumina di luce e di bellezza tutto l’Avvento; esso appare così un tempo liturgico squisitamente mariano. Se doveva esserci una festa prima del Natale e in preparazione al Natale, questa festa non poteva essere che l'Immacolata. Viene celebrata l'8 dicembre in pieno Avvento; sembra una collocazione casuale, una pura questione di date (si celebra infatti la Natività di Maria l'8 di settembre); in realtà tutto fa pensare a un disegno provvidenziale di Dio che gioca anche con le date, con i tempi e con la storia degli uomini. L'Immacolata è chiamata dalla Liturgia "degna dimora" del Figlio di Dio. Si potrebbe osservare che Gesù "dimorò" soltanto nove mesi nel grembo verginale di Maria. Secondo le leggi della natura, dal punto di vista corporale, è certamente vero; sappiamo però che Maria concepì il Figlio di Dio "prius in mente quam in corpore" - prima spiritualmente (attraverso la fede) che corporalmente (attraverso la carne). E questa dimora di Cristo nel cuore pieno di santità e di grazia della Madonna non venne mai meno, anzi, andò crescendo in intimità e profondità, tanto da poter dire che il Figlio assimilò a sé la Madre facendola compartecipe della sua vita e della sua missione di Redentore. Maria dunque, o meglio il suo Cuore immacolato e innamorato, rimane ormai per sempre la dimora dolcissima ed eccelsa di Cristo, e rimane anche modello e insegnamento per noi che siamo chiamati ad accogliere Cristo secondo l'augurio di San Paolo agli Efesini: "Che Cristo, mediante
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la fede, abiti nei vostri cuori, ben radicati e fondati nell'amore" Solo la Madonna può insegnarci come preparare il presepe nel nostro cuore, solo lei può aiutarci a far nascere Cristo nella nostra anima mediante la purezza, la fede e l'amore. Senza questa nascita di Gesù dentro di noi, a ben poco servono i presepi nelle nostre case e nelle nostre chiese. Per la nascita di suo Figlio, Dio ha preparato Maria, noi abbiamo preparato una grotta. Negli ultimi giorni dell'Avvento, mentre nelle chiese si svolge la toccante novena, tutti sono impegnati a preparare il Natale: si invadono i supermercati per il menu natalizio, si visitano i negozi per l'acquisto di regali, si adornano case e vie con luminarie e insegne dorate..., ma molti hanno paura di andare oltre: si aggirano tra le scintillanti apparenze del Natale ma con il cuore spento e l'anima vuota, si appropriano dei "segni" del Natale ma non lo "celebrano", sentono, magari con commozione, la "nostalgia" del Natale ma non ne conoscono la "gioia". Molti arriveranno alla grotta e guarderanno il Bambino, ma non sapranno vedere in quel Bambino l'amore di Dio per loro. Il Vangelo dice che i pastori trovarono il Bambino e sua Madre..., dobbiamo appunto passare da Maria per capire l'amore di Dio. Nessuna creatura sulla terra ha "celebrato" il Natale come lei; e non solo perché quel Bambino è carne della sua carne, sangue del suo sangue ed è stato partorito dal suo grembo verginale, ma soprattutto perché essa "ha trovato grazia presso Dio" che l'ha amata più di ogni altra donna sulla terra, e perché lo Spirito Santo l'ha fatta sua sposa e quel Bambino è il dono che il Padre ha consegnato a Lei per rivelare a tutti gli uomini la sua misericordia. Maria è la soglia che il Figlio di Dio ha varcato per venire fino a noi, ed è perciò la soglia che ognuno di 189
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noi deve varcare per incontrare il Redentore: Maria è la soglia della speranza. Al di qua ci siamo noi, gli uomini, con le nostre paure, le nostre catene, le nostre attese e invocazioni; al di là della soglia c'era il Dio inaccessibile, il Dio dell'Eden perduto, ma anche il Dio delle promesse. E in Maria ogni promessa si è compiuta; Dio stesso ha varcato per primo questa "soglia delle speranze" umane. Maria ha "costretto" il Dio inaccessibile, immenso, a farsi piccolo, a misura d'uomo, a rinchiudersi nel suo grembo. Infatti, quem coeli capere non poterant, tuo gremio contulisti colui che i cieli non possono contenere, l'hai racchiuso nel tuo grembo. Dobbiamo incontrare l'Immacolata; essa purificherà il nostro cuore facendolo rivivere nella contrizione e nel perdono, sulla soglia del confessionale cadranno le nostre catene e si scioglieranno le nostre paure... e varcheremo anche noi la "soglia della speranza". Solo allora, il canto degli Angeli nel cielo di Betlemme risuonerà anche per noi: "Se cerchi Maria "necessariamente" troverai Gesù, e apprenderai - con profondità sempre maggiore - che cosa c'è nel cuore di Dio". 190
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Dalla Liturgia delle Ore. Comune della B.Vergine Maria. Forgia, n. 661
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TEMPO DI NATALE
88 – Natale Il Natale ci rivela appunto che cosa c'è nel Cuore di Dio: un amore senza limiti per gli uomini. La solennità del Natale è celebrata dalla Chiesa con tre liturgie eucaristiche diverse: la Liturgia della notte, la Liturgia dell'aurora, la Liturgia del giorno. Come a dire che il mistero del Figlio di Dio fatto uomo è così grande che non basta una Liturgia per descriverlo. In effetti, l'Incarnazione - Sposalizio di Dio con l'uomo, incontro ineffabile del Creatore con la sua creatura - si presenta ai nostri occhi e alla nostra mente come un evento così immenso nelle sue dimensioni umane e divine che abbiamo bisogno di tempo per rendercene conto e per poterlo contemplare. La Liturgia della notte ci conduce davanti alla grotta e ci fa guardare con occhi lucidi di commozione e di stupore la scena dolcissima del Bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. La notte riveste un duplice significato: uno negativo, indica la nostra condizione umana che è di tenebra: l'ignoranza, la cecità spirituale, il peccato e la morte, segno della signoria del maligno, principe delle tenebre; e un significato positivo, perché indica il mistero insondabile che avvolge Dio e le sue opere. In ogni caso, Cristo vince le tenebre del mondo e illumina gli occhi della nostra mente sul mistero che lo avvolge. 231
Ma è necessario arrivare a Betlemme. I pastori, docili all'invito degli Angeli, cercarono la grotta e trovarono il Bambino . La Liturgia della notte è quella più accessibile e più amata dalla gente; il racconto del Vangelo e la scena del presepe vanno diritto al cuore e parlano il linguaggio dell'umiltà, della semplicità e dell'innocenza. Ma non tutti capiscono questo linguaggio e molti non sanno ascoltare. Eppure, il presepe è una cattedra, e quel Bambino ci dà lezione appunto di umiltà, di semplicità e di innocenza. A poco servirebbe commuoverci davanti alla sua grotta e magari cantargli dolci ninne nanne se poi il nostro cuore non cambia, non si apre all'amore e al dono di sé. La nostra vita sulla terra è un viaggio che ha la sua prima tappa a Betlemme; trovare il Bambino e adorarlo come hanno fatto i pastori è come dare un senso nuovo al nostro viaggio, un significato diverso, cioè divino, a tutta la nostra vita. La Liturgia dell'aurora è ancora centrata sulla scena del presepio ma con un accento particolare sui pastori: sono essi i protagonisti. Narra San Luca che, dopo l'annuncio degli Angeli, i pastori si incamminarono "senza indugio" verso Betlemme, raccontando l'accaduto a quanti incontravano; anche a Giuseppe e a Maria hanno certamente narrato quello che gli Angeli avevano detto del Bambino. Essi poi tornarono lodando e glorificando Dio, pieni di gioia, mentre Maria conservava ogni cosa meditandola nel suo cuore. L'aurora è un segno, indica la speranza che il Natale accende nel cuore degli uomini. Come l’aurora, anche il Natale pone fine alla notte e inaugura un nuovo giorno; è il giorno senza tramonto, che sarà dominato dal Sole di giustizia, il Signore Gesù, che illuminerà ormai per sempre la storia degli uomini. Abbiamo già detto che "giustizia" nel linguaggio biblico significa la salvezza e la pace; perciò la speranza accesa da questa dolcissima aurora non è una 232
vaga aspirazione o un astratto desiderio, è una certezza che sta lì sotto gli occhi di tutti: un Bambino adagiato in una mangiatoia. Canta l'antifona d'ingresso: "Oggi su di noi splenderà la luce perché è nato per noi il Signore: Dio onnipotente sarà il suo nome, Principe della pace, Padre dell'eternità". Vedere tutto questo in quel Bambino debole e inerme, che non ha nulla di regale e non presenta alcun segno di potenza o di grandezza umana, sembrerebbe una pazzia. Ma gli occhi dei pastori hanno saputo leggere nella tenue aurora di quel Bambino la forza di Dio che si è rivestito della nostra debolezza per risanarla ed elevarla alle altezze del cielo. Non dobbiamo ingannarci: le apparenze sono quelle di un bambino ma esse sono un "segno", come hanno detto gli Angeli ai pastori; la realtà è quella del Redentore che è venuto a portare la pace. La pace vera, quella che nasce dalla vittoria di Dio nel nostro cuore. Perché i nemici della pace sono dentro di noi: la superbia, che ci fa ribelli alla verità, l'idolatria, che ci fa adoratori delle cose della terra, l'egoismo, che ci rende incapaci di amare gli altri. Quel Bambino è l'arcobaleno tracciato da Dio sul diluvio del peccato, un arcobaleno di pace che Dio dipingerà in ogni anima che sappia accogliere il Bambino di Betlemme. La Liturgia del giorno è una liturgia di luce, la liturgia del Sole. I pagani celebravano oggi la "festa del Sole", la sua rinascita sull'orizzonte astronomico. La liturgia della Chiesa celebra la nascita di Cristo, il Sole eterno che appare sull'orizzonte della storia per illuminare la vita degli uomini: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini (...) La luce vera, quella che illumina ogni uomo, veniva nel mondo ... E il Verbo si 233
fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità". Il presepe che abbiamo contemplato nella notte e nell'aurora, si apre ora su un panorama immenso: dal seno del Padre l'eternità è entrata nel tempo e ha inondato di luce la vita del mondo. Quel Bambino è il Verbo generato nel seno del Padre prima di tutti i secoli, è il Figlio che ci viene dato in dono. La Liturgia del giorno incomincia con un grido di gioia: "Puer natus est nobis, Filius datus est nobis!" - è nato per noi il Bambino, ci è stato dato in dono il Figlio di Dio! Perciò chi accoglie il Bambino di Betlemme riceverà il dono immenso che Egli ha portato nel mondo: la sua filiazione divina. "A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati". E' questa la vera, grande novità del Vangelo; questo è ciò che deve accadere nella nostra anima. E' già accaduto nel battesimo, perché è avvenuta allora la nostra nascita come figli di Dio. Ma il Natale torna ogni anno a ricordarci questa dimensione soprannaturale e divina che Dio ha dato alla nostra vita. Eppure è così facile dimenticarlo! Perciò ogni giorno la Chiesa nella Santa Messa ripete la preghiera del Natale, propria della Liturgia del giorno: all'offertorio, versando alcune gocce d'acqua nel calice, il sacerdote dice: "L'acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana". Il grande Papa San Leone Magno così concludeva la sua omelia sul Natale: "Carissimi, deponiamo dunque 192
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Gv. 1, 1..14 Gv. 1,12
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l'uomo vecchio con la condotta di prima e, poiché siamo partecipi della generazione di Cristo, rinunciamo alle opere della carne. Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all'abiezione di un tempo con una condotta indegna". Sarebbe come celebrare il Natale senza il Bambino, o costruire il presepe in un cuore buio e freddo. Non c'è Natale senza la luce, senza la Vita, senza la Grazia. Senza gli Angeli che cantino "Gloria a Dio nei cieli e pace agli uomini sulla terra". 194
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89 – La Sacra Famiglia La Liturgia del Natale non si limita a celebrare la nascita di Gesù, ma vuole ricordarci anche la sua vita d'infanzia. Non esiste una festa specifica per questo, ci sono però due celebrazioni che fanno implicito riferimento alla vita d'infanzia e a tutta la vita cosiddetta "nascosta" del Signore. Sono la festa della Sacra Famiglia che si celebra nella domenica dopo Natale e la solennità della Madre di Dio che si celebra nell'Ottava di Natale. Di quest'ultima, che costituisce una delle maggiori solennità del culto mariano, ne abbiamo già parlato (cfr.n.68). Ma un importante messaggio ci viene anche dalla festa della Sacra Famiglia che ci ricorda uno dei valori fondamentali dell'uomo e della società. Non rifletteremo mai abbastanza sul fatto che il Figlio di Dio facendosi uomo ha voluto assumere la nostra condizione umana nella sua più completa normalità; ha voluto trascorrere quasi tutta la sua vita in una famiglia, lavorando nella bottega di Giuseppe, tra le mura domestiche di una casa, accanto a sua madre, alla maniera di ogni creatura umana. Viene chiamata "vita nascosta" perché durante 194 195
Ef. 4,22 S.Leone Magno, Discorso per il Natale, 1-3
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quegli anni nulla il Signore ha fatto trapelare della sua identità più profonda: la sua divinità. Il Vangelo la descrive in poche parole: "Gesù stava loro (Giuseppe e Maria) sottomesso. E il Bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, davanti a Dio e agli uomini". Tuttavia la Chiesa, con la festa della famiglia di Gesù, intende riaffermare il valore della famiglia come essa venne "pensata" da Dio nel suo disegno sull'uomo. Sì, perché la famiglia l'ha voluta Dio quando creò l'uomo a Sua immagine e somiglianza; Lui l'ha creata e Lui ne ha stabilito le leggi. L'ha voluta come espressione e sul modello della sua vita Trinitaria. Inoltre, per mezzo di Cristo, che l'ha santificata con la sua vita umana e divina, l'ha restaurata dalla dissacrazione operata dal peccato. Perciò ogni attentato contro i valori della famiglia è un attentato contro Dio. L'insegnamento della Chiesa sulla famiglia è oggi particolarmente ampio e profondo. Uno dei crimini più disastrosi che la cultura laicista ha perpetrato contro l'uomo e lo stesso ordine sociale è senza dubbio la demolizione sistematica e violenta dei valori della famiglia. Negato ogni riferimento a Dio e al valore trascendente della vita umana, è tolto ogni fondamento alla famiglia che perde la sua identità e può assumere le forme più strane e assurde di convivenza che non trovano riscontro nemmeno nella etologia animale. Dio ha voluto che l'uomo nascesse e crescesse come uomo in una famiglia, formata da un uomo e da una donna, uniti indissolubilmente da un patto d'amore che li fa essere due in una sola carne. Gesù ha suggellato con l'esempio della sua vita questa volontà del Padre. Egli si è fatto uomo nel grembo di 196
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Lc. 2,40 Concilcio Vat. II: Gaudium et Spes; Giov.Paolo II, Familiaris Consortio; Lettera alle famiglie. 197
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Maria, ma è diventato uomo, cioè ha forgiato la sua personalità umana, nella casa e nella famiglia di Nazareth. "Tornò a Nazareth e stava loro sottomesso. E Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e agli uomini" . Questa è dunque la famiglia nel disegno di Dio: il luogo dove l'uomo nasce e cresce come uomo. La famiglia diventa così il luogo dove si scopre il valore e il dono della vita; il luogo dove si impara l'obbedienza, il rispetto reciproco, il sacrificio generoso; il luogo dove si apprende a coniugare la vera libertà con la responsabilità, a condividere le gioie e le sofferenze di tutti, a curare con finezza il dovere di ogni momento; è ancora il luogo dove si scopre la preziosità di un silenzio, la bellezza di un sorriso, la gioia del perdono; in una parola si impara ad amare. Per noi cristiani, poi, la famiglia è il luogo dove si trasmette la fede, si educa alla speranza, si insegna la preghiera, dove la fiducia in Dio rende forti nelle tribolazioni, pazienti nel lavoro, generosi nel dono di sé stessi; il luogo dove il santo timore di Dio, il rispetto dei suoi comandamenti e il senso gioioso della paternità di Dio fanno della famiglia stessa un "focolare cristiano luminoso e allegro" , una piccola "chiesa domestica" che diffonde la serenità e la pace. Tutto questo è possibile nonostante le difficoltà, le crisi e le prove della vita. I Vangeli che si leggono nella festa della Sacra Famiglia ricordano episodi della vita d'infanzia di Gesù dove le difficoltà e le sofferenze non hanno avuto mai il sopravvento sulla serenità e la gioia: la fuga in Egitto, il dolore per la strage compiuta da Erode, il Bambino minacciato da Archelao, il forzato ritorno a Nazareth, Gesù smarrito nel tempio. Il segreto sta nell'amore. Quando si ama e si sa di essere amati da Dio, non ci sono prove 198
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Lc. 2,52 San J.Escrivà, E' Gesù che passa n. 22
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che possano spezzare la famiglia, incrinare la sua solidità, o derubarla della pace. Famiglia, diventa ciò che sei, "il centro e il cuore della civiltà dell'amore". 200
90 – L’Epifania Il tempo di Natale culmina e si conclude con la solennità dell'Epifania. In Oriente è questa la solennità natalizia più importante e viene celebrata il 6 gennaio analogamente alla festa del Sole che in Occidente ha la sua celebrazione il 25 dicembre. L'Epifania ("manifestazione" di una realtà occulta) pone l'accento sul mistero che si nasconde nel Natale: la presenza del Verbo eterno del Padre nel Bambino di Betlemme. A Natale la Chiesa ci conduce alla grotta per contemplare l'umanità di Gesù, nell'Epifania essa ci invita a contemplare la divinità di Cristo. E' una contemplazione spirituale e mistica; infatti l'umanità del Bambino la vediamo con gli occhi della carne, la divinità del Verbo la contempliamo con gli occhi della fede. Perciò l'Epifania è la festa della fede, e la Chiesa ci invita a rinnovarla esplicitamente con il canto del Credo rendendo grazie a Dio per questo dono inestimabile. Sono ancora miliardi gli uomini che sulla terra conoscono Cristo nella carne, ma non lo conoscono nella fede; incontrare Cristo nella carne non è ancora incontrarlo come Redentore. Gesù è Redentore perché è Figlio di Dio, e nell'Uomo di Nazareth come nel Bambino di Betlemme è Dio che ci parla, è Dio che ci salva. Ora, Dio nessuno l'ha
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Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie
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mai visto; proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato". Il termine Epifania viene tradotto con due vocaboli che sono complementari: manifestazione e rivelazione; essi indicano due modalità con le quali Dio si fa conoscere. Nella Epifania-manifestazione, Dio si fa conoscere "esteriormente", attraverso le sue opere, nella Epifania-rivelazione Dio si fa conoscere "interiormente" attraverso la luce interiore della Grazia. La fede ha bisogno di questa duplice epifania, perché Dio si fa conoscere non solo come "notizia" - l'Evangelo è la "Buona Notizia" - ma anche come dono, come Amore che salva. La Liturgia del Natale celebra soprattutto l'epifaniamanifestazione, ricordando tre episodi epifanici nei quali Cristo si manifesta come Messia-Redentore: l'adorazione dei Magi, il Battesimo di Gesù nel Giordano, le nozze di Cana. - L'adorazione dei Magi ricorda l'Epifania di Gesù ai popoli della terra. I Magi non erano Ebrei e appartenevano a diverse razze e culture. Erano anche uomini di rango, uomini di scienza e di potere. Potremmo meditare sul viaggio dei Magi come figura del nostro viaggio nella fede. Comunque l'Epifania di Gesù ai Magi ci ricorda l'universalità della salvezza; cioè tutti gli uomini sono chiamati alla fede e tutto ciò che umanamente conta: le categorie dell'intelligenza, della ricchezza, del sapere e del potere sono chiamate a rendere omaggio alla signoria di Cristo e a servirlo in ordine alla gloria di Dio e alla salvezza del mondo. - Il Battesimo di Gesù nel Giordano ricorda l'Epifania di Cristo al Popolo eletto; Gesù si manifesta agli Ebrei, attraverso i sacerdoti e i Capi del popolo che si rivolgono al Battista per interrogarlo. Giovanni addita Gesù e lo indica come colui che deve venire, il Messia. E' una 201
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Gv. 1,18
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epifania che viene completata e confermata dalla testimonianza del Padre e dello Spirito Santo. E' perciò una epifania trinitaria che rivela l'identità divina di Cristo come Figlio di Dio. Il Battesimo di Giovanni - "battesimo di acqua", cioè un semplice rito penitenziale - lascia il posto al battesimo-sacramento, "battesimo in Spirito Santo e fuoco", che ci rivela il mistero della grazia. Con Gesù, il sigillo che denota l'appartenenza al popolo di Dio, al nuovo Israele, non sarà più la circoncisione ma il Battesimo. La Promessa che fondava l'Antica Alleanza lascia il posto alla grazia che fonda la Nuova Alleanza. "La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo". - Le Nozze di Cana costituiscono una Epifania di Gesù più intima. Con il miracolo dell'acqua mutata in vino Gesù si manifesta ai suoi discepoli, a coloro che saranno il fondamento della Chiesa. "Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in Lui". In questa epifania Gesù si rivela come Sposo che inaugura la Nuova Alleanza, quella che sarà poi scritta col suo sangue, e fonda un nuovo rapporto dell'uomo con Dio: il rapporto sponsale. 202
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91 – “Vedere” Gesù L’epifania di Gesù alle nozze di Cana, epifania personale e quasi intima riservata ai suoi discepoli, ci aiuta a capire l'altra modalità epifanica, quella in cui Gesù si fa conoscere interiormente su un piano molto personale, con una luce che illumina l'intimo della nostra anima. E' l'epifania-rivelazione, una specie di conoscenza nuova di ciò che 202 203
Gv. 1,17 Gv. 2,11
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già conoscevamo senza capire. E' una Epifania "per praesentiam", cioè una epifania in cui si sperimenta la presenza interiore di Cristo che si fa conoscere e si dona intimamente alla nostra anima. La più famosa e più importante di queste rivelazioni epifaniche è quella occorsa a Saulo sulla via di Damasco: Gesù è lì, presente con la sua umanità santissima davanti a lui: "Chi sei tu?" - "Quel Gesù che tu perseguiti!". Da quel momento Saulo sarà un'altra persona: ha "visto" il Signore, e non lo lascerà più! Anzi, lo "inseguirà" per tutta la vita, come se dovesse inseguire una preda, perché anche lui, Paolo, è stato "afferrato" da Cristo come una preda. "Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose, e le considero come spazzatura, pur di guadagnare Cristo". Senza questa rivelazione interiore, senza questa luce nuova per cui la nostra anima "vede" Gesù e ne sperimenta la presenza, non ci sarà mai una vera conversione, un vero decollo della vita cristiana. Sono molti quelli che cominciano il loro cammino nella vita spirituale, e partono anche con entusiasmo, ma poi si stancano e si fermano. Fanno pensare alle oche domestiche citate da Kierkegard, le quali, quando vedono le loro compagne selvatiche passare alte nel cielo con volo possente e perfettamente orientate, per un momento si infiammano e vorrebbero accodarsi allo stormo, ma dopo un gran sbattere d'ali e di grida tutto finisce in pochi metri e si ritrovano ancora lì a pascolare nel cortile o tutt'al più nello stagno. Non basta l'entusiamo e nemmeno l'aver capito le cose; bisogna innamorarsi. E per innamorarsi bisogna "vedere" la persona amata; per questo molti si fermano e molti altri non salpano per cammini di santità: non hanno "visto" Gesù. Un giorno alcuni 204
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Fil. 3, 8
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greci di osservanza ebraica venuti a Gerusalemme per la Pasqua si presentarono a Filippo dicendo: "Vogliamo vedere Gesù". Dovrebbe essere il desiderio di ognuno di noi: vedere Cristo con gli occhi dell'anima attraverso una epifania del suo volto che ci riveli la sua presenza e il suo amore. L'ultima festa epifanica che appartiene alla liturgia del Natale è la Presentazione di Gesù al Tempio, quaranta giorni dopo il Natale (2 febbraio). Il Vangelo ci descrive una delle scene più belle e commoventi della vita d'infanzia del Signore: "C'era a Gerusalemme un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele (...). Mosso dallo Spirito si recò nel Tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per adempiere la Legge, lo prese tra le braccia e benedisse Dio: "Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza...". ...i miei occhi hanno visto... Proviamo a pensare a quel volto segnato dal tempo, dalle veglie, dalla lunga preghiera illuminarsi di gioia e di pianto davanti al Bambino di Betlemme! Quanti volti umani gli occhi del vecchio Simeone avranno scrutato prima di riempirsi di luce nel vedere Gesù e riconoscere in lui il Salvatore! E' bastato quel momento di contemplazione perché la sua lunga vita acquistasse significato e ricevesse il suo compimento. "Vedere" Gesù..., saper attendere e invocare la sua epifania nella nostra anima; vedere Gesù per innamorarsi di lui... Perché solo l'Amore può cambiare il cuore dell'uomo. 205
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Gv. 12, 21 Lc. 2, 25-30
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Il MISTERO PASQUALE
92 – La Pasqua ebraica La Pasqua è il culmine della Storia della salvezza; è perciò il cuore di tutto l'anno liturgico. Riguardo a Cristo, la Pasqua è il completamento della sua Incarnazione; è la realizzazione estrema della sua "spoliazione" - "annientamento" la chiama S. Paolo - avendo accettato di assumere la nostra umanità fino alla sua condizione di condanna e di morte. "Cristo Gesù, pur essendo di natura divina (Figlio di Dio), non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini (Incarnazione); apparso in forma umana (Natale), umiliò sé stesso (Passione), facendosi obbediente fino alla morte (agonia) e alla morte di croce (Morte). Per questo Dio l'ha esaltato (Risurrezione) e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome (Redentore universale e Capo della Chiesa), l'ha costituito Signore (Re e giudice) a gloria di Dio Padre (Ascensione). Questo inno di S. Paolo abbraccia tutto il Mistero di Cristo e ricapitola l'opera sublime della salvezza. Quanto a noi, la Pasqua è "transitus Domini", il passaggio del Signore; come Gesù, e insieme con lui, anche 207
207
Fil. 2,6-11
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noi passiamo dalla morte alla vita. Cristo ci libera dalla condizione di schiavi e ci fa passare alla libertà di figli. Questo "passaggio" dalla schiavitù alla libertà, dal peccato alla grazia, è stato prefigurato da ciò che Dio aveva compiuto nell'Antico Testamento per i figli di Israele quando "passò" per liberarli dall'Egitto, come narra il libro dell'Esodo. Fu la Pasqua ebraica che possiamo considerare come "Epopea della Salvezza". Quella sera gli Ebrei sacrificarono l'agnello e con il sangue segnarono le porte delle loro case. Nella notte "passò" il Signore e fece giustizia sui primogeniti dell'Egitto risparmiando le case degli Israeliti. Essi poterono così partire e, guidati da Mosè, passarono il Mar Rosso per incamminarsi verso la Terra promessa. Quel rito doveva ripetersi ogni anno al plenilunio di primavera, di generazione in generazione. "Allora i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: E' il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è "passato oltre" le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l'Egitto e salvò le nostre case". La Pasqua ebraica aveva valore di segno, era una figura profetica della Pasqua di Cristo: Gesù è il vero agnello che toglie i peccati del mondo, la sua immolazione è il vero Sacrificio che libera gli uomini dalla schiavitù del peccato, il suo Sangue ha sancito la nuova Alleanza che sostituirà per sempre l'antica Alleanza sancita dal sangue dell'agnello. In Gesù, morto e risorto, Dio realizza tutte le sue promesse e dà compimento alla salvezza del mondo. Dicevamo che ogni cristiano è chiamato a morire e a risorgere con Cristo per essere, in Lui, una "creatura nuova". La Pasqua di Cristo diventa così la Pasqua dei cristiani. Tutto si compie nella Chiesa per opera dello Spirito Santo che attua in ogni credente il mistero pasquale di Cri208
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Es. 12,26
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sto. Proprio nella Liturgia pasquale la Chiesa unisce nella celebrazione liturgica la Pasqua di Cristo e la Pasqua dei cristiani. 93 – La Pasqua cristiana Il tempo pasquale è chiamato dalla Chiesa "tempo forte", forte perché fondamentali sono le verità che vengono ricordate, ma forte anche per i temi della vita cristiana che vengono riproposti. Il cristiano è colui che nasce dalla Pasqua di Cristo; è colui che rivive il mistero di morte e risurrezione del Signore. Gli Ebrei celebravano la Pasqua come un rito "per non dimenticare", un memoriale che ricordava quello che Javhè aveva compiuto con i loro padri. Era quindi un rito di lode e di ringraziamento al Dio d'Israele per i grandi benefici che egli aveva concesso al suo popolo. La Pasqua di Cristo non fu un rito ma un "mistero", cioè un reale intervento di Dio nell'umanità di Cristo. Dio volle rinnovare tutta l'umanità e l'intera creazione secondo il suo disegno di salvezza attraverso l'offerta sacrificale di suo Figlio fatto uomo. La Pasqua di Cristo ha dunque un valore ben diverso dalla Pasqua ebraica, non solo perché questa era la "figura" e Cristo è la "realtà", ma anche perché Cristo, nella sua Pasqua, unisce intimamente l'aspetto salvifico all'aspetto sacrificale: Cristo è Redentore e insieme Sacerdote eterno. La Pasqua dell'Esodo, infatti, rivestiva soprattutto un significato salvifico: l'agnello pasquale serviva per segnare col sangue le porte degli Ebrei e così salvare il popolo dal giogo del Faraone e i primogeniti dallo sterminio; la Pasqua di Cristo riunisce in sé i due aspetti, quello salvifico e quello sacrificale: proprio perché 246
fu un sacrificio di adorazione al Padre, la Pasqua di Cristo ebbe un valore salvifico per tutta l'umanità. Anche nella Pasqua cristiana ritroviamo tutti e due gli aspetti: la Pasqua cristiana è rito ed è mistero; è rito perché richiama i segni salvifici della Pasqua ebraica, ed è mistero perché contiene la realtà del Sacrificio di Cristo. La Chiesa perciò chiama la Pasqua cristiana: Sacramenta paschalia: i Sacramenti pasquali. I Sacramenti che hanno significato pasquale sono il Battesimo e l'Eucaristia. Il Battesimo ci ricorda e attua in noi l'aspetto salvifico della Pasqua, aspetto prefigurato nella liberazione degli Ebrei dall'Egitto attraverso le acque del Mar Rosso; l'Eucaristia ci ricorda e attua in noi il sacrificio di Cristo nella sua Pasqua di morte e resurrezione. Tutta la Liturgia pasquale è insieme Liturgia battesimale e Liturgia eucaristica. Gesù stesso chiama la sua morte un "Battesimo". Nel richiamare queste realtà è necessario da parte nostra uno sforzo di riflessione. C'è il pericolo infatti che noi ascoltiamo queste cose e le sentiamo come lontane nel tempo ed estranee alla nostra situazione attuale, alla nostra realtà quotidiana. Queste sono certamente cose di Dio pensiamo - e deve farle lui, noi abbiamo le nostre cose - il lavoro e i suoi problemi, la famiglia e le sue necessità, la società e le sue vicende... - e dobbiamo pensarci noi. Abbiamo già detto che la Storia di Dio (storia sacra) e la storia dell'uomo non sono due storie parallele; Dio agisce dentro la storia dell'uomo e il tempo della salvezza è presente in ogni momento della nostra vita. Parlando della fede come strada che conduce la nostra esistenza terrena, dicevamo che la fede è "vedere" presente nella mia vita il Dioche-salva. Dobbiamo chiedere alla Madonna che "portava tutte queste cose meditandole nel suo cuore", di sentirci anche noi "interessati a quanto Dio ha fatto e continua a fare nel mondo. La vita del cristiano è una vita pasquale, è 247
la vita di Cristo morto e risorto che in qualche modo continua in noi. 94 – Il mercoledì delle Ceneri Il tempo pasquale comprende tre momenti liturgici di grande intensità: la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste. La Quaresima ci chiama alla conversione e alla lotta contro tutto ciò che nella nostra vita si oppone a Dio; la Pasqua celebra la passione, morte, risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo, il quale ci ha amati e ha dato sé stesso per noi; la Pentecoste ci comunica i frutti della Pasqua, cioè lo Spirito Santo e la Chiesa. E' un periodo di quattordici settimane, e risulta dalla dilatazione progressiva della Veglia pasquale che veniva celebrata con grande solennità nelle prime comunità cristiane. La Quaresima inizia nel Mercoledì delle Ceneri con un austero rito penitenziale. Le ceneri, ottenute per incenerimento dei ramoscelli d'olivo, hanno avuto fin dall'antichità un significato penitenziale. "Sedere nella cenere" significava riconoscere la propria povertà e la propria nullità. La Chiesa utilizza questo significato imponendoci le ceneri sul capo per aiutarci ad abbandonare ogni nostra superbia. Si sa, la superbia è la radice di ogni peccato e perciò è il più radicato dei vizi umani. Si dice che la superbia muore un giorno dopo la nostra sepoltura ed è così connaturata al nostro animo da non poterla riconoscere e smascherare senza l'aiuto della grazia di Dio. Inoltre, ce ne dimentichiamo così facilmente che la Chiesa nel rito delle Ceneri quasi ci invita a metterci davanti alla nostra tomba dicendoci: "Ricordati che sei cenere, e in cenere ritornerai!". La Chiesa nel ricordarci la poca cosa 248
che siamo non intende scoraggiarci nei nostri progetti di bene o nei nostri sforzi nobili e coraggiosi di impegno in questo mondo come se proclamasse l'inutilità di tutto ciò che facciamo, vuole semplicemente invitarci a deporre ogni superbia, ogni considerazione falsa e disordinata di noi stessi, ogni appropriazione ingiusta dei doni di Dio come se fossero merito nostro di cui gloriarci davanti agli uomini. La superbia non solo ci impedisce di riconoscere Dio e quindi di orientare verso di Lui la nostra vita (conversione), ma ci impedisce anche di riconoscere i nostri peccati e quindi di pentircene e di emendarli con la penitenza. La superbia è il vero nemico dell'anima ed è l'unico peccato che ci fa somiglianti a Lucifero. Perciò la Chiesa imponendoci le Ceneri ci invita all'umiltà e ci addita il cammino penitenziale della Quaresima, che si può riassumere nelle tre indicazioni che Gesù stesso ci ha dato: preghiera, elemosina e digiuno. La preghiera è l'aprirsi dell'anima a Dio: è la conversione, l'inizio della fede; l'elemosina è il dischiudersi del cuore verso il prossimo: è la misericordia con le sue opere, segno certo della contrizione del cuore, “l'elemosina - infatti - copre la moltitudine dei peccati"; il digiuno è il dischiudersi del corpo e dei nostri sensi alla riparazione: è la penitenza. In tutto questo occorre la sincerità interiore. Proprio nel giorno delle Ceneri, parlandoci della preghiera, del digiuno e dell'elemosina, il Signore nel Vangelo ci mette in guardia dall'ipocrisia. Gesù parla dell'ipocrisia di fronte agli uomini, ipocrisia che ci porta ad agire tenendo conto del giudizio e del plauso umano, ma essa nasce dall'ipocrisia interiore, quella che ci porta alla penitenza, alla preghiera e alle opere buone ma senza una vera umiltà, senza una lotta sincera contro tutto ciò che ci allontana da Dio, e senza il fermo proposito di usare i mezzi idonei per una vera con249
versione. Presentandoci Gesù lottatore contro il maligno, la Liturgia ci invita ad una più rigorosa austerità nella vita, ad essere più forti nel respingere il male e più decisi nel volere il bene. La società del benessere e del facile consumismo in cui viviamo, ci ha resi tutti più fragili, più deboli, più restii al sacrificio e all'impegno. All'inizio della Quaresima ci viene estremamente opportuno ricordare l'avvertimento di Gesù: il Regno dei Cieli esige "violenza" e solo i violenti lo possono conquistare. 95 – L’itinerario quaresimale La Quaresima assunse così il significato di un cammino verso la Pasqua con riferimento soprattutto al Battesimo. Particolari esercizi penitenziali erano previsti per due categorie di persone: i catecumeni e i penitenti. La Quaresima dei catecumeni era pre-battesimale e aveva lo scopo di preparare al battesimo i convertiti attraverso un'assidua catechesi sulle verità della fede cristiana e una purificazione della condotta che garantisse il cambiamento di vita dalle abitudini pagane. La Quaresima dei penitenti era post-battesimale ed era ordinata alla riconciliazione dei pubblici peccatori che, allontanati dalla comunità per la loro condotta, venivano sottoposti a pubblica penitenza, in "cenere e cilicio", prima di essere ammessi a partecipare all'Eucarestia; la riconciliazione avveniva appunto nel giovedì santo. Per noi oggi la Quaresima potrebbe rivestire spiritualmente ambedue i significati: catecumenale e penitenziale. Noi abbiamo già ricevuto il battesimo, ma la ricchezza di questo sacramento è tale da non essere mai esaurita; tutta la vita cristiana è vita battesimale e si configura come un progressivo sviluppo della grazia e della vita divina ricevu250
te nel battesimo. Inoltre, il battesimo è anche il sacramento della fede, e la fede è suscitata in noi dalla Parola di Dio. Ora, la Parola di Dio richiede un continuo ascolto interiore senza il quale la fede battesimale rimarrebbe come un seme inaridito e infecondo. La stessa santità cristiana non è che la pienezza della vita battesimale. Ogni cristiano è perciò un battezzato e insieme un catecumeno. L'aspetto catecumenale della Quaresima giustifica la centralità e l'importanza della Parola di Dio durante questo tempo liturgico. Troppi cristiani sono rimasti allo stadio infantile nella loro formazione religiosa o non hanno saputo assimilare né approfondire quello che hanno ricevuto; per molti, poi, la contro-catechesi delle teorie laiciste e della mentalità secolarizzata, così abbondantemente dispensata dai mass-media, si è sovrapposta alla prima semina del Vangelo nella loro anima fino a rendere l'insegnamento di Cristo completamente ininfluente sulla loro vita. Per molti battezzati è perciò necessaria una rievangelizzazione, e comunque per tutti noi è indispensabile un ascolto più sincero e interiore della Parola di Dio. Ci serve perciò un accostamento umile e profondo alla catechesi della Chiesa per alimentare quella fede ricevuta nel battesimo, fede che dev’essere tanto più forte ed efficace quanto più lontano da essa, e spesso ostile, è l'ambiente in cui dobbiamo viverla e testimoniarla. L'aspetto penitenziale della Quaresima interessa ugualmente tutti i cristiani. La nostra prima conversione, e lo stesso sacramento del battesimo, non hanno tolto dalla nostra anima le radici del peccato, né hanno spento le inclinazioni al male; esse restano in noi e sono la causa di tanti nostri cedimenti, debolezze e peccati personali. Siamo dunque tutti peccatori, bisognosi di penitenza e di continua conversione. La Quaresima si caratterizza così come "tempo forte", tempo di lotta e di impegno ascetico. E' una lotta 251
che si conduce su più fronti, perché il male non è solo dentro di noi, conta anche alleati esterni che agiscono nel mondo come nemici di Dio: il demonio e lo spirito mondano. La Prima domenica di Quaresima ci presenta subito la figura di Cristo come lottatore: affronta il demonio che lo aggredisce con le sue tentazioni. Gesù subì soltanto tentazioni esterne dal momento che la sua perfetta integrità morale e la sua assoluta santità non erano compatibili con il disordine della concupiscenza e con le inclinazioni al male tentazioni interne - che caratterizzano la nostra condizione di peccatori: “Fu in tutto simile a noi tranne che nel peccato" dirà San Paolo. Gesù tuttavia volle essere tentato dal diavolo per due motivi: primo, per riparare la nostra sconfitta. Il demonio infatti travolse i nostri progenitori con le sue suggestioni; ora egli continua ad agire nel mondo e, non potendo far nulla contro Dio, si accanisce contro l'uomo, cioè contro la creatura che porta il sigillo e l'immagine di Dio. Gesù mettendosi al nostro posto sostituì la nostra sconfitta con la sua vittoria. Secondo motivo, volle essere tentato per insegnarci come dobbiamo lottare e vincere nelle nostre tentazioni. Innanzitutto egli ci insegna a smascherare l'inganno. Ogni tentazione è essa stessa un inganno, è il tentativo di far apparire come bene ciò che non lo è, di farci credere che troveremo la felicità in ciò che appaga la nostra superbia e la nostra concupiscenza anche se offende Dio e va contro la sua volontà. Il demonio usa le cose buone per tentarci al male, così come ha usato la Parola di Dio per tentare Gesù. In secondo luogo, Gesù ci insegna a non discutere con la tentazione; egli semplicemente la respinge. Il primo cedimento sta nel dialogare con il nemico; occorre invece prevenire, fuggire le occasioni, resistere prontamente e con decisione spegnendo le prime avvisaglie di suggestione. 252
In ogni caso occorre conservare una grande fiducia in Dio che non ci lascia mai soli nella prova, e una serenità interiore che ci mantenga la lucidità di coscienza. La tentazione, per quanto violenta, sfacciata e accompagnata da turbamenti sensibili, non è ancora peccato finché non c'è la nostra piena e consapevole accettazione. Spesso il Signore permette che siamo tentati per saggiare la nostra fedeltà, per mantenerci umili e vigilanti dandoci una più profonda conoscenza di noi stessi, e per farci acquistare esperienza che ci conduca a comprendere, amare ed aiutare i nostri fratelli nelle loro cadute. Del resto, nessuno può mai vincere una tentazione senza la grazia di Dio. Perciò è indispensabile la preghiera, che diventa la nostra arma più efficace e, se umile e perseverante, sorgente sicura di vittoria. In fondo, il primo e peggior nemico che abbiamo siamo noi stessi; il demonio, dice S. Agostino, è un cane legato a catena che, abbaiando, cerca di impaurirci, ma morde solo quelli che gli si avvicinano. Le promesse battesimali contengono un categorico rifiuto di seguire il demonio: "Rinunci a Satana, causa e origine di ogni peccato?" - "Rinuncio!". L'aspetto battesimale e l’aspetto penitenziale della Quaresima, presentandoci Gesù lottatore vittorioso sul male che c'è in noi e nel mondo servono anche a ricordarci che la nostra vita sulla terra è una milizia, una milizia che, se lo vogliamo, avrà l'appannaggio della vittoria perché Lui ha vinto.
96 – Aspetto sacrificale della Pasqua di Cristo La Quaresima, come ogni itinerario, ha la sua meta: è l'incontro con Cristo nel suo mistero pasquale di morte e 253
risurrezione. L'itinerario battesimale della Quaresima approda alla Pasqua sacrificale di Cristo: il Battesimo conduce all'Eucaristia. Abbiamo visto che il battesimo ci ricorda l'aspetto salvifico della pasqua prefigurato nella pasqua ebraica dell'Esodo, mentre l'Eucaristia ci ricorda la pasqua sacrificale di Cristo. I due aspetti sono intimamente legati tra loro perché non ci può essere l'uno senza l'altro. Il Battesimo e l'Eucaristia sono sgorgati dal sacrificio di Cristo: "dalla ferita del suo fianco effuse sangue ed acqua, simbolo dei sacramenti della Chiesa" Dunque il centro della Pasqua cristiana è il sacrificio della Croce. Infatti, prima di essere un atto salvifico che ripara i nostri peccati, il sacrificio di Cristo è un atto di culto a Dio, un atto di obbedienza al Padre, e diventa salvifico proprio perché è un atto di adorazione al Padre. C'è un episodio dell'Antico Testamento che ci ricorda l'aspetto sacrificale della Pasqua cristiana ed è riportato in una delle sette letture bibliche che si leggono nella Veglia della notte di Pasqua: l'episodio del sacrificio compiuto da Abramo. Abramo aveva avuto miracolosamente un figlio, Isacco, che secondo la promessa di Dio doveva garantirgli la discendenza "numerosa come le stelle del cielo e come l'arena del mare". Ma, quando fu cresciuto, Dio lo chiese ad Abramo in olocausto. Quel figlio era il suo unigenito, in lui Abramo aveva riposto tutto il suo amore, la sua speranza, il suo futuro. Il racconto, scarno e lineare, è carico di intensità drammatica: Isacco, con il carico della legna sulle spalle, seguiva il padre che lentamente saliva il monte Moria, l'attuale Calvario. Il silenzio pesava più del sudore, più della fatica, più della montagna. Improvvisamente una domanda, greve come il rumore dei passi: "Padre mio!... Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?" "Dio provvederà, figlio mio!" E sul monte Moria Dio prov209
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Prefazio dalla Messa votiva del S.Cuore
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vide; vi fece trovare l'agnello per il sacrificio. Anche Cristo, portando la croce sulle spalle, salì il Calvario seguendo la volontà del Padre e offrendo sé stesso come Agnello innocente, fu sacrificato al posto di tutti noi. A questo episodio non si dà, di solito, un significato strettamente pasquale, e tuttavia è l'episodio che più di ogni altro si addice, profeticamente, al sacrificio di Cristo; viene infatti ricordato nella prima Prece eucaristica della Messa. Fu un sacrificio di obbedienza, cioè di adorazione alla volontà del Padre. In questo sta tutto il valore della passione e della morte di Gesù. Le terribili sofferenze fisiche e gli stessi insulti e umiliazioni subite nella passione non hanno avuto la durezza e il peso di dolore e di ripugnanza che ha avuto il sì obbedienziale che Gesù ha pronunziato nell'agonia del Getsemani. In quella notte Gesù era irriconoscibile: cominciò a tremare di paura e, preso da tristezza mortale, cadde con la faccia a terra come un cencio. "In preda all'angoscia, pregava più intensamente; il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra". Nessuno mai potrà misurare quello che Gesù ha provato nella sua anima in quella "agonia". - Padre, passi da me questo calice! Non era il calice delle sofferenze fisiche, non era il calice degli insulti e dei maltrattamenti, era il calice della "sconfitta", della maledizione legata al peccato. La croce era il segno che Dio aveva "abbandonato" suo Figlio alla sconfitta di fronte agli uomini. Una sconfitta senza possibilità di rivincita; sconfessato dai suoi e da tutti gli uomini, Gesù apparirà sconfessato anche da Dio. "Discendi dalla croce e ti crederemo (...) Ha confidato in Dio; lo liberi ora, se gli vuol bene, poiché ha detto sono Figlio di Dio!". 210
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Lc. 22,44 Mt. 27,43
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La Lettera agli Ebrei allude a quella "agonia" obbedienziale quando scrive: "...egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lagrime a Colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì..." "Fu esaudito..." non nel senso che gli fu risparmiata l'umiliazione e la morte, ma nel senso che fu reso capace di quella obbedienza salvifica che lo portò ad accettare la "maledizione" e la sconfitta della croce. Lo liberò infatti dall'angoscia e dalla tristezza mortale che lo aveva schiacciato nell'Orto degli olivi. Egli non si difenderà; non tornerà in piazza a convincere i suoi avversari della sua innocenza e a mostrare agli uomini la sua potenza e la sua vittoria sulla morte. Accetterà di risorgere e salire al cielo esclusivamente per la gloria del Padre, rinunciando ad ogni significato di rivincita umana davanti al mondo e anche davanti ai suoi apostoli. Fu liberato dall'angoscia e dalla morte interiore "per la sua pietà", per la sua consapevolezza di figlio di Dio che obbediva al Padre. Un angelo fu la conferma che il Padre aveva accolto la supplica straziante del suo Figlio diletto. Gesù uscì da quella orazione trasformato; era tornato quello di sempre: forte, sicuro di sé, padrone delle situazioni... Perciò la sua inspiegabile remissività di fronte ai suoi nemici riempì di stupore gli Apostoli che, incoraggiati perfino dalla difesa che Gesù prese per loro, lo abbandonarono e fuggirono. Gesù subirà con estrema consapevolezza e dignità l'esecuzione materiale di ciò che egli aveva accettato nel Getsemani con piena e filiale adesione alla volontà del Padre. La morte di Gesù ha dunque, agli occhi del mondo, le apparenze di una sconfitta, di un fallimento, ma agli occhi della nostra fede essa è stata un "sacrificio", cioè un atto di culto a Dio. Ciò significa che Gesù 212
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Ebrei, 5,7
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non è morto per circostanze fatali, sopraffatto dai suoi nemici che alla fine hanno avuto ragione di lui; non è stato un eroe di questo mondo che dopo aver lottato per la giustizia e altri nobili cause, soccombe travolto dall'astuzia e dalla perfidia degli uomini. Gesù è morto perché l'ha voluto lui; egli volontariamente si è consegnato alla morte in obbedienza al Padre. E lo ha fatto quando ha voluto lui, quando venne "la sua ora", quella segnata dal Padre. Molte volte i suoi nemici avevano tentato di catturarlo, ma egli non lo permise mostrandosi ogni volta padrone delle situazioni e degli avvenimenti. "Io offro la mia vita... Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo" Di più: l'atto stesso della sua morte non è stato pura conseguenza dei maltrattamenti della passione - molti hanno cercato inutilmente di spiegare la causa ultima della morte di Gesù -; Gesù stesso ha deciso il momento di dare la sua vita. Quando Gesù, dando un forte grido, esclama: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" e muore non ha fatto semplicemente un atto di fiducia e di filiale abbandono nelle mani del Padre, ma ha compiuto un vero atto oblativo e sacrificale di sé stesso. In definitiva, Gesù non subisce la morte, ma offre la vita. Perciò il suo sacrificio fu l'atto supremo dell'amore, fu tutto e solo amore. Questa fu la pasqua sacrificale di Gesù, che egli portò a compimento sulla croce, completamente annientato, elevato da terra, nudo, sconfitto e fallito. E questo fu il prezzo della nostra salvezza, della nostra pace, della nostra felicità eterna. Nell'Eucaristia Gesù continuerà questa presenza sacrificale, e la Pasqua del cristiano sarà la partecipazione a questa Pasqua del Signore, finché egli venga. 213
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Gv. 10,17-18 Lc. 23,46
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97 – Un personaggio tra gli altri Abbiamo visto qual è l'essenza della pasqua sacrificale di Gesù, pasqua di morte e di risurrezione. Vediamo ora come la liturgia "fa memoria" di tutto questo nelle celebrazioni della settimana santa. E' chiamata la "Settimana grande". In questa settimana le celebrazioni liturgiche si armonizzano con i fatti storicamente accaduti negli ultimi giorni della vita di Gesù sulla terra. Questa storicizzazione della liturgia ha portato forse ad attenuare l'intensità celebrativa della Grande Veglia pasquale, che nei primi secoli della Chiesa costituiva il momento culminante di tutto l'Anno Liturgico. In compenso ci aiuta ad entrare più facilmente nella vita di Cristo e a riviverne i momenti più significativi e umanamente più intensi. Abbiamo già ricordato altre volte quello che il Beato Escrivà ha ripetutamente insegnato, che cioè, leggendo il Vangelo, dobbiamo saper metterci negli episodi che leggiamo come un personaggio tra gli altri. Perciò nella domenica di Passione, detta delle Palme, ci metteremo anche noi tra i discepoli che accompagnano Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme per acclamarlo nostro re; nei giorni successivi ci porteremo anche noi nel tempio ad ascoltare gli ultimi discorsi di Gesù e rattristarci per la durezza di cuore dei capi del popolo, suoi irriducibili avversari; parteciperemo alla tristezza di Gesù che invano cerca di dissuadere Giuda dal suo complotto con i sommi sacerdoti; e poi anche noi ci metteremo a tavola con gli apostoli nell'ultima Cena e lasceremo che il Signore ci lavi i piedi per imparare anche noi la carità fraterna; ascolteremo le intime confidenze di Gesù e lo seguiremo nell'orto degli olivi cercando i non lasciarlo solo, combatteremo il sonno e la stanchezza della nostra anima; anche noi, con gli 258
apostoli rifugiatisi nel Cenacolo, aspetteremo le notizie che di tanto in tanto arrivano sul precipitare degli eventi: il racconto di Pietro in lagrime per non aver saputo testimoniare il suo maestro, i discepoli che ci aggiornano sui processi sommari e ridicoli contro Gesù, e magari anche noi ci mescoleremo alla gente e assisteremo impotenti e in lagrime agli insulti e ai maltrattamenti contro il Signore, sentiremo le grida della folla che chiedeva Barabba, e infine, dietro un'angolo della strada, aspetteremo il passaggio di Gesù con il suo pesante legno sulle spalle, stremato, irriconoscibile sotto una crudele maschera di sputi, di polvere e di sangue, e se ci sorregge un po' di audacia seguiremo Giovanni, le donne e soprattutto la Vergine Santa per arrivare anche noi sul Calvario, e lì, immersi nello stupore di tutto il creato che si oscura di tristezza davanti al suo Creatore crocifisso, raccoglieremo le ultime parole di dolore, di amore e di misericordia che usciranno dal petto di Gesù: le parole rivolte al ladrone, quelle rivolte alla Madre che, lì sotto la croce, sostiene tutti noi con la sua fede e con la sua fortezza, e soprattutto le forti grida d'invocazione e di supplica al Padre che nei cieli accoglie il supremo sacrificio del suo Figlio diletto: “Padre!... Tutto è compiuto!... perdona a loro perché non sanno quello che fanno ... Nelle tue mani consegno il mio spirito!". Poi aspetteremo che la folla se ne vada, raccoglieremo le ultime gocce di sangue che sgorgheranno dal suo fianco trafitto e insieme a Giuseppe D'Arimatea e a Nicodemo caleremo dalla croce quel corpo disfatto per consegnarlo all'abbraccio dolente e tenerissimo di Maria; con le donne lo puliremo dalla sporcizia, dai grumi di sangue, dalle croste di sudore, e baceremo quelle ferite con dolore d'amore spalmandole poi di aloe e di mirra, ricoprendole con la sindone nuova, pulita e odorosa, e avvolgendolo con le 215
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bende e con le fasce...; e dopo tanta fatica e tanto dolore lo affideremo al riposo di un sepolcro nuovo in attesa - noi ora lo sappiamo bene! - del suo risveglio nella gloria. 98 – Il “trionfo” delle Palme Possiamo rivivere tutto questo nel silenzio e nel raccoglimento della nostra anima mentre partecipiamo ai riti liturgici della Settimana Santa, soprattutto la liturgia del Triduo pasquale culminante nella grande Veglia della notte di Pasqua. La settimana comincia nel segno del trionfo e della gloria; Gesù entra nella città santa accompagnato da manifestazioni messianiche: Osanna al Figlio di David! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Gesù stesso organizza il suo corteo trionfale, e c'è in tutti la convinzione che il regno messianico è ormai inaugurato. La folla che accompagnava Gesù deve essere stata abbastanza numerosa per la presenza di molti pellegrini che dalla Galilea salivano a Gerusalemme per la Pasqua, e formata soprattutto dai suoi discepoli; anche le manifestazioni avevano assunto un significato spiccatamente messianico con aspetti anche trionfalistici. In questa domenica la liturgia si veste di rosso, il colore della regalità, ma anche il colore della passione e del martirio; i due aspetti si richiamano perché dietro il trionfo c'è la passione e soprattutto perché Cristo regnerà dalla croce. La celebrazione liturgica coglie quindi il mistero che è presente dentro ogni episodio della vita di Cristo e lo celebra nella solennità del rito. Noi partecipiamo alla celebrazione cercando con l'aiuto della fede di entrare intimamente nel mistero di Cristo; ma ci sono due particolari nella vi216
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Mt. 21,9
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cenda di questa giornata che meritano di essere meditati, particolari che appaiono nel Vangelo e dei quali uno solo è ricordato dalla liturgia: l'asinello come uno dei protagonisti del corteo di Gesù e il pianto del Signore su Gerusalemme. Presso gli Ebrei ed altri popoli dell'antichità, l'asinello era la nobile cavalcatura dei re e dei dignitari, e voleva indicare, a differenza del cavallo che significava guerra e prepotenza, la mansuetudine e la pace; tale lo proclamò il Profeta Zaccaria e Gesù col suo gesto volle dire esplicitamente che egli veniva, come re di pace, a dare compimento a quella profezia messianica. L'asinello arrivò così a suscitare l'invidia di molti santi. Portare Cristo nel suo trionfo, portare Cristo nel mondo, fu il sogno e l'umile ambizione di molte anime grandi. Scrive S. Ambrogio: "Dall'animale mansueto di Dio, impara a portare Cristo (...) impara ad offrirgli con gioia la groppa; impara a stare sotto Cristo, perché tu possa stare al di sopra del mondo!". Ma colui che più di ogni altro ci ha lasciato una visione lirico-ascetica dell'asinello è stato san Josemaria Escrivà. Ecco uno dei suoi numerosi passi proprio a commento dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme: "Gesù accetta di avere per trono un povero animale. Non so se capita anche a voi, ma io non mi sento umiliato nel riconoscermi dinanzi al Signore come un somarello:" Sono come un somarello di fronte a te , ma sono sempre con te, perché tu mi hai preso con la tua destra" , tu mi conduci per la cavezza. “Pensate un po' alle caratteristiche di un somaro, ora che ne restano così pochi. Non pensate all'animale vecchio e cocciuto che sfoga i suoi rancori tirando calci a tradimento, ma l'asinello giovane, dalle orecchie tese come antenne, austero nel cibo, tenace nel lavoro, che trotta lieto e sicuro. Vi sono centinaia di animali più belli, più abili, più 217
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Sal 72, 22-23
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crudeli. Ma Cristo, per presentarsi come re al popolo che lo acclamava, ha scelto lui. Perché Gesù non sa che farsene dell'astuzia calcolatrice, della crudeltà dei cuori aridi, della bellezza appariscente ma vuota”. 218
99 – Il pianto di Gesù L'altro particolare che i Vangeli riportano non ricordato dalla Liturgia è il pianto di Gesù sulla sua città. E' un pianto che ci lascia profondamente turbati; non tanto perché avviene nel momento culminante del suo trionfo, ma soprattutto per il suo significato e per il motivo che l'ha provocato. Arrivato alla sommità del Monte degli Olivi, il corteo si accingeva a scendere su Gerusalemme attraverso la valle del Cedron. Da quel punto, la Città santa si presentava in tutta la sua bellezza. I tetti dorati del tempio risplendevano al sole del primo mattino in una primavera già piena di splendore, le sottostrutture alla spianata del Tempio presentavano tutta la loro imponenza e la loro forza, la città era un incanto, era lì come da secoli l'avevano sognata i profeti: una "visione di pace" - beata pacis visio - destinata ad essere la città-dimora di Dio, la "Sposa di Jawè", la madre di tutte le nazioni, a lei sarebbero venuti tutti i popoli della terra perché in lei Dio avrebbe compiuto le sue meraviglie e avrebbe fatto risplendere la sua gloria. Invece, la città santa ha mancato alla sua vocazione, la città eletta e amata da Dio non ha corrisposto al suo amore, non ha conosciuto il tempo della visita del suo Dio; essa, "Città della pace" non ha compreso la via della pace. Perciò sarà preda dei suoi nemici che abbatteranno lei e i suoi figli dentro di lei non lasciando del suo splendore pietra su pietra. 218
San. J. Escrivà, E' Gesù che passa n. 181
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Il pianto di Gesù, pianto che avrà lasciato sorpresi e disorientati i discepoli, non fu soltanto dolore per la fine della città eletta che ogni buon israelita amava immensamente, fu anche tristezza profonda, e continua ad essere cocente delusione per ogni anima che manca agli appuntamenti con Dio, agli appuntamenti con la propria vocazione e ai propri compiti, per ogni anima che, pur sapendo di quale amore Dio l'ha amata, non ha saputo accogliere l'Amore. Forse pensiamo che il pianto di Gesù possa essere stato simbolico. Ad un uomo forte, consapevole della propria dignità, padrone assoluto dei propri sentimenti e signore di ogni situazione, non si addice il pianto. Cristo, invece, ha pianto; ha pianto perché era profondamente umano e l'intensità dei suoi sentimenti era pari alla perfezione della sua personalità. Gesù ha pianto perché vero uomo; il pianto fa parte della condizione umana. Senza il peccato l'uomo avrebbe pianto di gioia e di felicità conoscendo l'amore di Dio; col peccato l'uomo piange di tristezza e di dolore conoscendo la debolezza e la morte. Gesù ha pianto di dolore e d'amore, ha pianto per l'uomo, ha pianto per ciascuno di noi, per quando non abbiamo saputo riconoscere il tempo della sua visita, e non abbiamo saputo comprendere la via della pace. Le lagrime sono una prerogativa dell'uomo e sono un dono di Dio. La liturgia conosce una preghiera per chiedere il dono delle lagrime, lagrime che siano di dolore e di amore e riscattino il pianto di Gesù. Un uomo che non sa piangere non conosce il dolore e non conosce l'amore; certamente non ha sperimentato la gioia di essere uomo. Soprattutto non ha conosciuto la felicità di sapersi figlio di Dio.
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100 – La Risurrezione: fondamento della fede La liturgia del triduo pasquale celebra il mistero di Cristo morto-sepolto-risorto, mistero che si manifesta negli avvenimenti dolorosi e tristi che tutti conosciamo e che abbiamo già ricordato. Ora, quegli avvenimenti si aprono sul "trionfo" della risurrezione, sulla "vittoria" della pasqua. La Pasqua diventa così il culmine di tutto l'anno liturgico, il culmine della vita della Chiesa; ciò che si è compiuto in quel giorno ha rinnovato ogni cosa, ha siglato il trionfo della potenza e della misericordia di Dio, e insieme ha ricuperato il valore e il significato del tempo e della storia umana. Noi, uomini del terzo millennio, facciamo fatica a capire queste cose, ad entrare con convinzione in questo Mistero. Abbiamo l'impressione che tutto questo sia enfasi, retorica, un genere letterario che non ha consistenza pratica nella realtà della vita. L'uomo della civiltà tecnica e consumista, che cos'ha in comune con la Risurrezione di Cristo? Per risolvere i problemi dell'uomo che importanza può avere un Giudeo che duemila anni fa è risorto? Sono crollate le strutture sociali e politiche delle ideologie, ma i loro principi e le loro categorie intellettuali sono rimaste profondamente radicate nel modo di pensare oggi dominante. I principi sono riassunti fondamentalmente nell'affermazione che le cose di questo mondo non hanno un loro rapporto con Dio: è il principio dell'immanenza. Ne deriva la chiusura di ciò che è terreno e umano a ciò che è divino e soprannaturale, la presunta incompatibilità o estraneità del tempo con l'eternità. Perciò la Risurrezione di Cristo è un fatto che non ci riguarda, o non ci interessa ai fini di risolvere i problemi dell'uomo, problemi che sono esclusivamente terreni: economici, sociali, problemi di qualità della vita. 264
Come possiamo noi cristiani capire e far capire agli altri che le verità della nostra fede sono fondamentali per la vita dell'uomo? Come liberarci dalle strettoie anguste e asfissianti di una cultura laica così povera e debole che non riesce ad andare oltre ciò che è contingente, puramente storico, ciò che è addirittura provvisorio o effimero nella vita umana e nella storia dell'umanità? E’ necessario rompere il muro dell'immanente per aprirsi all’orizzonte sconfinato della realtà di Dio e della sua presenza nella vita e nel destino degli uomini. Noi cristiani abbiamo ricevuto il dono inestimabile della fede per cui "non fissiamo lo sguardo (soltanto) sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne". Camminare nella vita senza la fede è una grande sventura e rischia di essere una disgrazia irreparabile. Se il nostro Vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo". Ora il Vangelo che ci è stato annunciato è che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa (Pietro) e quindi ai dodici. Perciò se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede e noi saremo ancora nei nostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo, sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Cristo risorto è il dato fondamentale della nostra fede ed è l'evento determinante per la salvezza e per il destino dell'umanità. 219
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2 Cor. 4,18 1 Cor. 15,3-5 221 1 Cor. 15,17-19 220
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Era necessario richiamare l'importanza e la necessità della fede riguardo alla Risurrezione di Gesù, sia come fatto che come mistero, perché ogni discorso sul cristianesimo resterebbe marginale e in certo senso anche retorico se non partisse da questo presupposto, che è stato fin dall'inizio il fondamento della predicazione degli apostoli e come la piattaforma di tutto l'edificio della Chiesa. Gesù Risorto è il sigillo a tutte le opere di Dio, è la conferma di tutto ciò che nell'uomo è rimasto integro, retto e nobile per sapienza e per virtù ed è la risposta definitiva di Dio sul nostro destino.
101 – Capire la Risurrezione La solenne Liturgia pasquale inizia con la grande Veglia del Sabato Santo Essa si presenta con la fisionomia di una "notte illuminata" dai bagliori delle opere di Dio, ricordate nelle Letture, fino all'esplosione di luce di Cristo risorto e culmina nella gioia incontenibile del giorno di Pasqua. Non è questa la sede per esporre e assaporare la bellezza dei riti liturgici del Triduo pasquale, da quello del giovedì santo a quello suggestivo della Veglia. Ciascuno la scoprirà direttamente in quei giorni nella partecipazione alla Liturgia. Del significato battesimale della Pasqua già ne abbiamo parlato. Ci sono, però, due riflessioni sul grande mistero di Cristo risorto che possono avere un notevole impatto sulla nostra fede e sulla nostra vita cristiana. La prima riflessione riguarda la natura della risurrezione di Cristo. Nella Bibbia e soprattutto nel Vangelo si ricordano vari epi266
sodi di morti che vengono risuscitati dalla potenza di Dio. Il più famoso è quello di Lazzaro che viene chiamato fuori dal sepolcro dopo quattro giorni di sepoltura. In tutti questi miracoli, le persone risuscitate vengono richiamate in vita; si tratta cioè di un ritorno alla condizione di prima, alla vita presente. Le stesse espressioni usate dal Signore lo fanno capire: quel "Lazzaro, vieni fuori!" è come un imperativo divino a tornare indietro, a tornare a vivere la vita terrena. E quando a Naim richiama in vita il figlio della vedova, e a Cafarnao risuscita la figlia di Giairo, Gesù comanda di alzarsi - alzati! - rimettiti in piedi, riprendi la vita che hai lasciato. "E lo diede a sua madre", lo restituì alla vita. Si tratta dunque della vita attuale, passibile, mortale, ancora soggetta ai limiti e alla precarietà della condizione terrena. Non c'è una vera "novità" nella risurrezione dei risuscitati. La Risurrezione di Cristo è invece una "novità" assoluta. La vita di Cristo risorto è una vita nuova, è appunto partecipazione alla vita eterna. Il corpo di Gesù è un vero corpo, ed è "di Gesù", ma in una condizione del tutto nuova, completamente diversa. E' un corpo non più soggetto alle leggi attuali, alla gravitazione, alla impenetrabilità, alle necessità fisiologiche, alla fatica, al ciclo biologico, alla morte: il tempo non conta più, si è come fermato. E soprattutto il corpo partecipa alla beatitudine e allo splendore dell'anima. Perché mai gli Apostoli di fronte a Cristo risorto sono stati presi da stupore e spavento come di fronte a un fantasma, mentre non si sono per niente allarmati davanti a Lazzaro e agli altri risuscitati da Gesù? E' che Gesù risorto era, sì, con i segni evidenti della sua passione, ma non era il Gesù "pesante" di prima; era un Gesù "leggero", etereo, con un vero corpo ma spiritualizzato. La risurrezione di Gesù è stata una "pasqua", un passaggio. Il passaggio dalla morte alla Vita, dalla condi267
zione terrena, mortale, perciò precaria e provvisoria, segnata dal peccato, alla condizione celeste, definitiva ed eterna, segnata dalla beatitudine e dalla gloria. E' un cambiamento inimmaginabile, Gesù lo definisce un "entrare nella gloria" cioè nella condizione propria di Dio. E' paragonabile a una nuova creazione. Gesù infatti precisa che per entrare nella gloria "bisognava che Cristo sopportasse queste sofferenze", proprio perché esse erano legate alla "maledizione" del peccato. La risurrezione, quindi, non ha il significato di un portento spettacolare atto a dimostrare che Gesù è veramente figlio di Dio e Messia - per questo sarebbe dovuto andare nel tempio, farsi vedere ai suoi uccisori e manifestarsi al popolo - ha invece il significato di un intervento divino per dirci che è stata tolta per sempre la maledizione del peccato e l'uomo ha così accesso alla gloria. In altre parole, la risurrezione di Gesù non è una vittoria "mondana", una rivincita di fronte al mondo, ma una "vittoria di Dio" un gesto della sua misericordia e del suo infinito amore di Padre che, attraverso l'umiliazione e la morte del suo Figlio unigenito ha voluto riconciliare a sé tutte le cose, tutti gli uomini. Capire questo è fondamentale per la fede e per la nostra vita cristiana 222
102 – Cristo è vivo! La seconda riflessione è una conseguenza della prima: Cristo è dunque risorto, perciò Cristo è vivo! Gesù non è più un personaggio del passato; egli è ormai vivo per sempre ed è contemporaneo di ogni uomo in ogni tempo. "Perché cercate tra i morti colui che è vivo?" - "Cristo 223
222 223
Lc. 24,26 Lc. 24,5
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risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo". Fare propria questa convinzione è indispensabile per la nostra vita interiore . Il nostro rapporto personale con Gesù non avrà bisogno di uno sforzo psicologico per richiamare un personaggio del passato, non esigerà mediazioni della fantasia o della memoria; Gesù è vivo adesso e possiamo incontrarlo adesso: possiamo ascoltarlo, parlargli, unirci intimamente a Lui nell'Eucaristia. Proviamo a pensare alle donne che si recarono al sepolcro in quel mattino di pasqua. La semplicità e l'immediatezza della loro fede: la pietra ribaltata, il sepolcro vuoto, e soprattutto gli angeli che le rassicuravano e affermavano con tutta chiarezza che Gesù era risorto e "...lo vedrete". Tutto questo è bastato per la loro fede e la loro certezza. Ma soprattutto era quel "lo vedrete" che le ha riempite di gioia: "Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l'annuncio ai suoi discepoli". A quelle donne non importava molto dei "se" o dei "come", non si diedero a grandi e complicati ragionamenti; quello che per loro aveva importanza era che Gesù era vivo, lo potevano ancora vedere, ascoltare, servire, prendersi cura di lui. E quando effettivamente lo videro e gli abbracciarono i piedi, la loro gioia non ebbe limiti, tutti gli altri problemi non esistevano più, o non erano più problemi; la stessa incredulità e lo scetticismo degli apostoli erano sì motivo di amarezza e di afflizione ma non impedivano minimamente la loro gioia immensa perché Gesù era ancora con loro. Quando si ama, si desidera incontrare la persona amata e si è felici della sua presenza. Le donne del Vangelo 224
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224 225
Rom. 6,9 Mt. 28,8
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si renderanno poi conto che la presenza visibile di Gesù era limitata a pochi giorni e ci vorrà anche per loro, come per gli Apostoli, la luce dello Spirito Santo per comprendere pienamente ciò che era accaduto, ma ormai il dato fondamentale era indubitabile: Gesù era vivo ed era lì, presente in mezzo a loro. Anche ora Gesù è presente sulla terra, ma in modo non visibile, e questo trae in inganno gli uomini. In un certo senso, Gesù continua a comportarsi analogamente a come si è comportato nella sua vita e nella sua passione. Non ha mai ceduto alle provocazioni umane, non è andato in piazza a dimostrare con gesti strepitosi la sua messianicità, non è sceso dalla croce per far vedere che era figlio di Dio e, risorto, non si è preso rivincite "mondane". Egli continua ora la sua presenza nella Chiesa - nell'Eucaristia, nei Sacramenti, nel suo Vangelo - una presenza invisibile e umanamente perdente: lo si può infatti insultare, deridere, profanare, si può rifiutare il suo Vangelo, crocifiggere i suoi discepoli, emarginarlo dalla vita dei popoli, proclamare che il mondo non ha bisogno di lui, anzi, che proprio il mondo ci dà quello che lui non può darci: la gloria, i piaceri, il successo, il potere...; e tuttavia ci sono milioni di persone che lo amano, che per lui si convertono dai loro peccati, lo seguono, disposti a fare per lui qualsiasi cosa...; il suo Vangelo continua ad illuminare gli uomini, i suoi Sacramenti continuano a santificare le anime, il suo Spirito a fecondare la terra. La sua presenza di Figlio di Dio, morto e risorto, continua ad essere presenza di salvezza e la Chiesa continua a presentarlo al mondo intero come vittima pasquale presente in mezzo a noi: "Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo!" Gesù è vivo, posso incontrarlo, frequentarlo, ascoltarlo, amarlo; posso seguirlo da vicino, posso servirlo a tempo pieno, posso dargli ogni cosa e tutto me stesso. Pos270
so farlo vivere in me così da renderlo presente in ogni luogo dove passo, dove lavoro, dove vivo. Posso farlo conoscere a quanti mi incontrano e mi chiedono ragione della mia gioia e della mia speranza. 103 – La Pentecoste Per capire il senso di tutto ciò che era accaduto, gli Apostoli hanno avuto bisogno dello Spirito Santo: alla Pasqua è necessaria la Pentecoste. I discepoli erano convinti che Gesù era vivo, era veramente risorto e questo li riempiva di gioia, ma speravano che la Risurrezione cancellasse la Croce, rivendicasse l'umiliazione. Invece Gesù sale al cielo, porta con sé, impressi nel vivo della sua carne, i segni della Passione e sembra lasciare il mondo com'era. La fede degli Apostoli dopo la Risurrezione è una fede ancora imperfetta, è una conoscenza di Cristo ancora molto oscura, rimane ancora sotto un profilo molto umano. "Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno d'Israele?". Questa domanda rivolta a Gesù pochi istanti prima dell'Ascensione rivela come l’interpretazione della Risurrezione data dagli Apostoli era ancora secondo aspettative puramente umane. Sono molti i cristiani che corrono il rischio di questa fede "magica", una fede che strumentalizza il divino per prospettive umane. Si può trasformare Dio in un idolo, o addirittura in un amuleto. Lo Spirito Santo, la cui effusione sulla Chiesa è frutto della Risurrezione di Cristo, è innanzitutto questo: l'intelligenza delle cose di Dio, di questa "intelligenza" hanno avuto bisogno gli Apostoli e ne abbiamo bisogno tutti noi. Gesù lo aveva detto: "Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, Egli vi inse226
226 Atti,
1,6
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gnerà ogni cosa (...) Egli vi guiderà alla verità tutta intera (...) Egli mi glorificherà... convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio". Innanzitutto la verità intera su Gesù. Nella Pentecoste gli Apostoli comprenderanno Gesù a partire dalla sua Risurrezione e Ascensione al cielo che, per qualche tempo, costituiranno l'unico argomento della loro predicazione. Alla luce di esse comprenderanno la morte, la passione e poi la vita del Maestro - il significato dei suoi miracoli e del suo insegnamento -, infine la vera natura del Regno da lui fondato: la Chiesa; da ultimo comprenderanno la sua vita nascosta, la sua Incarnazione e il pieno compimento in Lui delle Scritture. Senza questa "intelligenza" del mistero di Cristo essi, i Dodici, non sarebbero diventati apostoli. Non si può testimoniare Cristo e annunciarlo al mondo senza la conoscenza di Lui nello Spirito Santo. Senza la Pentecoste non ci sarebbe né la predicazione - l'annuncio di Cristo - da parte degli Apostoli, né l'intelligenza di Cristo da parte degli uomini. La Chiesa vive ormai nella luce dello Spirito Santo, e ognuno di noi ha bisogno della sua luce per conoscere Cristo e per farlo conoscere, per capire i misteri di Gesù e saperne parlare agli uomini. Ma la Pentecoste è necessaria alla Pasqua non solo perché essa venga compresa dagli Apostoli, ma anche perché possa perdurare nel tempo e nella vita degli uomini. La Chiesa è una comunità pasquale e la vita del cristiano è una vita pasquale. "O non sapete che quanti siamo battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova". Tutto questo, il poter 227
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227 228
Gv. 14,26 - 16,13-14 Rom. 6,3-4
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morire e risorgere con Cristo, è opera dello Spirito Santo. Gesù stesso aveva raccomandato agli Apostoli di non allontanarsi da Gerusalemme perché sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni. La Pasqua di Cristo, da cui è scaturita la salvezza del mondo, si continua dunque nella Chiesa e raggiunge tutti gli uomini per la presenza e l'intervento dello Spirito Santo; senza di lui non ci sarebbe né la Chiesa né la vita cristiana. La Risurrezione di Cristo sarebbe stata vana. Lo Spirito Santo non è, dunque, soltanto "l'intelligenza" delle cose di Dio, ma anche la "potenza" di Dio, la forza che "dà la vita". Egli ha risuscitato Cristo dai morti, egli fa partecipe ogni anima della risurrezione di Cristo. Senza lo Spirito Santo il mondo sarebbe spento, come un deserto senza vita, e agli uomini mancherebbe quell'unica voce che può orientarli nella loro coscienza e nel loro cammino. La Chiesa, che fa risuonare la Parola di Dio e offre al mondo intero la vita divina di Cristo risorto, è l'unico riferimento che gli uomini hanno per conoscere la verità e ricevere la salvezza. "Manda, o Signore, il tuo Spirito per una nuova creazione, e rinnoverai la faccia della terra," esclama la Liturgia con le parole del Salmo 103. Lo Spirito Santo è fuoco, è vento impetuoso, è vita. Senza di lui la terra diventerebbe un allucinante paesaggio lunare dove si muovono, vagando, gli spettri dei pensieri umani partoriti da una intelligenza senza luce. Si dice che la Pentecoste chiude il periodo pasquale, ma non è vero; in realtà essa apre il periodo pasquale della Chiesa e lo conduce attraverso il tempo e la storia umana fino al compimento del regno di Dio per consegnarlo a Cristo nel suo ritorno glorioso alla fine del mondo. Noi, che abbiamo ricevuto "le primizie dello Spirito", lasciamoci guidare da lui, e siamo docili alla sua azione; ve273
dremo maturare in noi e nel mondo "i frutti dello Spirito: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé". 229
104 – Le domeniche “per annum” Natale - Pasqua - Pentecoste: tappe di un unico evento, momenti di un unico intervento di Dio che illumina il mondo, lo rinnova, lo apre alla salvezza. Sono i pilastri dell'Anno Liturgico, la grande "Epopea della nostra Salvezza", il "tempo di Dio" nel tempo dell'uomo, la Storia Sacra dentro la storia degli uomini. La celebrazione di questi eventi divini, che Dio ha operato in Cristo e per mezzo di Cristo, copre soltanto una parte del ciclo annuale della Liturgia. Restano 33 settimane con le rispettive domeniche, che vengono chiamate "domeniche comuni" o domeniche del Tempo Ordinario. Sono distribuite in due cicli; il primo copre le settimane che vanno dal tempo di Natale alla Quaresima, l'altro ciclo comprende le settimane dalla Pentecoste all'Avvento. In queste domeniche la Liturgia non fa riferimento ad un aspetto o ad un momento particolare del mistero di Cristo; semplicemente celebra il "Giorno del Signore". Abbiamo accennato a questo argomento parlando della domenica (cfr. nn. 27 e 33). Qui vogliamo semplicemente richiamare lo spirito che unisce le domeniche del Tempo Ordinario e il significato che possono avere per la nostra vita spirituale. Il Tempo Ordinario ci ricorda innanzitutto l'aspetto ordinario della nostra vita, quella vita cioè che scorre nelle circostanze umili e usuali di tutti i giorni. La 229
Gal. 4,22
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nostra vita è fatta di pochi momenti straordinari nei quali siamo chiamati a compiere cose importanti, è fatta invece di innumerevoli momenti che ci vedono impegnati in cose comuni, quelle cose che tutti fanno, che costituiscono il tessuto quotidiano della vita umana. Secondo la mentalità del mondo, noi siamo portati a non dare importanza a ciò che non suscita meraviglia, non richiama l'attenzione o comunque non ci fa sentire importanti agli occhi di qualcuno. Non sopportiamo facilmente di "essere nessuno" nella vita, o anche di essere semplicemente uno dei tanti; per una donna è vitale la considerazione del marito, per un uomo è importante il ruolo sociale del suo lavoro, per una madre il non sentirsi fallita con i figli, per un adolescente è fondamentale il consenso degli amici... Un'esistenza anonima, oscura, ripetitiva, scontata, è giudicata senza valore, inappagante e da temere come squalificante. In queste frustrazioni sta la radice di molte nevrosi esistenziali. Al fondo di questi atteggiamenti soggiace la convinzione che il valore di una persona sta in quello che fa, o in quello che ha, o nelle circostanze esterne fortunate o gratificanti in cui viene a trovarsi. Le domeniche ordinarie, quelle durante l'anno, trovandoci riuniti come Chiesa che celebra il mistero di Cristo, ci ricordano la nostra identità di figli di Dio. Ritroviamo perciò la vera ragione della nostra dignità e del nostro valore come persone, ragione che non sta fuori di noi, nelle situazioni più o meno gratificanti della nostra vita. Se non ci sentiamo appagati della nostra realtà di figli di Dio, di membri della Chiesa, riscattati dal sangue prezioso di Cristo, non troveremo mai un modo sufficientemente libero e motivato di stare nella nostra vita quotidiana; sempre dovremo invocare alibi per la nostra insoddisfazione, sempre dovremo misurarci su qualcosa o su qualcuno e ci valuteremo in base al giudizio o al consenso altrui. 275
Non le cose danno valore alla nostra persona, ma noi daremo valore e dignità a ciò che facciamo, anche al lavoro più umile e più monotono, se sappiamo mettervi i valori della santità cristiana: l'umiltà, la gioia, la rettitudine del cuore, in una parola l'amore di Dio e il desiderio di servire i fratelli. In secondo luogo, le domeniche ordinarie, celebrando il mistero cristiano nella sua globalità, ci ricordano la presenza di Dio nella vita ordinaria degli uomini e il valore di eternità che è nascosto in tutte le circostanze dell'esistenza umana. Perciò dobbiamo ricordarci che Dio ci aspetta dietro ogni piccolo dovere quotidiano, e che non esiste realtà terrena onesta che sia estranea all'amore di Dio. Non posso incontrare Dio nella liturgia domenicale e non incontrarlo poi in famiglia, nel lavoro, nelle amicizie, nella vita sociale, per quanto ingrate possano essere le situazioni concrete. E' un problema di fede, una fede che sposata all'amore sa trovare profondità insospettate e risorse inesauribili. Dio ha suscitato nel nostro secolo un grande apostolo di questa verità: la possibilità cioè di santificarsi e di trovare Dio nella vita ordinaria; è stato San J. Escrivà. Egli ha insegnato a milioni di anime ad "amare il mondo appassionatamente", a scoprire quel qualcosa di divino che è nascosto in ogni circostanza, e trasformare la prosa quotidiana in endecasillabi eroici (Solco n. 500). Infine, le domeniche del tempo ordinario ci ricordano la nostra condizione di viandanti che devono perseverare nel cammino della fede: ecco il vero eroismo. La vita non si presenta mai come l'avevamo sognata o come l'avremmo voluta. E' un cammino che spesso conosce la stanchezza, la solitudine, la monotonia, l'ingratitudine, l'insuccesso, l'aridità... Comunque sia, il Signore può condurci per strade che non avremmo voluto o per circostanze di cui non sappiamo darci un perché, ma in qualunque cam276
mino la cosa fondamentale è la perseveranza. Possiamo rettificare gli errori, riparare i malanni, raddrizzare la rotta, ma è indispensabile volere la meta, perseverare fino alla fine. Nulla nella vita può diventare insopportabile, angosciante, irreparabile, se sappiamo amare. "Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (...) Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati (...) Nessuna creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore". Sono 33 domeniche del Tempo Ordinario, tutte uguali eppure tutte diverse; tutte percorse dall'anelito di conoscere Cristo, di condurre a Lui tutte le cose per poi incontrarlo nell'ultima domenica, la trentaquattresima, quella conclusiva di tutto l'Anno Liturgico, la solennità di Cristo Re dell'universo. Il Re di amore e di pace che abbiamo cercato di far regnare giorno per giorno nella nostra anima, nei nostri cuori, nella nostra vita e nella vita del mondo. 230
105 – Il Santoriale Dalla Pentecoste nasce la Chiesa e nella Chiesa fluisce la sorgente della santità cristiana. Lo Spirito Santo è "Signore e dà la vita"; è Signore perché è la potenza di Dio che opera nel mondo, perciò la vita che Egli dà non può essere che la vita divina, cioè la comunione con Dio. Potremmo dire che lo Spirito Santo è la "fecondità" di Dio: da lui è venuta la fecondità divina di Maria, da lui viene la perenne fecondità della Chiesa. Essa è nel mondo e nel tempo "Madre dei Santi". Usciti dal suo grembo, questi figli della 230
Rom. 8, 35...39
277
Chiesa proclamano nel mondo la santità di Dio e sono testimoni dell'amore di Cristo per l'uomo. La Chiesa si configura come famiglia, la famiglia dei figli di Dio; perciò ogni battezzato è per definizione un "santo”: così si chiamavano tra loro i membri delle prime comunità cristiane. La santità è prerogativa di Dio e i Santi ne sono testimoni, ma in misura e in modo diversi. Essi incarnano il Vangelo di Gesù secondo aspetti particolari, a volte in ordine alle situazioni del mondo e della Chiesa secondo le necessità degli uomini, a volte in riferimento al disegno di Dio che fa crescere la santità della Chiesa attraverso la santità dei suoi figli. I primi testimoni che la Chiesa ha onorato furono appunto i Martiri; sono coloro che hanno condiviso la Passione e la Croce di Cristo, e con la testimonianza del sangue hanno scritto le prime pagine, commoventi e gloriose, della vita della Chiesa; seguirono i Pastori, i grandi Vescovi e Papi che sono stati i Padri della fede nelle nascenti comunità cristiane e hanno guidato con prudenza e saggezza il popolo di Dio diventando i baluardi della Chiesa nel mondo pagano; vennero poi le Vergini, il tesoro più caro e più prezioso della Chiesa: innamorate dell'Amore, hanno "seguito l'Agnello" con dono totale di sé, e hanno riscattato agli occhi del mondo pagano anche la bellezza, la dignità e il significato trascendente dell'amore umano; troviamo ancora i grandi Fondatori del monachesimo e della vita consacrata: sono fari collocati sul monte per indicare agli uomini la strada delle Beatitudini; alcuni di essi hanno preparato uomini di frontiera impegnati a servire la Chiesa nell'Evangelizzazione, nella promozione umana, nella missionarietà. Infine, viene una folla sterminata, "una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" : uomini e donne, re e regine, schiavi e mendi231
231 Ap.
7, 9
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canti, vecchi e fanciulli, soldati e uomini di pensiero, madri di famiglia, sacerdoti e semplici fedeli, un catalogo senza fine che va riempiendo il Libro della vita, un firmamento di luci, piccole o grandi, che illuminano di splendore il cielo di Dio. La Chiesa, che nel suo Anno Liturgico celebra il mistero di Cristo e l'amore salvifico di Dio, ha voluto anche celebrare la gloria dei suoi Santi. E' il Santoriale, il calendario dei Santi distribuiti lungo tutto l'anno solare. E' commovente l'orgoglio materno con cui la Chiesa sfoglia questo album di famiglia per mostrarci i suoi figli migliori. Ce li presenta anche per dirci che cosa può fare la grazia di Dio quando trova un cuore umile e ben disposto, che si lascia condurre docilmente dalla grazia. L'esempio trascina, e furono molte le anime che si lasciarono trascinare dall'esempio dei Santi. Con questo la Chiesa vuol dirci anche che la santità è possibile a tutti, anzi, che tutti siamo chiamati a volerla e a cercarla perché a tutti il Signore ha fatto il dono dello Spirito Santo e a tutti ha dato la capacità di amare. Ma la Chiesa celebra la memoria dei Santi anche per affidarci alla loro intercessione. Essi furono i grandi amici di Dio, e ora stanno davanti a lui nella gloria del Cielo. Possono quindi appoggiare le nostre preghiere con la loro intercessione e ottenerci la benevolenza di Dio, il suo aiuto e la sua misericordia. Così infatti prega la Chiesa nella solennità in cui ricorda tutti i Santi del cielo: "O Dio, Onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un'unica festa i meriti e la gloria di Tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti fratelli, l'abbondanza della tua misericordia". La Chiesa ci ricorda così nella sua liturgia la splendida e consolante verità della nostra fede: la Comunione dei Santi. E’ il legame intimo e profondo che attraverso la partecipazione alla vita divina in Cristo unisce tutti gli uo279
mini: le anime che hanno raggiunto la patria del Cielo e guardano a Dio per contemplare il suo Volto e guardano a noi per incoraggiarci col loro esempio e la loro intercessione: Vale la pena! – gridano – Vale la pena! Anche soffrire, se necessario, per essere fedeli a Dio e perseverare nel bene; le anime non ancora in Cielo perché hanno bisogno di purificazione, per le quali possiamo pregare e offrire suffragi sapendo che anch’esse pregano per noi, e infine noi, ancora pellegrini sulla terra, che abbiamo bisogno di aiuto e di grazia per superare le prove della vita, difenderci dallo spirito mondano e dalle suggestioni del Maligno… Siamo un’unica Chiesa, la famiglia dei figli di Dio in tre situazioni diverse: di esse le prime due sono situazioni provvisorie in attesa del loro compimento nella Gloria del Cielo. Per questo ci aiutiamo reciprocamente con preghiere, intercessione e suffragi. Restare fuori della Gloria del Cielo, esclusi dalla famiglia di Dio, condannati per sempre nelle tenebre “dove è pianto e stridore di denti”, separati eternamente dalla Comunione dei Santi è l’unica, vera tragedia dell’uomo. Vogliamo che questo non succeda a nessuno di noi.
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INDICE INTRODUZIONE IL GIORNO La vita è Cristo 1 Il giorno e la vita . 2 Cristo: l’oggi del cristiano 3 La vita terrena dell’Uomo-Dio 4 Il cristiano: un altro Cristo Le “Ore” del giorno 5 Le “ore” e l’orario 6 Ora Prima: il mattino 7 La preghiera del mattino 8 Meditazione e orazione 9 Liturgia del lavoro 10 Il lavoro e la redenzione 11 L’ora dei Vespri 12 L’”ora” della famiglia 13 La famiglia: chiesa domestica 14 Due “ospiti” d’eccezione in casa 15 “Tutto è compiuto” 16 La preghiera della sera 17 La “normalità” del cristiano 18 La “Grande Preghiera”: la Santa Messa 19 I “fini” della Santa Messa 20 Se tu conoscessi il dono di Dio 21 La “Pienezza del tempo”
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LA SETTIMANA Tempo feriale - tempo festivo 22 I luminari del cielo 23 La festa 24 Tempo sacro e tempo profano 25 Le dimensioni della festa 26 Il “nemico” della festa 27 La settimana La Domenica 28 29 30 31 32 33 34
Il Giorno del Signore La Liturgia domenicale Il Giorno della Chiesa La fraternità cristiana Il giorno del “riposo” Riposo e vita famigliare Riposo ed eternità
Lunedì 35 36 37 38 39 40
La devozione Devozione alla Santissima Trinità La Trinità: dono d’amore L’inabitazione della Trinità nell’anima Devozione alle anime del Purgatorio I suffragi
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Devozione agli Angeli Custodi Gli Angeli: nostri amici Gli Angeli: nostri messaggeri presso Dio Gli Arcangeli La Regina degli Angeli
Martedì
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Mercoledì 46 47 48 49 50 51
. La devozione agli Apostoli La Chiesa è “apostolica” La devozione a San Giuseppe La santità di Giuseppe San Giuseppe: custode di Vergini e Padre La devozione a San Pietro e al Papa
Giovedì 52 53 54 55 56 57
L’Eucaristia nella Chiesa Il Mistero eucaristico Il culto dell’Eucaristia Le devozioni eucaristiche Eucaristia e Sacerdozio Devozione allo Spirito Santo
58 59 60 61 62 63 64
Dolore e amore La Passione del Signore Scuola di dolore e di amore La Via Crucis La devozione al Crocifisso La devozione al Sacro Cuore La riparazione
65 66 67 68 69 70 71
Il “giorno mariano” Lo specifico femminile: la maternità Maria nel disegno di Dio Maternità divina e Paternità di Dio Madre del Dio-Figlio Madre di Cristo Madre del Redentore
Venerdì
Sabato
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72 73 74 75 76 77 78
Sposa dello Spirito Santo L’Immacolata La “Sempre Vergine” Maria L’Assunta Maria nella vita cristiana Le devozioni mariane Le devozioni nella vita cristiana L’ANNO LITURGICO
Il tempo ciclico 79 Cristo: pienezza del tempo 80 Il “tempo di Dio” - Il tempo dell’uomo 81 I cicli dell’anima: “cominciare e ricominciare” 82 L’uomo e la natura: “ordine e disordine” 83 Riconciliarsi con la terra Il tempo Liturgico 84 Quando Dio cerca l’uomo 85 Isaia: o il “desiderio” di Dio 86 Giovanni il Battista: “preparate la via” 87 L’Immacolata: la “dimora” degna di Dio Tempo di Natale 88 Natale 89 La Sacra famiglia 90 L’Epifania 91 “Vedere” Gesù Il Mistero Pasquale 92 La Pasqua ebraica 93 La Pasqua cristiana 94 Il Mercoledì delle Ceneri
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95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105
L’itinerario quaresimale Aspetto sacrificale della Pasqua di Cristo Un personaggio tra gli altri Il trionfo delle Palme Il pianto di Cristo La Risurrezione: fondamento della fede Capire la Risurrezione Cristo è vivo La Pentecoste Il Tempo Ordinario Il Santoriale
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(da apporre sulla parte posteriore della copertina con piccola foto già in Vostro possesso) Don Ferdinando Rancan è nato a Tregnago, Verona, il 14 giugno 1926. Dopo aver conseguito la maturità classica, si laurea in Scienze Naturali nel 1955 presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Tornato a Verona e completati gli studi teologici, riceve l’Ordinazione Sacerdotale e si dedica per parecchi anni all’insegnamento nel Seminario diocesano e nei Licei della città. E’ stato parroco per circa vent’anni presso la Pieve dei Santi Apostoli in Verona, e attualmente svolge il suo ministero pastorale presso la Parrocchia di Sant’Eufemia in Verona. I suoi scritti sono: Là dove cielo e terra si incontrano – La preghiera e la Messa nella vita del cristiano. Ricevi questo anello... Fiori di melograno
Riflessioni sull’amore umano e il matrimonio. -
Silloge poetica. Ed. Athesis
Il senso del vivere (Uomo, tempo, eternità) - Ed. Ares In quella casa c’ero anch’io - Ed. Fede e Cultura
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