IL PROBLEMA DELL’INDIO NELL’OPERA DI JOSÉ CARLOS MARIÁTEGUI
INTRODUZIONE
CAPITOLO
PRIMO:
3
IL
PROBLEMA DELL’INDIO È IL PROBLEMA DELLA
7
TERRA
1.1
L’IMPORTANZA
DELLA
REALTÀ
NAZIONALE
E
DI
QUELLA
7
INTERNAZIONALE
1.2 IL RUOLO DELL’ECONOMIA
8
CAPITOLO SECONDO: IL PROGETTO DI MARIÁTEGUI
20
2.1 L’AYLLU
20
2.2 MARIÁTEGUI INTELLETTUALE PICCOLO-BORGHESE?
22
2.3 COSA RAPPRESENTA L’AYLLU?
25
2.4 LA CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL MONDO INCAICO
29
2.5 TRADIZIONE E TRADIZIONALISMO
33
2.6 AMAUTA
42
2.7 IL PARTIDO SOCIALISTA DEL TRABAJO
DEL
PERÚ
E LA
CONFEDERACIÓN GENERAL 46
BIBLIOGRAFIA
51
2
INTRODUZIONE
Per comprendere l’evoluzione del Perú nei primi decenni del XX secolo, non si può fare a meno di procedere a ritroso fino a giungere all’analisi, seppur sommaria, di due eventi di estrema rilevanza: la guerra del Pacifico (1879-1883) e la ribellione indigena, capeggiata da Rumi Maqui, che ebbe luogo tra il 1914 e il 19171. La disfatta del Perú nella guerra comportò, dopo il trattato di Ancón (1883), la perdita territoriale della regione di Tarapaca e delle province di Arica e di Tacna, a favore del Cile. Queste regioni abbondavano di guano e salnitro, sulla cui estrazione ed esportazione si era fino ad allora fondata l’economia peruviana che, dunque, fu sottoposta, a partire dalla sconfitta, ad un processo di riorganizzazione. Questo, accanto ad una molteplicità di altri fattori che non saranno qui analizzati, condurrà, nel giro di qualche decennio, alla sostituzione del predominio britannico con quello statunitense, sintetizzata dalle cifre degli scambi commerciali tra il Perú e questi due grandi campioni del capitalismo: le esportazioni verso la Gran Bretagna che nel 1898 rappresentavano il 56,7 per cento delle esportazioni totali, passano nel 1923 a rappresentare soltanto il 33,2 per cento; per contro, quelle verso gli U.S.A. balzano, nello stesso periodo, dal 9,5 al 39,7 per cento del totale. Ancor più eloquenti le cifre inerenti le importazioni: nello stesso lasso di tempo preso in considerazione precedentemente, le importazioni dalla Gran Bretagna scendono dal 44,7 al 19,6 per cento del totale; quelle dagli Stati Uniti crescono dal 10 al
1
Rumi Maqui non fu altri che Teodoro Gutiérrez, sergente dell’esercito peruviano, inviato dal presidente Bellinghurst (1912-1914) nella regione di Puno per svolgere un’indagine sui reclami e sulle rivendicazioni indigene che da lì provenivano. Deposto Bellinghurst dal colpo di stato di José Pardo (1914), Gutiérrez si convinse dell’impossibilità di ricorrere a vie pacifiche e legali per la risoluzione dei problemi degli indios; pertanto, decise di intraprendere la strada della ribellione armata. Riunendo attorno alla sua figura migliaia di indios, riuscì a fronteggiare l’esercito per tre anni, fino a quando, nel 1917, si perse ogni sua traccia.
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38,9 per cento2. A questo processo di consolidamento del capitale nordamericano nel controllo dei settori produttivi dello stato andino, emblema di un riassetto dell’alleanza imperialistica, se ne accompagnano altri, che da alcuni sono stati considerati fattori della crisi del regime oligarchico peruviano3. Si possono citare, a titolo esemplificativo, la crescita delle esportazioni, quella delle classi medie, nonché un intenso processo di urbanizzazione. Tuttavia, sarebbe assolutamente deficitaria un’analisi delle conseguenze della sconfitta nella guerra del Pacifico che non prendesse in considerazione i mutamenti
intervenuti
nell’orizzonte
sovrastrutturale.
Ebbe
infatti
luogo
un
ripensamento delle basi su cui si era andata costruendo la nazione peruviana dall’indipendenza (1821) fino ad allora. Nel periodo che seguì il conflitto, proliferarono scritti di autori che sottolineavano come le cause della sconfitta fossero da ricercarsi nell’indio, da qualcuno tratteggiato addirittura come un lama parlante4. Così l’esercito peruviano era ritenuto più debole di quello cileno a causa della diversa composizione etnica: si constatava un’eccessiva presenza di indios in confronto con l’esercito nemico. L’indio agli occhi di molti divenne la vera “disgrazia” del Perú5. Tuttavia, ci furono anche voci fuori dal coro. La più importante, nonché quella che inciderà maggiormente sulla formazione di molti giovani peruviani, fu, senza dubbio alcuno, quella di Manuel González Prada. Il pensatore radicale, vicino all’anarchismo, diede luogo ad una serrata critica del regime oligarchico per l’emarginazione cui aveva costretto gli indios:
2
José Carlos Mariátegui, Sette saggi sulla realtà peruviana, Einaudi, Torino, 1972, p. 55. Cesar Germanà, Il socialismo come alternativa politica, in Giovanni Casetta (a cura di) Mariátegui: il socialismo indoamericano, Franco Angeli, Milano, 1996, p. 182. 4 S. Lorente, Pensamientos sobre el Perú republicano del siglo XIX, cit. in Alberto Flores Galindo, Perú: identità e utopia, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991, p. 200. 5 A. Deústua, La cultura nacional, cit. in Alberto Flores Galindo, op. cit., p. 202. 3
4
“con gli eserciti di indios disciplinati ma senza libertà, il Perú andrà sempre verso la rovina. Se dell’indio abbiamo fatto un servo, quale patria difenderà? […] Non costituiscono il vero Perú gli aggruppamenti di creoli e stranieri che vivono sulla striscia di terra situata tra il Pacifico e le Ande; la nazione è costituita dalle moltitudini di indios disseminate sulla striscia orientale della cordigliera”.6 Per González Prada, gli indios si sarebbero potuti emancipare solo con le loro stesse mani: “L’indio potrà redimersi solo attraverso il proprio impegno, non per l’umanità dei suoi oppressori. Ogni bianco è, più o meno, un Pizarro, un Valverde o un Areche”7. Cosa che peraltro, nel corso dei secoli, gli indigeni avevano cercato di fare e continuavano a fare: a parte il richiamo alle ribellioni di Atahualpa (1742) e a quella di Tupac Amaru II (1780), si vuole fare riferimento alla sollevazione capeggiata da Rumi Maqui. Questa viene qui considerata come simbolo dell’attivismo indio che produrrà, nel periodo 1919-1923, nelle sole Ande meridionali, circa cinquanta sommosse8. Questo risveglio della critica, intellettuale ma anche delle armi, inciderà sul comportamento assunto dal presidente Leguía9 nei confronti delle popolazioni autoctone. Il nuovo governo si mostra apparentemente tollerante e progressista, emanando nel 1920 un provvedimento che assegna la terra alle comunidades di indios che la coltivano, sancendone al contempo l’inalienabilità; promuovendo congressi indigeni, cui 6
Manuel González Prada, Discurso en el Politeama (28 luglio 1888), cit. in Robert Paris, Saggio introduttivo, in José Carlos Mariátegui, op. cit, p. XLIX. 7 Manuel González Prada, Paginas libres. Horas de lucha, cit. in Josè Aricò, Marxismo e indigenismo, in Giovanni Casetta (a cura di), Mariátegui: il socialismo indoamericano, op. cit., p. 74. 8 Alberto Flores Galindo, op. cit., p. 222. 9 Salito al potere in seguito al colpo di stato del 4 luglio 1919 che aveva deposto Pardo, Augusto B. Leguía, esponente del partito civilista, instaurerà una dittatura abbattuta da un nuovo colpo di stato solo nel 1930.
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convengono le comunità di tutte le regioni e latitudini del Perú; instaurando rapporti istituzionali con alcune delle associazioni indigeniste, sorte a partire dai primi anni del XX secolo. In realtà, il progetto leguista è profondamente paternalista e ben presto i congressi indigeni diverranno luoghi consacrati all’esaltazione della figura del presidente, che si preoccupa di estromettere, nel frattempo, le frange più radicali e rivoluzionarie, contro le quali utilizza, durante tutti gli undici anni del suo governo, il pugno duro, dando luogo a repressioni poliziesche, censure, esili e prigionie. Gli anni Venti sono però, nonostante ciò, un decennio in cui emergono o si rafforzano i movimenti politici, sociali e culturali che si oppongono al regime di pax oligarchica da lungo tempo instaurato. Oltre agli indios danno battaglia anche operai e studenti, le cui manifestazioni si inseriscono nell’ambito del movimento della Riforma Universitaria e di quello che rivendicava migliori condizioni lavorative. In questo periodo va elaborando il suo progetto socialista José Carlos Mariátegui, rientrato nel 1923 in patria, dopo che dal 1919 aveva viaggiato per l’Europa a causa dell’esilio cui era stato costretto (sotto la curiosa forma di borsa di studio in qualità di propagandista del Perú). Figlio degli accadimenti che si svolgono sulle terre peruviane in quegli anni, giungerà ad accordare, nella propria elaborazione teorica, nonché nella propria opera organizzativa, un ruolo da protagonista, accanto al proletariato urbano, alle masse indigene.
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Capitolo primo
IL PROBLEMA DELL’INDIO È IL PROBLEMA DELLA TERRA
1.1
L’IMPORTANZA DELLA REALTÀ NAZIONALE E DI QUELLA INTERNAZIONALE José Carlos Mariátegui (Moquegua 1894 – Lima 1930), da molti considerato il
primo marxista dell’America Latina10, andò elaborando la propria originale concezione del socialismo una volta tornato dall’esilio europeo. Gli anni Venti, visti come periodo di profonde trasformazioni, furono lo scenario che lo videro protagonista nell’organizzazione, teorica e pratica, delle masse peruviane per il raggiungimento dell’orizzonte socialista. L’esperienza europea fu fondamentale nella sua formazione, dal momento che, come egli stesso affermerà nell’Avvertenza ai Sette Saggi11, gli permise di ottenere quegli strumenti che lo avrebbero aiutato nella sua azione nella e sulla realtà nazionale. Proprio su quest’ultima Mariátegui concentrò la propria attenzione. Era difatti convinto della necessità di una profonda conoscenza della realtà nazionale per poter giungere alla trasformazione della medesima; ciò, tuttavia, non si accostò mai ad un disinteresse per il panorama internazionale. Fu sempre certo del fatto che il Perú costituiva solo un tassello del complesso mosaico internazionale, così come riteneva che un’eventuale rivoluzione, ineludibilmente socialista, avrebbe costituito una tappa di quell’immenso processo che sarebbe stata la rivoluzione mondiale. Il processo
10
Antonio Melis, Mariátegui, primer marxista de America latina, in Antonio Melis, Leyendo Mariátegui, Empresa Editora Amauta S.A., Lima, 1999. 11 José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 42.
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di analisi che principiò, in maniera assolutamente conseguente, lo condusse ad individuare il problema primario del Perú nel problema dell’indio12. “[…] la soluzione del problema dell’indio costituisce la base di un programma di rinnovamento o ricostruzione peruviana. Il problema dell’indio cessa di essere, come all’epoca del dialogo tra liberali e conservatori, un tema posticcio o secondario. Si trasforma nel tema principale.”13
1.2 IL RUOLO DELL’ECONOMIA Mariátegui non è il primo a prendere in considerazione il problema indigeno. Come abbiamo precedentemente cercato di mostrare, almeno a partire dalla guerra del Pacifico l’indio comincia a divenire oggetto di dibattiti, progetti, provvedimenti istituzionali ecc. Il problema indigeno entra, in altre parole, nella coscienza nazionale. Eppure, le tesi di Mariátegui a riguardo sono assolutamente peculiari. La loro originalità non consiste solo nell’identificazione del problema dell’indio con quello della terra, ma anche nel suo inserimento al primo posto nell’agenda politica peruviana14. Esse operano sul piano della struttura economica e non su quello delle sovrastrutture. Mariátegui respinge, dunque, gli approcci che cercavano di pervenire alla risoluzione del problema indigeno affrontandolo dal punto di vista amministrativo, giuridico, educativo, morale, etnico o religioso. Contesta chi trova le radici della questione e dell’oppressione degli indios nella triade prefetto/curato/cacicco (da alcuni ritenuta addirittura una “trinidad
12
Josè Carlos Mariátegui, Il problema prioritario del Perú, Lettere dall’Italia e altri scritti, (a cura di Ignazio Delogu), Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 225. 13 José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 206 14 Diego Meseguer Illán, L’interpretazione marxista dell’America Latina, in Giovanni Casetta (a cura di), op. cit., p. 57.
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satánica de primer orden”15), invocando come soluzione una saggia tutela o una generosa protezione. Segnala come un’associazione come la Pro-Derecho Indigena, fondata nel 1909, abbia svolto una funzione negativa, nel senso di aver reso chiaro a tutti che la strada da percorrere per la risoluzione della questione era altra dall’approccio filantropico che caratterizzò la vita dell’associazione; gli oppressori non avrebbero, spontaneamente o anche stimolati dall’esterno, permesso che gli indios si sottraessero al giogo cui erano costretti, a meno di voler credere che avrebbero contribuito con le loro stesse mani a distruggere il sistema sul quale fondavano le proprie ricchezze e il proprio potere. Né tanto meno appare praticabile la via dell’emancipazione per il tramite dell’istruzione: sostenitori di questa tesi erano, tra gli altri, gli anarchici che si riunivano attorno a due riviste, Los Parias (1904-1909) e La Protesta (1912-1924). Tali riviste sostenevano punti di vista condivisi anche da González Prada, credendo nel potere emancipatore della scienza e della ragione e nella forza redentrice dell’alfabeto: “Quienes verdaderamente se interesen por la redención del indio, deben formar profesores indígenas, para que estos vayan por pueblos, aldeas y estancias, enseñandoles a leer y escribir en su propia lengua, inculcándoles los ideales emancipadores y deportándolo del profondo marasmo en que dormita. Que todos, cada cual en la esfera de su acción, contribuyan al establecimiento de escuelas racionalistas y a formar apóstoles de propaganda y enseñanza en quechua; he ahí la mejor misión de nuestra clase obrera y no obrera: ¡ instruir es redimir!16
15
L.D. (forse Leván Delfino), La raza desgraciada, “Los Parias”, n. 23, Lima, 1906, cit. in Carlos Arroyo, La experiencia del Comité central Pro-Derecho Indigena Tahuantisuyo, www.tau.ac.il/eial/XV_1/arroyo.html. 16 Lévano, M. Caracciolo, Redención indígena e inmigración, “La Protesta”, n. 13, Lima, 1912, cit. in Carlos Arroyo, op. cit., www.tau.ac.il/eial/XV_1/arroyo.html.
9
Mariátegui, pur non sottovalutando l’istruzione, dedicandole uno dei sette saggi che compongono la sua opera più importante, ritiene che non sia una semplice questione di scuola o metodi didattici, dal momento che il lavoro in questo campo è fortemente condizionato dal contesto economico in cui si inserisce. È bene, inoltre, ricordare che egli rifuggì dall’impostare il problema dell’indio come “questione nazionale”, vale a dire che si rifiutò di richiamarsi principalmente alla dimensione etnica. Questa impostazione costituì terreno di scontro con i dirigenti dell’Internazionale Comunista, tanto più rilevante in quanto andava a toccare, inevitabilmente, anche altri temi oggetto di conflitto, in primis quello inerente la natura del partito. L’Internazionale Comunista riteneva si dovesse seguire il principio di “autodeterminazione” sancito a suo tempo da Lenin per i popoli oppressi: conseguenza di ciò era una strategia volta a perseguire, accanto alla creazione di una repubblica operaia, quella di una indigena, fino a giungere alla costituzione di un vincolo federativo che avrebbe legato repubbliche operaie e contadine. La posizione di Mariátegui e del PSdP (Partido Socialista del Perú), fondato nel 1928 da Mariátegui stesso, che ne fu eletto segretario, era assai differente: “la parola d’ordine che farà dell’indio un alleato del proletariato non indio
nella
lotta
per
le
sue
rivendicazioni
non
dev’essere
l’autodeterminazione, ma un simbolo che compendi per gli indios le loro rivendicazioni in quanto classe oppressa e sfruttata.”17 Queste parole di un dirigente del PSdP mostrano pienamente, al di là delle divergenze di non poco conto rispetto alle posizioni assunte dal segretario (prima fra tutte la concezione secondo cui le masse indigene sono viste come alleato subordinato al tradizionale soggetto rivoluzionario, il proletariato urbano industriale, e non come forza 17
Hugo Pesce, El movimiento revolucionario latinoamericano, p. 70, cit. in Robert Paris, op. cit., p. LXXX.
10
maggioritaria nel paese da rendere autonoma), la distanza che separa i peruviani dai dirigenti della Terza Internazionale: i primi, infatti, impostano il problema dell’indio in termini classisti: “Il socialismo ordina e definisce le rivendicazioni delle masse, della classe lavoratrice. E in Perú le masse, – la classe lavoratrice – sono per quattro quinti indigene. Il nostro socialismo non sarebbe, allora, peruviano, – né sarebbe neppure socialismo – se non solidarizzasse, innanzitutto con le rivendicazioni indigene.”18 L’analisi della realtà peruviana coincide in questo caso con quella dell’APRA19; si riconosce il carattere minoritario del proletariato urbano industriale e, per contro, quello maggioritario delle masse indigene (che costituiscono, come visto, addirittura i quattro quinti dei lavoratori), composte in maniera pressoché esclusiva da contadini. Si vengono così a sovrapporre e ad identificare questione indigena e questione della terra; di qui Mariátegui si muove verso la comprensione del fatto che in Perú la “questione contadina” si esprime nei termini di “questione indigena”: “Per quanto riguarda il problema indigeno, la sua subordinazione al problema della terra risulta ancora più assoluta per ragioni specifiche. La razza indigena è una razza di agricoltori. Il popolo incaico era un popolo di contadini, dediti normalmente all’agricoltura e alla pastorizia.
18
José Carlos Mariátegui, Intermezzo polemico, cit. in Pier Paolo Petrini, José Carlos Mariátegui e il socialismo moderno, Edizioni ETS, Pisa, pp. 312-313. 19 L’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana) nacque nel 1924 ad opera di Víctor Raúl Haya de la Torre. Presentatasi come una sorta di Kuomintang latinoamericano, si prefiggeva i seguenti obiettivi: 1) Lotta contro l’imperialismo statunitense; 2) Unità politica dell’America Latina; 3) Nazionalizzazione della terra e dell’industria; 4) Internazionalizzazione del canale di Panama; 5) Solidarietà con gli oppressi di tutto il mondo. Nel 1928, dall’esilio in Messico, cui Leguía l’aveva costretto, Haya deciderà la trasformazione del fronte in partito, deciso a presentarsi alle successive elezioni presidenziali.
11
[…] La loro civiltà, nei suoi tratti predominanti, si caratterizzava come una civiltà agraria.”20 Nella sua opera politica questa conquista assume una assoluta centralità, portandolo a ritenere basilare per le sorti del socialismo nel suo paese il raggiungimento, da parte di queste masse, della loro autonomia. In ciò può notarsi una certa affinità con l’azione condotta nel Vecchio Continente da Antonio Gramsci. Il politico nativo di Ales sviluppò, anch’egli a partire dagli anni Venti, una concezione all’interno della quale un ruolo chiave era svolto dalle masse contadine del Sud Italia che, alleate al proletariato industriale e contadino del Nord del paese, avrebbero potuto sconfiggere il blocco costituito dagli industriali e dagli agrari, intraprendendo poi la via del socialismo. L’affinità non si limita alla centralità conferita ai contadini, ma anche alla comune considerazione dei rapporti esistenti nei propri rispettivi paesi come tipici processi di colonizzazione interna, condotta non solo per il tramite della forza, bensì anche per quello del consenso. Il fatto che Mariátegui intenda il problema dell’indio come questione di classe non significa però che egli ignori o prescinda del tutto dalle altre dimensioni: ad esempio, prendendo in considerazione quella etnica, possiamo constatare come, nel proprio progetto, l’intellettuale peruviano riconosca l’utilità delle iniziative svolte tra gli indios dagli indios medesimi, a causa di una indubbia vicinanza per quanto concerne mentalità, lingua ecc. Né tanto meno esclude la dimensione sovrastrutturale legata alla questione della terra. “Nel Perú degli incas il principio secondo il quale 'la vita viene dalla terra' era più vero che in qualsiasi altro paese”21.“L’indio ha sposato la terra. Sente che la 'vita viene dalla terra' e torna alla terra. Pertanto, può essere indifferente a tutto, ma 20 21
José Carlos Mariátegui, op. cit., pp. 79-80. Ivi, p. 80.
12
non al possesso della terra che il suo respiro e le sue mani lavorano e fecondano religiosamente.”22. Le conclusioni cui giunge Mariátegui sono confermate dai documenti prodotti nei congressi indigeni che si sono svolti, in tutta l’America Latina, nel corso degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. “El indio es la tierra misma”23. Per gli indios la terra costituisce “el soporte del […] universo cultural”24; “no es sólo el objeto de nuestro trabajo, la fuente de los alimentos que consumimos, sino el centro de toda nuestra vida, la base de nuestra vida, la base de nuestra organización social, el origen de nuestras tradiciones y costumbres25. Il porlo come questione di classe significa, tuttavia, che conferisce un ruolo precipuo a quel fenomeno che è stato definito “gamonalismo”. Questo termine “non indica unicamente una categoria sociale ed economica: quella dei latifondisti o dei grandi proprietari terrieri. Designa un vero e proprio fenomeno. Il gamonalismo non è rappresentato unicamente dai gamonales propriamente detti. Comprende un’ampia gerarchia di funzionari, intermediari, agenti, parassiti, ecc. L’indio che sa scrivere si trasforma in uno sfruttatore della propria razza perché si mette al servizio del gamonalismo. L’aspetto centrale del fenomeno è l’egemonia della grande proprietà semifeudale sulla politica e sul meccanismo dello stato. Bisogna pertanto agire su questo aspetto se si vuole attaccare alla radice un male del quale alcuni si sforzano di vedere solo le espressioni episodiche o marginali.”26 Il gamonal è frutto della frammentazione politica e della ruralizzazione dell’economia peruviana. Il suo potere si
22
Ivi, p. 65. Conclusioni del Parlamento Indio Americano del Cono Sud, 1974, cit. in Marie Chantal Barre, Ideologias indigenistas y movimientos indios, Siglo Veintiuno Editores, Madrid, 1985. 24 Carta abierta a los Hermanos Indios de America en ocasión del I Congreso de Pueblos Indios de America del Sur, Cuzco, Perú, 1980, por Julio Carduño Cervantes, secretario del Consejo Supremo Mazahua, México, cit. in Marie Chantal Barre, op. cit.. 25 III Congreso Nacional de la ANUC, Asociación Nacional de Usuarios Campesinos, Colombia, 1974, cit. in Marie Chantal Barre, op. cit.. 26 José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 69. 23
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esplicita attraverso il duplice aspetto di razzismo e paternalismo. È il gamonal per Mariátegui a costituire il principale ostacolo all’emancipazione delle masse del paese, soprattutto per quelle indigene, costrette a subire nella maggior parte dei casi rapporti lavorativi di stampo pre-capitalistico. Ciononostante, le indagini più recenti mostrano come la classe dei gamonales fosse tutt’altro che un gruppo omogeneo. Frequenti risultano essere state le dispute tra i suoi membri; inoltre, diversamente da quanto si è a lungo ritenuto, soprattutto nella zona costiera, e ancor più in particolare a Lima, il gamonalismo non aveva affatto stabilito un controllo, un ordine stabile nelle zone rurali del paese. In queste, al contrario, regnava l’insicurezza.27 Il sistema di sfruttamento è un sistema ereditato dalla colonia. La tanto propagandata rottura con il periodo del Vicereame non ha dunque mai avuto luogo. La repubblica sorta con l’indipendenza del 1821 non aveva fatto registrare cambiamenti di natura sostanziale. Innanzitutto, non si era avuto un ricambio al vertice del potere. Nel caso della guerra d’indipendenza la futura classe dirigente era stata in grado di mobilitare le masse indigene, costruendo ponti tra la costa e la sierra, tra il versante occidentale e quello andino del paese. Tuttavia, la parola d’ordine che permise tale mobilitazione fu quella per l’appunto dell’indipendenza dalla madrepatria. Lo scopo era la cacciata degli spagnoli, di quelli che spregiativamente venivano chiamati chapetones, senza spazio alcuno per una rivoluzione sociale. Anzi, questa parola d’ordine fu accuratamente e sapientemente estromessa dall’orizzonte dei ribelli. Mariátegui rende evidente che in questo processo la vecchia aristocrazia al potere all’epoca del Vicereame si era di fatto fusa con la nascente borghesia, anziché essere messa da parte, mantenendo in tal modo praticamente tutte le prerogative che le erano state proprie nel
27
Alberto Flores Galindo, op. cit., pp. 211-213.
14
passato. Stando così le cose, si era propagato lo sfruttamento sugli indios, soprattutto nelle campagne, solo addolcito da provvedimenti che miravano, invece, formalmente, ad un cambiamento delle regole. Così l’abolizione della tanto odiata mita28 non eliminò, se non dal punto di vista legislativo, la servitù gratuita. Dunque, Mariátegui perviene ad una posizione che gli permette di affermare che nella Repubblica non si sono avute quelle misure liberali che erano state invece varate in altri paesi. Caratteristica del Perú era stata una classe politica che si riempiva la bocca di slogan liberali, mentre, al contempo, applicava politiche assai prudenti, accorte a salvaguardare il potere dei gamonales e di quanti, insieme a questi, costituivano l’elite del paese. Così facendo la borghesia peruviana non si era mostrata all’altezza del compito storico assolto dalle borghesie di altri stati. Rimanendo legati all’ambito qui oggetto di trattazione, possiamo evidenziare che la denuncia lanciata da Mariátegui aveva come primo bersaglio quello del regime di proprietà della terra. Si sarebbero potute seguire politiche di riforma agraria capaci di condurre all’instaurazione di rapporti capitalistici nelle campagne peruviane, ma si era preferito attuarne altre che di fatto non intaccavano il latifondo. Per cui, giunti ormai nei primi decenni del XX secolo, la soluzione liberale che proponeva il frazionamento della proprietà terriera, appariva con estremo ritardo, addirittura anacronistica, quando ormai si imponeva la soluzione socialista. “ritengo che il momento di sperimentare in Perú il metodo liberale, la formula individualista, sia già passato. Lasciando da parte le ragioni dottrinali, prendo in considerazione fondamentalmente un fattore
28
Il termine “mita”, derivante dalla lingua quechua, la lingua di molte popolazioni andine, indicava i lavori obbligatori e gratuiti che, al tempo dell’Impero del Sole, venivano prestati per l’Inca. Essa fu utilizzata nel periodo coloniale in modo da costruire un sistema che costringeva l’indio a lavorare nelle miniere e nelle piantagioni.
15
incontestabile e concreto, che conferisce un carattere peculiare al nostro problema agrario: la sopravvivenza della comunidad e di elementi di socialismo pratico nell’agricoltura e nella vita indigena.”29 Si evidenzia così la propensione dell’intellettuale peruviano a superare posizioni volte esclusivamente alla denuncia dei mali della società. Il suo approccio, pur assumendo come punto di partenza l’opera di González Prada, segna il passaggio dalla protesta, tanto nobile quanto sterile, riguardante l’oppressione cui erano soggetti gli indios, all’elaborazione di un progetto di riscatto. Mariátegui, infatti, si mantiene lontano dal puro astrattismo, dai richiami dottrinari. Guarda alla società concreta per stabilire le basi su cui innestare la propria proposta. Il programma che va redigendo e che costituirà il programma del PSdP è una dimostrazione lampante di quanto appena affermato. Dà luogo ad un’analisi tesa a comprendere la complessità della struttura agraria del paese. I latifondi non occupano tutta la sua superficie; inoltre, c’è da distinguere i latifondi della costa da quelli della sierra. I primi si inseriscono totalmente all’interno del panorama capitalistico, configurandosi come fortemente moderni. I secondi sono invece contraddistinti da una bassa produttività. La gestione dei gamonales si dimostra peggiore di quella degli indios delle comunidades: questo giudizio non si fonda, però, su argomentazioni di tipo etico o moralistico. Si attiene ad uno studio sulla produttività dei terreni soggetti a diversi regimi di proprietà: emerge, malgrado i dati lacunosi a sua disposizione, un elemento che evidenzia come latifondo e comunidad producano praticamente le stesse quantità di beni, nonostante il primo occupi i terreni più fertili.
29
José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 78.
16
“Il feudalesimo agrario che ancora permane nella sierra non ha alcuna capacità di creare ricchezza e progresso. […] il latifondo offre, nelle vallate e nelle pianure della sierra, una produzione miserabile.”30 Pertanto, viene a mancare l’unica giustificazione all’instaurazione del capitalismo: la funzione di creare ricchezze. Accade invece che il gamonal “è il primo responsabile dello scarso valore delle sue terre”31. Per i proprietari terrieri della costa la soluzione proposta da Mariátegui è quella della nazionalizzazione dei loro terreni. Quest’obiettivo appare difficilmente raggiungibile nell’immediato per cui, pur permanendo come meta cui pervenire, si arriva a stabilire la necessità di una lotta immediata che rivendichi: per i peones de enganche, la libertà di organizzarsi, l’aumento dei salari, la giornata lavorativa di otto ore, una legislazione di tutela del lavoro e la soppressione dell’enganche32; per i yanaconas33, la proprietà della terra bagnata dal sudore della loro fronte. “Cumplimiento de las leyes de accidentes de trabajo, de protección de trabajo de las mujeres y menores, de las jornadas de ocho horas en las faenas de la agricultura. [...] Abolición efectiva de todo trabajo forzado o gratuito, y abolición o punición del regimen semi-esclavista en la montaña. […] Derecho de los yanaconas, arrendatarios, etc., que trabajen un terreno más de tres años consecutivos, a obtener la adjudicación
30
Ivi, p. 122. Ivi., p. 125. 32 Il termine “enganche” indica una forma di reclutamento della manodopera esterna all’hacienda, spesso attraverso il sistema dell’indebitamento. Il fenomeno coinvolse inizialmente i coolies cinesi e, posteriormente, i contadini provenienti dagli altopiani andini. 33 Il termine “yanaconaje” indica un’altra forma di reclutamento della manodopera, anch’essa tipica delle haciendas costiere. Il yanacuna, o yana, o yanacona, era, all’epoca dell’impero inca, un semischiavo che prestava servizi personali all’Inca o ai curacas. 31
17
definitiva del uso de sus parcelas, mediante anualidades no superiores al 60% del canon actual de arrendamiento.34 Queste rivendicazioni immediate mostrano, senza alcun dubbio, che l’opera del peruviano non era quella di un intellettuale rinchiuso nella propria torre d’avorio, ma quella di un politico intenzionato ad incidere, a trasformare la realtà che gli si parava dinanzi e che dunque era propenso a costruire i propri programmi sulla base di quanto osservato, piuttosto che a rinchiudere questo dentro schemi ideologici precostituiti. L’obiettivo della collettivizzazione è comune anche all’APRA, che la intende inserita, però, in un contesto capitalistico, mentre in Mariátegui la misura assume un altro valore, legato alla prospettiva di riorganizzazione dell’intera società nazionale. Se il problema dell’indio viene ad identificarsi e sovrapporsi con quello della terra, quest’ultimo “si presenta, in primo luogo, come il problema della liquidazione del feudalesimo in Perú”35. Logico corollario di tale affermazione è il pensiero secondo cui “non si può liquidare la servitù che pesa sulla razza indigena senza liquidare il latifondo”36, che è l’istituzione più forte su cui si fonda il feudalesimo peruviano. Fare ciò non significa però, come già detto, propendere per una soluzione liberale del problema, per un frazionamento e per un’assegnazione individuale della proprietà; si deve partire dalla difesa dell’elemento peculiare del Perú, la comunidad, per dar luogo al riscatto delle masse oppresse. Per cui, dando uno sguardo al programma del PSdP notiamo che l’organizzazione si propone di giungere alla:
34
José Carlos Mariátegui, Programa del Partido Socialista Peruano, http://www.marxists.org/espanol/mariateg/prog-psp.htm. 35 José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 77. 36 Ibidem.
18
“Dotación a las comunidades de tierras de latifundios para la distribución entre su miembros en proporción suficiente a sus necesidades. Expropriación, sin indemnización, a favor de las comunidades, de todos los fundos de los conventos y congregaciones religiosas.37 La comunidad assume pertanto un valore fondamentale nel processo che Mariátegui si sforza di portare avanti nel corso della sua breve vita.
37
José Carlos Mariátegui, Programa http://www.marxists.org/espanol/mariateg/prog-psp.htm.
del
Partido
Socialista
Peruano,
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Capitolo secondo
IL PROGETTO DI MARIÁTEGUI
“trovare in ciò che esiste di più antico le cose più nuove” Carl Marx
2.1 L’AYLLU Mariátegui fonda il proprio progetto su ciò che di peculiare, ciò che di peruviano, ritrova nell’osservazione della realtà : l’ayllu. Questo, nonostante il duplice attacco dei latifondisti e dei liberali, era riuscito a sopravvivere. Certamente indebolito, non si presentava per nulla distrutto in seguito ai secoli della Colonia prima e della Repubblica poi. Aveva mostrato un’enorme vitalità non soccombendo ai colpi inferti dai gamonales, che miravano all’esproprio delle terre delle comunidades per accrescere i propri possedimenti (e, conseguentemente, la base del proprio potere), e dai liberali, che puntavano all’appropriazione individuale di piccoli appezzamenti. L’ayllu aveva costituito la cellula su cui si era fondato l’impero inca. Ciononostante, era nato prima dell’avvento di quest’ultimo. Era sopravvissuto, con la sua organizzazione sociale ed il suo capo, il curaca, prima che agli spagnoli, agli incas; prima che alla religione cattolica, al culto del Sole. Mariátegui, per spiegare il funzionamento di tale organizzazione sociale, si appoggia alla descrizione fornita da César Antonio Ugarte nel suo Bosquejo de la Historia Económica del Perú:
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“Proprietà collettiva della terra coltivabile, anche se divisa in lotti individuali non trasferibili, attribuita all’ayllu, o insieme di famiglie imparentate tra loro; proprietà collettiva delle acque, delle terre da pascolo e dei boschi attribuita alla marca o tribù, vale a dire la federazione di ayllu insediate intorno a uno stesso villaggio; cooperazione nel lavoro; appropriazione individuale dei raccolti e dei frutti”38 La struttura dell’ayllu non era propria solo della regione della costa; essa si era sviluppata anche lungo le alture della sierra. Qui assumeva tratti in parte diversi, dovuti alla particolare configurazione del territorio, ma le caratteristiche di fondo permettono di ricondurlo a quello della costa. Oltre alla prevalente attività economica, costituita non dall’agricoltura, ma dall’allevamento (soprattutto di lama), un’altra differenza è rappresentata dal fatto che sui monti si ergevano spesso costruzioni isolate che, tuttavia, erano riunite con altre, ugualmente isolate, in comunità amministrative di proporzioni piú o meno grandi. L’ayllu aveva un fondatore, cui spesso si attribuivano poteri magici, che talvolta era venerato attraverso il culto della waka (che poteva essere anche un antenato), responsabile della protezione del villaggio. Era una struttura praticamente autosufficiente che poteva prescindere dall’apporto del singolo individuo, quando questi era momentaneamente impegnato nello svolgimento della mita. I quechua erano soliti affermare che “si un hombre ama demasiado, es mejor que diga que no vive”39, dal momento che chi ama troppo, desidera cose per sé e non arriva mai ad uno stato di soddisfazione, e nel mondo andino nulla appartiene alla propria persona, ma all’ayllu.
38
César Antonio Ugarte, Bosquejo de la Historia Económica del Perú, cit. in José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 80. 39 da http://www.infoarica.cl/1ta/arica_territorio_00000c.htm.
21
L’individuo che si autoemargina da questa unità è paragonabile pertanto ad un morto e passa all’abietto stato di yanacona.
2.2 MARIÁTEGUI INTELLETTUALE PICCOLO-BORGHESE? È dunque da questa struttura che Mariátegui parte per sviluppare un progetto capace di costruire in Perú un socialismo che sia creazione originale. Egli, utilizzando i lavori di Schkaff40 sulla questione agraria in Russia, propone un parallelo tra l’ayllu peruviano e il mir (o obschina) russo. In entrambi i casi queste forme di proprietà collettiva della terra convivono con forme di proprietà e di lavoro feudali: non si è di fatto sviluppato il libero salario; i proprietari non si preoccupano della produttività dei loro terreni, interessandosi unicamente della rendita; i fattori di produzione sono costituiti esclusivamente dalla terra e dai contadini che la lavorano (che nel caso peruviano coincidono con gli indios). In entrambi i paesi, comunque, la proprietà collettiva della terra, pur soggetta ad un processo di indebolimento, mantiene una forza notevole, capace di far presagire a molti la possibilità di un cambiamento proprio sulla base di tale struttura. Era una questione già sollevata a suo tempo dai populisti russi, che, sul finire del XIX secolo, si interrogavano sulla possibilità per il proprio paese di evitare di percorrere la strada intrapresa dagli stati dell’Europa Occidentale e sviluppare un percorso proprio, in modo da evitare le forche caudine del capitalismo. Essi erano convinti di poter fondare il programma di rivoluzionamento della società russa sul mir, forma di proprietà che occupava all’incirca la metà del territorio nazionale. All’epoca della rivoluzione bolscevica, però, il percorso avviato fu un altro: la Russia si mosse sulla strada dello sviluppo delle forze produttive secondo quello che era stato lo schema
40
José Carlos Mariátegui, op. cit., pp. 115-116.
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tracciato da Marx in relazione ai paesi dell’Europa occidentale. La prospettiva populista rimase senza attuazione alcuna. Proprio sulla base del parallelo tracciato da Mariátegui tra ayllu e mir, le sue posizioni furono duramente attaccate da parte di esponenti dell’Internazionale Comunista, non solo quando il peruviano era in vita, ma anche dopo la sua morte. Così nel numero di maggio-giugno del 1942 della rivista cubana “Dialéctica”, apparve un articolo di V.M. Miroshevski, intitolato “El “populismo” de Mariátegui en el Perú, papel de Mariátegui en la historia del pensamiento social latinoamericano”, in cui l’autore accusava il pensatore andino di “populismo”, fondandosi sulle stesse argomentazioni che a suo tempo erano state utilizzate da Lenin nella battaglia contro i populisti russi. La pubblicazione di quest’articolo ebbe il valore di una scomunica per Mariátegui da parte del mondo del comunismo ufficiale. Egli era considerato un intellettuale piccolo-borghese così come il suo socialismo era ritenuto una forma di socialismo romantico, anch’esso piccolo-borghese. La cristallizzazione e la dogmatizzazione del pensiero e della pratica bolscevica si andava imponendo a tutti i paesi del globo. Né a far cambiare giudizio contribuì la pubblicazione e la divulgazione di alcuni scritti di Marx, noti a partire dal 1926, più o meno volontariamente dimenticati. In questi documenti, l’autore assume una posizione ben diversa da quella propria di Engels prima e di Lenin poi. Nel carteggio con Vera Sazulich egli risponde alle domande dei populisti russi sull’effettiva possibilità di un’evoluzione diversa da quella caratteristica del mondo occidentale. La risposta del filosofo di Treviri in proposito è chiara: “esta comuna es el punto de apoyo de la regeneración social en Rusia; pero a fin de que ella pueda funcionar como tal habrá que eliminar primeramente las influencias deletéreas que la sacuden de todos lados y
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luego
asegurarle
las
condiciones
normales
de
un
desarrollo
espontáneo”41 È evidente come, nonostante l’individuazione di notevoli difficoltà, Marx non escluda la strada che conduce all’edificazione di un regime socialista che si costruisca a partire dal mir, e cioè a partire da una forma di proprietà collettiva della terra. Ancora più chiaro appare un altro passo: “la comunità rurale russa, questa forma in gran parte già dissolta, è vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà della terra, o dovrà attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che costituisce lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per una evoluzione comunista.”42 Dunque, le posizioni di Mariátegui appaiono chiaramente inserite all’interno della traiettoria marxiana. È bene sottolineare, giunti a questo punto, che la convergenza su questo punto tra Marx e Mariátegui è frutto di un percorso autonomo del secondo, che non si basa sulla conoscenza degli scritti del primo sull’obshina russa, che in quel periodo non erano ancora giunti nella regione andina. Si deve ad una concezione del materialismo storico distante da quella allora propagandata dai dirigenti del Comintern,
41
Carl Marx, Carta de Marx a Vera Sazulich, 08 de Marzo de 1881, cit. in Gustavo Pérez Hinojosa, Mariátegui: el rescate de la vía marxista olvidada, http://www.rebelion.org/noticia.php?id=35841. 42
Carl Marx e Friedrich Engels, Prefazione all’edizione russa del Manifesto del partito comunista, 1882, cit. in Aníbal Quijano, Il socialismo “indoamericano” tra l’APRA e il COMINTERN, in Giovanni Casetta (a cura di), op. cit., pp. 151-152.
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concezione secondo cui esso non costituisce un complesso di norme rigide, valide ugualmente per tutti i climi storici e le latitudini sociali, né una nuova metafisica o una nuova filosofia della storia, bensì un metodo dialettico che si appoggia sulla realtà.
2.3 COSA RAPPRESENTA L’AYLLU? In questa visione, Mariátegui sottolinea alcuni aspetti strettamente connessi con l’organizzazione sociale propria dell’ayllu. Egli non constata solo la resa economica praticamente uguale dei terreni sottoposti ai diversi regimi di proprietà del latifondo e della comunidad (nonostante, occorre ribadirlo, i grandi proprietari mantenessero per sé le terre migliori), ma pone in rilievo anche il sistema che si viene a creare a partire dal possesso comunitario della risorsa terra. La civiltà incaica, che ha nell’ayllu la cellula fondamentale dello stato, si contraddistingue per il suo comunitarismo, che per Mariátegui è comunismo. Egli fa distinzione, per la verità, tra comunismo moderno e comunismo incaico: le differenze che intercorrono tra i due sono dovute alle diverse condizioni storiche in cui registrano il proprio sviluppo. La civiltà incaica è prevalentemente contadina; “quella di Marx e di Sorel è una civiltà industriale”43. La coscienza di questa differenza gli permette di prendere parte al dibattito in corso tra vari studiosi inerente la configurazione dell’impero del Sole, in maniera assolutamente chiara e peculiare. Riconoscere le differenze esistenti tra comunismo moderno ed incaico lo conduce a contrastare le tesi di coloro i quali, partendo dalla constatazione dell’assenza di libertà sotto l’Inca, affermavano che non si poteva parlare di comunismo per l’organizzazione sorta in quei secoli; in realtà l’approccio relativista fatto proprio da Mariátegui, gli permette di
43
José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 102.
25
cogliere che il concetto di libertà cui questi studiosi facevano riferimento non era affatto assoluto, bensì caratteristico di una determinata epoca, quella dell’ascesa e del dominio della borghesia urbana. In altri tempi il comunismo aveva potuto convivere con l’autocrazia, senza che ciò significasse la soppressione o repressione della volontà e degli impulsi delle masse. Era accaduto esattamente questo ai tempi della civiltà incaica, quando i regnanti avevano creato l’unità imperiale senza distruggere la cellula preesistente: l’ayllu. Gli incas non erano stati feudali, né tantomeno si può utilizzare il termine socialismo, che apparirebbe un incredibile anacronismo. Un’organizzazione fondata sulla combinazione dell’appropriazione collettiva dei beni e dei prodotti con l’esistenza di uno stato, accanto ad un’agricoltura altamente sviluppata e progredita, necessitava di un termine adeguato. Non si trattava di comunismo primitivo, bensì di comunismo agrario. Mariátegui ravvisa nella civiltà incaica un elemento realmente autoctono, una tappa assolutamente peculiare, dal momento che, mentre in Europa si procedeva dal sistema schiavistico a quello feudale, sulle Ande persisteva il collettivismo. L’arrivo degli spagnoli aveva prodotto l’interruzione di questa traiettoria, ma il crollo dello stato non aveva trascinato con sé gli ayllus, che erano riusciti a protrarre la propria esistenza, attraverso una lunga lotta, più o meno silenziosa e sotterranea, mediante le comunidades. La vitalità di queste cellule aveva reso possibile la permanenza di elementi di collettivismo
anche
nell’epoca
contemporanea.
Appoggiandosi
per
le
sue
argomentazioni ai lavori di Hildebrando Castro Pozo, Mariátegui pone in rilievo l’esistenza di elementi di solidarietà, di cooperazione, di un vero e proprio spirito comunitario. Questo permane anche laddove l’espropriazione e la redistribuzione hanno liquidato le comunidades. Si è manifestato in altre forme e in altri modi: il lavoro
26
comune viene sostituito dalla cooperazione nel lavoro individuale.44 Laddove persiste la comunidad, invece, si può osservare il permanere di “due grandi principî economicosociali che né la scienza sociologica né l’empirismo dei grandi industriali hanno potuto risolvere in modo soddisfacente: il contratto multiplo di lavoro e la sua realizzazione con il minor logorio fisico possibile, in un ambiente piacevole di emulazione e cameratismo”45. Già in queste parole si può scorgere come oggetto dell’attenzione di Mariátegui non siano soltanto gli effetti materiali dell’organizzazione incaica. Il sistema del latifondo e quello dell’ayllu si distinguono anche perché sono latori di due casi psicofisici tra i quali esiste un abisso. L’analisi della realtà peruviana mostra come alla freddezza, alla negligenza, alla mollezza, all’apparente stanchezza con cui gli yanaconas prestano i propri servizi, si contrappone l’energia, la perseveranza, l’allegria, la leggerezza propri dei comproprietari dell’ayllu nello svolgimento di identiche mansioni. Insomma, Mariátegui arriva a scorgere gli elementi spirituali caratteristici del lavoro sotto diversi rapporti e modi di produzione. Era questo uno dei temi maggiormente dibattuti all’interno del panorama marxista, soprattutto per gli apporti di coloro i quali si professavano assertori delle tesi freudiane. Essi sostenevano che la produzione marxiana aveva risentito troppo di un’impostazione che privilegiava la sfera economica, relegando in un piano assolutamente marginale tutte le altre. Costoro costituivano una schiera di intellettuali impegnati in un progetto di revisione del marxismo. In quest’opera, particolare rilevanza aveva assunto, negli anni Venti, uno studioso belga, Henri De Man. Nel suo testo più noto, Au-delà du marxisme, si impegna in un’opera che, come fine, si propone quello di scalzare l’analisi economica dal piedistallo su cui era stata posta. Mariátegui si inserisce nella diatriba in corso 44
Ivi, p. 106. Hildebrando Castro Pozo, Nuestra Comunidad Indígena, p. 47, cit. in José Carlos Mariátegui, op. cit., p. 109. 45
27
sostenendo che le tesi di De Man risentono della tendenza ad applicare all’analisi della politica e dell’economia i principî della scienza più in voga, che in quegli anni era, senza ombra di dubbio, la psicanalisi. Il socialdemocratico belga accusa il marxismo di sottovalutare gli aspetti spirituali del lavoro, per concentrarsi esclusivamente sulla sua dimensione economica o, addirittura, monetaria. Mariátegui dimostra invece come l’accusa di De Man si rivolga contro la corrente dominante all’interno del marxismo belga: quella riformista. “Il quadro sintomatico che ci offre nel suo libro dello stato del lavoro industriale, corrisponde alla sua esperienza individuale nei sindacati belgi. Henri De Man conosce il campo della riforma; ignora quello della Rivoluzione”46. Egli non riesce a scardinare le premesse del marxismo, che non è affatto in contraddizione con un’analisi che ponga in evidenza gli elementi psichici del lavoro. La stessa opera di Mariátegui è una dimostrazione lampante di ciò. Risulta essere in grado di dar luogo a quella che è ritenuta la migliore analisi marxista di un frammento della realtà latinoamericana senza prescindere da tali elementi. Lo studio dell’ayllu gli permette di arrivare a conoscenza proprio del fatto che il lavoro, sottoposto a diversi regimi, cambi completamente fisionomia, oltre ad essere veicolo di quella felicità che secondo De Man si incontra non solo grazie ad esso, ma anche in esso. La separazione intervenuta tra produttore e prodotto, tra l’operaio e il suo lavoro ha sicuramente effetti anche sulla soddisfazione, sulla psiche dell’individuo. Tuttavia, ciò non contraddice in alcun modo il marxismo, soprattutto laddove si abbia dinanzi agli occhi il lavoro portato avanti su quella che è stata definita “alienazione”. Pertanto, Mariátegui può condurre un’opera in cui grande rilievo assumono gli elementi spirituali senza uscire dal tracciato della tradizione marxista, dimostrando grande sensibilità verso le nuove scienze, arrivando a
46
José Carlos Mariátegui, Difesa del marxismo,Galileo, Padova/Roma, 1971, p. 26.
28
pubblicare sulla sua rivista più famosa, Amauta, un articolo di Sigmund Freud. Prendere in considerazione tali elementi è propedeutico all’elaborazione del proprio progetto politico di riscatto e liberazione delle masse oppresse peruviane.
2.4 LA CONOSCENZA DEL PASSATO E DEL MONDO INCAICO47 Affinché questo sia efficace, Mariátegui, quindi, avverte la necessità di saldarlo al passato ed alle tradizioni della regione andina. Tuttavia, in merito a ciò si è venuta ad innestare una polemica riguardante la presunta ignoranza del passato indigeno da parte del politico di Moquegua. Alcuni autori lo hanno accusato di non essere giunto ad una piena comprensione dell’organizzazione dell’impero del Sole, arrivando in tal modo a mettere in discussione l’intero progetto mariateguiano. Cercando di incrinare le fondamenta, hanno cercato di abbattere l’intero edificio. I punti oggetto della polemica sono numerosi. In primo luogo, si è messo in evidenza il fatto che la conoscenza della realtà peruviana non è il frutto di un’osservazione diretta, ma passa attraverso le interpretazioni di altri. In effetti, Mariátegui non si mosse praticamente mai da Lima, se si eccettua l’esilio in Europa. Questo inequivocabile dato di fatto si spiega non con una mancanza di volontà, bensì con la grave malattia da cui era affetto sin dall’infanzia e che lo costrinse, nel 1924, a sottoporsi ad un’operazione per l’amputazione della gamba, per evitare di andare incontro a conseguenze ben peggiori. Da quel momento fu costretto su una sedia a rotelle che gli rendeva difficile, se non impossibile, qualsiasi spostamento. Per questo motivo egli si affidò agli studi e ai lavori di quanti lo
47
Per l’elaborazione di questo paragrafo, per quanto riguarda le critiche mosse a Mariátegui, si è preso spunto dai due lavori di Luis Veres Cortés, El problema de la identidad nacional en la obra de José Carlos Mariátegui, http://www.univ-brest.fr/amnis/documents/Veres2002.pdf. e La revista Amauta y el concepto de nación en el Perú, http://www.ull.es/publicaciones/latina/a1999adi/09veres.html.
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circondavano, appoggiandosi in particolar modo, per ciò che concerne la questione dell’indio, alle produzioni di Castro Pozo e di Valcárcel. A questa accusa, che potremmo definire di carattere metodologico, ne fanno seguito altre, maggiormente attente al merito dell’analisi mariateguiana. Gli è imputato il fatto di aver taciuto l’esistenza di sacrifici umani, della schiavitù e della divisione in caste. Tralasciando il fatto che sulla presenza di sacrifici umani ancor oggi si dibatte ed alcuni parlano di “presunti sacrifici”48, si deve notare che l’opera di Mariátegui non è uno studio antropologico, bensì un lavoro propedeutico al rivoluzionamento della realtà sulla base di elementi già esistenti; di conseguenza, sono sottolineati solo quegli aspetti utili all’adempimento di tale scopo. Inoltre, come già ribadito sopra, schiavitù e divisione in caste non inficiano in alcun modo il carattere comunitario della società incaica, dal momento che chi muove questa accusa lo fa sostenendo una concezione liberale figlia dei sommovimenti ottocenteschi, ma che non ha ragion d’essere in riferimento al Perú antecedente la Conquista. Ancora, si afferma che la prospettiva della rivoluzione socialista è viziata dall’errata convinzione del carattere feudale del sistema spagnolo e poi di quello repubblicano: essi sono già capitalisti. A questa critica si può rispondere riprendendo le stesse pagine dei lavori mariateguiani, dove è ben evidenziato come l’economia peruviana sia contraddistinta dalla compresenza di elementi di capitalismo, feudalesimo e collettivismo. Se i settori che si stavano sviluppando sulla costa avevano iniziato il passaggio al capitalismo (seppur in modo balbettante), anche attraverso la meccanizzazione e l’industrializzazione del lavoro, non altrettanto si poteva dire per i gamonales che nelle proprie tenute facevano ancora ricorso a modi di produzione e rapporti di tipo feudale. Bisogna constatare come questa prospettiva non
48
Alberto Flores Galindo, op. cit., p. 37.
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sia solamente di Mariátegui, ma è fatta propria da molti studiosi, della più diversa filiazione politico-ideologica. Infine, si pone in rilievo come l’”Incario” non sia un tutto omogeneo, ma l’insieme di gruppi molto diversi tra loro, come è facile notare già se si confrontano gli indios della sierra con quelli della selva. Questa realtà si deve alla storia che precede l’arrivo degli incas: “questi uomini non produssero un mondo omogeneo e coeso. Lungo tutta la loro storia autonoma hanno predominato i regni e i potentati regionali. Gli imperi sono stati fenomeni recenti. Perché una organizzazione statale racchiuda tutta l’area culturale bisogna attendere gli incas […]. All’arrivo degli spagnoli, con il crollo dello stato incaico, riappaiono diversi gruppi etnici – come gli huancas, chocorvos, lupacas, chancas – diversi quanto a lingue e costumi, molte volte rivali tra loro, come frutto di un’antica storia di scontri.”49 Né si può dire che in seguito ai secoli della Colonia e della Repubblica la situazione sia granché cambiata, se è vero che ancora all’epoca in cui il marxista peruviano scriveva (e, se è per questo, a tutt’oggi) i contadini della sierra peruviana non si definivano andini o indios, ma preferivano ricorrere al nome del luogo di nascita, della montagna tale o del villaggio tal’altro. Su questo terreno Mariátegui pare essere consapevole delle divisioni regionali esistenti. Così quando parla dei congressi indigeni individua il loro merito fondamentale nell’organizzazione stessa di tali incontri. Difatti, attraverso di essi la popolazione indigena giunge a formulare le proprie rivendicazioni, un proprio programma, e grazie a questi perviene all’acquisizione della coscienza della propria unità.
49
Ivi, p. 22.
31
“Manca agli indios un legame nazionale. Le loro proteste sono sempre state regionali. Ciò ha contribuito in gran parte al loro abbattimento. Un popolo di quattro milioni di uomini, cosciente del suo numero, non dispera mai del suo avvenire. Gli stessi quattro milioni di uomini, sino a quando non sono che una massa inorganica, una moltitudine dispersa, sono incapaci di decidere il loro cammino storico.”50 Nei congressi entrano invece in contatto gli indios delle diverse regioni che compongono il Perú; si incontrano gli indigeni del Sud, con quelli del Centro e con quelli del Nord e da questi appuntamenti possono partire per riuscire nell’opera del proprio riscatto. Ciò che al massimo si può imputare a Mariátegui, almeno per ciò che emerge dai suoi testi, è la mancata percezione non delle divisioni esistenti tra le diverse comunità indigene, quanto delle rivalità ancora viventi. Se si analizzano alcuni eventi del passato, queste emergono abbastanza puntualmente. All’interno della ribellione capeggiata da Tupac Amaru II (1780), per esempio, vennero a delinearsi due forze contrastanti: da una parte l’aristocrazia indigena che mirava in maniera esclusiva alla cacciata degli spagnoli; dall’altra i contadini che si sentivano chiamati ad un vero e proprio pachacuti51. I contadini non si riconobbero nella bandiera nazionale fino ai primi decenni del XX secolo. Inoltre, molti indios rimasero fedeli alla bandiera del re, creando in tal modo una situazione che vedeva non solo scontri tra indios e meticci, ma anche tra indios stessi. Questa circostanza non è però solo frutto del caso o delle antiche
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José Carlos Mariátegui, Il problema prioritario del Perú, in Lettere dall’Italia, (a cura di Ignazio Delogu), cit., p. 228. 51 Molti cronisti e studiosi hanno creduto che con il termine “pachacuti” gli indios indicassero un governante, equivalente a Cesare o Pericle. Tuttavia, altri, maggiori conoscitori della realtà incaica, hanno inteso questa nozione in modo diverso: con “pachacuti” gli indios indicavano una sorta di forza tellurica, una specie di cataclisma, era nuova e castigo allo stesso tempo.
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rivalità; essa è dovuta ad una precisa strategia delle classi dominanti volta a distruggere qualsiasi possibile germe dell’unione delle classi oppresse. Una siffatta strategia è stata messa in atto anche dalle cariche dello stato peruviano durante il conflitto che opponeva le stesse a Sendero Luminoso52. In quest’occasione la scelta attuata dalle autorità statali fu quella di minimizzare le perdite militari, facendo sì che i costi della guerra ricadessero sulla popolazione civile. Anziché spedire nei villaggi ufficiali
ignoranti
della
lingua
quechua,
si
decise
di
arruolare
contadini,
contrapponendoli ai senderisti. A prescindere dalla tattica di non tollerare la neutralità, l’esercito studiò le situazioni locali, riuscendo a scovare i molteplici conflitti esistenti all’interno delle comunità, che opponevano i pastori ai contadini, gli uomini dei monti a quelli delle valli, oltre a scovare litigi per le terre e rivalità interetniche. È questo, senza dubbio, un tratto che manca nell’analisi di Mariátegui e che avrebbe potuto mettere a repentaglio l’opera di riscatto degli indios. Tuttavia, forse anche per superare divisioni e rivalità inter-comunitarie, egli si richiama non alla comune appartenenza etnica, bensì a quella di classe. Vista da questa prospettiva, la lotta da portare avanti non è contro chi conduce la stessa vita, sottoposto ad un’uguale condizione lavorativa, ma contro gli artefici di quel sistema di sfruttamento che tante sofferenze e privazioni arrecava.
2.5 TRADIZIONE E TRADIZIONALISMO L’indio, dunque, non è identificato solo come soggetto del futuro processo rivoluzionario. La sua figura assume una valenza fondamentale sia nel presente che nel 52
Sendero Luminoso (dal sottotitolo utilizzato per le pubblicazioni: Por el Sendero Luminoso de José Carlos Mariátegui), nato all’interno dell’Università Nazionale San Cristóbal di Huamanga, si rese autore di una lunga guerriglia, ispirata ai principi maoisti, a partire dagli anni Ottanta, avente come obiettivo l’instaurazione di un regime comunista. Il lungo scontro con lo stato fu contraddistinto da efferatezze inaudite, in primo luogo la tortura e l’uccisione di civili innocenti. La striscia di sangue lasciata in Perù permette di considerare Sendero Luminoso come uno dei movimenti più feroci apparsi sulla scena mondiale nell’arco del XX secolo.
33
passato, sia per il presente che per il passato. Mariátegui indaga quest’ultimo partendo dal contrasto insanabile che lo contrappone alle classi dirigenti. Egli punta alla riappropriazione di qualcosa che troppo a lungo è stato monopolio dei conservatori: la tradizione. Elaborare un progetto di rivoluzionamento della realtà non significa prescindere dal passato. “La capacità di intendere il passato va unita alla capacità di avvertire il presente e di preoccuparsi per il futuro.”53 Analizzando le tesi dei rappresentanti della classe dirigente, appare chiaro il quadro all’interno del quale si definisce la cosiddetta “peruvianità”. Per comprendere al meglio il pensiero di Mariátegui in relazione a ciò, non si può fare a meno di includere nella trattazione concetti come nazionalità, tradizione, tradizionalismo, passato, passatismo, modernità. Tutti entrano nei testi mariateguiani e sono parte essenziale del complesso universo elaborato a riguardo. La classe dirigente peruviana si era appropriata della tradizione nazionale, forgiandola in base ai propri interessi. Per cui si era sentita erede dell’impero spagnolo più che di quello inca: si considerava discendente dei conquistadores, dei viceré; figlia della Spagna e della cultura della penisola iberica. L’indipendenza era stata un’iniziativa dei creoli e non degli indios. Da ciò era discesa la successiva configurazione della nazionalità peruviana. Ma l’opera di costruzione era lungi dal potersi considerare ultimata. Il paese andino presentava la compresenza di due formazioni vissute per secoli l’una accanto all’altra senza mai giungere ad una reale fusione. “L’unità peruviana è ancora da fare, e non si presenta come un problema di articolazione e convivenza di tanti piccoli stati o città libere nei limiti di un unico stato. Il problema dell’unità in Perú è molto più 53
José Carlos Mariátegui, Passatismo e futurismo, Lettere dall’Italia e altri scritti, (a cura di Ignazio Delogu), cit., p. 219.
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profondo perché non c’è da risolvere una pluralità di tradizioni ma un dualismo di razze, di lingua e di sentimenti, nato dall’invasione e conquista del Perú autoctono da parte di una razza straniera che non è riuscita a fondersi con quella indigena, né a eliminarla, né a assorbirla.”54 Spagnoli e creoli si erano insediati sulla costa, trasferendovi il centro delle attività economiche e politiche, senza essere mai in grado di conquistare la sierra, sulle cui alture e nelle cui valli viveva la stragrande maggioranza delle popolazioni indigene. Tra indios e meticci non si erano mai venuti a creare dei canali di comunicazione permanenti e strutturati. La costruzione della nazionalità era avvenuta, pertanto, escludendo l’indio. Dedicandosi al passato, le classi dirigenti del paese avevano dato prova di interessarsi maggiormente all’epoca del vicereame che non al periodo incaico. L’indigeno si configurava come l’elemento prenazionale mentre, al contempo, ci si sforzava di acquisire come proprio il passato della Spagna, nonché l’intero universo della latinità. Le categorie di autoctono e straniero subiscono in tal modo un ribaltamento.55 Per Mariátegui la situazione è ben diversa: egli ravvisa l’elemento autoctono nell’indio, quello straniero nel conquistatore spagnolo e in quanti ancora sono a questo legati da un cordone ombelicale che non accenna ad essere reciso. Sulle orme di González Prada, afferma che l’unità genuinamente nazionale è l’indio. Taccia di “tradizionalismo”, definendolo come quella “actitud política o sentimental que se resuelve invariablemente en mero conservatorismo”56, l’atteggiamento dei ceti
54
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., p. 212. Antonio Melis, op. cit., p. 194. 56 José Carlos Mariátegui, Heterodoxia de la tradición, cit. in Fernanda Beigel, Mariátegui y las antinomias del indigenismo, http://redalyc.uaemex.mx/redalyc/pdf/279/27901303.pdf. 55
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conservatori che si richiamano nostalgicamente al passato coloniale. Questo comportamento non è evidente solo in politica, ma anche in letteratura. Nel suo saggio “Il processo della letteratura”, Mariátegui giudica la produzione nazionale tenendo in conto tutti questi fattori. La letteratura peruviana gli appare un prodotto d’importazione e d’imitazione. Essa non affonda le proprie radici nella tradizione, nella storia andina, ma in quelle iberiche. Se per l’autore dei “Sette saggi” Garcilaso57 e Melgar58 possono considerarsi artefici dei primi momenti realmente “peruviani” della letteratura nazionale, per la generazione dei “futuristi” non può dirsi altrettanto. Il massimo esponente di questo movimento fu Riva Agüero che si diede molto da fare per idealizzare un passato che, nella sua visione, così come in quella degli altri futuristi, aveva dei confini ben delimitati, ovvero quelli del vicereame. Anche per questo motivo gli intellettuali peruviani non erano mai riusciti a saldarsi al popolo, non erano mai stati in grado di sentirsi ad esso vincolati. Tra l’impero incaico e la colonia avevano operato una scelta chiara a favore della seconda. C’è bisogno, invece, di ripensare l’agente autoctono: “in Perú l’autoctono è indigeno, cioè incaico”59. Per cui, rimanendo per un attimo nell’ambito letterario, il lamento indigeno, la zamba e gli yaravies, appaiono come le note più autentiche del vero Perú. Mariátegui, lanciandosi all’attacco di quello che definisce “passatismo”, non rimane confinato solo alla pars destruens, ma è pronto a contribuire alla delineazione di una “nazionalità in formazione”, così come egli stesso la chiama. I secoli della Colonia e della Repubblica, per quanto mediocri possano essere stati, sono un fatto 57
Garcilaso de la Vega (1539-1616) compilò i Comentarios Reales (1606), in cui tracciava la storia dell’“Incario” fino all’arrivo degli spagnoli. Nel 1616, come opera postuma, vide la luce la Historia General del Perú, in cui, invece, riprendeva i fili del discorso precedente, a partire dal punto in cui si era arrestato. Queste opere ebbero poi una grande influenza su tutto il mondo intellettuale peruviano. 58 Mariano Melgar (1791-1815) è conosciuto soprattutto per i suoi componimenti, in massima parte yaravies (canzoni o poesie in quechua), in particolare per quelli dedicati alla donna amata, María Santos Corrales, meglio nota come “Silvia”. 59 José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., p. 268.
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assolutamente inconfutabile. Tuttavia, la base della nuova nazionalità, della vera peruvianità, non può fare riferimento esclusivo a queste epoche; c’è la necessità di risalire più indietro nel tempo. Così facendo si scoprirà come il Perú autoctono si fonda sull’indio. “Quando si parla della peruvianità, bisognerebbe indagare se questa peruvianità comprende l’indio. Senza l’indio non c’è peruvianità possibile. Questa verità dovrebbe essere valida soprattutto per le persone di ideologia meramente borghese, demoliberale e nazionalista. Il motto di ogni nazionalismo, a cominciare dal nazionalismo di Charles Maurras e dell’Action Française, dice: "Tutto ciò che è nazionale è nostro".”60 Questa impostazione permette, inoltre, di sottrarre ai settori più retrivi e conservatori del paese il patrimonio della tradizione. Questa è ora rivendicata dalle nuove generazioni, le stesse che operano per la rivoluzione. Il monopolio dei tradizionalisti viene così fortemente incrinato: l’indio entra a far parte della vita nazionale. Anche settori liberali riconoscono che non è più ammissibile una linea di condotta che tolleri semplicemente l’esistenza delle masse indigene accanto a quelle bianche, senza alcuna preoccupazione per la loro condizione, ma con l’unica ansia di escogitare il metodo di sfruttamento più redditizio. Malgrado queste aperture di settori liberali, l’iniziativa di riappropriazione delle proprie tradizioni è nelle mani dei rivoluzionari, i quali si sono resi artefici della rivendicazione del passato incaico, ponendo in tal modo un importante tassello per la sconfitta del gamonalismo che,
60
José Carlos Mariátegui, Il problema prioritario del Perú, Lettere dall’Italia…, (a cura di Ignazio Delogu), cit., p. 227.
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seppur ancora in vita in quanto stato sociale, è stato inesorabilmente battuto in campo etico e spirituale. “il programma elaborato dalla coscienza di questa generazione è mille volte più nazionale di quello che in passato si nutrì solo di sentimenti e superstizioni aristocratiche o di concetti e formule giacobine. Una concezione che sostenga la supremazia del problema dell’indio è, allo stesso tempo, molto umana e molto nazionale, molto idealista e molto realista.”61 L’accusa di passatismo non è però formulata solo con riferimento a coloro i quali potevano essere stimati quali sostenitori dei regimi coloniale e repubblicano. Essa è valida anche se prendiamo in considerazione il pensiero dei fautori della restaurazione dell’impero incaico. Costoro si producevano in vere e proprie apologie dei fasti dell’impero andino, considerando la sua restaurazione alla stregua di una panacea per tutti i mali del presente. Nelle loro file può ritenersi arruolato anche uno stretto collaboratore di Mariátegui: Luis Valcárcel. Utilizzava una prosa che potremmo definire quasi mistica per denunciare gli orrori della società peruviana, schiava del potere dei gamonales, lanciandosi in una perorata difesa del passato incaico, la cui riproposizione è vista come possibile soluzione.62 La strada del ripristino delle glorie del Tahuantisuyo63 è stata battuta da numerosi studiosi e politici. Nel Perú degli anni di Mariátegui il gruppo probabilmente più consistente si riuniva attorno ad una rivista intitolata “La Sierra”. Uscita tra il 1927 e il 1930, si fece interprete di un progetto secondo cui la redenzione dell’indio poteva essere solo il prodotto del lavoro e della
61
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…., cit., p. 206. Alberto Flores Galindo, op. cit. p. 242. 63 Il termine “Tahuantisuyo” è il nome quechua dell’impero incaico. Letteralmente significa “quattro parti”. 62
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lotta di quanti provenivano dall’interno. Questa concezione, passata alla storia con il nome di “Serranismo”, era una concezione virulenta e radicale che considerava il limeño come principale nemico, assumendo tutto ciò che era della provincia (dell’interno) come patrimonio da difendere. “La Sierra” fu dunque l’organo del serranismo. Essa rivendicava un “umanesimo” antimperialista, critico dell’esperienza rivoluzionaria sovietica e del comunismo locale. Criticava ferocemente quanti parlavano del problema dell’indio senza avvicinarsi fisicamente all’ayllu. Bersaglio polemico fu anche la rivista Amauta, fondata dallo stesso Mariátegui, a causa della composizione dei suoi redattori, prevalentemente limeñi, ritenuti incapaci ed impreparati.64 L’accusa mossa a questa rivista di essere limeñista cozza, però, contro il dato di fatto che la maggior parte dei testi che essa editava erano diretti alla provincia, come precisa scelta politica (lo stesso discorso si può fare per la casa edititrice Minerva, fondata sempre da Mariátegui nel 1925), oltre alla considerazione secondo cui ad Amauta collaborarono penne provenienti da tutto il continente e non solo. All’interno della corrente serranista rientra anche il Partito Indio, fondato in Bolivia da Fausto Reinaga, che, richiamandosi alla comune appartenenza etnica, puntava alla mobilitazione ed organizzazione di tutti gli indigeni del paese i quali, una volta uniti sotto le stesse bandiere, avrebbero potuto, dal momento che costituivano la maggioranza della popolazione boliviana, porre fine al dominio secolare dei bianchi. Come si può notare, in questi ultimi due casi il discorso è aperto anche a soluzioni che oppongono al razzismo, non solo ideologico, delle classi dominanti, un razzismo che si muove in direzione diametralmente opposta.65
64 65
Fernanda Beigel, op. cit., http://redalyc.uaemex.mx/redalyc/pdf/279/27901303.pdf. Marie Chantal Barre, op. cit..
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Per meglio cogliere le differenze che separano Mariátegui da coloro che si ostinano ad elaborare utopici progetti di restaurazione del Tahuantisuyo, da coloro che propugnano, ancora una volta, una soluzione etnica del problema, mirando al recupero di tutte le tradizioni dell’antico mondo andino, è bene analizzare un elemento inerente l’ayllu precedentemente tralasciato. L’ayllu è qui preso in considerazione non tanto per la sua realtà contemporanea (di cui ci siamo già occupati), quanto per le possibilità che sulla base di esso si dipanano. “La comunidad può essere trasformata in cooperativa con uno sforzo minimo”66. È dunque questo il fine cui tendere. L’ayllu non va preso in sé, ma per gli sviluppi che da esso si possono avere. Lo spirito comunitario, il collettivismo, la solidarietà e il cooperativismo, devono essere gli elementi da cui partire per giungere all’edificazione di una società socialista. L’ayllu da cellula dello stato incaico dovrà trasformarsi nella cellula di uno stato socialista. Per raggiungere questo scopo è necessario profondere energie nella difesa della comunidad dagli attacchi cui è quotidianamente sottoposta, incoraggiarla e sostenerla anche mediante l’utilizzo di tecnici e strumenti atti a migliorare la resa dei terreni. Mariátegui non vuole conservare il passato, né tanto meno riproporlo: nella sua visione “gli indigenisti rivoluzionari, invece di un platonico amore per il passato incaico, manifestano un’attiva e concreta solidarietà con l’indio di oggi. Quest’indigenismo non sogna utopistiche restaurazioni. Sente il passato come una radice, ma non come un programma.”67. Malgrado queste divergenze, la principale concezione antagonista a quella di Mariátegui rimane quella di Haya de la Torre e dell’APRA. Quando nel 1924, dall’esilio messicano, Haya aveva dato vita a questa organizzazione, Mariátegui aveva 66
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., p. 353. José Carlos Mariátegui, Nazionalismo e avanguardismo, Lettere dall’Italia (a cura di Ignazio Delogu), cit., p. 246.
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aderito al progetto. Egli era un forte sostenitore del fronte unico68, non tanto sul modello europeo di opposizione al fascismo, bensì sulla base di quello tracciato da González Prada, che voleva uniti “Lavoratori Manuali ed Intellettuali”.69 L’APRA riproduceva un fronte di tutte le classi oppresse dall’oligarchia nazionale e dall’imperialismo, (inteso, diversamente che nel Lenin dell’“imperialismo fase suprema del capitalismo”, come propedeutico allo sviluppo capitalistico nel subcontinente americano), portando avanti la politica delle tre classi: operai, contadini e ceti medi. Tuttavia, sebbene non fosse affermato esplicitamente, l’egemonia sarebbe stata appannaggio proprio di questi ultimi.70 Le differenze tra Haya e Mariátegui andarono però approfondendosi col passare degli anni; essi avevano una diversa concezione dell’imperialismo, nonché una diversa valutazione della possibilità di trasformare quello che era un fronte continentale in un partito nazionale. In realtà, quando Haya si faceva sostenitore di quest’ultima tesi, andava incontro ad una congiuntura favorevole, a causa della crescita numerica dei ceti medi e della mancanza di rappresentanza da parte del proletariato. Successivamente l’APRA avrebbe abbandonato il programma iniziale, in particolare l’antimperialismo, spostandosi, nello spettro politico, da sinistra verso il centro.71 Per quanto concerne la politica indigenista, Flores Galindo ha affermato che con Mariátegui e Haya si contrappongono utopia e messianismo. Questi due modi di affrontare la realtà nazionale e realizzare la sua trasformazione fanno assegnamento su due percorsi diversissimi. Quello di Mariátegui confida nella capacità creativa delle masse, nella necessità dell’intervento costante dei lavoratori affinché fosse scongiurato il rischio fascismo e nell’esigenza di declinare il marxismo in quechua. Il percorso si 68
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit. p. 367. Pier Paolo Petrini, op. cit., p. 220. 70 Manuel Plana e Angelo Trento, L’America Latina nel XX secolo, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991, p. 207. 71 Ivi, p. 210. 69
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costruisce conseguentemente dal basso, dalle comunidades e dai villaggi72. Per contro, in quello di Haya si delinea un percorso dall’alto che non prevede alcuna impellenza di dibattito o di confronto, dal momento che ha bisogno solo di adepti: la sua intelaiatura è autoritaria73. Spesso in questa dura contrapposizione gli apristi hanno voluto ritenersi gli unici possessori dell’attributo di realismo. Il loro progetto incarnava gli umori più profondi del paese, ben si confaceva al suo stile politico. Dall’altra parte ci si rifaceva ad una tradizione più antica, quella del collettivismo andino. Il dibattito si spostava a questo punto sulle caratteristiche stesse della comunidad. La domanda che ci si poneva e cui si rispondeva in maniera tanto diversa era questa: cos’è la comunidad? Gli apristi la ritenevano un organismo corporativo e gerarchico, al cui interno i contadini si configuravano come seguaci del leader carismatico; gli altri la valutavano come un organismo di democrazia popolare e consideravano i contadini protagonisti della loro storia.74
2.6 AMAUTA La polemica con l’APRA si sviluppa anche, se non soprattutto, a partire dalle colonne di Amauta. È da queste pagine che, nel 1928, con l’articolo “Aniversario y balance”, si rende palese la rottura tra Mariátegui e l’aprismo, a causa della volontà dei suoi dirigenti, in primo luogo di Haya de la Torre, di trasformare quello che fino ad allora era stato un fronte capace di tenere insieme anche individui provenienti da esperienze molto diverse, in un vero e proprio partito politico. L’Alianza, nata come movimento continentale, diveniva ora partito nazionale; sorta recando con sé la
72
Alberto Flores Galindo, op. cit., p. 244. Ivi, p. 245. 74 Ibidem. 73
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possibilità di rappresentare il luogo privilegiato per lo sviluppo di una coscienza di classe, si apprestava a mutarsi in strumento nelle mani della piccola borghesia. Amauta fu fondata nel 1926, ma l’idea della sua creazione risale ad anni prima, quando Mariátegui tornò dall’esilio europeo. In quegli anni il suo disegno era quello di una rivista capace di riunire tutte quelle posizioni che si facessero promotrici di un progresso economico e sociale, nonché di innovazione sul terreno intellettuale, soprattutto su quello letterario. Originariamente, come attestano alcune lettere ed alcuni documenti, il nome da conferire a tale progetto era Vanguardia. Nel corso del tempo esso fu sostituito da quello di Amauta che dunque fu il nome di quella che da molti è ritenuta la migliore rivista apparsa sulla scena latinoamericana e non solo in quegli anni.75 Il nome fu suggerito da José Sabogal, intellettuale peruviano impegnato soprattutto nelle arti figurative, che si impegnò anche nella redazione dell’immagine che accompagnò il titolo. Essa tratteggiava un saggio inca e, in effetti, il termine “amauta”, in quechua, sta ad indicare proprio la figura del savio, del sapiente. Il cambiamento del titolo rispetto alle posizioni iniziali non rappresentò una frustrazione degli intenti iniziali. La rivista si configurò fin dal primo numero come uno spazio in cui confluivano forze provenienti da ambiti diversi, ma tutte caratterizzate da una forte spinta nella direzione del progresso materiale e spirituale del paese. Malgrado ciò la propensione per il nome Amauta non è casuale, né tanto meno ispirata a semplici motivi estetici; è piuttosto il sintomo di un mutamento, o meglio di una maturazione, del pensiero di Mariátegui. Tornato dall’Europa dopo aver fatto esperienza di alcuni importanti movimenti e organizzazioni classisti e marxisti (basti
75
Antonio Melis, op. cit., p. 121.
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ricordare, per ciò che concerne la sua permanenza in Italia, il movimento di occupazione delle fabbriche, fortemente appoggiato dai dirigenti dell’Ordine Nuovo di Torino, che proprio in quegli anni andava esaurendo le proprie possibilità; e la scissione avvenuta al Congresso di Livorno del Partito Socialista italiano, nel 1921, che produsse la nascita del Partito Comunista d’Italia, diretto dall’ingegnere napoletano Amedeo Bordiga), egli si rese conto di come la costruzione del socialismo peruviano non potesse seguire pedissequamente la via tracciata nel Vecchio Continente. Partendo da ciò, scoprì dunque l’elemento autoctono che, come già visto, è l’indio. Il termine Amauta, utilizzato per la nuova rivista, sta a simboleggiare in maniera inequivocabile il riferimento continuo ai valori autoctoni. Il tutto non si risolve però in una semplice questione di simboli. Amauta ospiterà alcune rubriche che si preoccuperanno di seguire in maniera praticamente esclusiva il problema dell’indio. Tra queste troviamo il Proceso al gamonalismo, curata personalmente da Mariátegui, e, a partire dal 1927, il Boletín de Defensa Indígena. In esse si andavano chiarificando e delineando una posizione che avversava sempre più duramente il regime gamonalista e difendeva e promuoveva le rivendicazioni indigene. “Il Perú deve scegliere tra il gamonal e l’indio. Questo è il suo dilemma. Non esiste una terza via. Impostato questo problema, tutte le questioni di strutturazione di regime passano in secondo piano. Ciò che principalmente interessa agli uomini nuovi è che il Perú si pronunci contro il gamonal, in favore dell’indio.76 E ancora:
76
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., p. 219.
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“Nessuna riforma che rafforzi il gamonal contro l’indio può essere considerata buona e giusta […]. Al di sopra di qualsiasi vittoria formale del decentramento e dell’autonomia, si propongono le rivendicazioni sostanziali della causa dell’indio, poste in primo piano nel programma rivoluzionario dell’avanguardia.”77 La rivista diviene veicolo di una tale piattaforma. Essa non ospita, in ogni caso, solo le posizioni di Mariátegui e dei suoi più stretti collaboratori, o comunque di quanti condividevano in pieno il suo pensiero a riguardo. Accoglie i punti di vista di esponenti di diversa filiazione ideologico-politica, senza che ciò significhi un cedimento o addirittura una condivisione del criterio della tolleranza. Come afferma lo stesso Mariátegui: “Non ho fondato Amauta per imporre un programma né un criterio ma per elaborarli, con l’apporto di tutti gli uomini degni di partecipare in questa impresa. Questa è una rivista di dibattito dottrinario e di definizione ideologica […]. Porto i miei punti di vista […] ma voglio confrontarli con i punti di vista affini o prossimi.”78 Ciò significa che sulle sue pagine trovano spazio articoli di diversi orientamenti, da Dora Mayer a Valcárcel , rappresentanti rispettivamente dell’Asociación ProIndígena e del gruppo Resurgimiento, sorto a Cuzco nel 1927, che pubblicò, sul numero sei della rivista, un manifesto di denuncia contro i crimini del gamonalismo e che anche per questo fu duramente represso dalle autorità, tramite l’arresto dei suoi dirigenti e lo scioglimento dell’organizzazione stessa. Attraverso la sua stessa configurazione, Amauta si presentava come uno strumento volto all’ottenimento di quella che, con 77 78
Ivi, p. 221. José Carlos Mariátegui, Nota Polémica, cit. in Pier Paolo Petrini, op. cit., p. 312.
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terminologia gramsciana, potremmo definire “egemonia”. Ospitò articoli che si proponevano di indagare l’eredità incaica, ma anche espressioni culturali ispirate all’indio contemporaneo; lavori che investigando l’architettura del Perú coloniale ne sottolineavano il valore meticcio e pubblicazioni di vere e proprie opere letterarie; immagini commentate, accordando quindi grande importanza anche alle arti figurative, ma non tralasciò la fondamentale questione linguistica.79 Amauta, prescindendo dall’orizzonte nazionale, allargò i propri confini alla realtà latinoamericana, non disdegnando la pubblicazione di autori e temi di altri continenti, come testimonia la presenza di scritti di esponenti del calibro di Lenin, Trotskij, Gobetti ecc. In ciò possiamo ravvisare l’impostazione di Mariátegui secondo cui non è possibile svincolare la realtà peruviana da quella europea. Il Perú non è indipendente dalla civiltà occidentale, ma si muove nella sua orbita. Il dovere di studiare la realtà nazionale non esclude quello di non ignorare quella internazionale, di cui la prima non è altro se non un segmento.
2.7 IL PARTIDO SOCIALISTA
DEL
PERÚ
E LA
CONFEDERACIÓN GENERAL
DEL
TRABAJO Nel 1928 Amauta porta a compimento il lavoro di chiarificazione ideologica che l’aveva ispirata fin dal primo numero. In concomitanza con la rottura con l’APRA, essa afferma di potersi definire marxista. È solo il primo passo nel periodo di più fervente lavoro organizzativo della vita di Mariátegui. Costretto dalla necessità di sottrarre all’aprismo il proletariato urbano industriale e i contadini indigeni, Mariátegui fonda il
79
Antonio Melis, op. cit., pp. 72-73.
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sette ottobre del 1928, il PSdP (Partido Socialista del Perú)80, che al centro del proprio programma inserisce il sostegno delle rivendicazioni indigene e la lotta per l’abbattimento del sistema di sfruttamento messo in piedi dai gamonales. Ma il lavoro organizzativo non si arresta alla creazione di un partito politico; esso prosegue con l’impegno per la costituzione di un sindacato capace di sostenere le rivendicazioni di tutti i lavoratori, operando al contempo per suscitare in essi una coscienza di classe. Per sostenere il sindacato e per sviluppare un dibattito sulle questioni ad esso inerenti, fu inoltre fondato Labor, supplemento quindicinale di Amauta. In quest’opera il ruolo degli indios è tutt’altro che passivo. Non si mettono in piedi strutture paternalistiche, bensì si profondono sforzi affinché le masse indigene possano giungere finalmente ad una vera autonomia. Esse dovranno essere le realizzatrici della soluzione al problema dell’indio. Partendo dalla constatazione delle ribellioni indigene di quegli anni, da quella di Rumi Maqui a quella di Lamar a Huancané nel 1925, passando per altre di minor portata, accomunate però dallo stesso esito – una dura e sanguinosa repressione –, Mariátegui si convince dell’orientamento rivoluzionario di queste masse. Esse peccano, però, di organizzazione. L’unico tentativo messo in campo fino a quel momento (se si eccettuano i congressi indigeni) è stato quello della costituzione della Federazione operaia regionale indigena, che seguiva i principi e i metodi anarco-sindacalisti allora in voga; pur risultando fallimentare può essere considerato un esperimento, un precedente per procedere nell’opera organizzativa. Per la buona riuscita di quest’ultima si presenta la necessità di un processo di educazione ideologica delle masse indigene, per il quale si 80
La fondazione di un partito classista proletario fu decisa da diversi raggruppamenti peruviani, che incaricarono la cellula di Lima di redigere l’atto della sua costituzione. Il sette ottobre del 1928, riuniti nella casa di Avelino Navarro, i nove membri della cellula della capitale fondarono il PSdP e approvarono l’Acta de Constitución. Nella stessa riunione si costituì il Comitato Centrale, al cui interno Mariátegui figurava come Segretario Generale, incaricato della stesura del Programma del Partito; Ricardo Martínez de La Torre come Segretario della Propaganda; Bernardo Regman come Tesoriere; Avelino Navarro e Manuel Hinojosa furono incaricati di coordinare il lavoro sindacale.
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dispone degli indios che, impiegati nelle miniere o nei centri urbani, entrano in contatto con il movimento sindacale, assimilandone principi e pratiche per divenire, successivamente, agenti dell’emancipazione della propria stessa razza. Essi non incontreranno i problemi linguistici e culturali dei bianchi nel lavoro di propaganda classista. Tuttavia, un ruolo fondamentale è assolto dall’autoeducazione: “I metodi di autoeducazione, la lettura costante degli organi di stampa del movimento sindacale latinoamericano, degli opuscoli, ecc., la corrispondenza con i compagni militanti, saranno i mezzi di cui si serviranno questi elementi per adempiere con successo la loro missione educatrice. Il coordinamento delle comunidades indigene per regioni, il soccorso ai perseguitati dalla giustizia o dalla polizia (i gamonales processano per delitti comuni gli indigeni che oppongono resistenza o quanti vogliono depredare), la difesa della proprietà comunitaria, l’organizzazione di piccole biblioteche e centri di
studio, sono attività nelle quali gli
indigeni aderenti al movimento sindacale debbono avere sempre un ruolo primario e direttivo, col duplice scopo di dare all’educazione e all’orientamento classista degli indigeni direttive serie e di evitare gli influssi di elementi perturbatori (anarchici, ecc.).”81 La trasmissione di conoscenze, di principi e di pratiche tra gli indios è un problema di fondamentale importanza nel lavoro di Mariátegui; per cui egli suggerisce la pubblicazione di un giornale per i contadini indigeni (per il quale propone il nome “El Ayllu”) e di uno per i minatori. Questo malgrado sia perfettamente cosciente del dato
81
José Carlos Mariátegui, Sette saggi…, cit., pp. 354 - 355.
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secondo cui la stragrande maggioranza della popolazione indigena sia analfabeta. Infatti, ha ben presente il ruolo di diffusori, di propagandisti, che può essere svolto da quanti, all’interno dell’universo indigeno, hanno conseguito un certo livello di alfabetizzazione. In entrambi i casi, sia per ciò che concerne il PSdP che per la CGT (Confederación General del Trabajo), Mariátegui fu ostacolato, a ogni buon conto, dall’Internazionale Comunista, che cominciò ad esercitare fortissime pressioni affinché si cambiasse radicalmente la linea politica che era stata fatta propria dai peruviani in quegli anni. Sempre più debilitato fisicamente, Mariátegui morì nel 1930, dopo aver lasciato la carica di segretario di partito nelle mani di Eudocio Ravines, probabilmente perché ritenuto elemento di mediazione all’interno della neonata formazione. Tuttavia, a partire dal marzo del 1930, cioè a
partire da pochi giorni dalla morte di Mariátegui, le
pressioni del Comintern ebbero successo: “noi crediamo che sia necessario trattare il problema indigeno come il problema di una minoranza nazionale […]. La sola soluzione possibile è quella che l’Unione Sovietica ha dato in maniera ammirevole ai problemi
della
nazionalità
[…].
Per
essa
sarà
necessario,
indispensabile, il cambio del sistema sociale attuale. Sotto il capitalismo, sotto il giogo dell’imperialismo, il problema indigeno, da tutti i suoi punti di vista, […] resterà senza soluzione. Soltanto il regime del Proletariato rivoluzionario, sotto un’esistenza comunista, è capace di trovare la soluzione ad una questione come il problema indigeno.”82
82
Eudocio Ravines, El problema indígena en America latina, cit. in Pier Paolo Petrini, Josè Carlos Mariátegui e il socialismo moderno, Edizioni ETS, Pisa, pp. 518-519.
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Il nuovo segretario del PSdP, presto trasformato in PCP (Partido Comunista Peruano), secondo i dettami del Comintern, mostra, con queste parole, come si sia scelta una strada diversa rispetto a quella tracciata da Mariátegui. L’appiattimento sulle posizioni della Terza Internazionale fa sì che si consideri la questione indigena come un problema di minoranza nazionale. Di qui la necessità da parte del “Proletariato rivoluzionario” (si badi bene con la “p” maiuscola), una volta vittorioso, una volta conquistato il potere statale (che implicitamente è riconosciuto come obiettivo non solo principe, ma anche immediato da parte del partito), di provvedere alla risoluzione del problema, come un buon padre risolve i problemi di un figlio impotente ed incapace. Appare in maniera assolutamente evidente come la svolta rispetto all’”epoca” mariateguiana sia a trecentosessanta gradi. Mariátegui aveva impostato una strategia che puntava alla presa del potere non come atto compiuto da una ristretta avanguardia, bensì come processo di lunga durata, per il quale risultava necessaria l’acquisizione di autonomia da parte delle masse lavoratrici peruviane, in primis di quelle indigene. Questa posizione è ben distante da quella di Ravines, che tratta il problema in termini paternalistici: l’obiettivo che si pone Mariátegui è quello di fornire agli indios gli strumenti che avrebbero loro permesso di principiare un’opera, teorico-pratica (nel solco della migliore tradizione marxista), di autoemancipazione. Si proponeva, in altri termini, un lavoro che avrebbe condotto all’acquisizione di una coscienza di classe, propedeutica ad un progetto capace di raggiungere gli obiettivi delle proprie rivendicazioni. Il suo progetto fu quindi immediatamente abbandonato ed il PCP imboccò una strada che, da allora in poi, fu costellata da cocenti sconfitte e continui processi di frammentazione interna. GIULIANO GRANATO
[email protected]
50
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