Il Castello Sotterraneo

  • December 2019
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  • Words: 1,394
  • Pages: 12
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Progetto e realizzazione editoriale: Atlantyca S.p.A. Supervisore del testo: Davide Morosinotto Illustrazioni e progetto grafico: Iacopo Bruno e Francesca Leoneschi I Edizione 2009 EDIZIONI PIEMME Spa 15033 Casale Monferrato (AL) – Via G. del Carretto, 10 www.edizpiemme.it - [email protected] Copyright © 2009 Atlantyca S.p.A. Code Lyoko™ names, characters and property are Trademarks of MoonScoop. All Right Reserved

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Stampa: Mondadori Printing S.p.A - Stabilimento NSM - Cles (Trento)

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Jeremy Belpois

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Stanotte sono dieci anni esatti dalla prima volta che l’ho vista, e ho deciso che è arrivato il momento di raccontare. Di rivelare i fatti incredibili di cui siamo stati testimoni. Yumi Ishiyama, Ulrich Stern, Odd Della Robbia e io, Jeremy Belpois. E Aelita, naturalmente. Non passa giorno che non pensi ad Aelita. Questa storia è per tutti loro, i miei amici. Ma è soprattutto per te. Chissà se sei ancora in ascolto… Jeremy

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1 una farfalla in fondo al mare (Mar del Giappone, 21 dicembre)

Si dice che se una farfalla sbatte le ali a Pechino, a New York pioverà. Forse fu proprio così che andò, anche quella volta, ma è difficile dirlo: sebbene tutti si accorgano quando piove, infatti, ormai nessuno è più in grado di rintracciare la farfalla responsabile… Martedì 21 dicembre, alle ore 14 e 36, la nave KNT-17 gettò l’ancora al largo del Mar del Giappone, e un ufficiale comunicò alla base di terra: – Siamo in posizione. Alla base di terra era in ascolto Yukiko Itou, una bella ragazza giapponese di ventitré anni. Dalla sua tranquilla scrivania Yukiko controllò gli schermi che la circondavano, sistemò il microfono davanti alla bocca e disse: – Qui base, tutto ok. Fate partire Rovvy quando volete.

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La KNT-17 era una nave “cablografica”: il suo compito era quello di controllare i cavi di telecomunicazione che collegavano il Giappone agli Stati Uniti. C’era solo un problema: i cavi si trovavano a più di mille metri di profondità sotto la superficie del mare. E qui entrava in gioco “Rovvy”, come familiarmente veniva chiamato dagli addetti ai lavori. A dispetto del buffo nomignolo, si trattava di un robot molto sofisticato. Un ROV: Remotely Operated Vehicle. L’unico in grado di operare in tutta tranquillità alle inimmaginabili pressioni degli abissi oceanici. Dal monitor sulla scrivania Yukiko aveva una doppia visuale: del robot, una specie di grossa scatola gialla che veniva calata tra le onde con una gru, e dell’ufficiale di bordo, sulla nave. – Come stai, dolcissima creatura? – gracchiò la voce di lui dalla radio trasmittente. Yukiko rise. – Dici a me? – Ma no, che hai capito! Parlavo con Rovvy! Altra risata. – Concentrati sul lavoro, o finiremo per lasciare tutto il Giappone senza Internet! Erano passate sei ore da quando il cavo sottomarino aveva iniziato a perdere colpi, e la cosa era molto preoccupante. Attraverso quel cavo passava la maggior parte delle telefonate e delle e-mail che i Giapponesi spedivano verso l’America e viceversa. Bisognava agire in fretta e con precisione.

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Sfrecciando sott’acqua a grande velocità grazie ai potenti propulsori a elica, in poco tempo Rovvy raggiunse il cavo, un grosso serpente nero che si allungava all’infinito in entrambe le direzioni sul fondale sabbioso. Tutto intorno, l’oceano era silenzioso e buio. A quella profondità non c’erano nemmeno più pesci. Senza il fascio luminoso della telecamera subacquea del robot, lo schermo davanti a Yukiko sarebbe sembrato completamente spento. Passarono alcuni minuti. Poi, il silenzio fu rotto dalla voce dell’ufficiale di bordo, in cuffia. – Credo di aver trovato il guasto. Sembra che non sia niente di grave. Da uno scomparto interno di Rovvy fuoriuscì un braccio meccanico, che si allungò fino a sfiorare la superficie del cavo. In quello stesso istante, gli strumenti elettronici accanto a Yukiko sembrarono impazzire. – Aspetta, fermati! – gridò lei istintivamente. – Che succede? – C’è stato… uno sbalzo di corrente, credo. Non so spiegarlo, ma… sembrava come una specie di ingorgo… – Yukiko? Ti dispiace ripetere? – Hai capito benissimo: appena hai toccato quel cavo, si è verificato un ingorgo di corrente!

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– Ma se l’ho appena sfiorato! E poi non mi risulta che un cavo a fibre ottiche si possa “ingorgare”! La ragazza ignorò il commento e diede una rapida occhiata ai monitor. – A ogni modo, ora sembra tornato tutto a posto. Le comunicazioni funzionano di nuovo perfettamente. – Vuoi che procediamo comunque con la riparazione? – No no, non serve a niente. Missione sospesa. Tira su Rovvy e tornatene a casa. – Perfetto, così questa sera usciamo insieme. Yukiko sorrise e si ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. – Perché no? Mentre in Giappone Internet riprendeva a funzionare, in Francia una ragazzina di tredici anni stava facendo colazione nella sala mensa del collegio Kadic. Si chiamava Aelita Stones, ma nel corso della sua breve vita aveva avuto molti nomi diversi. Non era alta per la sua età, aveva un nasino piccolo e rivolto all’insù, occhi grandi e capelli color fiamma tagliati a caschetto. Vestiva con una salopette dall’aria comoda e aveva uno sguardo piuttosto serio, che stonava con l’allegria degli altri studenti. Alla mensa del Kadic si respirava un’aria di festa: era il penultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale e le lezioni sarebbero riprese solo a gennaio, quasi venti giorni dopo.

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Un sacco di tempo a disposizione da trascorrere a casa con mamma e papà. Aelita, però, aveva altri programmi, non altrettanto piacevoli. I suoi genitori, infatti, non c’erano più. Aelita aveva l’impressione che fossero passati secoli da quando era rimasta definitivamente sola al mondo. Da quel giorno orribile in cui suo padre… – Tutto bene? – le chiese a un tratto Jeremy, facendola sobbalzare. Jeremy Belpois aveva tredici anni come lei, capelli biondi un po’ lunghi e occhiali tondi sul naso. Jeremy per lei era una persona importante, perché quel terribile giorno in cui suo padre… – Aelita? La ragazza si bloccò con il croissant a mezz’aria, la bocca socchiusa, lo sguardo perso nel vuoto. – Si è paralizzata per l’emozione – commentò il terzo amico. Era Odd Della Robbia, sorridente come sempre, con i capelli sparati sulla testa e il suo solito look rockettaro. – Allora Jeremy, il nostro diabolico piano è pronto? – chiese Odd rivolto all’amico. – Nei minimi dettagli – annuì Jeremy. – Aelita e io andiamo dai miei per le vacanze. Mia mamma è contentissima di avere una ragazza da viziare. – E tu no? – Piantala, Odd. – Il nostro informatico romanticone…

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Jeremy avvampò, ma continuò a parlare come se niente fosse, con lo sguardo basso sul piatto. – Torneremo al collegio domenica 9. Un giorno prima che inizino le lezioni. – Perfetto! Cos’hai detto ai tuoi? – Che dormo a casa di Ulrich. – Anch’io! Tanto, non controlleranno mai. E gli altri? Li hai sentiti? – No, ma abbiamo già parlato di tutto. Non credo che ci saranno problemi. – Ehi, Aelita, sei qui con noi? – domandò Odd alla ragazza, dopo essersi accorto che in tutto quel tempo non aveva mosso un solo muscolo. Il croissant era ancora fermo davanti al suo naso. – Aelita, se è uno scherzo non è divertente – disse Jeremy con l’aria preoccupata. La ragazza lo guardò fisso, sbattendo appena le palpebre. – Tu ti chiami Jeremy, vero? Lui la fissò incredulo, poi rise imbarazzato. Odd fece finta di stare al gioco: – Sì, lui è Jeremy e io sono Odd. Siamo i tuoi migliori amici. Ricordi? Voleva essere una battuta, ma Aelita non rise. – No – rispose soltanto.

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