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Il Rosso e il Nero Settimanale di Strategia

GERMOGLI

26 marzo 2009

Segnali di disgelo in un quadro molto fragile

E’ cambiato davvero il mondo in queste ultime due settimane? Sì, è cambiato e i mercati sono stati nel complesso efficienti nel cogliere il nuovo. La difficoltà, adesso, sta nel capire la vera dimensione delle novità da una parte e quanto tempo occorrerà per il loro dispiegamento dall’altra. Partiamo dalle novità macro. I consumi continuano a tenere, soprattutto negli Stati Uniti. Naturalmente tengono sulle posizioni basse che hanno seguito il crollo di ottobre e novembre, ma è meglio di quello che ci si aspettava. C’è ancora l’effetto positivo della benzina che costa la metà di un anno fa, ci sono gli sconti ufficiali o sottobanco su qualsiasi cosa, dalle auto ai vestiti o ai viaggi. Fra poco ci sarà l’effetto dei minori esborsi per i Tidal Basin e Washington Monument. Washington DC. mutui, perché i tassi stanno cominciando a calare sul serio. Poco più in là si profilano gli sgravi fiscali. Non sono enormi, ma tutto fa, al punto che un piccolo segno positivo, sui consumi americani, potrebbe perfino restare per tutto il resto dell’anno. Con i consumi che tengono e la produzione che continua a scendere, le scorte stanno esaurendosi più rapidamente del previsto. Una volta normalizzate le scorte, la produzione di beni di consumo si stabilizzerà e, verso fine anno, potrebbe tornare a crescere. A non dare ancora segni di stabilizzazione sono gli investimenti, che rimarranno depressi anche l’anno prossimo.

Mettendo insieme il tutto, il Pil americano sembra destinato a una rapida perdita di velocità della sua caduta da qui all’estate. Toccato il fondo, nella seconda parte dell’anno potrebbe anche registrare una debolissima ripresa. Dopo mesi di dati terribili l’arrivo di qualche dato più normale va salutato con gioia, ma non significa necessariamente un’inversione radicale di tendenza. Molto più probabilmente è solo l’inizio di una fase di stabilizzazione, che nel resto del mondo, in particolare in Europa e in Giappone, è ancora di là da venire. Sul piano dei provvedimenti di policy le novità sono importanti e tutte di segno positivo. La ricapitalizzazione del Fondo Monetario appare sicura. Ppif e Talf, fino a poco tempo fa ectoplasmi che non scaldavano i cuori, prendono forma e corpo e si trasformano in un trilione di dollari che possono comprare 1.5 trilioni di nominale di asset tossici. Nel frattempo, il trilione e rotti di easing quantitativo da parte della Fed si prepara a entrare gradualmente in circolazione. Nota Brad DeLong di Berkeley che dei 4 trilioni di asset tossici 2 sono già in via di sistemazione (almeno sulla carta, osserviamo). DeLong, che è molto vicino all’amministrazione, aggiunge che in settembre ci potrebbe essere un altro stimolo fiscale per il 2010, mentre nel Tarp rimangono ancora 200 miliardi, su cui naturalmente si può creare leva. Il dibattito che infuria su piano Geithner e Talf, in particolare sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite che ne deriverebbero, è il segno che il mercato li sta ora prendendo sul serio. Tesoro e Fed stanno marciando insieme. John Berry, un influente columnist considerato molto vicino alla Fed, ha attaccato negli ultimi giorni, in Monte Yoshino. Giappone. due articoli molto duri, i due fronti che si oppongono in diverso modo ai piani di sistemazione degli asset tossici, ovvero da una parte la destra congressuale repubblicana (che vuole lasciare tutto al mercato) e dall’altra i professori radicali (vengono in mente Roubini e Krugman) che invocano estese nazionalizzazioni delle banche e punizioni esemplari per i loro azionisti. La posizione repubblicana è giudicata totalmente sterile e quella dei nazionalizzatori, pregati senza mezzi termini di smetterla, dannosa per i mercati. Nelle ultime ore, per inciso, tanto Roubini quanto Krugman hanno ammorbidito parecchio le loro posizioni. Nella polemica, il disegno complesso del piano Geithner è stato oggetto di distorsioni. Non è vero, ad esempio, che il contribuente non parteciperà alle rivalutazioni future degli asset tossici. Non è vero che il contributo dei privati, essendo assimilabile all’acquisto di una call su questi asset, sia in pratica inesistente. Nessuno, normalmente, compra opzioni per passatempo (come fossero biglietti della lotteria), tanto meno quando deve metterci 30 miliardi di dollari. In più, senza l’intervento dei privati in competizione tra loro, il vero prezzo di titoli che ora sono completamente illiquidi resta impossibile da

scoprire. Infine, notiamo che i nazionalizzatori che favoleggiano di immensi guadagni per i privati compratori di asset tossici sono spesso gli stessi che affermano che questi asset sono praticamente carta straccia. Un timore diffuso nel mercato è che le banche non venderanno questi titoli per non evidenziare minusvalenze ancora inespresse nei bilanci. Si dimentica però che dopo lo stress test in corso, la Fed obbligherà le banche poco patrimonializzate a liquidare titoli fino a che non si saranno rimesse in regola. Il fatto che nel piano Geithner ci siano incentivi ai privati non deve scandalizzare. E’ normale quando si vuole avviare un processo virtuoso. Quando ad esempio si colloca la prima tranche di una privatizzazione a un prezzo molto vantaggioso, si prepara il terreno per futuri collocamenti a prezzi crescenti e alla fine il contribuente ne esce bene. Il piano Geithner, per inciso, appare timidissimo di fronte ad altre idee circolate di recente. Ricardo Caballero del Mit, ad esempio, suggerisce da qualche tempo un piano suggestivo per cui il governo, invece di tirare fuori soldi per le banche, si impegna a comprare le loro azioni fra cinque anni a un prezzo quadruplo rispetto a quello corrente. In questo modo le azioni esistenti si rivalutano immediatamente e le banche possono emetterne di nuove e riequilibrare il loro bilancio. Dopo cinque anni il corso dell’azione sarebbe con ogni probabilità al di sopra del prezzo d’esercizio della put. In questo modo, alla fine, nessun capitale pubblico verrebbe sborsato e nessuna nazionalizzazione sarebbe necessaria. Troppo bello per essere politicamente realizzabile. Forse nella prossima grande crisi, fra qualche decennio. L’insieme di dati e di misure di policy di cui abbiamo parlato rende il rialzo di borsa di questi giorni qualcosa di più di un semplice rimbalzo tecnico. Si diceva la settimana scorsa che l’essere definito dal mercato, unanimemente, come bear market rally (e non come, incredibile a dirsi, l’inizio di un bull market) rendeva il rialzo più solido. Così è stato, finora. Oggi siamo però incappati in uno studio di Barclays significativamente intitolato “Arrivano i Tempio Narita. Giappone primi germogli”. Una parte del mercato sta dunque cambiando le sue aspettative. Il fenomeno è ancora poco esteso (in una tavola rotonda tra loro, tutti gli strategist e gli economisti di Morgan Stanley si dicono certi che questo è solo un bear market rally) ma merita attenzione. L’azionario può difendersi bene fino a fine trimestre e poco oltre, ma il graduale mutare delle aspettative lo rende più vulnerabile ai dati di bilancio che le società cominceranno a pubblicare da metà aprile.

In generale, può essere giusto passare per i prossimi mesi dalle strategia di vendere su rialzo a quella di comprare su ribasso, ma ora siamo su rialzo e non è quindi il momento di comprare. Il fatto che ci siano in fioritura germogli primaverili non deve indurre a sottovalutare la fragilità del quadro strutturale, non solo per quest’anno ma anche per i prossimi. Jan Hatzius di Goldman prova a disegnare un percorso virtuoso (uno scenario best case) in cui i redditi americani crescono del 3 per cento all’anno e i consumi dell’uno per cento da qui al medio termine. In questa ipotesi si riesce a conciliare un aumento graduale dei risparmi verso il 10 per cento con una crescita del Pil, sia pure molto bassa. E’ chiaro che un mondo in cui l’America cresce così poco è fragile e molto esposto a qualsiasi shock esogeno. Né c’è molto da aspettarsi dal resto del mondo. Il rilancio dei consumi interni (per compensare il calo strutturale delle esportazioni) sarà lento in Asia e lentissimo in Europa. Le borse devono poi tenere conto degli utili. Le attese sul 2009 e sul 2010 appaiono ancora troppo alte. In pratica appare difficile, almeno al momento, ipotizzare che nei prossimi due-tre anni parta il grande treno del bull market. Per questo, ripetiamo, anche se l’aria è oggi più respirabile è meglio evitare di rincorrere i rally e aspettare i momenti di debolezza. Venendo ai bond, il mercato sta vivendo una fase decisamente più nervosa rispetto all’azionario. Il quantitative easing crea un profondo disagio in quella parte del mercato che si sente già proiettata verso l’iperinflazione, ma il fatto di avere dall’altra parte le banche centrali come soggetto compratore gela le pulsioni allo short. Continuiamo a pensare che il mercato sopravvaluti i rischi d’inflazione, quanto meno per questo e per il prossimo anno. Lo scenario di base indicherebbe semmai deflazione, anche se è sensato ipotizzare per i prossimi mesi costanti ed energici interventi di contrasto da parte delle banche centrali. Mettendo insieme lo scenario di base con i probabili interventi, il risultato per il 2009 e per il 2010 dovrebbe essere un’inflazione con segno positivo ma molto bassa. L’impressione è che le banche centrali puntino ora a una curva con moderata inclinazione positiva. Gli acquisti, soprattutto da parte della Fed, saranno soprattutto nella parte tra i 2 e i 5 anni, anche per evitare perdite nel momento in cui si profilerà una ripresa economica e ci sarà da smontare le posizioni (la Fed si limiterà a fare scadere i titoli senza rinnovarli). Questo non significa che si voglia lasciare libero il decennale di salire di rendimento. Una parte del mercato pensa che si punti a ricreare la curva piuttosto ripida dei primi anni Novanta. In quel periodo, successivo alla crisi delle Savings and Loans, le banche si ricapitalizzarono lentamente indebitandosi a breve e tenendo titoli lunghi. Questa volta si ha l’impressione che le banche centrali non vogliano incentivare le banche a starsene pigramente adagiate in posizioni di carry senza rischio. L’urgenza, adesso, è quella di indurre le banche ad aumentare gli impieghi.

In generale, la Fed ci pare orientata verso una reflazione moderata e ordinata, senza strafare. Anche l’indebolimento del dollaro, come conseguenza, dovrebbe mantenersi modesto. L’Europa non appare per nulla ansiosa di adottare il quantitative easing. Ha del resto ancora mezzo punto da spendere sui tassi. Una volta tagliato, secondo tradizione, vorrà aspettare qualche mese per vedere gli effetti e solo allora, nel caso, si deciderà al grande passo. In pratica l’Europa cercherà di mettersi sulla scia degli Stati Uniti per sfruttare la loro reflazione. Pagando il prezzo di sempre, ovvero un euro troppo forte.

Alessandro Fugnoli ++39 02 77426.1

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