Estratto_omaggio_sull_orlo_del_baratro.pdf

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Alain de Benoist

Sull’Orlo del Baratro IL FALLIMENTO ANNUNCIATO DEL SISTEMA DENARO

www.ariannaeditrice.it

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Il Gruppo Editoriale Macro mantiene e sviluppa la sua attenzione verso l’ambiente e lo fa con modalità sempre più concrete, coerenti e sostenibili. Stampiamo i nostri libri, dvd, riviste, cataloghi e depliant in Italia su carta riciclata, utilizzando inchiostri ecologici. Acquistando uno dei nostri prodotti contribuirai a sostenere il progetto dell’Associazione Scuola di Ecologia Applicata di Cesena, che ha già messo a dimora migliaia di alberi ed è impegnata nella piantumazione di decine di migliaia di nuovi alberi per favorire la biodiversità e per compensare e ridurre l’impatto ambientale della stampa di questo libro.

Per maggiori informazioni su questo autore e sulla stessa collana visitate il nostro sito www.macroedizioni.it Titolo originale: Au bord du gouffre. La faillite annoncée du système de l’argent © 2012 Editions Krisis 5 rue Carrière-Mainguet - 75011 Paris

traduzione Giuseppe Giaccio revisione Jeanne Cogolli editing Claudio Corvino, Valentina Pieri copertina Matteo Venturi stampa Tipografia Lineagrafica, Città di Castello (PG) I edizione aprile 2012

La Cellulosa utilizzata per la produzione della carta su cui sono stati stampati gli interni di questo libro proviene da foreste amministrate.

ISBN 978-88-65880-036-4

La Cellulosa utilizzata per la produzione della carta su cui sono stati stampati gli interni di questo libro è sbiancata senza utilizzo di cloro (ECF). Questa carta è riciclabile. Gli inchiostri utilizzati per stampare questo libro non contengono composti organici volatili, sono esenti da oli minerali e sono con base vegetale, ambientalmente compatibile.

I libri di Arianna Editrice sono prodotti dal Gruppo Editoriale Macro, che ne cura la distribuzione e la commercializzazione. © 2012 Arianna Editrice redazione  Viale Carducci 24, 40125 Bologna Tel. e Fax 051 8554602 redazione@arianna editrice.it – www.ariannaeditrice.it distribuzione e commercializzazione

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Capitolo 1

Il denaro Beninteso, tutti preferiscono averne un po’ di più che un po’ di meno. «Il denaro non dà la felicità, ma vi contribuisce», dice l’adagio popolare. Bisognerebbe tuttavia sapere che cos’è la felicità. Nel 1905, Max Weber scriveva: «Un uomo non desidera “per natura” guadagnare sempre più denaro: vuole semplicemente vivere come è abituato a vivere e guadagnare quanto gli occorre per farlo». In seguito, numerose inchieste hanno mostrato una relativa dissociazione tra la crescita del livello di vita e quella del livello di soddisfazione degli individui: superata una certa soglia, avere di più non rende più felici. Nel 1974, i lavori di Richard Easterlin avevano stabilito che il livello medio di soddisfazione dichiarato dalle popolazioni era rimasto praticamente lo stesso dal 1945, malgrado lo spettacolare aumento della ricchezza nei Paesi sviluppati (questo “paradosso di Easterlin” è stato di recente riconfermato). Ben nota è anche l’incapacità degli indici che misurano la crescita materiale di valutare il benessere reale; soprattutto sul piano collettivo, poiché non esiste una funzione dall’indiscutibile valore che permetta di associare le preferenze individuali alle preferenze sociali. È allettante vedere nel denaro solo uno strumento di potenza. Purtroppo il vecchio progetto di una radicale dissociazione tra il potere e la ricchezza (o si è ricchi o si è potenti) resterà ancora a lungo un sogno. Una volta si diventava ricchi perché si era potenti, oggi si è potenti perché si è ricchi. L’accumulazione del denaro è presto divenuta non il mezzo dell’espansione commerciale, come alcuni credono, ma lo scopo stesso della produzione delle merci. La Forma-Capitale non ha altro oggetto che l’illimitatezza del profitto, l’accumulazione infinita del denaro. La capacità di accumulare denaro dà evidentemente un potere discrezionale a coloro che la possiedono. La speculazione monetaria domina la governance mondiale. E il brigantaggio speculativo resta il metodo di captazione preferito dal capitalismo.

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~ Sull’Orlo del Baratro ~ Il denaro non si confonde tuttavia con la moneta. La nascita della moneta è spiegabile con lo sviluppo dello scambio commerciale. È soltanto nello scambio, infatti, che gli oggetti acquistano una dimensione di economicità, ed è ugualmente nello scambio che il valore economico si trova dotato di una completa oggettività, perché i beni scambiati sfuggono alla soggettività di un unico individuo per misurarsi con la relazione esistente tra soggettività differenti. In quanto equivalente generale, la moneta è intrinsecamente unificatrice. Riportando tutti i beni a un denominatore comune, essa rende allo stesso tempo gli scambi omogenei, come già constatava Aristotele: «Tutte le cose che vengono scambiate debbono essere in qualche modo paragonabili. La moneta è stata inventata a questo scopo e diventa, in un certo senso, intermediaria, perché misura tutte le cose». Creando una prospettiva a partire dalla quale le cose più differenti possono essere valutate con un numero, la moneta le rende in qualche modo uguali: essa riporta tutte le qualità che le distinguono a una semplice logica del più e del meno. Il denaro è quel metro di misura universale che permette di assicurare l’equivalenza astratta di tutte le merci; è l’equivalente generale che riconduce tutte le qualità a una valutazione quantitativa, dato che il valore commerciale è capace solo di operare una differenziazione quantitativa. Nello stesso tempo, però, lo scambio rende uguale anche la personalità di coloro che lo esercitano. Rivelando la compatibilità delle loro offerte e delle loro domande, instaura l’interscambiabilità dei loro desideri e, a lungo andare, l’interscambiabilità degli uomini, che sono il luogo di questi desideri. «Il regno del denaro», osserva Jean-Joseph Goux, «è il regno della misura unica, a partire dalla quale tutte le cose e tutte le attività umane possono essere valutate […] Appare qui chiaramente una certa configurazione monoteistica della forma valore equivalente generale. La razionalità monetaria, fondata sull’unico metro di misura dei valori, fa sistema con una certa monovalenza teologica». Monoteismo del mercato. «Il denaro», scrive Marx, «è la merce che ha come carattere l’alienazione assoluta, perché è il prodotto dell’alienazione universale di tutte le altre merci». Il denaro non è dunque semplicemente denaro, ma molto di più, e crederlo “neutro” sarebbe l’errore più grande. Come la scienza, la tec-

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~ Il denaro ~ nica o il linguaggio, il denaro non è neutro. Già ventitré secoli fa, Aristotele osservava che «la cupidigia dell’umanità è insaziabile». “Insaziabile”, questa è la parola; non ce n’è mai abbastanza e, dato che non ce n’è mai abbastanza, non può evidentemente mai essercene troppo. Quello del denaro è un desiderio che non può mai essere soddisfatto perché si nutre di se stesso. La sua quantità, qualunque essa sia, può infatti sempre essere aumentata di una unità, cosicché il meglio vi si confonde sempre con il più. Non se ne ha mai abbastanza di ciò di cui si può averne sempre di più. Proprio per questo le antiche religioni europee ci hanno continuamente messo in guardia contro la passione del denaro in sé, utilizzando il mito di Gullveig, il mito di Mida, il mito dell’Anello di Policrate; lo stesso “declino degli dèi” (ragnarökr) è la conseguenza di una bramosia (l’“oro del Reno”). «Corriamo il rischio», scriveva alcuni anni fa Michel Winock, «di vedere il denaro, il successo finanziario, divenire l’unico metro della considerazione sociale, l’unico scopo della vita». Siamo arrivati proprio a questo punto. Ai giorni nostri, il denaro mette tutti d’accordo. La destra ne è diventata da molto tempo la serva. La sinistra istituzionale, con il pretesto del “realismo”, ha clamorosamente aderito all’economia di mercato, ossia alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio dell’economia è divenuto onnipresente. Il denaro è ormai il punto di passaggio obbligato di tutte le forme di desiderio che si esprimono nel registro commerciale. Il sistema del denaro, tuttavia, non durerà a lungo. Il denaro perirà attraverso il denaro, ossia attraverso l’iperinflazione, il fallimento e l’indebitamento eccessivo. Allora si capirà, forse, che si è ricchi davvero solo di ciò che si è donato.

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Capitolo 2

Alle origini della crisi finanziaria Si dice spesso che il capitalismo è sinonimo di crisi, che si nutre delle crisi che provoca, e anche che la sua “capacità di adattamento” è illimitata, lasciando così intendere che è indistruttibile. In realtà, bisogna distinguere tra crisi cicliche, congiunturali, e crisi sistemiche, strutturali (come quelle verificatesi tra il 1870 e il 1893, poi all’epoca della Grande Depressione del 1929-30, o ancora tra il 1973 e il 1982, quando nei Paesi occidentali ha cominciato ad apparire una disoccupazione strutturale). I cicli economici, descritti da economisti come Nicolas Kondratieff (morto nel 1930) o Joseph Schumpeter (morto nel 1950), sono inscrivibili in quello che lo storico Fernand Braudel definiva il tempo della «lunga durata». I cicli messi in evidenza fin dal 1926 da Kondratieff hanno una durata oscillante tra i 40 e i 60 anni, che comprende due fasi. Nella fase A, ascendente, i profitti sono generati fondamentalmente dalla produzione, mentre nella fase B il capitalismo, per continuare a far aumentare i profitti, deve “finanziarizzarsi”. I capitali diventano sempre più titoli di speculazione sull’avvenire, perdendo la loro funzione di investimenti necessari al lavoro. La fase A, caratterizzata dall’inventiva e dalla diffusione di numerose innovazioni, si accompagna progressivamente a un eccesso di investimenti, realizzati per fronteggiare la concorrenza, il che provoca un rincaro dei prezzi e dei tassi di interesse, preludio a un ribaltamento del ciclo. Nella fase B, discendente, si assiste a un massiccio indebitamento da parte tanto degli Stati quanto dei nuclei familiari. Parallelamente alla sovraccumulazione del capitale, il rafforzamento del potere finanziario diventa la leva determinante di ogni strategia mirante ad aumentare la redditività del capitale. Nello stadio finale, le “bolle” speculative esplodono una dopo l’altra, la disoccupazione aumenta, i fallimenti si moltiplicano ecc. In un clima di distruzione generale del valore (eliminazione delle giacenze, chiusura delle imprese e delle filiere meno

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~ redditizie), l’economia si ritrova in stato di deflazione reale. Il sistema diventa allora caotico e incontrollabile, e le agitazioni politiche e sociali contribuiscono ad aggravare ulteriormente la situazione. Molti economisti pensano che oggi siamo nella fase B di un ciclo iniziato circa 35 anni fa e che la crisi finanziaria mondiale, apertasi negli Stati Uniti nell’autunno del 2008, sia proprio una crisi strutturale, corrispondente a una rottura della coerenza dinamica dell’insieme del sistema. Essendosi prodotta dopo le crisi petrolifere del 1973 e del 1979, la crisi del debito bancario dei Paesi in via di sviluppo del 1982, la crisi del mercato azionario e dei tassi di interesse del 1987, la recessione americana del 1991, la crisi asiatica del 1997, l’esplosione della bolla dei valori Internet del 2001, questa crisi, molto più forte delle precedenti, è incontestabilmente la più grave che si sia vista dagli anni Trenta in poi. Tanto più che si svolge in un universo ormai mondializzato. La spiegazione basata sui cicli ha però un valore limitato. Essa lascia intendere che le crisi si inscrivono in una sorta di normalità del capitalismo: se ci sono sempre alti e bassi, è perché questa è la natura del sistema. Non vi sarebbe, dunque, una vera ragione per preoccuparsi. Orbene, siamo, in effetti, di fronte a una triplice crisi di natura nuova: crisi del sistema capitalista, crisi della mondializzazione liberale, crisi dell’egemonia americana. La spiegazione addotta il più delle volte per interpretare le origini della crisi attuale è l’indebitamento delle famiglie americane a causa dei prestiti ipotecari immobiliari (i famosi subprimes). Ciò non è falso, ma si dimentica di dire perché si sono indebitate. L’eterno problema del capitalismo è quello degli sbocchi. In origine, il capitalismo cercava di vendere sempre di più a persone che tendeva a privare progressivamente dei mezzi per acquistare. Da un lato, esso si compiaceva di vedere aumentare i suoi utili a scapito dei redditi da lavoro; dall’altro, si rendeva ben conto che, in ultima analisi, bisognava pure che il consumo progredisse, affinché i suoi profitti potessero continuare ad aumentare. Ora, ridurre i salari significa anche fare diminuire il consumo. Nella fase fordista, si era capito che non serviva a niente aumentare continuamente la produzione, se le persone non avevano potere

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~ Sull’Orlo del Baratro ~ d’acquisto. Si sono dunque progressivamente aumentati i salari al solo scopo di sostenere il consumo. È da questa fase, la quale ha conosciuto il suo apogeo all’epoca del “Glorioso Trentennio”, che stiamo ora uscendo. In quello che Frédéric Lordon ha definito «capitalismo a bassa pressione salariale» si abbandona progressivamente la logica fordista, fondata sull’idea che occorresse aumentare regolarmente i salari per alimentare e sostenere il consumo, e si ritorna al capitalismo iniziale, in cui la ripartizione dei redditi tra il capitale e i salariati era interpretata come un gioco a somma zero: tutto ciò che veniva guadagnato dagli uni veniva perso dagli altri. Come ritrovare degli sbocchi, quando la proficuità degli investimenti tende a calare, ossia quando si assiste a un calo tendenziale del tasso di profitto? Una prima soluzione è l’allungamento dei tempi lavorativi, ma l’aumento dei redditi che ne deriva è molto relativo, tanto più che il prezzo dell’unità di tempo lavorato non viene evidentemente rivalutato (si deve lavorare di più, ma sempre alla stessa tariffa). L’obbligo di lavorare di più, di lavorare la domenica, di fare ore supplementari ecc. ha peraltro degli effetti perversi sulla vita quotidiana: meno svaghi, meno tempo da dedicare alla vita familiare o ai propri bambini. Una seconda soluzione consiste nel ricorrere a una manodopera a buon mercato, poco qualificata, ma altrettanto poco rivendicativa. Ciò spiega perché il padronato, considerando gli immigrati come un esercito di riserva del capitale che permette di spingere verso il basso i salari degli autoctoni, abbia sempre favorito l’immigrazione. La terza soluzione, che è quella cui il capitalismo ha fatto massicciamente ricorso dopo la seconda guerra mondiale, e soprattutto dopo gli anni Ottanta, è il credito. Tramite il credito, i Paesi occidentali hanno scelto di privilegiare il consumo come motore della crescita, invece di fondarla sull’investimento o sull’esportazione. Se la gente si indebita, disporrà di più mezzi e potrà dunque consumare di più. Il problema, in questo schema di sostegno al consumo attraverso il credito, è evidentemente che si presume che le persone rimborseranno i loro debiti, e che esse, appunto, non ci riescono più, dal momento che i loro redditi ristagnano o diminuiscono. D’altra parte, «si è aperto un prodigioso baratro

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~ tra le domande di un consumo freneticamente drogato dal credito e le capacità dell’economia di rispondervi; da qui, il ricorso all’estero con un cronico deficit commerciale, che provoca un massiccio indebitamento» (Yves-Marie Laulan). Questa è una delle componenti principali della crisi dell’autunno 2008. Negli Stati Uniti, in cui il consumo raggiunge l’inaudita proporzione del 73% del PNL, mentre il tasso di risparmio è quasi inesistente, il tasso di indebitamento medio dei nuclei familiari (il coefficiente del loro indebitamento totale rispetto al loro reddito disponibile) era, nel 2008, del 120%. Nella maggior parte degli altri Paesi occidentali, il tasso di indebitamento è ugualmente esploso, e questo sovraindebitamento va ad aggiungersi al debito pubblico e all’indebitamento delle imprese. Da questo, l’esplosiva situazione che conosciamo. Il salario è oggi schiacciato tra due tipi di costrizioni: da una parte, vi è la costrizione dell’azionariato; dall’altra, la costrizione concorrenziale. Uno dei tratti dominanti del “turbo-capitalismo”, corrispondente alla terza ondata della storia del capitalismo, è il completo dominio dei mercati finanziari. Questo dominio accresce il potere dei detentori del capitale, e ancora di più degli azionisti, che sono oggi i veri proprietari delle società quotate in Borsa. Gli azionisti, desiderosi di ottenere un rendimento sempre più elevato e più rapido dai loro investimenti, spingono in direzione della compressione dei salari e della delocalizzazione opportunistica della produzione verso quei Paesi emergenti in cui l’aumento della produttività va di pari passo con dei costi salariali molto bassi. Parallelamente, le imprese tentano di ottenere un tasso di produttività migliore impiegando sempre meno uomini, il che provoca l’eliminazione di posti di lavoro. Poiché l’aumento del valore aggiunto giova più ai redditi da capitale che ai redditi da lavoro, la deflazione salariale si traduce nella stagnazione o nella riduzione del potere d’acquisto e nella diminuzione della domanda solvibile globale. La concorrenza, dal canto suo, si esprime in termini nuovi, nell’epoca della mondializzazione: le delocalizzazioni, che mettono i salariati dei Paesi sviluppati in concorrenza con uomini che all’altro capo del mondo eseguono lo stesso lavoro a tariffe di dumping assoluto, le consentono di esercitarsi in condizioni oggettivamente sleali.

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~ Sull’Orlo del Baratro ~ Il risultato finale è che il salario diventa quasi una variabile di aggiustamento macroeconomico e che le eliminazioni dei posti di lavoro si moltiplicano. L’attuale strategia dei padroni del Capitale è dunque quella di comprimere sempre di più i salari e di aggravare sempre di più la precarietà del mercato del lavoro, producendo così una relativa pauperizzazione delle classi popolari e delle classi medie che, nella speranza di conservare il loro livello di vita, hanno come unica risorsa l’indebitamento, anche quando la loro solvibilità reale continua a diminuire. La possibilità offerta alle famiglie di ottenere dei prestiti, per coprire le spese correnti o acquistare un alloggio, è stata la maggiore innovazione finanziaria del capitalismo del dopoguerra. Le economie sono state allora stimolate da una domanda artificialmente fondata sulle agevolazioni del credito. Oltre Atlantico, questa tendenza è stata incoraggiata, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, con la concessione di condizioni di credito sempre più favorevoli, senza tenere in alcuna considerazione la solvibilità dei debitori. Si è così cercato di compensare il calo della domanda solvibile derivante dalla compressione dei salari mediante l’imballamento della macchina creditizia. In altri termini, si è stimolato il consumo attraverso il credito, non potendo stimolarlo con l’aumento del potere d’acquisto. Per i detentori di portafogli finanziari, questo era l’unico modo per trovare nuovi giacimenti di redditività, anche a costo di rischi sconsiderati. Da qui l’esorbitante sovraindebitamento delle famiglie americane che hanno scelto da molto tempo di consumare piuttosto che di risparmiare (le famiglie americane sono oggi due volte più indebitate delle famiglie francesi, tre volte più indebitate delle famiglie italiane); dopodiché, si è speculato su questi “crediti malsani” tramite la “titolarizzazione”, che ha permesso ai grandi attori della sfera del credito di scaricarsi, rendendoli liquidi, dei rischi di insolvibilità dei loro debitori. La “titolarizzazione”, che è un’altra delle maggiori innovazioni finanziarie del capitalismo del dopoguerra, consiste nel tagliare a fette, dette “obbligazioni”, i prestiti accordati da una banca o da una società di crediti, e nel rivendere poi l’ammontare, ossia il rischio, ad altri agenti finanziari appartenenti al mondo dei fondi di investimento. Si crea così un

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~ vasto mercato del credito, che è anche un mercato del rischio. Il crollo di questo mercato ha provocato la crisi del 2008. L’imballamento dei meccanismi del credito, che hanno tecnicamente scatenato la crisi negli Stati Uniti, è dunque la conseguenza del tentativo del capitale di mantenere la capacità di consumo del maggior numero di persone, mentre i salari e i redditi da lavoro erano messi sempre più sotto pressione. La crisi attuale si è aperta quando il credito è evaporato. La megalomania e l’inaudita cupidigia degli alti dirigenti delle grandi società e delle grandi banche commerciali o d’affari hanno fatto il resto. Assistiamo però anche a una crisi della mondializzazione liberale. La brutale trasmissione della crisi ipotecaria americana ai mercati del mondo intero è il frutto diretto di una mondializzazione concepita e realizzata dagli apprendisti stregoni della finanza. Al di là della sua causa immediata, essa costituisce l’esito di quarant’anni di deregolamentazione voluta da un modello economico globalizzato secondo le ricette liberali. È stata infatti l’ideologia della deregolamentazione a rendere possibile il sovraindebitamento americano, così come era già stata all’origine delle crisi messicana (1995), asiatica (1997), russa (1998), argentina (2001), eccetera. La globalizzazione, mentre rendeva possibile ogni sorta di delocalizzazione, ha rafforzato l’organizzazione concentrica dei mercati finanziari intorno al polo americano. Essa permette ugualmente ai capitali di circolare senza controllo da un capo all’altro del Pianeta e conferisce così ai mercati finanziari, anch’essi mondializzati e completamente deterritorializzati, una posizione dominante, il che rafforza la finanziarizzazione del capitale rispetto all’economia reale: non essendo più la moneta emessa in proporzione alla ricchezza creata (la somma dei beni e dei servizi prodotti), immense masse finanziarie virtuali girano a una velocità crescente intorno al globo alla ricerca di un investimento redditizio o di un’incarnazione durevole. La globalizzazione, infine, ha creato una situazione nella quale le maggiori crisi che si producono nell’uno o nell’altro punto della Terra si propagano ormai quasi istantaneamente, in modo “virale”, come avrebbe detto il sociologo Jean Baudrillard, a tutto l’insieme del Pianeta. Per questo la crisi americana ha toccato così presto i mercati finanziari europei, a

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~ Sull’Orlo del Baratro ~ cominciare dai mercati del credito, con tutte le conseguenze che poteva avere una simile onda d’urto in un momento in cui sia l’economia americana che quella dell’Europa erano sull’orlo della recessione. Non si deve dimenticare, infine, che questa crisi mondiale ha origine negli Stati Uniti, ossia in un Paese che deve già fronteggiare un deficit di bilancio abissale, un debito estero che continua a crescere e un deficit commerciale colossale. Da dieci anni, il motore dell’economia americana non è più la crescita dovuta alla produzione reale, ma l’espansione del debito e della rendita monetaria derivante dal domino mondiale del dollaro. Il fatto che il dollaro sia al contempo una moneta nazionale e un’unità di conto internazionale, per giunta liberata da ogni legame con l’oro fin dal 1971, ha a lungo permesso agli Stati Uniti di affermare e fare pesare la loro egemonia, pur continuando a registrare dei deficit colossali. Il procedimento è consistito, per gli americani, nell’esportare sistematicamente i loro titoli di debito verso Paesi eccedentari. In futuro, l’inquietudine dei grandi fondi pubblici e privati che, particolarmente in Asia, detengono considerevoli quantità di titoli pubblici e parapubblici americani (buoni del Tesoro e altri), e dunque altrettanti crediti sugli Stati Uniti, sarà determinante. Attualmente, il 70% di tutte le riserve estere nel mondo è costituito da dollari, ma questa massa non ha più da molto tempo il minimo rapporto con il volume reale dell’economia americana. Nei prossimi anni, non è impossibile che i Paesi esportatori di petrolio abbandonino a poco a poco il dollaro (i famosi “petrodollari”) per l’euro. A lungo termine, questa situazione potrebbe portare paesi come la Cina e la Russia a sollecitare responsabilità finanziarie internazionali, se non addirittura a mettersi d’accordo per concepire un progetto alternativo rispetto all’attuale ordine finanziario internazionale. George Soros, nella primavera del 2008, lo diceva chiaramente: «Il mondo corre verso la fine dell’era del dollaro». Ora si assicura che basterebbe “regolare” o “moralizzare” il sistema per evitare questo genere di crisi. Gli uomini politici parlano volentieri di «deriva della finanza», mentre altri stigmatizzano «l’irresponsabilità» dei banchieri, lasciando così intendere che la crisi sia dovuta solo a una regolamentazione insufficiente e che un ritorno a pratiche più “traspa-

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~ renti” permetterebbe di fare tornare sulla scena un capitalismo meno avido. Questo è un duplice errore: innanzitutto, perché è stata proprio l’impotenza dei politici a fronteggiare la crisi di efficacia del capitale ad aprire la strada alla liberalizzazione totale del sistema finanziario; poi, e soprattutto, perché significa ignorare che la natura stessa del capitalismo ne fa un sistema estraneo a ogni considerazione “morale”. «Il capitale avverte ogni limite come un ostacolo», diceva già Karl Marx. La logica dell’accumulo di capitale è l’illimitatezza, il rifiuto di ogni limite, l’imposizione del mondo attraverso la ragione mercantile, la trasformazione di tutti i valori in merci, il Gestell di cui parlava Heidegger. Nelle fasi di sovraccumulazione del capitale, il rafforzamento del potere finanziario diventa la leva determinante di ogni strategia tendente ad aumentare la redditività; però, al di là della sola finanza, è in effetti la regolazione dell’intera economia attraverso l’unico criterio del tasso di profitto, senza considerare i fattori umani, i posti di lavoro distrutti, le vite stritolate, l’esaurimento delle risorse naturali e i costi non commerciali (le “esternalità negative”), a essere messa in discussione dalla crisi finanziaria. La causa finale di questa crisi è la ricerca del profitto finanziario più elevato possibile nel minor tempo possibile; cioè, detto chiaramente, la ricerca dell’aumento massimale del valore dei capitali impiegati, escludendo ogni altra considerazione. Che cosa accadrà, ora? Come si sa, da quando gli Stati hanno rifinanziato le banche per impedirne il crollo, il problema del debito privato è sfociato nel problema del debito pubblico. Per un “effetto domino”, la crisi può provocare, in prospettiva, dei mancati pagamenti a catena di tutti gli agenti economici, e dunque un crollo dell’intero sistema finanziario mondiale? Non siamo ancora a questo punto, ma, nel migliore dei casi, la crisi economica durerà a lungo, con una recessione generalizzata che provocherà un aumento della disoccupazione. Dovrebbe derivarne un importante calo dei profitti, che si ripercuoterà inevitabilmente sui mercati e i corsi della Borsa. Contrariamente a ciò che alcuni affermano, il destino dell’economia speculativa condiziona direttamente quello dell’economia reale. Le imprese dipendono infatti dal sistema bancario, anche solo per il credito di cui hanno bisogno per i loro inve-

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~ Sull’Orlo del Baratro ~ stimenti. Ora, la crisi fa sì che le banche, rese fragili dall’accumulo di cattivi debiti, riducano oggi seccamente i loro crediti (credit-crunch). In effetti, o si “risana” il sistema per permettergli di ripartire come prima, nel qual caso la costrizione dell’azionariato e la costrizione della concorrenza continueranno a spingere nel senso di una riduzione dei salari e si assisterà appena possibile a un nuovo sovraindebitamento generalizzato, che sfocerà in una nuova crisi di proporzioni ancora più forti, oppure si mette sotto controllo il debito delle famiglie; in tal caso, però, il consumo calerà e la crescita rallenterà, e ciò rappresenta per il Capitale una prospettiva inaccettabile. In passato le guerre hanno permesso di uscire da questo genere di situazione (nel caso della seconda guerra mondiale, non fu il New Deal, come spesso si crede, a tirare fuori gli Stati Uniti dalla depressione e dalla disoccupazione di massa, bensì la guerra, che trasformò questo Paese in officina militare delle potenze alleate). È in questa direzione che si orienterà l’America, per non perdere la supremazia mondiale? Gli Stati Uniti, che vivono a credito da molto tempo, avevano già accumulato nel 2008 un debito pubblico eccedente gli 11.000 miliardi di dollari, corrispondenti a circa 36.000 dollari per abitante, cui si aggiungevano 50.000 miliardi di debiti privati (nuclei familiari e imprese). In totale, ogni cittadino americano era indebitato per più di 200.000 dollari! Questo gonfiamento del debito provoca un correlativo aumento della massa monetaria, sebbene il Paese che emette questa moneta sia in recessione, produca meno ricchezze e si indebiti ogni giorno di più. Quanto alla disoccupazione, il suo tasso reale ha già superato il 10% e già si sa che, malgrado le riforme avviate dal presidente Obama, il numero di abitanti privi di ogni protezione sociale raggiungerà presto i 100 milioni, ossia un cittadino americano su tre. In questo Paese, in cui la ripresa esigerebbe al contempo un calo del consumo, un aumento del risparmio privato e una riduzione dei deficit, il sistema bancario è in realtà divenuto fin d’ora quasi insolvibile. Spesso si paragona questa crisi a quella del 1929. In realtà è più grave, e per almeno tre ragioni. Da un lato, si tratta della prima vera crisi finanziaria mondiale (quella del 1929, spesso presentata come tale, era

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~ in effetti limitata agli Stati Uniti e all’Europa), la cui ampiezza riflette la realtà stessa della globalizzazione realizzata dopo il crollo del sistema sovietico. Dall’altro, le nostre società dipendono dalla sfera finanziaria molto più di una volta, nella misura in cui il credito al consumo è stato, a partire dagli anni Ottanta, la chiave della crescita del prodotto nazionale lordo (PNL). Infine, gli Stati Uniti, che nel 1929 erano ancora una potenza in ascesa, oggi, essendo l’epicentro della crisi, sono in declino. In passato, il crollo del sistema sovietico è avvenuto in seguito a una crisi sistemica. Può accadere la stessa cosa con il sistema capitalista? Alcuni lo pensano; ad esempio, l’economista Immanuel Wallerstein, per il quale «siamo entrati, dopo gli anni Trenta, nella fase terminale del sistema capitalista», perché il capitalismo non riesce più a «fare sistema», ossia a ritrovare l’equilibrio dopo avere deviato troppo dalla sua situazione di stabilità. Wallerstein arriva persino a evocare un periodo di transizione paragonabile a quello che ha visto l’umanità europea passare dal sistema feudale al sistema capitalista. Senza seguirlo fino a questo punto, ciò che si può dire è che il sistema di Bretton Woods (1944) conosce attualmente la sua fase terminale. Ora, malgrado i proclami del G20, i dirigenti mondiali persistono a comportarsi come se il sistema finanziario mondiale fosse vittima soltanto di una crisi di crescita, di un’avaria passeggera, cui si potrebbe rimediare con la realizzazione di una «governance finanziaria mondiale» che si traduca in alcune misure di “regolazione”, nell’iniezione massiccia di nuove liquidità, nella concessione di nuovi mezzi al Fondo monetario internazionale (FMI), in un calo dei tassi di interesse, in piani di riacquisto degli “attivi bancari tossici” e dei “prodotti speculativi marci” (che non fanno altro che respingere in direzione dello Stato, e del debito pubblico, il costo dell’uscita dalla crisi), in piani di rilancio delle industrie minacciate di fallimento, in una superficiale messa in discussione dei “paradisi fiscali”, ecc. Il modo in cui i dirigenti hanno unanimemente condannato il protezionismo e affermato che la mondializzazione doveva proseguire a ogni costo, dimostra che essi non hanno alcuna consapevolezza del carattere sistemico e storico di questa crisi, che segna anche il fallimento del progetto del

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~ Sull’Orlo del Baratro ~ “nuovo ordine mondiale” formulato negli anni Novanta. Queste misure sono inoltre destinate all’insuccesso, perché i Paesi che incorrono in un importante deficit corrente, per rispettare i loro impegni in materia di debito, dovranno liberare un giorno o l’altro gli eccedenti che sono oggi incapaci di ottenere, suscitando una contrazione della domanda interna equivalente a una recessione profonda e durevole, soprattutto quando le loro capacità di esportazione si riducono a causa dell’indebolimento della loro competitività. In realtà, ci sono fondate ragioni per pensare che le centinaia di miliardi di dollari o di euro create ex nihilo dalle banche centrali genereranno solo nuove “bolle”, ancora più mostruosamente nocive delle precedenti. È allora molto grande il rischio che si creino le condizioni non per una nuova crescita, ma per un’iperinflazione, che verrà ritenuta in grado di cancellare il debito, ma che, in un clima di depressione generalizzata, sfocerà in effetti nella dichiarazione di insolvibilità di numerosi Stati, nell’esplosione mondiale della disoccupazione, nel possibile crollo brutale dell’insieme dei sistemi pensionistici per capitalizzazione (i celebri “fondi pensione”) e soprattutto – quando gli Stati Uniti saranno obbligati a monetizzare i loro colossali debiti, perché l’estero non vorrà più finanziarli come ha fatto finora – nel crollo definitivo del dollaro. In definitiva, quella che oggi conosciamo è una crisi non soltanto finanziaria e bancaria, e nemmeno semplicemente economica, ma anche sistemica del regime di accumulazione, tipico dell’attuale fase del capitalismo, che segna ugualmente il punto culminante di quella che si potrebbe definire da un punto di vista filosofico-storico la “dialettica dell’avere”. ***** Da questa crisi finanziaria mondiale, che è visibilmente lungi dall’essere al termine, è possibile trarre almeno tre insegnamenti. Il primo, e immediatamente evidente, è una flagrante smentita della tesi liberale ampiamente esposta da Mandeville nella sua Favola delle api, secondo la quale i «vizi privati» sarebbero sinonimi di virtù pubblica: i comportamenti egoistici individuali contribuirebbero al benes-

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~ sere collettivo perché, cercando di massimizzare il proprio interesse, gli agenti economici libererebbero una ricchezza globale, di cui finirebbe per beneficiare l’intera società. Gli interessi dei “commercianti” si confonderebbero con la felicità di tutti. Ora, la deregolamentazione dell’economia, a partire dagli anni Reagan-Thatcher, dimostra, al contrario, che la rapacità trasformata in legge generale porta, in realtà, all’arricchimento di pochi e all’impoverimento della maggioranza. Economia interamente lasciata a se stessa, speculazione sfrenata, ricerca di un plusvalore istantaneo, frenesia dell’indebitamento, “bolle” che esplodono in serie, rivendita accelerata dei prodotti titolarizzati; tutto questo ha portato un unico risultato: una «catastrofe sociale e umana di prima grandezza» (Jacques Julliard). La seconda lezione si riferisce alla “mano invisibile”, che secondo i teorici liberali permetterebbe non solo all’offerta e alla domanda (solvibile) di aggiustarsi miracolosamente, ma anche al capitalismo di trionfare naturalmente sulle sue crisi, dato che il sistema di mercato è al contempo autoregolatore e autoregolato. Recentemente, si è giunti persino a sostenere che «la crisi è la prova che il mercato si regola»! Il postulato è quello di una concezione normativa della vita sociale basata sul lasciar fare integrale e sull’autosufficienza di un mercato concepito come una potenza morale che ha sempre ragione, ma, in fatto di autoregolazione e di “mano invisibile”, è alla visibile mano dello Stato che le grandi società di assicurazione e le banche minacciate di fallimento si sono rivolte non appena è scoppiata la crisi. Quello stesso Stato, di cui si diceva che gli interventi in materia economica e finanziaria non potevano che nuocere al “libero gioco” della concorrenza, ma delle cui elargizioni si era inopinatamente molto contenti di potere approfittare. È lo Stato che è venuto in soccorso dei responsabili della crisi iniettando liquidità per miliardi in circuiti in pericolo («Salvate le banche!») di cui si “socializzavano” così le perdite. Dopodiché, si può anche continuare a sostenere che il capitalismo risolve da solo le sue crisi periodiche o, addirittura, che il liberalismo «non è la causa, ma la soluzione alla crisi del capitalismo mondializzato» (Nicolas Baverez). La crisi, in realtà, dimostra che il pianeta finanziario non è in grado di

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~ Sull’Orlo del Baratro ~ autoregolarsi e che la sua capacità di rimbalzo è dovuta innanzitutto a massicce iniezioni di fondi pubblici, ossia all’intervento puntuale di una sfera statale, di cui i liberali sono i primi a sottolineare il fatto che funziona all’inverso rispetto all’azione spontanea dei mercati. Infine, la cosa sorprendente nella crisi attuale è che, sebbene tutti ripetano che il capitalismo viene ciclicamente colpito da crisi, nessuno (o quasi) sembra mai essere capace di prevederne una. Eppure l’economia pretende di essere una scienza, e per di più una scienza i cui principi permetterebbero di eliminare il rischio e di assicurare una crescita lineare permanente. Una scienza esatta «misura e calcola, per prevedere» (Bergson). Perché gli economisti della corrente dominante non riescono mai né a prevedere le crisi, né a indicare i mezzi per porvi rimedio? Perché la tesi di un soggetto sociale riducibile all’Homo œconomicus lascia perlomeno a desiderare. La realtà sociale non si fa rinchiudere in un’equazione, perché l’uomo non è né un agente fondamentalmente razionale che cerca sempre di massimizzare il suo interesse, né soltanto un produttore-consumatore. Di conseguenza, è impossibile isolare un “oggetto economico puro”, distinto dai fatti umani e sociali ai quali è ineluttabilmente associato. L’economia liberale, neoclassica, afferma che l’uomo è interamente calcolabile. La crisi attuale fornisce la prova del fallimento di questa pretesa alla “trasparenza”. La storia, in realtà, è imprevedibile. In essa abbondano tanto le necessità quanto i casi, i paradossi, le incertezze, le eterotelie e le alee. Il mondo dell’interconnessione universale, della liquidità perfetta, che permette una circolazione totalmente “libera” del capitale, non è altro che un sogno. Non si sfugge alla “opacità”, a cominciare da quella dei mercati finanziari. La crescente matematizzazione della teoria economica, cui assistiamo da vent’anni, soprattutto nell’ambito del calcolo dei rischi, fornisce, a questo riguardo, solo un’apparenza di scientificità. La formalizzazione matematica fa guadagnare in eleganza all’economia ciò che le fa perdere in realismo. Essa induce soprattutto a trascurare tutti i fattori impossibili da quantificare, a cominciare proprio dalla nozione di rischio, che dipende innanzitutto dal senso che si dà agli avvenimenti.

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~ Alle origini della crisi finanziaria ~ Le cause immediate della crisi – la pressione concorrenziale mondiale nata dalla globalizzazione, che ha generalizzato il modello di un capitalismo basato sulla deflazione salariale; la ripartizione dal valore aggiunto, a scapito dei salariati; il calo della domanda e la sua stimolazione artificiale attraverso il credito; l’ascesa dei mercati finanziari e l’aumento dell’esigenza di redditività del capitale – non debbono creare illusioni. La crisi attuale non è un incidente di percorso. Non è una crisi tra le altre già sopravvenute nella storia del capitalismo, ma una crisi sistemica del regime di accumulazione e di sovraccumulazione, ossia del capitalismo stesso, di un capitalismo che domina non più soltanto formalmente, ma realmente la società globale. Da questo punto di vista, non serve a niente denunciare gli eccessi, le “derive” o le disfunzioni di un sistema, che è esso stesso intrinsecamente un eccesso. La Forma-Capitale è destinata alla perpetua accelerazione del proprio movimento, ossia all’aggravamento degli squilibri. L’eterno problema del capitalismo è quello di trovare sempre più cose da vendere a uomini che hanno sempre meno mezzi per acquistare. Antica maledizione della crematistica, ossia del denaro (ta cremata). L’idea fondamentale da conservare è che il capitalismo lasciato a se stesso non può che auto-distruggersi, non può che essere minato dalle proprie contraddizioni interne, derivanti dal suo principio di illimitatezza mediante accumulazione, e dunque dalla propria dinamica: il movimento del capitale raggiunge il suo limite quando non riesce più a fare sistema, ossia quando il fare del suo mondo non riesce più a riprodurre il mondo del suo fare. È una magra consolazione per coloro che preferiscono credere che sarebbe meglio trionfarne combattendolo frontalmente? Forse. È un fatto, però, che tutto ciò che esiste muore di ciò che l’ha fatto nascere. Lo stesso avviene per tutti i sistemi che generano l’alienazione: quello che in un dato momento li fa vivere, e permette loro di perpetuarsi, crea anche le condizioni per la loro scomparsa. L’articolo di fede oggi dominante è che il capitalismo è destinato alla vita eterna. Anche se non si può giudicare sulla base delle impazienze individuali, la verità è che la “demonìa dell’avere”, l’economia politica del solo profitto, anche se cerca di eternare il suo percorso, alla fine non sfuggirà al suo destino.

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Indice Nota dell’editore: Il fallimento del sistema denaro: una opportunità?.................... 5 Prefazione: Il futuro è arrivato e il modello economico è giunto al capolinea..... 10 Introduzione..............................................................................................................12 Capitolo 1: Il denaro ................................................................................................ 21 Capitolo 2: Alle origini della crisi finanziaria .......................................................... 24 Capitolo 3: Il dollaro al centro della crisi ................................................................38 Capitolo 4: Libero scambio e protezionismo ......................................................... 47 Capitolo 5: Morte a credito .....................................................................................64 Capitolo 6: Debito pubblico: come gli Stati sono diventati prigionieri delle banche ............................................................................................67 Capitolo 7: Bisogna fare dell’euro una moneta comune ......................................84 Capitolo 8: Classi medie e classi popolari: una politica della miseria ......................90 Capitolo 9: L’immigrazione, esercito di riserva del capitale............................... 115 Capitolo 10: Instaurare un reddito di cittadinanza? .......................................... 122 Postfazione: Di fronte alla Forma-Capitale ........................................................ 143 Note.........................................................................................................................173

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