CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA
CENTRO INTERNAZIONALE ANTINOO PER L’ARTE
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ELOGIO DEL NERO Marguerite Yourcenar, L’Opera al Nero la sua alchimia attraverso le arti
Roma, dicembre 2005
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ELOGIO DEL NERO Marguerite Yourcenar, L’Opera al Nero la sua alchimia attraverso le arti Roma, dicembre 2005
Comitato d’onore ANDREA MONDELLO FABRIZIO AUTIERI YVON BERNIER CARLO SAVINI Comitato scientifico GIOVANNA BONASEGALE CLAUDIO CRESCENTINI DOMINIQUE GABORET-GUISELIN GIULIANA GARDELLI RAFFAELE MAMBELLA Comitato promotore LUIGI ROMITI ANGELA NICOSIA LAURA MONACHESI MASSIMO DOMENICUCCI Catalogo a cura di CLAUDIO CRESCENTINI LAURA MONACHESI Sezioni mostre CLAUDIO CRESCENTINI (arte contemporanea) GIULIANA GARDELLI (ceramica) Traduzioni RITA JOSÈ SCANDALIATO Coordinamento redazionale DANIELA NONNIS CORRADO SABATO Coordinamento grafico ALFONSO ALLEGRINI Impaginazione VALENTINA CICILLETTI Fotografie CORRADO DE GRAZIA AUGUSTO SELVAGGI Organizzazione e ufficio stampa CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI ROMA CENTRO INTERNAZIONALE ANTINOO PER L’ARTE Stampa e fotolito TIPOGRAFICA ARTIGIANA - ROMA Prima e quarta di copertina EXPLICIT.it, Roma
UN PARTICOLARE E VIVO RINGRAZIAMENTO A MICHAEL E DORIS LAÚBSCHER ANTONIO E MIRELLA DE ASTIS PAOLO SALUZZI CENTRO DOCUMENTAZIONE MARGUERITE YOURCENAR - ROMA www.cdmyourcenar.it
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Sommario 7...
Introduzione FABRIZIO AUTIERI Segretario Generale Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura
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L’alchimia come metafora CARLO SAVINI Presidente del Centro Internazionale Antinoo per l’Arte
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Prefazione - I Taccuini di appunti de L’Opera al nero YVON BERNIER
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Avant-propos - Les Carnets de notes de l’OEuvre au noir YVON BERNIER
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Taccuini di appunti de L’Opera al Nero - estratti MARGUERITE YOURCENAR
21...
Carnets de notes de L’Oeuvre au Noir - extraits MARGUERITE YOURCENAR
30...
Marguerite Yourcenar e il cinema Intervista di DOMINIQUE GABORET-GUISELIN e JEAN-PIERRE EMERY a ANDRÉ DELVAUX
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Marguerite Yourcenar et le cinema Propos recueillis par DOMINIQUE GABORET-GUISELIN et JEAN-PIERRE EMERY a ANDRÉ DELVAUX
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Dalla magia alla scienza moderna nel ‘500 LINA LO GIUDICE SERGI
54...
L’Opera al Nero: immagini dalla pittura GIOVANNA BONASEGALE
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Della melancolia o di Saturno CLAUDIO CRESCENTINI
67...
Kiefer al nero: una scelta ed altro ancora FRANCA CALZAVACCA
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Introduzione all’alchimia RAFFAELE MAMBELLA
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L’incanto dell’opera di Placido Scandurra J. BALLET
146...
La ceramica fra magia, alchimia e raziocinio GIULIANA GARDELLI
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Metalli per l’alchimia GIULIANA GARDELLI
166...
10 EXEMPLA 10 -
Opus Niger versus Rubedo
CLAUDIO CRESCENTINI
187... 190...
BIOGRAFIE POESIA CARLA GUIDI
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Calligramme (réduit à 79%) composeé de devises hadrianiques dessiné et corrigé par M.Y. pour servir de base à l’avers de la médaille éditée par la Monnaie de Paris en 1978, œuvre de Madeleine-Pierre Querolle.
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Siamo al quarto evento che la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma dedica alla scrittrice Marguerite Yourcenar, della quale conserva un vasto archivio librario e documentario. La manifestazione dell’anno in corso rievoca “L’Opera al Nero”, ambientato a Bruges nel tardo Medio Evo, e una ricerca nelle arti che, ha consentito di realizzare una mostra ispirata all’alchimia ed ai misteri che da secoli affascinano l’uomo. La nostra istituzione che da sempre coniuga il commercio con le arti spera che nel pathos (passione), come ha scritto Eschilo nell’Agamennone, si fonda il sapere dell”uomo.
FABRIZIO AUTIERI Segretario Generale Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura
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L’alchimia come metafora CARLO SAVINI
Forse, dopo il suo capolavoro “Memorie di Adriano”, l’opera più impor-
Presidente del Centro Internazionale Antinoo per l’Arte
tante di Marguerite Yourcenar è “L’Opera al Nero” per la ricchezza di personaggi che contornano Zenon il vero protagonista, di eventi, di situazioni, di ideologie e di eresie vere e presunte, di ambientazioni geografiche in vari luoghi d’Europa, di ideali o pregiudizi in un tempo di rinnovamento umanistico rinascimentale ancora carico di retaggi medioevali. L’elemento focale del romanzo è senz’altro la figura di Zenon, dalla sua nascita nel 1510 alla sua giovinezza, dalla sua maturazione religiosa variegata fra aspirazioni e dubbi alla sua vita turbolenta, ai suoi viaggi, dai suoi studi teologici e medici ai suoi contatti con il mondo dell’alchimia, dalle sue esperienze carcerarie alla sua malattia e morte. Tutto questo in un continuo intersecarsi con altre figure piene di variegate esperienze, ciascuna delle quali appare come una serie di romanzi nel romanzo. Come sempre, pur nella fantasia inventiva ed in parte reale dei personaggi stessi, Marguerite Yourcenar dimostra una acuta indagine storica ed interpretativa del tempo che fa da sfondo alla narrazione. Ma ciò che appare di particolare importanza è il richiamo all’alchimia che pervade il romanzo stesso; una alchimia che in quel periodo ha molte connotazioni ed equivoci, intesa come scienza e utopia, ricerca della verità e conquista del potere sulle cose, aspirazione al dominio della materia e della vita. In questo c’è tanta attualità nella ricerca scientifica, chimica, medica e genetica di oggi. Tuttavia, ai tempi di Zenon veniva interpretata, in molti casi, anche come negromanzia e soprattutto eresia, l’eresia del “peccato originale” biblico, ossia la superbia senza limiti della conoscenza e delle sue applicazioni in bene e in male. È l’alchimia della materia e della vita, passata e moderna, dietro la quale si cela il bisogno istintivo dell’essere umano di conoscere l’essenza delle cose, il dominio di essere anche per capire la natura umana stessa, il senso dell’esi-stenza, le leggi che regolano il cosmo. Peccato originale ed attuale quando ci si pone al posto del Creatore e si usa la conoscenza acquisita senza limiti etici. Un bisogno umano che influisce profondamente nella psicologia individuale e collettiva, nelle scelte e nei comportamenti, sul discernimento dell’essere intelligente fra bene e male. La scrittrice sembra, ne “L’Opera al Nero”, usare i riferimenti all’alchimia e alla personalità di Zenon come metafora che unisce passato e presente, sembra, nella sostanza conclusiva del testo, aver letto ciò che ha scritto il grande filosofo, matematico e scienziato francese Blaise Pascal: “gli uomi-
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ni alla fine si trovano sconfitti da qualcosa più grande di loro”.
Il Centro di Documentazione “Marguerite Yourcenar” ed il Centro Internazionale Antinoo per l’Arte, non sono soltanto promotori di raccolta documentativa e di manifestazioni artistiche e culturali - che accompagneranno anche questo nostro volume - ma anche fautori di ricerca, approfondimento conoscitivo ed interpretativo della vasta produzione letteraria, saggistica, drammaturgica ed in ultima analisi anche psicologica e filosofica della Yourcenar. In tale contesto prende forma e motivazione il presente libro arricchito, oltre che da preziose immagini, dai testi di Yvon Bernier, Giovanna Bonasegale, Franca Calzavacca, Claudio Crescentini, Dominique Gaboret-Guiselin, Giuliana Gardelli, Lina Lo Giudice Sergi e Raffaele Mambella, che ringraziamo per il loro competente e specialistico contributo non secondarizzando per altro il ruolo di sostegno offertoci anche in questa occasione dalla Camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato di Roma. Marguerite Yourcenar non finisce mai di stupire quando non soltanto si leggono i suoi testi, ma ancor più quando si analizzano nei risvolti dei personaggi, dei tempi storici così puntualmente descritti, nelle metafore che la scrittrice usa; in questo caso l’Alchimia. Se siamo riusciti a contribuire in questa ottica di lettura de “L’Opera al Nero”, avremo compiuto l’intento che da sempre ci proponiamo.
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Prefazione YVON BERNIER
I TACCUINI DI APPUNTI DE L’OPERA AL NERO
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Ho ricavato questi “Taccuini” dagli Appunti di composizione de L’Opera al nero che Marguerite Yourcenar mi aveva affidato nel corso dell’estate 1984 affinchè ne presentassi una analisi descrittiva al primo colloquio di Tours dedicato alla sua opera e tenutosi a maggio dell’anno seguente. Come altre persone che ebbero l’opportunità di sfogliare questo manoscritto in occasione di una visita a “Petite Plaisance”, avevo notato che sul retro delle sue pagine generalmente dattilografate – ne conta circa duecento – si trovavano degli appunti manoscritti a partire dai quali si poteva pensare di stendere dei “Taccuini” analoghi a quelli delle Memorie di Adriano e di Elettra o la Caduta delle maschere. La scrittrice ne era, certo, consapevole ma, quando le chiesi perché non si adoperava a prepararli in vista di una pubblicazione, mi rispose che non aveva semplicemente tempo da dedicare a questo lavoro. Fu allora che le offrii di farmi carico di codesto compito come lo avevo appena fatto per I Doni di Alcippe, che furono pubblicati quell’autunno, ma la cui pubblicazione aveva tardato per lo stesso motivo. Qualche mese più tardi, in ottobre, le sottoponevo un primo testo di quarantacinque pagine. Esso raggruppava non solo gli appunti manoscritti ma anche altri passi tratti dagli appunti dattilografati che, nello spirito, potevano esser loro assimilati. L’iniziativa richiedava una certa audacia da parte mia e mi aspettavo che Marguerite Yourcenar la disapprovasse. Non andò così. Di fatto, inizialmente non operò nessun taglio, limitandosi a modificare la prima frase del testo e una decina di altre frasi qua e là, a sostituire una ventina di parole e a rinviare alla fine cinque pagine che non riteneva fossero al posto giusto all’inizio del testo. Nel maggio 1985, nel corso di un’altra seduta di lavoro sulla seconda versione, decise, questa volta, di eliminare otto pagine che trovava troppo didattiche nel tono. In occasione di quella seconda revisione, venne soppresso un lungo parallelo tra Memorie di Adriano e L’Opera al nero. Per il resto, non apportò alcun cambiamento al testo che, una volta eliminate quelle pagine , iniziava a prendere una forma definitiva. Come spiegare, allora, che la pubblicazione dei “Taccuini” sia stata a tal punto differita? Bisogna, innanzitutto, ricordarsi che la fine dell’anno 1985, ed anche una parte dell’anno seguente, si rivelò particolarmente difficile per Marguerite Yourcenar per gravi problemi di salute. Fu soltanto nel maggio 1987, mentre studiavamo la possibilità di rifare la “Cronologia” della Pléiade, che le riparlai dei “Taccuini”. Mi rispose che, avendoli lei riletti, riteneva che fosse assolutamente necessario “ammorbidirne” alcuni passaggi prima di darli alla stampa. Purtroppo, non avrebbe avuto il tempo di apportare al testo quelle ultime correzioni. Come per il dossier de L’Opera al nero, i cui brani furono assembrati dopo la fine del romanzo, la maggior parte degli appunti che compongono questi “Taccuini” sono stati redatti tra il 1965 ed il 1968, cioè nel periodo in cui la scrittrice aspettava la definizione della controversia tra Plon e Gallimard. Ma ve ne sono di posteriori, a volte datati, come potremo constatare. Comunque, leggendo queste pagine, è essenziale tenere sempre presente che Marguerite Yourcenar aveva intenzione di modificarle in più punti perché non le trovava ancora di sua intera soddisfazione. Ciononostante, bisogna ora accettare i “Taccuini” di appunti de L’Opera al Nero così come sono.
Avant-propos LES CARNETS DE NOTES DE L’OEUVRE AU NOIR Ces “Carnets” ont été tirés par mes soins des Notes de composition de l’OEuvre au noir que Marguerite Yourcenar m’avait confiées au cours de l’été 1984 afin que j’en présente une analyse descriptive au premier colloque de Tours consacré à son oeuvre et tenu en mai de l’année suivante. Comme d’autres personnes à qui il fut donné de feuilleter ce manuscrit à la faveur d’une visite à “Petite Plaisance”, j’avais remarqué qu’au verso de ses pages généralement dactylographiées – il en compte quelque deux cents – figuraient des notes manuscrites à partir desquelles on pouvait envisager d’établir des “Carnets” analogues à ceux des Mémoires d’Hadrien et d’Électre ou la Chute des masques. L’écrivain en était évidemment conscient mais, quand je lui demandai pourquoi il ne s’employait pas à les préparer en vue d’une publication, il me répondit n’avoir tout simplement pas de temps à consacrer à ce travail. C’est alors que je lui offris de me charger de la besogne comme je venais de le faire pour les Charités d’Alcippe, qui parurent cet automne-là, mais dont la publication avait tardé pour la même raison. Quelques mois plus tard, en octobre, je lui soumettais un premier texte de quarante-cinq pages. Il regroupait non seulement les notes manuscrites ellesmêmes mais aussi d’autres passages extraits des Notes dactylographiées qui, par l’esprit, pouvaient leur être assimilés. L’initiative n’allait pas sans une certaine audace de ma part et je m’attendais à ce que Marguerite Yourcenar la désavouât. Il n’en fut rien. En fait, elle n’effectua d’abord aucune coupure, se contentant de modifier la première phrase du texte ainsi qu’une dizaine d’autres ici et là, de remplacer une vingtaine de mots, et de renvoyer à la fin cinq pages qu’elle n’estimait pas à leur place au début. En mai 1985, à l’occasion d’une autre séance de travail sur la deuxième version, elle décida cette fois de retirer huit pages qu'elle trouvait trop didactiques de ton. Pour l’essentiel, c’est un long parallèle entre Mémoires d’Hadrien et l’OEuvre au noir, qui fit les frais de cette seconde révision. Autrement, elle n’apporta pas le moindre changement au texte qui, une fois amputé des pages supprimées, commençait à prendre un tour définitif. Comment expliquer, dès lors, que la publication des “Carnets” ait été à ce point différée? Tout d’abord, il faut se rappeler que la fin de l’année 1985, de même qu’une partie de celle qui suivit, s’avéra particulièrement difficile pour Marguerite Yourcenar en raison d’ennuis graves de santé. Ce n’est qu’en mai 1987, au moment où nous étudiions la possibilité de refaire la “Chronologie” de la Pléiade, que je lui reparlai des “Carnets”. Elle me répondit que, les ayant relus, elle croyait qu’il fallait absolument en “déraidir” certains passages avant de les donner à paraître. Malheureusement, elle ne devait pas avoir le temps d’apporter au texte ces ultimes corrections. Tout comme le dossier de l’OEuvre au noir, dont les pièces furent rassemblées après l’achèvement du roman, la plupart des notes composant ces “Carnets” ont été rédigées entre 1965 et 1968, c’est-à-dire pendant que l’écrivain attendait le règlement du litige entre Plon et Gallimard. Mais il s’en trouve aussi de postérieures, parfois datées, ainsi qu’on le remarquera. En tout état de cause, ce qui importe au premier chef, à la lecture de ces pages, c’est de toujours garder à l’esprit que Marguerite Yourcenar comptait les modifier en plus d’un endroit parce qu’elle ne les trouvait pas encore à son entière satisfaction. Néanmoins, force nous est à présent d’accepter les “Carnets de notes de l’OEuvre au noir” tels qu’ils existent.
YVON BERNIER
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Taccuini di appunti de L’Opera al Nero MARGUERITE YOURCENAR
ESTRATTI I Taccuini di appunti de L’Opera al Nero che leggeremo qui sotto sono inediti: conformemente alla volontà di Marguerite Yourcenar, essi verranno successivamente incorporati alle varie edizioni del suo romanzo. (Quest’ultimo aveva fatto ottenere all’autrice, nel 1968, il premio Femina assegnato per la prima volta all’unanimità.) La prima versione de L’Opera al nero, La Mort conduit l’attelage del 19231924, ritoccata nel 1934: testo così imperfetto, e soprattutto così scarno, così poco sviluppato e così debolmente motivato, in particolare per quanto riguarda Zénon e Nathanaël, che mi sembra oggi ammirevole che nonostante le tante lacune e le tante imperfezioni, un critico all’epoca abbia potuto riconoscere e dare un nome al tema di ogni parte della trilogia: la mente, il corpo, l’anima. Io stessa non ci avevo pensato. * L’anima, la mente, il corpo. Trilogia ammirevole, certo, e si pensa subito, con quel lungo fremito che lasciano dietro di sé le frasi dei poeti, all’ammirevole “Natale” di Rimbaud in Una stagione in inferno: “I Re della vita, i tre magi, il corpo, l’anima, la mente…” Sì. Ma quando ci accostiamo molto ad un personaggio, ci accorgiamo di quanto queste allegorie ben definite contraddicano la realtà. Il corpo, l’anima, e la mente, intrecciati; di più, forme diverse assunte da un’unica sostanza viva e senziente. C’è, sicuramente, tra i tre elementi, diversità di dosaggio all’interno di ogni essere, come esiste in ogni essere diversità di dosaggio tra le componenti del sesso. In Zénon domina la mente, ma la mente è in un certo qual modo attivata dallo slancio continuo e quasi furioso dell’anima, e non si svilupperebbe neanche senza le esperienze ed il controllo del corpo. * (Ciò non significa che né io né Zénon neghiamo l’anima. Ma l’anima è una realtà alla quale quasi nessuno forse è riuscito ad accedere.) * Più vado avanti negli anni, più questa follia che consiste nel rifare libri antichi mi appare una grande saggezza. Ogni scrittore porta in sé solo un certo numero di esseri. Piuttosto che rappresentare questi esseri con le sembianze di personaggi nuovi, che sarebbero solo personaggi già conosciuti chiamati con nomi diversi, ho preferito approfondire, sviluppare, nutrire questi esseri con i quali ero già abituata a vivere, imparare a conoscerli di più via via che conosco meglio la vita, perfezionare un mondo già mio. “Non ho mai capito che ci si sazi di un essere”, faccio dire ad Adriano parlando dei suoi amori. Non ho neanche mai creduto che mi possa saziare di un personaggio che avessi creato. Non smetto di guardarli vivere. Essi mi riserveranno delle sorprese fino alla fine dei miei giorni.
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* Adriano poteva fino ad un certo punto chinarsi fino a noi nelle sue speculazioni; noi potevamo, d’altra parte, per il tramite della saggezza antica che dipende da noi utilizzare ancora, avvicinarci ad Adriano. I personaggi de L’Opera al nero rispondono solo di se stessi, soli, contradditori, delimitati dalle loro accettazioni, e anche dai loro rifiuti, segnati dal loro tempo, ed a volte
anche da ciò per cui sfuggono al loro tempo, a costo qualche volta di ferirsi contro le pareti entro le quali sono prigionieri. Cosciente in Zénon, che si serve per uscire dal suo tempo dei mezzi dialettici che gli ha procurato, tale movimento di evasione è non cosciente in Anna, è legato alla vita profonda del corpo; in Nathanaël, ho tentato di mostrare quella strana libertà dell’anima, che non ha bisogno delle parole e delle rappresentazioni. L’Opera al nero è un tentativo di mostrare questa strana libertà che si sviluppa a poco a poco in noi, quando non le rifiutiamo l’esistenza, e che permette di sfuggire a certe tirannie e di essere qualunque siano le circostanze noi stessi, ma feriti, deformati, quasi sfigurati dalla consuetudine e dalla necessità. * Bisogna sperimentare la dissolutezza per superare la dissolutezza, bisogna sperimentare l’amore – nel senso convenzionale del termine – per giudicare l’amore; bisogna sperimentare la storia per liberarsi dalle trappole della storia – e cioè da quelle della società umana stessa di cui la storia non è che una serie di archivi. Sfociare in quel tempo dove l’uomo non c’è. * Nel 1971, ho ripercorso nelle strade di Bruges ogni orma di Zénon. In che modo, ad esempio, variava il proprio itinerario per recarsi alla fucina, per curarvi Han. A che punto si trovava la locanda dove prendeva i pasti. A quale angolo di strada ha visto passare Idelette prigioniera. Passeggiate del mattino, un intero mese di aprile, qualche volta al sole, più spesso sotto la bruma o la pioggia sottile. E con me Valentine la bella, la dolce, la bionda, colei che abbaiava con forza contro i cavalli ( e glielo impedivo), colei che correva allegra nel cortile del Gruuthuse, colei che faceva grandi salti di gioia nel giardino del Béguinage tra le giunchiglie – e adesso (sei mesi più tardi, 3 ottobre 1971) morta come Idelette, come Zénon, come Hilzonde. E nessuno mi capirà se dico che non me ne consolerò mai, come non mi consolo di una morte umana. * Dove, quando, e come? Ovunque sia, a che data e poco importa come, sono certa di avere al mio capezzale un medico e un prete – Zénon e il Priore dei Cordiglieri. * Fu nel giugno del 1964 a Salisburgo, mentre assistevo (inginocchiata sul pavimento) alla messa nella chiesa dei Francescani che ho visto per la prima volta delinearsi tutto intero il personaggio del Priore dei Cordiglieri. Ne avevo fino a quel momento intravisto soltanto i contorni (le mansioni del Priore in “Il ritorno a Bruges”). * L’Opera al nero iniziata (con un altro titolo) all’epoca in cui avevo l’età del giovane Zénon, del giovane Henri-Maximilien dell’inizio del libro. Terminata quando ho un po’ più dell’età che hanno Zénon e Henri-Maximilien quando incappano nella loro morte. * Ripetizioni (mantra). All’epoca in cui scrivevo la seconda e la terza parte di questo libro, mi è capitato spesso di ripetere silenziosamente o a bassa voce
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a me stessa: “Zénon, Zénon, Zénon, Zénon, Zénon, Zénon…” Venti volte, cento volte, di più. E di sentire che a furia di dire questo nome si coagulava un po’ più di realtà. Non mi stupisco delle pratiche mistiche tramite le quali i fedeli, a furia di ripetere migliaia di volte il suo nome, chiamano Dio, o, nella magia popolare, degli amanti che “chiamano” l’oggetto che hanno perduto. * Ogni conversazione è un modo di arricchire la figura del personaggio. * La visita a Münster del 1956 – l’autunno di Suez – quasi altrettanto scura che l’immagine stessa del passato. * Uno dei passi riguardanti il bambino delle notti bianche è tratto da un poema di Teofilo. * La mia vita immobile dura da circa dieci anni. (1978) * Per certi aspetti, “prigione” piuttosto che “vita immobile” poiché non dipende più da me varcare la soglia della porta aperta. * L’ossessione della malattia osservata su altri. * Zénon e Henri-Maximilien muoiono tutti e due, me ne accorgo al momento della rilettura, in febbraio. Ho invano cercato di cambiare mese per quest’ultimo. La scena era percepita come una scena di fine inverno italiano. * Zénon e Henri-Maximilien (me ne accorgo anche in questo caso al momento della rilettura) ci lasciano entrambi con un rifiuto: Henri rifiuta gli onori e si impantana nella sua vita di capitano povero, Zénon rifiuta la ritrattazione che gli salverebbe la vita. Entrambi hanno impiegato molto tempo prima di accorgersi che il rifiuto andava fatto. * Le numerose ragioni pretestuose – o se preferiamo motivazioni intermedie – che Zénon si dà prima di trovarsi faccia a faccia con Hic Zeno, poi Zeno in aeternum. * Allo stesso modo che pensiamo in linguaggio articolato, Zénon pensa in latino del Medio Evo. Bisogna, ogni tanto, dare il la.
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* Queste “gemme di cui ognuna simboleggia un momento della Grande Opera” in una delle prime battute di Zénon è una menzogna. Non esistono simili gemme. Tra queste “gemme” mantenute nel 1956 e fino al 1967 dalla versione del 1924, e gli attuali “metalli”, intercorrono dieci anni di letture alchemiche. Nella versione maldestra ed ancora ingenua del 1924 pubblicata nel
1934, Zénon sembra ancora un filosofo liberale che ha sempre la verità materialista e logica dalla sua parte. Concezione simile a quella che i radicali degli anni 1880 si facevano di Giordano Bruno, e falsa anch’essa. Il principale cambiamento si è prodotto nel corso di una serata da Alf, verso il 1958: durante l’ascolto di una serie di opere di Bach, ho interamente composto mentalmente, con circa sei o sette anni di anticipo sulla composizione reale, la conversazione tra Zénon ed il canonico qualche ora prima della morte di Zénon. Una volta uscita da quella serata, finita la musica, ho dimenticato completamente quel dialogo. Ma sapevo che lo avrei ritrovato un giorno. * Il paragrafo, all’inizio del capitolo II, che descrive il padre di Zénon, era uno dei peggiori pezzi conservati del 1924. Il “romanzo storico” capito da uno studente di storia. In simile caso, c’è verità “storica” solo strettamente specifica. “Si era dilettato di interminabili conversazioni con Leonardo da Vinci, allora ingegnere di Cesare” è molto sciocco; “si era dilettato di parlare di cavalli e macchine da guerra con Leonardo da Vinci, allora ingegnere di Cesare”, dà il tono giusto. Si tratta sempre di mettere a fuoco le lenti dei binocoli di cui ci si serve per vedere da vicino ciò che è lontano. * Quando G., traduttrice, mi chiede di spiegare perché tale personaggio a tale momento fa tale gesto, esito e cerco una ragione. Io l’ho visto fare tale gesto. * Quante volte, di notte, non potendo dormire, ho avuto l’impressione di porgere la mano a Zénon mentre si rilasciava, coricato sullo stesso letto. Conosco bene quella mano bruna tendente al grigio, fortissima, lunga, con le dita a spatola, poco carnose, con le unghie abbastanza pallide e grandi, tagliate cortissime. Il polso ossuto, il palmo abbastanza incavato e solcato da numerose linee. Ne conosco la pressione, di quella mano, il suo grado esatto di calore. (Non ho mai preso la mano di Adriano.) Questo gesto fisico di porgere la mano a quest’uomo inventato, l’ho fatto più d’una volta. Aggiungiamo subito per gli imbecilli i quali leggessero quest’appunto che, se mi è successo spesso di guardare i miei personaggi fare l’amore (e talvolta con un certo piacere carnale da parte mia), non mi è mai successo di immaginare che mi unissi a loro. Non si fa l’amore con una parte di sé stesso. * Presenza più distante, ma infinitamente amichevole, del Priore dei Cordiglieri. * Nulla di più segreto né di più difficile da raggiungere che la nozione autentica di un Dio personale (o personalizzato) che si estende un po’ ovunque sotto le sue forme stereotipate. (L’Isvara degli yoghin induisti). Zénon ci riesce (o perlomeno riesce ad intravederlo come ipotesi) due o tre ore prima della sua morte. * Il lettore intelligente capirà senza che glielo debba dire a chi Zénon attribuisce i passi nel corridoio nel momento in cui la sua agonia finisce: “Ci ritrovavamo al di là delle contraddizioni.”
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* Vi è del temperamento di mio padre nel temperamento di Henri-Maximilien. * Fintanto che un essere inventato non ci interessa quanto noi stessi, egli non è nulla. * Disincarnarsi per reincarnarsi in qualcun altro. E usare per fare ciò le proprie ossa, la propria carne ed il proprio sangue, e le migliaia di immagini registrate da una materia grigia. * Tentare di includere, con il minor numero di cambiamenti possibile, gli spaventosi verbali delle sedute di tortura subite da Campanella, e firmate da un certo Precioso, notaio e cancelliere della corte ecclesiastica di Napoli, con i loro dettagli da vomito. Ma queste indegnità - che anche oggi sono banali – fornirebbero probabilmente al lettore solo una scena a effetto in più, e ciò farebbe pensare che io abbia intrapreso un romanzo anticlericale. L’atrocità non è mai più orrenda che mostrata nei suoi momenti più moderati – usando delle cautele. Un prelato letterato e cortese ed un vecchio prete ansioso di salvare il suo allievo finiscono comunque col lasciare un uomo condannato al rogo, e col trovare normale che lo sia. Stessa osservazione per la tortura. E’ più atroce, in un senso, che Zénon la eviti, attraverso una protezione particolare, che se la sopportasse, com’era l’usanza. * Annotazioni: un unico (ma odioso) crimine protestante contro un intellettuale: Serveto (ma Ochin sembra essere sfuggito per un pelo). Meno esecuzioni di quel che che si creda, se si eliminano le condanne politiche come quelle di More o Cranmer (ma questa lista esclude l’Inghilterra e la Scozia). Tuttavia terrore ed incertezza ben visibili. Gli eretici luterani e calvinisti corrono più rischi degli scettici e degli atei. Nessuna condanna per mal costume che colpisca degli intellettuali. Vinci era stato denunciato e indagato, ma niente di più. Michelangelo attaccato da ricattatori come l’Aretino, ma niente di più. Tuttavia, Teofilo è sfuggito solo per un pelo; la presunzione di reato sembra aver avuto una parte nel processo di Dolet e calunniosamente, così sembra, in quello di Vanini. Da notare anche attacchi su questo punto contro Paracelso e (nella sua prima giovinezza) Campanella. Per Campanella, le prove nettissime di reato non hanno avuto alcun peso negli ultimi tre processi. Nessuna condanna di intellettuali per magia. *
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Adriano muore a sessantadue anni e sei mesi, ma la sua malattia si manifesta due anni e mezzo prima. Cova in lui sin dall’anno 130. Dunque, sei anni di malessere più o meno costante, più due di sofferenze impazientemente sopportate, che sfociano in una morte abbastanza serena. (Alla quale per altro non assistiamo, poiché le Memorie si chiudono naturalmente qualche giorno prima di questa morte.) Zénon muore a cinquantanove anni meno sei giorni. Salute vigorosa fino alla fine. Il temperamento è asciutto e nervoso; quello di Adriano sanguigno e linfatico allo stesso tempo. Un non so che di gonfio per la malattia nei lineamenti, abbastanza presto nel tempo.
Entrambi giudiziosi, capaci del freddo colpo d’occhio. * Interesse di Adriano per la medicina. * Adriano a volte tentato dall’occultismo. Paragonato a Zénon, egli non è tuttavia che un “ricco dilettante”. * Due esseri profondamente diversi uno dall’altro: uno ricostruito su frammenti di realtà, l’altro immaginario, nutrito da una pasta di realtà. Le due linee di forza, una mossa dalla realtà e risalente verso l’immaginario, l’altra mossa dall’immaginario e affondante nella realtà, si incrociano. Il punto centrale è esattamente il sentimento dell’ESSERE. * Astrologicamente: Adriano Acquario, il segno dell’abbondanza e del dono. Zénon Pesci, il segno segreto e freddo, il passaggio attraverso l’abisso. Il cielo di Adriano: Saturno – Venere – Giove. Quello di Zénon: Saturno – Mercurio. * Entrambi sensualmente attratti, quasi esclusivamente, dal corpo e dal temperamento maschili. Entrambi capaci di relazioni ed amicizie femminili. Adriano si dedica all’amore più di Zénon. * “L’omosessualità è una visione della vita”, mi diceva quarant’anni fa Edmond Jaloux a proposito di Alexis, e l’osservazione era tanto più sorprendente che proveniva, credo, da un uomo dal comportamento totalmente eterosessuale. Nonostante Alexis, ebbi peraltro qualche difficoltà a capire ciò che intendeva dire, un po’ come Zénon che segue a scoppio ritardato le parole di Don Blas. * In un certo senso, Sign Ulfsdatter è per Zénon la sua Plotina. Compagna, quasi sua pari e in cui si ha fiducia. Ma Zénon ha posseduto Sign. * La pederastia di Adriano ha un vocabolario e dei riti; essa si inserisce in una tradizione culturale: dissolutezza confessata del mondo romano, benchè biasimata come ogni vizio dai moralisti; lirismo dei poeti latini e dei poeti greci; infine tradizione filosofica puramente ellenica (e per nulla romana) alla quale Adriano il Fillelenico si ricollega molto consciamente. Se necessario, falsifica un po’ la propria realtà per farla rientrare in questi ambiti poetici ed eroici. Nulla di tutto ciò è segreto. * La sessualità di Zénon è senza vocaboli. Egli respinge con violenza le “routine” dell’amore femminile del suo tempo, la dissolutezza stile “fabliau”, alla buona, o il modello petrarchesco. D’altronde, i suoi gusti pederastici, per frequenti che fossero all’epoca e intorno a lui, sono ufficialmente fuori legge. Quei rapporti segreti e spesso sommari non hanno bisogno di parole. Essi tanto più segnano l’inconscio e la coscienza. Antinoo è per Adriano un amasio uffi-
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ciale, che ha per così dire una posizione sociale. Alei rimane un servitore. Le relazioni con Gerhart, François Rondelet o Fray Juan (e probabilmente Josse Cassel) non differiscono in nulla da ciò che sarebbero oggi relazioni analoghe. La paura del discredito sociale produce ancora quasi esattamente gli stessi effetti che un tempo la paura del rogo. Il quale rogo peraltro, per quanto spesso lo si accendesse, rimane all’epoca per la massa degli amanti un rischio eccezionale. E’ da credere che l’amante omosessuale del XVI secolo abbia temuto il fuoco come un Americano oggi con le stesse tendenze teme l’espulsione dal corpo diplomatico – e forse un po’ meno. * Rimane il fatto che per Zénon ogni sentimento viene eliminato da quell’assenza di espressione, o assume delle forme quasi invisibili. Solo i poeti (Shakespeare, Michelangelo), e solo i più grandi o i più audaci di loro, hanno potuto, all’epoca, esprimersi. In Vinci, al contrario, la costrizione dell’espressione si allarga a tutti i sentimenti umani. * Le meditazioni di Zénon ne “L’Abisso” sono in parte classiche meditazioni buddistiche (l’acqua, il fuoco, le ossa…). Nel caso di Zénon, le audacie “eraclitiane” del pensiero alchemico aprivano la via verso questa metafisica e questa psicologia diverse. A rigore, avrei potuto fare reinventare queste ultime da Zénon, allo stesso modo che Pascal reinventò la geometria di Euclide partendo da alcune premesse, ma un tale modo di procedere sarebbe stato troppo lento per un romanzo, e accresceva ancora i poteri intellettuali già considerevoli che attribuivo à Zénon. Ho preferito immaginarlo sottomesso a quell’ammirevole osmosi, che, di fatto, si produce quasi sempre tra due mondi estranei uno all’altro, e mostrare Zénon mentre prende contatto con l’Oriente grazie ad un musulmano eretico, egli stesso informato su alcuni metodi del pensiero induista, come lo avevo mostrato mentre prendeva contatto grazie al marrano Don Blas con il pensiero ebraico. * Il vegetarianismo e la profonda tenerezza per il mondo animale sono presenti in Leonardo, come tutti sanno. Si dimentica troppo spesso che la tenerezza, espressa in modo squisito, è presente anche in Montaigne. Ne avevo trovato molte tracce in d’Aubigné all’epoca in cui studiavo les Tragiques. * L’ardore di Zénon è da paragonare all’ardore di Giordano Bruno. E’ più asciutto. Giordano Bruno è innanzi tutto illuminato e poeta. * Campanella, che per certi versi è in ritardo sulla corrente del suo secolo (forse effetto dell’ambiente monacale e dell’Italia del Sud), si avvicina molto, dal punto di vista dell’argomentazione filosofica, al tono che avrei voluto attribuire a Zénon. Ma Zénon sarebbe stato incapace di calare il suo pensiero in una utopia qualunque. * 18
Bruno e Campanella profondamente poeti, Zénon per niente.
* Suicidio. Zénon si suicida, non per principio o per una particolare inclinazione, ma imprigionato tra un compromesso inaccettabile e una morte atroce ed inutilmente tale, fa ciò che faremmo tutti al suo posto, ciò che fece, ad esempio, la madre di K. Löwith minacciata di essere mandata a Dachau. (E nello stesso modo, tagliandosi le vene). Adriano, che si fa segnare sul petto il posto del cuore nel caso cadesse tra le mani dei suoi nemici, avrebbe fatto lo stesso, ed allo stesso modo “ad occhi aperti”. * Ma Adriano in punto di morte guarda verso il suo passato di uomo, e non verso quei grandi rumori e quelle grandi luci che già lo portano via. * Il suicidio. Zénon, Mishima, Montherlant (morto il 21 settembre 1972, 5 giorni fa – scrivo questo il martedì 26, 1972). Il corpo straziato, aperto, liberando l’anima. (Mishima morto nel novembre 1970. La sua ultima intervista, ne Le Figaro, credo, pubblicata dopo la sua morte, menzionava Memorie di Adriano.) * Zénon sull’estremo confine del pensiero dinamico e vitalistico e sul limitare del pensiero materialistico e meccanicistico di tipo moderno; noi, che attraverso un lungo cammino siamo tornati a concezioni mentali vicinissime a quelle di un Geber o di un Paracelso, con dietro di noi il mondo della scienza del XVIII e del XIX secolo, ci incontriamo con lui su quei confini. * Innsbruck è un periodo di crisi: ultimi trasalimentii dell’io. A Bruges, la conversione è quasi compiuta. * Personaggi visti dall’interno e dall’esterno. Il Priore è continuamente visto dall’esterno. Solo le sue parole rivelano l’interno. Differenze enormi tra l’interno e l’esterno in Zénon, persino senza alcun elemento di ipocrisia. Il capitolo “L’Abisso” deve rivelare l’essere interiore. (Stesso effetto in parte per il capitolo “Gli ozi estivi”.) Ne “La conversazione di Innsbruck”, l’interno si rivela attraverso le parole, ma di conseguenza i pensieri, anche se espressi senza alcun controllo, sono già formulati. Quando c’è riflessione data come tale in alcuni altri capitoli, è una riflessione nata dall’azione ed essa stessa in parte esterna. Nelle conversazioni con il Priore, le parole stesse vengono poste nell’ambito di riferimento del Priore anche quando Zénon contraddice costui, e non vediamo del personaggio che un aspetto, l’angolo di rifrazione e l’angolo di incidenza con il suo tempo. L’effetto curioso in un simile caso è che il genio cede il posto alla saggezza. * Straordinaria difficoltà di mostrare l’angoscia dell’abisso quando l’angoscia non è emozionale, ma metafisica. La maggior parte dei lettori rischia di pensare che non c’è qui di che preoccuparsi. E’ quel che succede d’altronde in parte a Pascal: la maggior parte dei lettori si sofferma sul Mistero di Gesù in
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cui regna l’emozione, o sulla parte argomentativa che piace alla loro mente disputativa. Ma si parla de “l’abisso” di Pascal come se si fosse prodotto di colpo un buco nella sua camera. L’argomento centrale non viene quasi mai affrontato. Altra difficoltà quasi insormontabile: presentare la visione mentale invece del concetto intellettuale, senza che il lettore creda che ci sia stata regressione piuttosto che progresso, in Francia soprattutto, dove il concetto intellettuale predomina ad esclusione di quasi ogni altra forma di pensiero. C’è nella visione mentale una lentezza, e quasi una immobilità che respinge coloro per i quali l’intelligenza è qualcosa di veloce, anche a costo della superficialità che ciò comporta. Gide ha toccato, per eccezione, qualcosa di profondo in I Nutrimenti terrestri, ed egli ha sicuramente pensato che si trattava solo di un paradosso, quando ha detto: “Il saggio è colui che si commuove per delle prugne.” Avere il coraggio di mostrare un personaggio assorto in una contemplazione estenuante e sacra delle prugne o di loro equivalenti. Mostrare quanto lentamente e irreversibilmente una mente si accorge della stranezza delle cose.
NOTA I “Taccuini di appunti de L’Opera al nero” sono stati pubblicati ne La Nouvelle Revue Française di settembre 1990, n° 452, pp. 40-53, e in quella di ottobre 1990, n° 453, pp. 54-67. La presentazione, firmata da Yvon BERNIER, è stata pubblicata nel primo di questi due numeri, pp. 38-39. Gli estratti riprodotti qui, inediti in lingua italiana, lo sono con il permes-so di Yannick Guillou, esecutore letterario della scrittrice, e delle Edizioni Gallimard.
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Carnets de notes de L’Oeuvre au Noir EXTRAITS
MARGUERITE YOURCENAR
Les Carnets de notes de l’Œuvre au noir qu’on lira ci-après sont inédits. Conformément à la volonté de Marguerite Yourcenar, ils seront par la suite incorporés aux diverses éditions de son roman. (Ce dernier avait mérité à l’auteur, en 1968, le prix Femina décerné pour la première fois à l’unanimité des voix.) La première version de l’OEuvre au noir: La Mort conduit l’attelage de 1923-1924, retouchée en 1934: texte si imparfait, et surtout si maigre, si peu développé et si vaguement motivé, particulièrement en ce qui concerne Zénon et Nathanaël, qu’il me paraît aujourd’hui admirable qu’en dépit de tant de lacunes et de tant de bavures, un critique à l’époque ait pu reconnaître et nommer le thème de chaque partie de la trilogie: l’esprit, le corps, l’âme. Je n’y avais pas pensé moi-même. * L’âme, l’esprit, le corps. Trilogie admirable, certes, et l’on pense aussitôt, avec ce long ébranlement que laissent derrière soit les phrases des poètes, à l’admirable “Noël” de Rimbaud dans Une saison en enfer: “Les Rois de la vie, les trois mages, le corps, l’âme, l’esprit…” Oui. Mais quand on s’approche de très près d’un personnage, on s’aperçoit à quel point ces allégories bien définies contredisent la réalité. Le corps, l’âme, et l’esprit, imbriqués; bien plus, formes différentes prises par une seule substance vivante et sentiente. Il y a, à coup sûr, entre les trois éléments, différence de dosage à l’intérieur de chaque être, comme il y a dans chaque être différence de dosage entre les components du sexe. L’esprit domine davantage chez Zénon, mais l’esprit est en quelque sorte activé par l’élan continu et presque furieux de l’âme, et ne se développerait pas non plus sans les expériences et le contrôle du corps. * (Ce qui ne veut pas dire que Zénon ni moi niions l’âme. Mais l’âme est une réalité à laquelle presque personne n’a peut-être encore accédé.) * Plus je vais, plus cette folie qui consiste à refaire des livres anciens me paraît une grande sagesse. Chaque écrivain ne porte en soi qu’un certain nombre d’êtres. Plutôt que de représenter ceux-ci sous les traits de personnages nouveaux, qui ne seraient guère que des personnages anciens prénommés autrement, j’ai mieux aimé approfondir, développer, nourrir ces êtres avec qui j’avais déjà l’habitude de vivre, apprendre à les mieux connaître à mesure que je connais mieux la vie, perfectionner un monde déjà mien. “Je n’ai jamais compris qu’on se rassasiât d’un être”, fais-je dire à Hadrien parlant de ses amours. Je n’ai jamais cru non plus que je pusse me rassasier d’un personnage que j’avais créé. Je n’ai pas fini de les regarder vivre. Ils me réserveront des surprises jusqu’à la fin de mes jours. * Hadrien pouvait jusqu’à un certain point dans ses spéculations s’incliner jusqu’à nous; nous, d’autre part, par la passerelle de la sagesse antique qu’il dépend de nous d’utiliser encore, nous pouvions nous approcher d’Hadrien. Les personnages de l’OEuvre au noir ne répondent que d’eux-mêmes, seuls, contradictoires, délimités par leurs acceptations, et aussi par leurs refus, mar-
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qués par leur temps, et parfois aussi par ce en quoi ils échappent à leur temps, quitte parfois à se meurtrir contre les parois dont ils sont prisonniers. Conscient chez Zénon, qui se sert pour sortir de son temps des moyens dialectiques qu’il lui a fournis, ce mouvement d’évasion est inconscient chez Anna, lié à la vie profonde du corps; chez Nathanaël, j’ai tenté de montrer cette étrange liberté qui est celle de l’âme, et qui se passe des mots et des représentations. L’OEuvre au noir est une tentative de montrer cette étrange liberté qui se développe peu à peu en nous, quand nous ne lui refusons pas l’existence, et qui permet d’échapper à certaines tyrannies et d’être quelles que soient les circonstances nous-mêmes, mais meurtris, déformés, presque défigurés par la coutume et la nécessité. * Il faut passer par la débauche pour sortir de la débauche, il faut passer par l’amour – au sens conventionnel du terme – pour juger l’amour; il faut passer par l’histoire pour se dégager des pièges de l’histoire – c’est-à-dire de ceux de la société humaine elle-même dont l’histoire n’est qu’une série d’archives. Déboucher sur ce temps où n’est pas l’homme. * En 1971, j’ai refait dans les rues de Bruges chacune des allées et venues de Zénon. Comment, par exemple, il variait son itinéraire pour se rendre à la forge, pour y soigner Han. À quel point se trouvait l’auberge où il prenait ses repas. À quel angle de rues il a vu passer Idelette prisonnière. Promenades du matin, tout un mois d’avril, parfois au soleil, plus souvent sous la brume ou la pluie fine. Et avec moi Valentine la belle, la douce, la blonde, celle qui aboyait avec force contre les chevaux (et je l’en empêchais), celle qui courait joyeusement dans la cour du Gruuthuse, celle qui bondissait dans le jardin du Béguinage parmi les jonquilles – et maintenant (six mois plus tard, 3 octobre 1971) aussi morte qu’Idelette, que Zénon, qu’Hilzonde. Et personne ne me comprendra si je dis que je ne m’en consolerai jamais, pas plus que d’une mort humaine. * Où, quand, et comment? Où que ce soit, à quelle date et peu importe quels moyens, je suis sûre d’avoir à mon chevet un médecin et un prêtre – Zénon et le prieur des Cordeliers. * C’est en juin 1964 à Salzbourg, en assistant (agenouillée sur les dalles) à la messe dans l’église des Franciscains que j’ai vu pour la première fois se dessiner tout entier le personnage du prieur des Cordeliers. Je n’en avais jusque-là entrevu que les abords (les mentions du prieur dans “Le Retour à Bruges”). * L’OEuvre au noir commencée (sous un autre titre) à l’époque où j’avais l’âge du jeune Zénon, du jeune Henri-Maximilien du début du livre. Terminée quand j’ai un peu plus de l’âge qu’ont Zénon et Henri-Maximilien quand ils butent sur leur mort.
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* Répétitions (mantras). Au temps où j’écrivais la seconde et la troisième
partie de ce livre, il m’est souvent arrivé de me répéter silencieusement ou à mi-voix à moi-même: “Zénon, Zénon, Zénon, Zénon, Zénon, Zénon…” Vingt fois, cent fois, davantage. Et sentir qu’à force de dire ce nom un peu plus de réalité se coagulait. Je ne m’étonne pas des pratiques mystiques et par lesquelles les fidèles, à force de répéter des milliers de fois son nom, appellent Dieu, ou dans la magie populaire, des amants qui “appellent” l’objet qu’ils ont perdu. * Chaque conversation est une manière d’ajouter au modelé du personnage. * La visite à Münster de 1956 – l’automne de Suez – presque aussi sombre que l’image du passé elle-même. * Une des lignes concernant l’enfant des nuits blanches est tirée d’un poème de Théophile. * Ma vie immobile date de près de dix ans. (1978) * À certains aspects, “prison” plutôt que “vie immobile” puisqu’il ne dépend plus de moi de franchir la porte ouverte. * L’obsession de la maladie observée sur autrui. * Zénon et Henri-Maximilien meurent tous les deux, je m’en aperçois à la relecture, en février. J’ai vainement essayé de changer le mois pour ce dernier. La scène était perçue comme une scène de fin d’hiver italien. * Zénon et Henri-Maximilien (je m’en aperçois aussi à la relecture) finissent tous deux par un refus: Henri refuse les honneurs et s’enlise dans sa vie de capitaine pauvre, Zénon refuse la rétractation qui lui sauverait la vie. Tous deux ont mis longtemps à s’apercevoir que le refus devait être fait. * Le nombre de mauvaises raisons – ou si l’on préfère de motivations intermédiaires – que Zénon se donne avant de se trouver face à face avec Hic Zeno, puis Zeno in aeternum. * Autant qu’on pense en langage articulé, Zénon pense en latin du Moyen Âge. Il faut, de temps en temps donner le la. * Ces “gemmes dont chacune symbolise un moment du Grand OEuvre” dans l’une des premières répliques de Zénon est une bourde. Il n’y a pas de pareilles gemmes. Entre ces “gemmes” maintenues en 1956 et jusqu’en 1967 de la version de 1924, et les présents “métaux”, il y a dix ans de lectures alchimiques.
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* Dans la version gauche et encore naïve en 1924 publiée en 1934, Zénon fait encore figure de philosophe libéral ayant toujours la vérité matérialiste et logique de son côté. Conception voisine de celle que les radicaux des années 1880 se faisaient de Giordano Bruno, et également fausse. Le principal changement s’est produit durant une soirée chez Alf, vers 1958: pendant l’audition d’une série d’oeuvres de Bach, j’ai entièrement composé en esprit, avec environ six ou sept ans d’avance sur la composition réelle, la conversation entre Zénon et le chanoine quelques heures avant la mort de Zénon. Une fois sortie de cette soirée, la musique finie, j’ai complètement oublié ce dialogue. Mais je savais que je le retrouverais un jour. * Le paragraphe, au début du chapitre II, décrivant le père de Zénon, était l’un des pires morceaux gardés de 1924. Le “roman historique” compris par un étudiant d’histoire. En pareil cas, il n’y a de vérité “historique” qu’étroitement spécifique. “S’était complu à d’interminables entretiens avec Léonard de Vinci, alors ingénieur de César” est fort sot; “s’était complu à parler chevaux et machines de guerre avec Léonard de Vinci, alors ingénieur de César”, donne le ton juste. Il s’agit toujours de mettre au point les verres des jumelles dont on se sert pour voir de près ce qui est loin. * Quand G., traductrice, me demande d’expliquer pourquoi tel personnage à tel moment fait tel geste, j’hésite et je cherche une raison. Je l’ai vu faire tel geste. * Que de fois, la nuit, ne pouvant dormir, j’ai eu l’impression de tendre la main à Zénon se reposant d’exister, couché sur le même lit. Je connais bien cette main d’un brun gris, très forte, longue, aux doigts en spatules, peu charnus, aux ongles assez pâles et grands, coupés ras. Le poignet osseux, la paume assez creuse et sillonnée de nombreuses lignes. J’en connais la pression, de cette main, son degré exact de chaleur. (Je n’ai jamais pris la main d’Hadrien.) Ce geste physique de tendre la main à cet homme inventé, je l’ai plus d’une fois fait. Ajoutons tout de suite pour les imbéciles qui liraient cette note que, s’il m’est arrivé souvent de regarder mes personnages faire l’amour (et parfois avec un certain plaisir charnel de ma part), il ne m’est jamais arrivé de m’imaginer m’unissant à eux. On ne couche pas avec une partie de soi-même. * Présence plus distante, mais infiniment amicale, du prieur des Cordeliers.
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* Rien de plus secret ni de plus difficile à atteindre que la notion authentique d’un Dieu personnel (ou personnalisé) qui s’étale un peu partout sous ses formes stéréotypées. (L’Isvara des yogis hindous.) Zénon y arrive (ou en tout cas arrive à l’entrevoir en tant qu’hypothèse) deux ou trois heures avant sa mort. * Le lecteur intelligent comprendra sans que je lui dise à qui Zénon attribue les pas dans le corridor à l’instant où son agonie prend fin: “Nous nous retrouvions au-delà des contradictions.”
* Il y a du tempérament de mon père dans le tempérament d’HenriMaximilien. * Tant qu’un être inventé ne nous importe pas autant que nous-mêmes, il n’est rien. * Se désincarner pour se réincarner en autrui. Et utiliser pour le faire ses os, sa chair et son sang, et les milliers d’images enregistrées par une matière grise. * Tenter d’inclure, avec le minimum de changements, les épouvantables procès-verbaux des séances de torture subies par Campanella, et signés par un certain Précioso, notaire et greffier de la cour ecclésiastique de Naples, avec leurs détails à vomir. Mais ces indignités – qui de nos jours aussi sont banales – ne fourniraient probablement au lecteur qu’une scène à sensation de plus, et ferait croire que j’ai entrepris un roman anticlérical. L’atrocité n’est jamais plus affreuse que montrée dans ses moments les plus modérés – gardant des ménagements. Un prélat lettré et courtois et un vieux prêtre anxieux de sauver son élève aboutissent quand même à laisser un homme condamné au feu, et à trouver normal qu’il le soit. Même remarque pour la torture. Il est plus atroce, en un sens, que Zénon l’évite, par une protection particulière, que s’il la subissait, comme c’était l’usage. * Remarques: un seul (mais odieux) crime protestant contre un intellectuel: Servet (mais Ochin semble avoir échappé de justesse). Moins d’exécutions qu’on ne le croirait, si l’on élimine les condamnations politiques comme More ou Cranmer (mais cette liste laisse de côté l’Angleterre et l’Écosse). Néanmoins terreur et incertitude bien visibles. Les hérétiques luthériens et calvinistes courent plus de risques que les sceptiques et les athées. Pas de condamnations de moeurs frappant des intellectuels. Vinci avait été dénoncé et inquiété, mais sans plus; Michel-Ange attaqué par des maîtres chanteurs comme l’Arétin, mais sans plus. Toutefois, Théophile n’a échappé que de justesse; la présomption semble avoir joué un certain rôle dans le procès de Dolet et, calomnieusement, semble-t-il, dans celui de Vanini. Noter aussi attaques sur ce point contre Paracelse et (dans sa première jeunesse) Campanella. Pour Campanella, la conviction très nette n’a joué aucun rôle dans les trois derniers procès. Pas de condamnations d’intellectuels pour magie. * Hadrien meurt à soixante-deux ans et six mois, mais sa maladie se déclare deux ans et demi plus tôt. Elle couve en lui dès l’année 130. Donc, six ans de mal-être plus ou moins constant, plus deux de souffrances impatiemment ressenties, aboutissant à une mort assez douce. (À laquelle d’ailleurs on n’assiste pas, les Mémoires se terminant comme de juste quelques jours avant cette mort.) * Zénon meurt à cinquante-neuf ans moins six jours. Santé vigoureuse jusqu’au bout. Le tempérament est sec et nerveux; celui d’Hadrien sanguin et
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lymphatique tout ensemble. On ne sait quoi de gonflé par la maladie dans les traits, d’assez bonne heure. * Tous deux judicieux, capables du coup d’oeil froid. * Intétêt d’Hadrien pour la médecine. * Hadrien parfois tenté par l’occulte. Comparé à Zénon, il n’y est pourtant qu’un “riche amateur”. * Deux êtres profondément différents l’un de l’autre: l’un reconstruit sur des fragments de réel, l’autre imaginaire, mais nourri d’une bouillie de réalité. Les deux lignes de force, l’une partie du réel et remontant vers l’imaginaire, l’autre partie de l’imaginaire et s’enfonçant dans le réel, s’entrecroisent. Le point central est précisément le sentiment de l’ÊTRE. * Astrologiquement: Hadrien Verseau, le signe de l’abondance et du don. Zénon Poissons, le signe secret et froid, le passage par l’abîme. Le ciel d’Hadrien: Saturne – Vénus – Jupiter. Celui de Zénon: Saturne – Mercure. * Tous deux sensuellement attirés, presque exclusivement, par le corps et le tempérament masculins. Tous deux capables de liaisons et d’amitiés féminines. Hadrien a plus de loisirs pour l’amour que Zénon. * “L’homosexualité est une vue sur la vie” me disait il y a quarante ans Edmond Jaloux à propos d’Alexis, et la remarque était d’autant plus frappante qu’elle provenait, je crois, d’un homme au comportement totalement hétérosexuel. En dépit d’Alexis, j’eus d’ailleurs quelque mal à comprendre ce qu’il voulait dire, un peu comme Zénon ne suit qu’à retardement les propos de Don Blas. * En un sens, Sign Ulfsdatter est pour Zénon sa Plotine. Compagne, presque égale, et à qui l’on fait confiance. Mais Zénon a possédé Sign. * La pédérastie d’Hadrien a un vocabulaire et des rites; elle est installée dans une tradition de culture: débauche avouée du monde romain, bien que blâmée comme toute débauche par les moralistes; lyrisme des poètes latins et des poètes grecs; enfin tradition philosophique purement hellénique (et nullement romaine) vers laquelle Hadrien le Philhellène remonte très consciemment. Au besion, il falsifie un peu sa réalité à lui pour la faire entrer dans ces cadres poétiques et héroïques. Rien de tout cela n’est secret.
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* La sexualité de Zénon est sans vocabulaire. Il rejette violemment les routines de l’amour féminin de son temps, la débauche style fabliau, à la bonne franquette, ou la quintessence pétrarquiste. D’autre part, ses goûts pédéras-
tiques, si fréquents qu’ils fussent à l’époque et autour de lui, sont officiellement hors la loi. Ces rapports secrets et le plus souvent sommaires se passent de mots. Ils ne marquent que davantage l’inconscient et la conscience. Antinoüs est auprès d’Hadrien un éromène attitré, qui a pour ainsi dire une position sociale. Aleï reste un valet. Les liaisons avec Gerhart, François Rondelet ou Fray Juan (et probablement Josse Cassel) ne diffèrent en rien de ce que seraient de nos jours des liaisons analogues. La peur de la déconsidération sociale produit encore à peu près exactement les mêmes effets qu’autrefois la peur du bûcher. Lequel, d’ailleurs, si souvent qu’il s’allumât demeure pour la masse des amants un risque exceptionnel à l’époque. Il est à croire que l’amant homosexuel du XVI° siècle a craint le feu comme un Américain de nos jours et de mêmes tendances craint le renvoi hors du corps diplomatique – et peut-être un peu moins. * Reste que pour Zénon tout romanesque est éliminé par ce manque d’expression, ou prend des formes quasi invisibles. Seuls les poètes (Shakespeare, Michel-Ange), et seulement les plus grands ou les plus audacieux d’entre eux, ont pu, à l’époque, s’exprimer. Chez Vinci, au contraire, la contrainte de l’expression s’étend à tous les sentiments humains. * Les méditations de Zénon dans “L’Abîme” sont en partie de classiques méditations bouddhiques (l’eau, le feu, les ossements…). Dans le cas de Zénon, les audaces “héraclitiennes” de la pensée alchimique ouvraient la voie vers cette métaphysique et cette psychologie différentes. À la rigueur, j’aurais pu faire réinventer ces dernières à Zénon, comme Pascal réinventa la géométrie d’Euclide en partant de certaines prémisses, mais une telle démarche eût été trop lente pour une oeuvre romanesque, et survoltait encore les pouvoirs intellectuels déjà considérables que je prêtais à Zénon. J’ai préféré le supposer soumis à cette admirable osmose, qui, en fait, se produit presque toujours entre deux mondes étrangers l’un à l’autre, et montrer Zénon prenant contact avec l’Orient grâce à un musulman hérétique, lui-même renseigné sur certaines méthodes de la pensée hindoue, tout comme je l’avais montré prenant contact grâce au marrane Don Blas avec la pensée juive. * Le végétarisme et la profonde tendresse pour le monde animal sont dans Léonard, comme chacun sait. On oublie trop que la dernière, exprimée d’exquise façon, est aussi dans Montaigne. Et j’en avais, à l’époque où j’étudiais les Tragiques, trouvé nombre de traces chez d’Aubigné. * L’ardeur de Zénon est à comparer à l’ardeur de Giordano Bruno. Elle est plus sèche. Bruno est avant tout illuminé et poète. * Campanella, qui à certains points de vue retarde sur le courant de son siècle (effet du milieu monacal et Italie du Sud, peut-être), se rapproche beaucoup, du point de vue de l’argumentation philosophique, du ton que j’aurais voulu donner à Zénon. Mais Zénon eût été incapable de couler sa pensée dans une utopie quelconque.
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* Bruno et Campanella profondément poètes, Zénon pas du tout. * Suicide. Zénon se suicide, non par principe ou du fait d’une particulière attirance, mais coincé entre un compromis inacceptable et une mort atroce et inutilement telle, il fait ce que nous ferions tous à sa place, ce que fit, par exemple, la mère de K. Löwith menacée d’être envoyée à Dachau. (Et de la même manière, en s’ouvrant les veines.) Hadrien, qui se fait marquer sur la poitrine la place du coeur pour le cas où il tomberait entre les mains de ses ennemis, eût fait de même, et mêmement “les yeux ouverts”. * Mais Hadrien mourant regarde vers son passé d’homme, et non vers ces grands bruits et ces grandes lumières qui déjà l’emportent. * Le suicide. Zénon, Mishima, Montherlant (mort le 21 septembre 1972, il y a 5 jours – j’écris ceci le mardi 26, 1972). Le corps déchiré, ouvert, libérant l’âme. (Mishima mort en novembre 1970. Sa dernière entrevue, dans le Figaro, je crois, publiée après sa mort, mentionnait Mémoires d’Hadrien.) * Zénon sur l’extrême bord de la pensée dynamique et vitaliste et à l’orée de la pensée matérialiste et mécanistique de type moderne; nous, qui par un long chemin sommes revenus à des conceptions mentales très proches de celles d’un Geber ou d’un Paracelse, avec derrière nous le monde de la science du XVIII° et du XIX° siècle, nous nous rencontrons avec lui sur ces confins. * Innsbruck est une période de crise; derniers soubresauts du moi. À Bruges, la conversion est à peu près accomplie.
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* Personnages vus de l’intérieur et de l’extérieur. Le prieur est continuellement vu de l’extérieur. Ses paroles seules révèlent l’intérieur. Différences énormes entre l’intérieur et l’extérieur chez Zénon, même sans aucun élément d’hypocrisie. Le chapitre “l’Abîme” doit révéler l’être intérieur. (Même effet en partie pour le chapitre “Les loisirs de l’été”.) Dans “La conversation à Innsbruck”, l’intérieur se révèle par les paroles, mais par conséquent les pensées, même exprimées sans aucun contrôle, sont déjà formulées. Lorsqu’il y a réflexion donnée comme telle dans certains autres chapitres, c’est une réflexion née de l’action et elle-même en partie extérieure. Dans les conversations avec le prieur, les paroles elles-mêmes sont placées dans le champ de référence du prieur même lorsque Zénon contredit celui-ci, et nous ne voyons du personnage qu’une face, l’angle de réfraction et l’angle d’incidence avec son temps. L’effet curieux en pareil cas est que le génie cède la place à la sagesse. * Extraordinaire difficulté de montrer l’angoisse de l’abîme lorsque l’angoisse n’est pas émotionnelle, mais métaphysique. La plupart des lecteurs risquent de penser qu’il n’y a pas là de quoi s’inquiéter. C’est ce qui arrive
d’ailleurs en partie à Pascal, où la plupart des lecteurs s’attachent au Mystère de Jésus où l’émotion règne, ou à la partie argumentative qui plaît à leur esprit disputatif. Mais on parle de “l’abîme” de Pascal comme s’il s’était produit soudain un trou dans sa chambre. Le sujet central n’est presque jamais abordé. Autre difficulté presque insurmontable: présenter la vision mentale au lieu du concept intellectuel, sans que le lecteur croie qu’il y a eu régression plutôt que progrès, en France surtout, où le concept intellectuel prédomine à l’exclusion de presque toute autre forme de pensée. Il y a dans la vision mentale une lenteur, et presque une immobilité qui rebute ceux pour qui l’intelligence est quelque chose de rapide, même au prix de la superficialité que cela entraîne. Gide a touché, par exception, à quelque chose de profond dans les Nourritures terrestres, et sans doute a-t-il cru qu’il ne s’agissait que d’un paradoxe, quand il a dit: “Le sage est celui qui s’émeut pour des prunes.” Avoir le courage de montrer un personnage qui s’absorbe dans une contemplation épuisante et sacrée des prunes ou leurs équivalents. Montrer combien lentement et irréversiblement un esprit s’aperçoit de l’étrangeté des choses.
NOTE Les “Carnets de notes de l’OEuvre au noir” ont paru dans la livraison de La Nouvelle Revue Française de septembre 1990, n° 452, p. 40 à p. 53, et dans celle d’octobre 1990, n° 453, p. 54 à p. 67. La présentation, signée par Yvon BERNIER, a été publiée dans le premier de ces deux numéros, p. 38 et 39. Les extraits reproduits ici, inédits en langue italienne, le sont avec la permission de M. Yannick Guillou, exécuteur littéraire de l’écrivain, et des Editions Gallimard.
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Marguerite Yourcenar e il cinema Seguito dall’intervista del cineasta André Delvaux riguardo il suo adattamento di una parte de L’OPERA AL NERO.
Intervista di DOMINIQUE GABORET-GUISELIN e JEAN-PIERRE EMERY a ANDRÉ DELVAUX 20 marzo 1987
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MARGUERITE YOURCENAR E L’AUDIOVISIVO I rapporti di Marguerite Yourcenar con l’audiovisivo sono sempre stati complessi, spesso difficili, a volte disastrosi. In una lettera prefazione al disco che ha realizzato con la cantante di Gospel Marion Williams e il cui titolo anglo-sassone è “precious memories” (ricordi preziosi), Marguerite Yourcenar annota: “uno scrittore appartiene al mondo della parola scritta e non della parola enunciata o cantata”. Questa registrazione a due voci presenta testi cantati a cappella da Marion Williams, ed altri recitati da Marguerite Yourcenar. Il lavoro realizzato negli Stati Uniti avrebbe dovuto essere integrato con una o due rappresentazioni all’Espace Cardin a Parigi. Lo spettacolo non fu mai eseguito per sopraggiunti problemi di salute della cantante afro-americana. Dopo la morte di Marguerite Yourcenar ho tentato invano di avviare una corrispondenza con Marion Williams; desideravo conoscere i dettagli di realizzazione di questa registrazione. Marion Williams è morta à Filadelfia il 2 luglio 1994. Questo disco ha avuto scarsa circolazione e viene menzionato di rado. In quanto alle altre partecipazioni di Marguerite Yourcenar a trasmissioni radiofoniche o televisive, lei stessa dice di averle accettate per fare cosa gradita a qualche amico, in Francia, in Italia, in Inghilterra. Per la Francia segnaliamo “Radioscopie”, chiacchierata di 5 ore con Jacques Chancel, le due puntate di “Apostrophes” con Bernard Pivot, i due cortometraggi, uno riguardante i gospel e i neri americani del sud degli Stati Uniti, l’altro riguardante l’isola di Mount Desert “l’Isola felice”. Prima di affrontare la questione cinema, bisogna fare un cenno particolare ai colloqui realizzati per France Culture da Patrick de Rosbo. Trasmessi dall’11 al 16 gennaio 1971, verranno pubblicati nel 1972 dalla casa editrice Mercure de France. Furono realizzati in condizioni difficili sia per la scrittrice (che aveva problemi gravi di salute e serie preoccupazioni) che per Patrick de Rosbo per il quale era il primo lavoro importante. Sia una che l’altro conserveranno un ricordo amaro di questo lavoro le cui qualità sono importanti, come primo approccio di analisi letteraria di un’opera ancora poco conosciuta nonostante l’immenso successo delle MEMORIE DI ADRIANO. Alcuni malintesi porranno fine ai loro rapporti. Per quanto riguarda il cinema possiamo affermare senza paura di sbagliare che i rapporti di Marguerite Yourcenar con la settima arte sono stati per lo più problematici. In MONETA DEL SOGNO e nell’opera teatrale DARE A CESARE, i cui temi sono identici, la scrittrice fa il ritratto senza artifici né indulgenza di un’attrice di cinema: Angiola Fides, tipo umano che sacrifica tutto alle apparenze e al successo. André Malraux alla fine del suo saggio “Studio di una psicologia del cinema” così scriveva: “Il cinema è un’arte, è anche un’industria”; i preconcetti di Marguerite Yourcenar nei confronti delle fabbriche di sogni sono espressi spesso direttamente nei suoi colloqui e in filigrana nelle sue opere. Essa aveva tuttavia accettato di affidare a Völker Schlöndorf l’adattamento del suo romanzo IL COLPO DI GRAZIA. Le conversazioni riferite da alcuni amici intimi, tra cui Yvon Bernier, e la corrispondenza a nostra disposizione,
dimostrano quanto Marguerite Yourcenar non sia stata soddisfatta dell’adattamento del suo libro al cinema. Da quel momento avrebbe rifiutato ogni altra proposta limitando i suoi interventi a conversazioni filmate e registrate con alcuni giornalisti. Risultò, perciò, sorprendente, nel 1986, la notizia dell’adattamento cinematografico di una parte de L’OPERA AL NERO, libro che le stava particolarmente a cuore, da parte di un cineasta; il regista prescelto era André Delvaux, cineasta belga. Sollecitai allora un incontro con André Delvaux. Egli in quel periodo lavorava per via epistolare e con contatti diretti con Marguerite Yourcenar nel corso dei brevi passaggi di quest’ultima a Parigi. La data dell’appuntamento venne fissata per il 26 marzo 1987 e il testo che segue fu riletto da André Delvaux. Al momento dell’uscita del film non volle però che le sue parole fossero divulgate. Esse fanno luce su un lavoro che, personalmente, giudico fallito. Marguerite Yourcenar non vedrà mai il film uscito pochi giorni dopo la sua morte nel dicembre 1987. Si tratta oggi di un lavoro di memoria e di esattezza che il lettore interpreterà attraverso il proprio giudizio e a seconda del suo personale parere riguardo al film. Intervista con ANDRÉ DELVAUX: DOMINIQUE GABORET-GUISELIN Sta per adattare al cinema L’OPERA AL NERO di Marguerite Yourcenar. Cosa L’ha portata a pensare a questo adattamento? La densità dell’opera non rende difficile il suo adattamento? Tanto più, credo, che solo la parte finale de L’OPERA AL NERO è il soggetto del Suo film. ANDRÉ DELVAUX Il film non restituirà il romanzo de L’OPERA AL NERO. Il fatto è che è veramente inutile, superfluo e aberrante fare una traduzione cinematografica di un’opera esistente che è un’opera compiuta. “L’opera è fatta ed è presente”, diceva Baudelaire. Non penso di fare IL ROSSO E IL NERO di Autan-Lara. Ho una formazione letteraria e musicale. Ho studiato la filologia germanica e mi sono nutrito di letteratura fiamminga, tedesca, anglo-sassone, e poi francese. Potevo diventare un musicista, ma le circostanza hanno fatto sì che io non abbia intrapreso tale via. L’amore per il cinema mi ha tuttavia portato a fare un primo film solo tardivamente. Nutro rapporti quotidiani e felici con la letteratura e la musica, al di là delle mie attività cinematografiche. La scelta dei soggetti che ho adattato non è mai stata fatta in funzione di una richiesta commerciale e le opere che ho privilegiato non hanno nessuna apparenza immediatamente cinematografica. Come per esempio, L’HOMME AU CRÂNE RASÉ che è una riflessione egocentrica di uno scrittore fiammingo, un flusso di coscienza. Allo stesso modo, APPUNTAMENTO A BRAY di Julien Gracq. L’adattamanto che faccio di un’opera non è un doppione dell’opera. Mi servo dell’opera come punto d’appoggio per un sogno. E’ una sorta di rapporti di parentela che si sviluppano. Quando, circa sei anni fa, ho parlato di un adattamento possibile de L’OPERA
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AL NERO di Marguerite Yourcenar, coloro che non avevano letto il romanzo hanno trovato l’idea eccellente, ma la prima reazione di coloro che conoscevano il romanzo è stata di chiedere come l’adattamento potesse operarsi. La cosa non mi preoccupa. Quando un’opera mi colpisce profondamente e mi ha fatto riflettere molto, mi può venire l’idea di trasformare questo nutrimento letterario in linguaggio cinematografico, ben sapendo che tale linguaggio è assolutamente diverso dal linguaggio scritto, letterario. Infatti, se L’OPERA AL NERO fosse adattata musicalmente per diventare una sinfonia, a nessuno verrebbe in mente di cercare un nesso necessario con l’opera letteraria. Per l’adattamento cinematografico, il rapporto con l’opera è identico. Dopo una lunga maturazione e una lunga riflessione sull’opera letteraria, quest’ultima può eventualmente diventare un’opera cinematografica. Il problema dell’adattamento non è ciò che si intende solitamente. Per esempio, per quanto riguarda IL COLPO DI GRAZIA, adattato al cinema da Völker Schlöndorf, esiste una certa fedeltà letteraria, ma ci sono delle digressioni nei confronti dell’opera. Marguerite Yourcenar non è d’accordo con quest’adattamento perché gli attori scelti sono molto meno giovani che nel romanzo e dunque, per questo motivo, la loro psicologia non è più credibile. Inoltre, l’atmosfera non è più specificatamente baltica, lo stile è scivolato verso uno stile pseudo-austriaco. L’OPERA AL NERO mi ha profondamente colpito, in particolare attraverso l’itinerario di Zénon in quanto personaggio dissidente, che nasce come europeo. E’ un personaggio che parla il mio linguaggio e benissimo dei miei problemi. Inoltre, la mentalità fiamminga del XVI secolo è stata restituita benissimo. Al limite, ho ritrovato in questo romanzo qualcosa di più ricco che nei romanzi dei miei compatrioti, benchè Marguerite Yourcenar non sia fiamminga. E’ un’opera essenziale nella letteratura fiamminga anche se di lingua francese. Sono visceralmente molto vicino a quest'opera. Avevo un insieme di idee precise prima di scrivere a Marguerite Yourcenar per chiederle l'autorizzazione ad adattare questo romanzo. Le mie idee miravano a “spianare il terreno”. Non voglio fare un film storico con messinscena sfarzosa, che dia di quell’epoca l’idea che siamo soliti averne. Non è mia intenzione per due motivi. Quando c’è uno sfoggio spettacolare, come nel film IL NOME DELLA ROSA di Jean-Jacques Annaud per esempio, film che per altro apprezzo, il tragitto personale del personaggio si smarrisce. Ora, ciò che voglio, è realizzare un approccio intimista a Zénon: un personaggio ed i suoi rapporti con gli altri. D’altra parte, i personaggi non saranno obbligatoriamante posti nel quadro storico proposto da Marguerite Yourcenar. Non vi sarà fedeltà alla Storia. In caso di ricostruzione storica, si crea poi un problema economico di produzione. Rifiuto inoltre di utilizzare la fine del Medio Evo come pretesto per scene tipiche e sfondi ambientali (tendaggi, rogo, inquisizione…). Ho scritto una lunga lettera a Marguerite Yourcenar a questo proposito per spiegarle che pensavo a questo tipo di approccio, cioè un approccio possibile dell’insieme dell’opera. Ciò che a me sembrava possibile, era adattare il punto di vista di Zénon. L’OPERA di Marguerite Yourcenar partecipa al tempo stesso del dialogo di Platone e del dialogo di Erasmo. E’ un mondo interamante costruito dall’autrice e, nel caso specifico, la fedeltà all’opera significa capirne lo spirito e
restituirlo in un linguaggio diverso, quello del cinema. Il linguaggio letterario e il linguaggio cinematografico sono fondamentalmente diversi. Non era possibile, neanche, concepire l’approccio al mondo esoterico, mondo oscuro per uno spettatore non informato. Inoltre, questi misteri mi sfuggono. Così, ho presentato la mia visione de L’OPERA AL NERO a Marguerite Yourcenar, la quale mi ha risposto con una lettera molto felice. Desiderava incontrarmi, ma mi diceva anche le sue reticenze verso il cinema, e mi faceva tre o quattro domande alle quali ho risposto esaurientemente. Avevo allora in cantiere un film, “Benvenuta”, un adattamento molto trasformato di un’opera di Suzanne Lilar, membro dell’Accademia Reale del Belgio che conosce bene Marguerite Yourcenar. Ho aspettato la fine di quel film e di un altro che avevo iniziato, “Babel Opéra”, legato a Don Giovanni, per riprendere contatto con Marguerite Yourcenar, un anno e quattro mesi fa, per chiederle se fosse possibile proseguire la nostra conversazione. Fu deciso un incontro a Bruxelles. Fui sorpreso di incontrare una donna aperta ai miei discorsi e ci siamo intesi subito su L’OPERA AL NERO. Lei stessa ha suggerito un certo numero di cose e ha fatto delle considerazioni che sono quelle di un vero cineasta. Era d’accordo sul fatto che il discorso storico generale non fosse un buon punto di appoggio per questo film e che fosse necessario ancorare tutto a Zénon. A tal fine, mi disse che il metodo migliore era di privilegiare un episodio della vita di Zénon. Il bagno in mare di Zénon? Sarebbe troppo difficile risalire nel tempo. La morte del Priore? No, piuttosto l’incontro con il Priore e il ritorno a Bruges che permette di disporre per il film di una consistente porzione di vita. Il problema è di parlare di ciò che ha formato Zénon (la sua infanzia, i suoi rapporti con Henri-Maximilien…). La materia del film è nata: il passato di Zénon può affiorare solo attraverso il ricordo, il sogno, eventualmente il suo immaginario. Ma il problema sta nel fatto che Zénon non vive del suo immaginario. Egli è vicinissimo alla realtà. Non è dunque possibile adattare una tecnica in contraddizione con questo fatto: bisogna dunque ricostruire l’essenziale della vita di Zénon senza ricorrere all’immaginario. Ho concluso una prima tappa l’anno scorso terminando la scenografia per negoziare la produzione. Ho spedito la scenografia a Marguerite Yourcenar la quale mi ha mandato, tre settimane fa, un telegramma per dirmi che trovava bellissima la scenografia e per darmi il suo pieno accordo. D.G.G. Lei ha conciliato le due esigenze: la Sua e quella di Marguerite Yourcenar? A.D. E’ indispensabile – Zénon – è lei. L’ho rivista ieri; siamo in perfetto accordo. Abbiamo esaminato ciò che più l’aveva colpita. Le ho mostrato alcune localizzazioni degli esterni, di città e dei luoghi in cui avevo in mente di girare. D.G.G. Bruges, suppongo?
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A.D. La maggior parte del film sarà girata nelle Fiandre e a Bruges, nel nord della Francia e in Italia. Conserveremo le scene che si svolgono a Innsbrück ed a Colonia. Ho a lungo cercato un attore per interpretare Zénon. Un film è una successione di immagini e di suoni: uno Zénon non deve avere la faccia di un attore conosciuto e famoso. Ho scelto Gian Maria Volonté. E’ un grande attore, ma non è un attore da prima pagina e che annullerà Zénon con la sua personalità. Gli attori sono nell’insieme poco conosciuti o del tutto sconosciuti ed il film si farà in francese. I dialoghi rispetteranno la lingua di Marguerite Yourcenar. Ho cercato delle forme simili a quelle usate dall’autrice. Non ho inventato nulla: si tratta de L’OPERA AL NERO, ma non di tutta L’OPERA AL NERO. D.G.G. Al momento del suo ritorno a Bruges, Zénon è un uomo relativamente giovane per la nostra epoca e anziano per quell’epoca, il XVI secolo: egli ha circa cinquant’anni. A.D. Delle retrospettive sono possibili, ma non troppo indietro nel tempo. Zénon non sarà un personaggio che si trasforma. La fetta di vita di Zénon nel film si estenderà su una decina d’anni. D.G.G. In quel periodo della sua vita, ci sono dei momenti di grande intensità, come il suo bagno nel mare. A.D. Zénon è un uomo che si purifica. L’idea del bagno, come tutte le idee più belle, è molto semplice. Zénon calcola quanto gli rimane da vivere e il bagno ha per lui un valore metafisico. D.G.G. Adriano, Zénon, un uomo oscuro, sono tutti uomini della stessa famiglia di anime. Esiste una parentela nettissima tra questi tre tipi di uomini, nonostante la loro posizione sia diversissima nella società e nell’epoca in cui vivono. A.D. Non sono uno specialista dell’opera di Marguerite Yourcenar, che, certo, ho letto, ma è L’OPERA AL NERO che ho privilegiato. Il dialogo è già scritto. Come ho già spiegato, in accordo con l’autrice, ho adattato un ambito ristretto. Il film non durerà più di due ore. Se mi riferisco al mio modo abituale di lavorare, valuto a 11 settimane la durata delle riprese.
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JEAN-PIERRE EMERY Zénon è un contestatario che mette in discussione le istituzioni della società nella quale vive, nel XVI secolo. Non ci sarà qualche difficoltà nel presentare quest’aspetto contestatario?
A.D. Ci sono molti personaggi ne L’OPERA AL NERO e si tratta effettivamente del XVI secolo. Ma il lato contestatario di Zénon è interiore, ciò non implica dunque sviluppi visivi particolari. Sarei più vicino a Dreyer o a Tarkovski che al Boudartchouk di GUERRA E PACE. La spettacolarità è pericolosa. D.G.G. Questo film sarà contrastato, in bianco e nero o a colori? A.D. Sarà un film a colori, trattato in grisaille, si avvicinerà molto al bianco e nero. Oggigiorno, bisogna essere ricchi per girare in bianco e nero, come lo fa a volte Woody Allen, perché ci vogliono delle attrezzature particolarmente costose. Inoltre, il finanziamento di un film dipende in gran parte dalle sue possibilità di diffusione in televisione, la quale non compera più film in bianco e nero. Il mio film sarà in chiaro-oscuro, senza colorazione. Il film “Una giornata particolare” è stato venduto come un film a colori, anche se non c’era colorazione. Il mio capo operatore sarà quello di Alain Resnais in “Mélo”. J.P.E. Tenuto conto che sarà presentata solo una parte della vita di Zénon, il titolo del film sarà L’OPERA AL NERO? A.D. Rimarrò strettamente “incollato” a L’OPERA AL NERO e non me ne allontanerò come l’ho fatto per altri adattamenti cinematografici. In queste condizioni, per il momento, mantengo questo titolo. Ma la cosa può cambiare. D.G.G. Marguerite Yourcenar seguirà le riprese? A.D. La terrò informata, le presenterò le localizzazioni, naturalmente, e le parlerò della scelta degli attori. L’OPERA AL NERO è un lavoro notevole. Molto moderno nella sua costruzione, abbina allo stesso tempo riflessioni filosofiche, sociali, metafisiche e storiche. Fino ad oggi, nessuna opera importante di questo filone l’ha mai superata. La qualità dei dialoghi è notevole ed eccezionale, soprattutto quelli tra Zénon ed Henri-Maximilien e quelli tra Zénon ed il Priore dei Cordiglieri. Come ho già specificato, sono i dialoghi di Erasmo che, di fatto, sono lunghi monologhi. J.P.E. Marguerite Yourcenar dice in “Ad occhi aperti” che il Priore dei Cordiglieri è complementare di Zénon; il dialogo tra Zénon ed il Priore è di fatto quasi un monologo con se stesso? A.D. Ho trasformato il rapporto tra Zénon ed Henri-Maximilien. Il dialogo tra i due
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uomini è diventato drammatico poiché vi inserisco altri elementi che ho attinto altrove ne L’OPERA. L’altro punto di rilievo de L’OPERA AL NERO, è l’alternanza molto libera di capitoli storici (Münster, Colonia) e di flussi romanzeschi. Il linguaggio scritto de L’OPERA AL NERO è di una densità estrema e contiene molte informazioni e molte riflessioni. Non è di facile lettura. Non è un’opera narrativa e il mio film non sarà narrativo. La narrazione ne L’OPERA AL NERO si cela spesso in una proposizione subordinata. Ad esempio, l’assassinio di Perrotin viene citato solo tre volte ed è necessaria una singolare attenzione di lettura per ricordarsi che Zénon ha inferto un colpo di daga a quest’uomo. Da questo punto di vista, Marguerite Yourcenar è machiavellica di intelligenza. Scrive in cripto-Yourcenar, ella si cita senza farcelo sapere. E’ un libro eccezionale, denso e intrecciato fittamente. E’ un’opera profondamente moderna, e sappiamo che le mode della modernità sono a lei completamente estranee.
MODERNITÀ DI UN’OPERA A proposito de L’OPERA AL NERO di Marguerite Yourcenar Zoé Oldenburg così scrive in una critica sobria ed ammirata: “Mi piace soprattutto L’OPERA AL NERO, che rende con così tanta vita la ricchezza e la complessità di quella grande epoca che fu il Rinascimento”. L’autrice stessa, Marguerite Yourcenar, ha detto più volte: “Amo Zénon, il personaggio centrale del libro, come un fratello”. Creazione romanzesca nata da uno dei suoi primi libri LA MORT CONDUIT L’ATTELAGE, a lungo maturato il libro sarà finalmente pubblicato nel 1968 e messo in vendita durante la tempesta degli avvenimenti del maggio parigino. Al di là del tumulto degli studenti, per i quali era anche la prima manifestazione internazionale poiché essa ha riguardato anche le università europee, americane e persino il Giappone, il personaggio ribelle di Zénon è un simbolo struggente della condizione umana. In un libro diventato un classico, di René Girard, MENZOGNA ROMANTICA E VERITÀ ROMANZESCA, il professore analizza il processo di creazione di cui L’OPERA AL NERO di Marguerite Yourcenar è una illustrazione magistrale. ***
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La peculiarità di un’opera d’arte è quella di appartenere al proprio tempo ed al nostro. Circa quarant’anni ci separano dalla pubblicazione del libro che mantiene integra la sua modernità. Dire che Zénon è una delle figure più compiute dell’opera di Marguerite Yourcenar è dire una banalità; come l’imperatore Adriano o l’uomo oscuro Nathanaël, egli cattura la nostra attenzione e suscita ammirazione e simpatia; perché? Perché, quale che sia il personaggio, è ovunque e sempre Marguerite Yourcenar. Medico e umanista, Zénon attraversa il secolo della Controriforma in un mondo diviso da barriere politiche e religiose tanto insormontabili quanto le nostre. Le forze del male del nostro mondo e del suo, sciagure di ieri e di domani. Zénon è una voce alta e ferma che sentenzia: simbolo ed esempio
dell’uomo perseguitato per la sua libertà di spirito, le sue idee, i suoi scritti. Se pensiamo, all’epoca di Zénon a coloro che ebbero per nome Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei ed altri, quale lista dare oggi? Ieri come oggi “era una di quelle epoche in cui la ragione umana si trova intrappolata in un cerchio di fiamme.” Su un piano più intimo, Zénon sogna di scrivere “un liber singularis in cui avrebbe minuziosamente raccolto tutto ciò che sapeva d’un uomo, il quale era lui stesso, la propria costituzione, comportamento, atti confessati o segreti, fortuiti o voluti, pensieri, persino sogni. Riducendo questo progetto troppo ampio, si limitò a un solo anno vissuto dall’uomo in questione; poi a una sola giornata: l’immensa materia continuava a sfuggirgli, e s’avvide ben presto che di tutti i suoi passatempi quello era il più periglioso.” *** Strana modernità di questa finzione rispetto alle menzogne romantiche. Una vita è troppo ricca e troppo povera per essere ridotta così in capitoli. Gli uomini di oggi come gli uomini di allora passano, scompaiono, come in cielo si fanno e si disfanno le nuvole. Gli uni e gli altri indifferenti davanti all’inestricabile ed inesplicabile destino.
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Marguerite Yourcenar et le cinema Suivi de l’interview du cinéaste André Delvaux à propos de son adaptation d’une partie de L’OEUVRE AU NOIR.
Propos recueillis par DOMINIQUE GABORET-GUISELIN et JEAN-PIERRE EMERY a ANDRÉ DELVAUX 20 mars 1987
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MARGUERITE YOURCENAR ET L’AUDIOVISUEL Les relations entre Marguerite Yourcenar et l’audiovisuel ont toujours été complexes, souvent difficiles, quelquefois désastreuses. Dans la lettre préface au disque qu’elle a réalisée en commun avec la chanteuse de Gospel Marion Williams et dont le titre anglo-saxon est: “precious memories” (précieux souvenirs) Marguerite Yourcenar note: “un écrivain appartient au monde de la parole écrite et non de la parole énoncée ou chantée”. Cet enregistrement réalisé à deux voix présente des textes chantés à cappella par Marion Williams et d’autres récités par Marguerite Yourcenar. Ce travail réalisé aux Etats-Unis devait être complété par une ou deux représentations à l’Espace Cardin à Paris. Le spectacle n’eut jamais lieu en raison de soucis de santé de la cantatrice afro-américaine. Après la mort de Marguerite Yourcenar, j’ai tenté en vain, de correspondre avec Marion Williams, sans succès; il m’importait de connaître les détails sur la réalisation de cet enregistrement. Marion Williams est morte à Philadelphie le 2 juillet 1994. Ce disque, demeuré très confidentiel, est rarement mentionné. Au regard des autres contributions de Marguerite Yourcenar pour la radio ou la télévision, comme elle le dit elle-même, il lui est arrivé d’accepter pour obliger quelques amis, que ce soit en France, en Italie, en Angleterre. Pour la France signalons la Radioscopie, causerie de 5 heures avec Jacques Chancel, les deux numéros d’Apostrophes avec Bernard Pivot, les deux courts métrages l’un sur les gospels et les noirs américains du sud des USA, l’autre sur l’île des Monts déserts “l’Ile heureuse”. Avant d’aborder le cinéma, il convient de réserver une mention particulière pour les entretiens réalisés pour France Culture par Patrick de Rosbo. Diffusés du 11 au 16 janvier 1971, un livre sortira en 1972, publié au Mercure de France. Réalisés dans des conditions difficiles à la fois pour l’écrivain qui avait, à ce moment, de graves soucis de santé et des préoccupations majeures, mais aussi pour Patrick de Rosbo dont c’était le premier travail important. L’une et l’autre garderont un souvenir amer de ce travail dont les qualités sont importantes; première approche d’analyse littéraire d’une oeuvre encore mal connue malgré l’immense succès des MÉMOIRES D’HADRIEN. Une brouille clôturera les relations. Pour le cinéma on peut avancer sans se tromper que ses relations avec le 7ème art ont été pour l’essentiel ombrageuses. Dans DENIER DU RÊVE et dans la pièce de théâtre RENDRE À CÉSAR, dont les thèmes sont identiques, elle brosse le portrait sans fard ni indulgence d’une actrice de cinéma: Angiola Fides, type humain qui sacrifie tout aux apparences et à la réussite de sa carrière. André Malraux, à l’issue de son essai “Esquisse d’une psychologie du cinéma”, écrivait: “le cinéma est un art c’est aussi une industrie”; les préventions de Marguerite Yourcenar sur les usines à rêves sont exprimées à de nombreuses reprises soit directement dans les entretiens soit en filigrane dans ses oeuvres. Elle avait toutefois accepté de confier à Völker Schlöndorf l’adaptation de son roman LE COUP DE GRÂCE. Les propos rapportés par quelques amis
intimes, dont Yvon Bernier, ainsi que les correspondances disponibles à ce jour montrent à l’évidence que Marguerite Yourcenar n’avait pas été satisfaite par l’adaptation de son livre pour le cinéma. Dès lors elle avait refusé toute autre proposition; ses seules contributions se limitant à des rendez-vous avec des journalistes, ses propos étant enregistrés et filmés. En 1986, l’information vérifiée de la mise en scénario d’une partie de L’OEUVRE AU NOIR, livre qui lui tenait passionnément à coeur, par un cinéaste avait de quoi surprendre; le metteur en scène choisi était André Delvaux, cinéaste belge. Je sollicitai alors une entrevue avec André Delvaux alors qu’il travaillait soit épistolairement soit directement avec Marguerite Yourcenar lors de ses courts passages à Paris. Le rendez-vous fut convenu et la date arrêtée au 26 mars 1987 et le texte qui suit fut relu par André Delvaux. Lors de la sortie du film, il n’avait pas souhaité que ses propos soient retenus. Ils éclairent un travail, que pour ma part, je juge raté. Marguerite Yourcenar ne visionnera jamais le film qui sortira peu de jours après sa mort en décembre 1987. Il s’agit aujourd’hui d’un travail de mémoire et d’exactitude que le lecteur interprètera à travers son prisme et du jugement qu’il portera sur le film.
Propos d’ANDRÉ DELVAUX: DOMINIQUE GABORET-GUISELIN Vous allez adapter L’OEUVRE AU NOIR de Marguerite Yourcenar. Qu’est-ce qui vous a amené à envisager cette adaptation? La densité de cette oeuvre ne rend-elle pas l’adaptation difficile, d’autant plus, je crois, que seule la fin de L’OEUVRE AU NOIR est l’objet de votre film.
ANDRÉ DELVAUX Le film ne restituera pas le roman de L’OEUVRE AU NOIR. La raison est qu’il est tout à fait inutile, superflu et aberrant de faire une traduction cinématographique d’une oeuvre existante qui est une oeuvre achevée. “L’oeuvre est faite et elle est là”, disait Baudelaire. Je n’envisage pas de faire LE ROUGE ET LE NOIR d’Autan-Lara. J’ai une formation littéraire et musicale. J’ai étudié la philologie germanique et suis nourri de littérature flamande, allemande et anglo-saxonne, puis française. J’aurais pu devenir musicien, mais les circonstances ont fait que ce n’est pas cette voie que j’ai empruntée. L’amour du cinéma ne m’a toutefois amené à faire un premier film que tardivement. Je nourris des rapports quotidiens et heureux avec la littérature et la musique, en plus de mes activités cinématographiques. Le choix des sujets que j’ai adaptés ne s’est jamais fait en fonction d’une demande commerciale et les oeuvres retenues n’ont pas d’apparence directement cinématographique. Par exemple, L’HOMME AU CRÂNE RASÉ qui est une réflexion égocentrique d’un écrivain flamand, une coulée de conscience. De même, RENDEZVOUS À BRAY de Julien Gracq.
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L’adaptation que je fais d’une oeuvre n’est pas un doublet de l’oeuvre: celleci me sert de point d’appui pour un rêve. C’est une sorte de rapports de parenté qui se développent. Quand, il y a environ six ans, j’ai parlé d’une adaptation possible de L’OEUVRE AU NOIR de Marguerite Yourcenar, ceux qui ne l’avaient pas lu ont trouvé l’idée excellente, mais la première réaction de ceux qui connaissaient le roman a été de demander comment l’adaptation pouvait se faire. Ce n’est pas ma préoccupation. Quand une oeuvre me touche profondément et m’a beaucoup donné à réfléchir, l’idée peut me venir de transformer cette nourriture littéraire en langage cinématographique, étant entendu que ce langage est absolument différent du langage écrit, littéraire. En effet si L’OEUVRE AU NOIR était adaptée musicalement pour devenir une symphonie, personne n’aurait l’idée de chercher un lien nécessaire avec l’oeuvre littéraire. Pour l’adaptation cinématographique, le rapport avec l’oeuvre est identique. Après une longue maturation et une longue réflexion sur l’oeuvre littéraire, celle-ci peut éventuellement devenir une oeuvre cinématographique. Le problème de l'adaptation est autre chose que ce qu’on entend habituellement par adaptation. Par exemple, en ce qui concerne LE COUP DE GRÂCE, adapté par Völker Schlöndorf, il y a une certaine fidélité littéraire, mais il y a des déviations par rapport à l’oeuvre. Marguerite Yourcenar n’est pas d’accord avec cette adaptation parce que les acteurs choisis sont beaucoup moins jeunes que dans le roman et que, de ce fait, leur psychologie n’est plus crédible. De plus, l’atmosphère n’est plus spécifiquement balte, le style a glissé vers un style pseudo-autrichien. L’OEUVRE AU NOIR m’a profondément touché, plus particulièrement au travers de l’itinéraire de Zénon comme personnage dissident, qui naît en tant qu’européen. C’est un personnage qui parle mon langage et très bien de mes problèmes. De plus, le paysage mental flamand de ce XVIème siècle a été bien rendu. A la limite, j’ai retrouvé dans ce roman quelque chose de plus riche que dans ceux de mes compatriotes, alors même que Marguerite Yourcenar n’est pas flamande. C’est une oeuvre essentielle dans la littérature flamande, bien que de langue française. Je suis viscéralement très proche de cette oeuvre. J’avais un ensemble d’idées précises avant d’écrire à Marguerite Yourcenar pour lui demander l’autorisation d’adapter ce roman. Ces idées visaient d’abord à “déblayer le terrain”. Ce que je ne veux pas, c’est faire un film historique à mise en scène historique, à grand spectacle, qui donne de cette époque l’idée qu’il est convenu d’en avoir. Ce n’est pas mon propos pour deux raisons. Lorsqu’il y a un déploiement spectaculaire, comme dans LE NOM DE LA ROSE de Jean-Jacques Annaud par exemple, film que j’apprécie par ailleurs, le trajet personnel du personnage se perd. Or, ce que je veux, c’est effectuer une approche intimiste de Zénon: un personnage et ses rapports avec les autres. Par contre, ces personnages ne seront pas forcément situés dans le cadre historique proposé par Marguerite Yourcenar. Il n’y aura pas fidélité à l’Histoire. Il y a ensuite un problème économique de production s’il y a une reconstitution historique. Je refuse en outre d’utiliser la fin du Moyen-Age comme un prétexte à scènes typiques et à décors (tortures, bûcher, inquisition…).
J’ai écrit longuement à Marguerite Yourcenar à ce sujet pour lui expliquer que je pensais à une telle approche, c’est-à-dire une approche de l’ensemble de l’oeuvre possible. Ce qui me paraissait possible, c’était d’adapter le point de vue de Zénon. L’OEUVRE de Marguerite Yourcenar tient à la fois du dialogue platonicien et du dialogue d’Erasme. C’est un monde entièrement construit par l’auteur et, en l’espèce, la fidélité à l’oeuvre, c’est en comprendre l’esprit et le restituer dans un langage différent qui est celui du cinéma. Les langages littéraires et cinématographiques sont fondamentalement différents. Il n’était pas possible, non plus, d’envisager l’approche du monde ésotérique, qui est obscur pour un spectateur non informé. De plus, ces mystères m’échappent. C’est ainsi que j’ai présenté ma vision de L’OEUVRE AU NOIR à Marguerite Yourcenar, qui m’a répondu par une lettre très heureuse. Elle avait envie d’une rencontre, tout en me disant ses réticences envers le cinéma, et me posait trois ou quatre questions auxquelles j’ai répondu longuement. J’avais alors en chantier un film “Benvenuta” qui est l’adaptation très transformée d’une oeuvre de Suzanne Lilar, membre de l’Académie royale de Belgique qui connaît d’ailleurs bien Marguerite Yourcenar. J’ai attendu la fin de ce film et d’un autre film que j’avais entrepris, “Babel Opéra”, lié à Don Giovanni, pour reprendre contact avec Marguerite Yourcenar, il y a un an et quatre mois, pour lui demander si l’on pouvait poursuivre la conversation. Une rencontre à Bruxelles fut convenue. Je fus étonné de rencontrer une femme ouverte à mes propos et l’on s’est, d’entrée, bien entendus sur L’OEUVRE AU NOIR. Elle a elle-même suggéré un certain nombre de choses et fait des réflexions qui sont celles d’un véritable cinéaste. Elle était d’accord sur le fait que le propos historique général n’est pas un bon point d’appui pour un tel film et qu’il fallait tout raccrocher à Zénon. Pour cela, le meilleur moyen, me dit-elle, est de privilégier un épisode de la vie de Zénon. La baignade de Zénon dans la mer? Il serait trop difficile de remonter dans le temps. La mort du Prieur? Non, plutôt la rencontre avec le Prieur et le retour à Bruges, qui permet de disposer d’un film anecdotique continu. Le problème est de parler de ce qui a nourri Zénon (enfance, ses relations avec Henri-Maximilien…). La matière du film est née: le passé de Zénon ne peut revenir qu’à travers le souvenir, le rêve, éventuellement son imaginaire. Mais le problème est que Zénon ne vit pas de son imaginaire. Il est très proche du réel. Il n’est pas possible, de ce fait, d’adapter une technique qui soit en contradiction avec cela: il faut donc reconstruire l’essentiel de la vie de Zénon en ne faisant pas appel à l’imaginaire. J’ai achevé une première étape l’an passé en terminant le scénario pour négocier la production. J’ai envoyé le scénario à Marguerite Yourcenar qui, il y a trois semaines, m’a envoyé un télégramme par lequel elle me signifiait qu’elle trouvait cela très beau et me donnait son accord complet. D.G.G.
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Vous avez concilié les deux exigences: la sienne et la vôtre? A.D. C’est indispensable – Zénon – c’est elle. Je l’ai revue hier dans un accord complet. Nous avons passé en revue ce qui l’avait frappée. Je lui ai montré des repérages des extérieurs, de villes et des lieux où j’envisageais de tourner. D.G.G. Bruges, je suppose? A.D. La plus grande partie du film sera tournée en Flandre et à Bruges, dans le nord de la France et en Italie. Les scènes se passant à Innsbrück et à Cologne seront maintenues. J’ai longuement cherché un acteur pour interpréter Zénon. Un film est une succession d’images et de sons: il ne faut pas un Zénon ayant la tête d’un acteur connu et célèbre. Mon choix s’est porté sur Gian Maria Volonté. C’est un grand comédien, mais ce n’est pas un comédien qui fera la une des journaux et qui oblitèrera Zénon par sa propre personnalité. Les comédiens sont dans l’ensemble peu connus ou inconnus et le film se fera en français. Les dialogues seront très respectueux de la langue de Marguerite Yourcenar. J’ai cherché des formulations très proches de celles utilisées par l'auteur. Je n’ai rien inventé: il s’agit de L’OEUVRE AU NOIR, mais pas de toute L’OEUVRE AU NOIR. D.G.G. Au moment du retour à Bruges, Zénon est un homme relativement jeune pour notre époque et vieux pour l’époque, le XVIème siècle: il a environ la cinquantaine. A.D. Des retours sont possibles, mais pas trop loin en arrière. Zénon ne sera pas un personnage à transformations. La tranche de vie de Zénon dans le film s’étendra sur une dizaine d’années. D.G.G. Durant cette période de la vie de Zénon, il y a des périodes de grande densité, comme la baignade dans la mer. A.D. Zénon, c’est un homme qui se purifie. L’idée de la baignade, comme toutes les très belles idées, est une idée très simple. Zénon calcule ce qu’il lui reste d’existence et le bain a pour lui une valeur métaphysique.
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D.G.G. Hadrien, Zénon, un homme obscur, sont des hommes de la même famille d’âme. Il y a une filiation très nette entre ces trois types d’hommes, nonobstant leur position très différente dans la société et l’époque à laquelle ils
vivent. A.D. Je ne suis pas un spécialiste de l’oeuvre de Marguerite Yourcenar que j’ai lue, bien sûr, mais c’est L’OEUVRE AU NOIR que j’ai privilégiée. Le dialogue est déjà écrit. Comme je vous l’ai expliqué, j’ai, en accord avec l’auteur, adapté un cadre restrictif. Le film ne durera pas plus de deux heures. Si je me réfère à ma manière habituelle de tourner, j’évalue la durée du tournage à 11 semaines. JEAN-PIERRE EMERY Zénon est un contestataire qui remet en cause les institutions de la société dans laquelle il vit, au XVIème siècle. N’y aura-t-il pas quelques difficultés à présenter cet aspect contestataire?
A.D. Il y a beaucoup de personnages dans L’OEUVRE AU NOIR et il s’agit effectivement du XVIème siècle. Mais le côté contestataire de Zénon est intérieur, ce qui n’implique pas de développements visuels particuliers. Je serais plus près de Dreyer ou Tarkovski que du Bondartchouk de GUERRE ET PAIX. Le spectaculaire est dangereux. D.G.G. Votre film sera-t-il contrasté, en noir et blanc ou en couleurs? A.D. Ce sera un film en couleurs, traité en grisaille, le plus près possible du noir et blanc. En effet, à l’heure actuelle, il faut être riche pour tourner en noir et blanc, comme Woody Allen le fait parfois, car cela nécessite des installations particulièrement coûteuses. De plus, le financement d’un film dépend en grande partie des possibilités de diffusion à la télévision, qui n’achète plus de films en noir et blanc. Mon film sera en clair-obscur, sans coloriage. Le film “Une journée particulière” a été vendu comme un film en couleurs, alors même qu’il n’y avait pas de coloriage. Mon chef opérateur sera celui qui a été celui d’Alain Resnais dans “Mélo”. J.P.E. Comme titre de film, et du fait que ce n’est qu’une tranche de vie de Zénon qui sera présentée, maintiendrez-vous L’OEUVRE AU NOIR? A.D. Je resterai très étroitement “collé” à L’OEUVRE AU NOIR et ne m’en éloignerai pas comme je l’ai fait pour d’autres adaptations. Dans ces conditions, pour l’instant, je conserve ce titre. Mais cela peut changer. D.G.G. Marguerite Yourcenar suivra-t-elle le tournage? A.D. Je la tiendrai au courant, lui présenterai les repérages, comme il est naturel,
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et lui parlerai du choix des comédiens. L’OEUVRE AU NOIR est une oeuvre remarquable. Très moderne dans sa construction, elle mélange à la fois les réflexions philosophiques et sociales, métaphysiques et historiques. Jusqu’à présent, aucune oeuvre importante de cette veine ne la dépasse. La qualité des dialogues est tout à fait remarquable et exceptionnelle, notamment ceux entre Zénon et Henri-Maximilien et Zénon et le Prieur des Cordeliers. Comme je le disais plus haut, ce sont les dialogues d’Erasme qui sont en fait de longs monologues. J.P.E. Marguerite Yourcenar dit elle-même dans “Les yeux ouverts” que le Prieur des Cordeliers est un parèdre de Zénon; le dialogue entre Zénon et le Prieur est en fait presque un monologue avec soi-même? A.D. J’ai transformé le rapport entre Zénon et Henri-Maximilien. Le dialogue entre les deux hommes est devenu dramatique car j’y intègre d’autres éléments que j’ai puisés ailleurs dans L’OEUVRE. L’autre point remarquable de L’OEUVRE AU NOIR, c’est l’alternance très libre de chapitres historiques (Münster, Cologne) et de coulées romanesques. Le langage écrit de L’OEUVRE AU NOIR est d’une extrême densité et contient beaucoup d’informations et de considérations. Il n’est pas d’une lecture courante. Ce n’est pas une oeuvre anecdotique et mon film ne sera pas anecdotique. L’anecdote dans L’OEUVRE AU NOIR se cache souvent dans une proposition subordonnée. Par exemple, l’assassinat de Perrotin n’est mentionné qu’à trois reprises et il faut une singulière attention de lecture pour se souvenir que cet homme a été dagué par Zénon. De ce point de vue, Marguerite Yourcenar est machiavélique d’intelligence. Elle écrit du crypto-Yourcenar, se cite sans qu’on le sache. C’est une oeuvre tout à fait exceptionnelle, très drue et tressée d’une manière serrée. C’est une oeuvre profondément moderne, étant entendu que les modes et la modernité lui sont totalement étrangères.
MODERNITÉ D’UNE OEUVRE A propos de L’OEUVRE AU NOIR de Marguerite Yourcenar
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Zoé Oldenburg, dans une critique sobre et admirative, écrit: “ J’aime surtout L’OEUVRE AU NOIR qui restitue avec tant de vie la richesse et la complexité de cette grande époque que fut la Renaissance”. L’auteur lui-même, Marguerite Yourcenar, a dit à plusieurs reprises: “J’aime Zénon, le personnage central du livre, comme un frère”. Création romanesque issue d’un de ses premiers livres LA MORT CONDUIT L’ATTELAGE, porté et longuement mûri, le livre sera enfin édité en 1968 et sera mis en vente durant la tourmente des événements de mai à Paris. Au-delà du chahut des étudiants, dont c’était aussi la première manifestation internationale puisqu’elle a concerné aussi bien les universités européennes qu’américaines, et même au Japon, le personnage contestataire de Zénon est un symbole poignant de la condition humaine.
Dans un ouvrage devenu classique de René Girard, MENSONGE ROMANTIQUE ET VÉRITÉ ROMANESQUE, le professeur analyse le processus de création dont L’OEUVRE AU NOIR de Marguerite Yourcenar est une illustration magistrale. ***
Le propre d’une oeuvre d’art est d’appartenir à la fois à son temps et au nôtre. Près de quarante ans nous séparent de la publication du livre, qui conserve sa parfaite modernité. Dire que Zénon est l’une des figures les plus achevées de l’oeuvre de Marguerite Yourcenar relève de la banalité; tout comme l’empereur Hadrien ou l’homme obscur Nathanaël, tous les trois retiennent notre attention et suscitent admiration et sympathie; pourquoi? Parce que, quel que soit le personnage, c’est partout et toujours Marguerite Yourcenar. Médecin et humaniste, Zénon traverse ce siècle de la contre- réforme dans un monde coupé en deux par des cloisons politiques et religieuses aussi étanches que les nôtres, les forces du mal d’ici et de là-bas, les avatars d’hier et de demain. Zénon est une voix haute et ferme qui tranche: symbole et exemple de l’homme persécuté pour sa liberté d’esprit, ses idées, ses écrits. Si nous pensons au temps de Zénon, à ceux qui eurent pour noms Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galilée, et quelques autres, quelle liste donner aujourd’hui? Hier comme maintenant, “c’était une de ces époques où la raison humaine se trouve prise dans un cercle de flammes”. Sur un plan plus intime, Zénon rêve d’écrire un “liber singularis” où il serait minutieusement consigné tout ce qu’il savait d’un homme qui était luimême: sa complexion, son comportement, ses actes avoués et secrets, fortuits ou voulus, ses pensées et aussi ses songes. Réduisant ce plan trop vaste, il se restreignit à une seule année vécue par cet homme puis à une seule journée: la matière immense lui échappait et il s’aperçut bientôt que de tous les passe-temps, celui-là était le plus dangereux. ***
Étrange modernité de cette fiction face aux mensonges romantiques. Une vie est trop riche et trop pauvre pour être réduite ainsi en chapitres. Les hommes du temps présent comme ceux du temps jadis passent, disparaissent, comme se font et se défont au ciel les nuages. Les uns et les autres indifférents face à l’inextricable et inexplicable destin.
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Dalla magia alla scienza moderna nel ‘500 LINA LO GIUDICE SERGI
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“Che cos’è l’errore, e il suo succedaneo, la menzogna, se non una sorta di Caput Mortuum.una materia inerte senza la quale la verità troppo sfuggente non si potrebbe tritare negli umani mortai? Mi sono guardato bene dal fare della verità un idolo; ho preferito lasciarle il nome più umile di esattezza” Così Zenone parla della sua ricerca di filosofo – alchimista del ‘500. Così M. Yourcenar costruisce intorno al personaggio di Zenone, nell’Opera al Nero, lo sfondo in cui, tra mille difficoltà, di ordine conoscitivo, politico e religioso, si forma l’embrione del pensiero scientifico moderno. Il ‘500 vede la rottura dell’unità dello scibile inglobato dalla teologia e una tendenza alla laicizzazione del sapere, in virtù della quale le varie discipline umane cominciano a rivendicare ognuna la propria libertà operativa. Ad esempio, la letteratura difenderà il principio dell’autonomia dell’arte, vista nei valori formali di “bellezza”, che le sono propri, e Galileo più tardi, perverrà alla fondazione dell’autonomia della scienza, svincolata dai condizionamenti della tradizione metafisica e teologica. Gli avvenimenti di cui, nell’ “Opera al nero”, Zenone è protagonista e/o vittima, si svolgono in questo periodo, dall’inizio alla fine del ‘500, ed è la stessa Yourcenar, nella “nota dell’autore”, in calce al romanzo, ad evocare, personaggi realmente esistiti, cui si è ispirata o cui fa riferimento esplicito nella sua narrazione: da Erasmo a Paracelso, a Campanella, Tycho-Brahe, Cardano, Serveto, fino a Giordano Bruno. Tutti questi pensatori svolgono la loro ricerca spesso in contrasto con il pensiero e le regole ecclesiastiche del tempo, ma non in contrasto con la religione, essendo spesso essi stessi uomini di chiesa, ma vivendo la propria religiosità in maniera innovativa, enfatizzando il divino che è nell’uomo e nel mondo. In questo periodo di transizione tra il Medioevo e il mondo moderno, gli uomini del Rinascimento sono ancora legati ad una spiritualità fortemente conservatrice, che li trascina verso forme di fanatismo religioso, anche nelle molteplici espressioni della riforma protestante e tuttavia si avviano ad esplorare l’ignoto, verso nuovi paesi, verso nuovi confini del pensiero filosofico e scientifico. I confini del mondo, i confini del pensiero aristotelico sono varcati: Colombo arriva nelle Americhe, Montaigne vuole rintracciare nelle esperienze dei classici le proprie esperienze. Si riscopre Platone, anzi il platonismo rinascimentale si connota di elementi disparati: neo-platonici, orfici, pitagorici, ermetici e cristiani. L’uomo è situato per Cusano e Ficino in una posizione sua propria che fa di lui un elemento indispensabile dell’ordine e dell’unità dinamica dell’Essere. Pico arriva a conciliare e sintetizzare le dottrine più diverse: quelle della sapienza orientale, quelle dei greci e quelle medioevali, oltre alla magia e alla Cabala. Respinge la magia dei negromanti, che invocano spiriti e demoni, ed esalta la sola “magia naturale” che non infrange l’ordine del mondo ma piuttosto lo asservisce, utilizzando tutte le energie che sono disseminate in natura. La Cabala invece serve a penetrare i misteri divini: essa è in accordo perfetto non solo con le dottrine della Chiesa e della filosofia cristiana ma anche con quelle di Pitagora e di Platone. Solo di fronte all’astrologia Pico assume un atteggiamento di riserva: egli ammette l’astrologia matematica o speculativa che si preoccupa unicamente di determinare le leggi matematiche dell’universo, ma rigetta l’astrologia divinatrice che pretende derivare dal corso degli astri, le vicende della vita umana. Cusano, Ficino, Pico della Mirandola, infine Bruno, sono d’accordo sul ritor-
no ad una religiosità originaria, ai teologi dell’antichità, a coloro che hanno elaborato ed espresso la vita religiosa in pregnanti formule di pensiero, alle fonti del Cristianesimo, alle parole di Cristo, alla verità rivelata della Bibbia, per ripristinare nella sua purezza e genuinità il testo biblico. Caratteristica dell’umanesimo è anche qui il momento filologico come strumento di un’esigenza più profonda, quella di tornare al significato vero e originario della parola divina per farla valere in tutta l’efficacia della sua potenza di rinnovamento. Questo momento filologico umanistico della Riforma è rappresentato da Erasmo: “facilmente discende nell’anima di tutti ciò che massimamente è conforme a natura. Ma la filosofia di Cristo, che egli stesso chiama Rinascita, che cosa è se non la restaurazione di una ben costrutta Natura?”. La nascita illegittima di Zenone e la sua educazione indirizzata alla carriera ecclesiastica, non può non evocare la nascita e la formazione di Erasmo, figlio di un uomo di chiesa e di una borghese di Rotterdam, che cominciò la sua vita di uomo sotto l’abito del monaco agostiniano (come riferisce Yourcenar nella sua nota all’Opera al nero). In questo sfondo drammatico, tra il 1510, data presunta della nascita di Zenone e il 1578, data della sua morte, si verificano eventi epocali: Leonardo muore nell’esilio di Amboise, Paracelso viaggia per il mondo e suoi contemporanei sono i medici Veselio e Parè, il botanico Cisalpino, i matematici e filosofi Gerolamo Cardano, Tycho-Brahe, Giordano Bruno. Tommaso Campanella è già nato. Tutti questi personaggi compaiono e fanno da sfondo alla vita di Zenone. Il pensiero rinascimentale che nel ‘500 fa esplodere l’Europa dall’Italia alle Fiandre, è caratterizzato da un nuovo rapporto dell’uomo con la Natura. L’uomo non è più, come nel Medio Evo, ospite della natura, ma essere naturale esso stesso, cha ha nella natura la sua patria; una Natura che appare come un immenso serbatoio di forze vitali, in cui si incarna la potenza di Dio, ma di cui l’uomo è partecipe e interessato perciò a studiarne i fenomeni. Il tema dell’uomo come “natura media”, tema comune ad umanisti, Platonici, aristotelici e maghi, esprime la consapevolezza con cui l’uomo si riconosce essenzialmente inserito nel mondo e la sua decisione di servirsi della propria posizione privilegiata, simile a quella di Dio, per fare del mondo stesso il suo regno. L’indagine naturale comincia ad apparire strumento indispensabile, poiché solo da essa l’uomo può trarre i mezzi per tale realizzazione. Essa è infatti parte fondamentale della filosofia del Rinascimento cinquecentesco e vi si contrappongono e/o si compenetrano i due aspetti di essa: la magia e la filosofia della natura. La Magia è caratterizzata dalla certezza di una universale animazione della natura, che si ritiene mossa da forze simili a quelle che agiscono nell’uomo, armonizzate da una “simpatia” universale. Questo offre all’uomo la possibilità di penetrare nei più riposti recessi della natura e di riuscire a dominarne le forze con “incantesimi”, gli stessi con cui si convince un essere umano. Perciò la magia cerca formule e procedimenti che servano di chiave per i più riposti misteri naturali e pongano l’uomo in possesso di un potere illimitato sulla natura. Molti sono i personaggi fascinosi del mondo dei maghi, tra cui, Gerolamo Fracastoro, Gerolamo Cardano,Cornelio Agrippa e Paracelso, questi due ultimi mi appaiono particolarmente interessanti, per altro più volte citati nell’opera in nero della Yourcenar.
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Cornelio Agrippa di Nettesheim, come Pico della Mirandola e Reuclin, conformemente alla Cabala, sostiene l’esistenza di tre mondi (quello degli elementi, quello celeste e quello intelligibile) collegati tra di loro in modo tale che dal mondo superiore la virtù possa passare fino all’inferiore e viceversa. Per l’universo utilizza una metafora usata dai nostri contemporanei a proposito della globalizzazone: come una corda tesa, se è toccata in un punto, subito vibra tutta, così l’universo se è toccato ad uno dei suoi estremi risuona anche all’estremo opposto. E’ l’anima del mondo, che opera in tutte le parti dell’universo visibile che tiene avvinto l’universo e garantisce l’azione reciproca delle sue parti. E la magia è la scienza più alta e compiuta, perché è quella che asservisce all’uomo tutte le forze nascoste della natura ed è : magia naturale, magia celeste (astronomia) e magia religiosa (contro i demoni). Ma il più famoso dei maghi fu Paracelso. Il suo vero nome era Philipp Bombast di Hohenheim, svizzero di Einsiedeln, medico e chirurgo, anzi riformatore della medicina in senso magico. Paracelso è un mago, ma contemporaneamente un anticipatore del metodo scientifico: l’uomo è stato creato per conoscere le azioni miracolose di Dio e per operarne di simili: il suo compito è perciò la ricerca. Ma la ricerca deve connettere insieme l’esperienza e la scienza per giungere ad una conoscenza vera e sicura; ma questa ricerca ha per Paracelso un carattere magico: il principio che deve guidarlo è la corrispondenza tra il microcosmo (l’uomo) e il macrocosmo (il mondo); se vogliamo conoscere uno dobbiamo conoscere l’altro. La medicina che ha lo scopo di conoscere l’uomo, per conservargli la salute e liberarlo dalle malattie, deve fondarsi su tutte le scienze che studiano la natura dell’universo. Questa è la riforma della medicina, che Paracelso tentò e che, se da un lato, gli procurò l’odio e le persecuzioni dei colleghi medici, lo mise in grado di operare miracolose guarigioni (almeno per quel tempo). La medicina per Paracelo si fonda su quattro colonne che sono: la teologia, la filosofia, l’astronomia e l’alchimia. Tutte queste scienze hanno carattere magico: la teologia serve al medico per utilizzare l’influsso divino che è quello da cui tutto dipende; l’astrologia gli serve per utilizzare gli influssi celesti, dai quali dipendono le malattie e quindi le cure relative; l’alchimia gli serve per conoscere la “quintessenza” delle cose ed applicarla alla guarigione. Il mago, con la forza della sua fede e della sua immaginazione esercita sullo spirito degli uomini o sullo spirito della natura, un influsso che suscita potenze sconosciute e nascoste e giunge così ad operare cose ritenute impossibili. Dal “fiat” divino è nata in primo luogo la materia originaria (yliaster o hyaster) costituita da zolfo, sale e mercurio. Da essi sono costituiti i quattro elementi del mondo e ogni corpo naturale. La forza che muove gli elementi è lo spirito animatore o Archeus. La“quintessenza” è l’estratto corporeo di una cosa, ottenuta mediante l’analisi della cosa stessa, con la separazione dell’elemento dominante, dagli altri elementi mescolati ad essa. In essa sono riposti gli “arcani” cioè la forza operante in un minerale, in una pietra preziosa o in una pianta. Di essa pertanto la medicina, attraverso l’alchimia, deve servirsi per guarire le malattie dell’uomo. La Filosofia Naturale, che alla nascita è impregnata di magia o meglio convive con essa, e da essa trae in parte le sue origini, si afferma per la prima volta come filosofia, con Bernardino Telesio, abbandonando le sue origini magiche. Per il cosentino Telesio la natura è pur sempre considerata una totalità vivente, ma retta da propri principi, e la scoperta di questi principi diventa il compito della filosofia. Si rinuncia alla pretesa di penetrare con violenza nei miste-
ri naturali, anzi si negano tali misteri: le forze naturali si rivelano all’esperienza, occorre solo riconoscerle e assecondarle. La filosofia della natura prende le distanze sia dalla magia che dall’aristotelismo e pretende invece di spiegare la natura con la natura stessa, aprendo la via alla vera e propria indagine scientifica. L’uomo, per conoscere la natura, non deve far altro che far parlare, la natura stessa, affidandosi ai sensi che gliela rivelano, in quanto egli stesso è natura; Per cui “ciò che la natura stessa rivela, è ciò che i sensi testimoniano” sono la medesima cosa; la sensibilità non è altro che l’autorivelazione della natura a quella parte di sé, che è l’uomo: le due forze principali che agiscono nella natura sono il caldo e il freddo, che come forze incorporee hanno bisogno di una massa corporea che possa subire l’azione dell’uno o dell’altro. Questa massa, provvista di inerzia, è il terzo principio naturale. Gli organi di senso che caratterizzano uomo e animali, sono vie o aperture attraverso la quali le azioni delle cose esterne giungono più facilmente alla sostanza senziente, ma non sono indispensabili alla sensibilità, che risiede nel caldo e nel freddo, principi originari (terra e sole). La fisica di Telesio si mantiene sul piano qualitativo, tuttavia egli avverte l’esigenza di un’analisi quantitativa, necessaria per determinare la quantità di calore sufficiente a produrre i singoli effetti naturali. Pur dichiarando di non poter da solo soddisfare questa esigenza, per l’esiguità del tempo che egli può dedicare allo studio della natura, tuttavia, egli afferma che solo questa analisi quantitativa può rendere gli uomini “non solo sapienti ma potenti” cioè può dare ad essi il controllo delle forze naturali. Telesio svolge una critica totale alla filosofia aristotelica: al Dio motore immobile contrappone un dio principio della conservazione di tutti gli esseri della natura, che agisce per il tramite di tutte le forze naturali, che senza l’ordine stabilito da dio si distruggerebbero a vicenda, un dio, quindi, garante dell’ordine e dell’autonomia della natura. La fisica di Telesio ha conservato il presupposto fondamentale della magia: l’animazione della natura, tuttavia ha affermato l’oggettività e l’autonomia del mondo naturale aprendo la strada all’indagine scientifica di Leonardo. Per Leonardo arte e scienza non sono due attività diverse e indipendenti: esse hanno un unico scopo che è la conoscenza della natura. Leonardo considera come superiore a tutte le arti la pittura che cerca nelle cose la “divina proporzione” che le fa belle e presuppone quindi lo studio diretto a rintracciare nelle cose quella stessa armonia che la scienza esprime nelle scienze matematiche. Leonardo respinge nella ricerca scientifica ogni autorità e speculazione che non abbia il fondamento nell’esperienza “la sapienza è figliola dell’esperienza”. La matematica è il fondamento di ogni certezza. La negazione di ogni diversità tra le sostanze celesti e quelle terrene, già fatta da Cusano, è ribadita da Leonardo, come è ribadita la relatività del punto di vista geocentrico. Egli nega che la terra sia nel mezzo dell’universo e osserva che per chi stesse sulla luna la terra farebbe l’effetto che fa a noi la luna. Ma i maggiori contributi di Leonardo sono nel campo della meccanica: per primo esprime il principio di inerzia: “ogni moto naturale e continuo desidera conservare il suo corso per la linea del suo principio.” Leonardo studia il movimento sul piano inclinato, riconoscendo che le leggi della caduta dei gravi si verificano anche in tale movimento. Ma soprattutto nel campo della statica scopre il principio della composizione delle forze, costruisce strumenti e metodi di misura come il dinamometro e l’igrometro. Fa studi importantissimi sulla propagazione della luce e sul volo degli uccelli e soprattutto in medicina e biologia, disseccando
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i cadaveri (su autorizzazione del papa Giulio II) ottiene risultati straordinari sulla circolazione del sangue e sul funzionamento degli organi. Si è forse ispirata a lui la Yourcenar nel costruire il personaggio di Zenone? A metà del secolo Giordano Bruno ritorna in parte al neo-platonismo e alla magia: mentre viaggia per l’Europa (come il nostro Zenone) più volte sceglie ed abbandona l’abito del monaco, si avvicina al cattolicesimo, al calvinismo, distaccandosene in seguito e proponendo una nuova religione della natura e della operosità umana. Passa attraverso le molteplici suggestioni culturali del suo tempo: ermetismo, magia, astrologia, cabala, arte della memoria, neoplatonismo, aristotelismo per dar vita, attraverso di esse, ad una filosofia nuova, libera e aperta, capace di attuare lo”spaccio della bestia trionfante” di liberare, cioè l’uomo, dai miti e dalle superstizioni, dall’ignoranza, e dall’ “asineria”. Un simile progetto, inevitabilmente doveva essere giudicato eretico e pericoloso per qualsiasi tipo di fede religiosa o tradizione filosofica e per l’ordine civile che si fonda su di esse. Bruno si oppone a tali accuse, rivendicando per sé e per tutti gli studiosi, libertà di indagine ed autonomia di pensiero. “La mente, lo spirito, l’anima, la vita che penetra tutto è in tutto e muove tutta la materia”. L’universo uno ed infinito, per l’unicità e l’infinità della forza vitale che lo anima, si presenta come un tutto organico “grande animale” capace di muoversi per impulso e finalità propria. Bruno mette in luce sia l’autonomia del mondo (che si trasforma in virtù della propria forza e non per dipendenza da cause esterne) sia l’autonomia della filosofia e delle scienze che studiano la natura. L’anima del mondo, forza primigenia ed infinita che spinge la materia a produrre infinite forme, permette di affermare l’armonia e l’eccellenza della natura, l’autonomia del suo dinamismo, l’indipendenza della scienza naturale da autorità esterne. La cosmologia vivente di Bruno ed il carattere unico ed infinito dello spirito che anima la materia stanno a fondamento dell’attacco bruniano alle cosmologie antiche e recenti, compresa la visione copernicana, di un mondo eliocentrico e chiuso. Infatti l’attributo fondamentale dell’universo è, per Bruno, l’infinito. Ad esso sono dedicate la “Cena delle ceneri”, il “De l’infinito universo et mondi” e il poema latino “Sull’immenso”. Il tema dell’infinito rappresenta l’importante punto di incontro tra Bruno e la rivoluzione astronomica moderna, di cui egli è uno dei rappresentanti principali. Infatti il mondo di Copernico, a parte l’eliocentrismo, è ancora fondamentalmente un mondo del passato, perché, nel quadro geometrico tracciato nel “De revolutionibus orbium celestium” non solo l’universo continua a fare tutt’uno con il sistema solare, ma risulta limitato dalla “ultima sphaera mundi” “se ipsam et omnia continens”. Di conseguenza, anche se egli ha notevolmente ampliato il cielo delle stelle fisse, di fatto il suo universo è ancora “finito”. Invece Bruno, riprendendo il “De rerum natura” di Lucrezio, e forzando in maniera creativa il pensiero di Cusano, giunge ad una nuova visione dell’universo che non deriva da osservazioni astronomiche o calcoli matematici, ma da una intuizione di fondo del suo pensiero – quella dell’infinità dell’universo – alimentata dal copernicanesimo. “Sono dunque soli innumerabili, sono terre infinite, che similmente circuiscono quei soli, come veggiamo questi sette circuire questo sole a noi vicino” (“De l’infinito universo et mondi”). Per sintetizzare in questa sede le tesi cosmografiche rivoluzionarie di Bruno possiamo individuare 5 punti:
1) Abbattimento delle “mura esterne dell’universo” 2) Pluralità dei mondi e loro abitabilità 3) Identità di struttura tra cielo e terra 4) Geometrizzazione dello spazio cosmico 5) Infinità dell’universo La concezione del mondo di Bruno è vitalistica e magica, possente e profetica, ma apparve al suo tempo il frutto di una mente esaltata. Anche i più grandi astronomi del tempo. – Tycho Brahe, Keplero e Galileo le accolsero freddamente o le rifiutarono in gran parte, respingendo soprattutto l’idea della pluralità dei mondi e dell’infinità dell’universo. Di fronte allo scossone copernicano, la chiesa all’inizio non si mosse, forse perché alle prese con i problemi più urgenti derivanti dal dilagare dell’eresia protestante. Infatti è soltanto dopo che Bruno avrà tratto le sue radicali conclusioni cosmologiche, che la chiesa, preoccupata, giungerà a mettere all’indice le opere di Copernico, iniziando il duro scontro con Galileo. Infatti se l’ipotesi della molteplicità ed abitabilità dei mondi fosse stata esatta, alcune verità bibliche avrebbero dovuto essere abbandonate o interpretate in altro modo. Il copernicanesimo, comprese le generalizzazioni di Bruno, rappresentava l’esperienza della diversità poiché, tramite essa, l’uomo, analogamente a quanto era avvenuto per le scoperte geografiche, veniva a contatto con una realtà “diversa ed imprevista” con cui doveva fare i conti, ma che non sapeva facilmente inquadrare e ridurre al “già noto”. Come l’esistenza di un nuovo continente e l’incontro con altre civiltà e culture, aveva disorientato l’uomo europeo che si era trovato di fronte a tutta una serie di problemi teologici e filosofici relativi ai “selvaggi”, così a maggior ragione, di fronte alla perdita del loro tradizionale posto nell’universo, gli individui si sentirono spaesati e diversi di fronte a se stessi, scoprendo di essere altro da quello che avevano immaginato di rappresentare nel cosmo. Tipica in questo senso è la voce del poeta inglese Donne (1573-1631) il quale in anatomia del mondo (1611) scrive che: “la nuova filosofia pone tutto in dubbio…l’elemento fuoco è affatto spento, si sono persi il sole e la terra, né ingegno d’uomo può indirizzare dove cercarli e allorché gli uomini cercano tanti nuovi mondi tra i pianeti e nel firmamento confessano liberamente che questo mondo è finito; si accorgono, allora che questo si è di nuovo polverizzato nei suoi atomi, tutto è in pezzi, ogni coerenza se ne è andata, ogni giusto supporto e ogni relazione”. Ma per ironia della sorte, o per quei paradossi di cui è piena la storia, quella visione del mondo, che aveva portato al rogo Bruno, finì per affermarsi, proprio grazie agli argomenti teologici già da lui stesso delineati. Infatti le difficoltà religiose furono superate in virtù dell’idea secondo cui un universo infinito risultava più adatto a rispecchiare.l’infinita potenza di Dio. Se i cieli e la terra narrano la gloria del loro Creatore, che cosa meglio di un cosmo infinito si prestava a celebrarla e a magnificarla in tutta la sua grandezza? La controriforma aveva stabilito che ogni forma di sapere dovesse essere in armonia con la sacra Scrittura: il cardinale Bellarmino gesuita e filosofo, consultore del Santo Uffizio, sosteneva che il negare certi dati di fatto delle scritture, pur non intaccando i fondamenti della fede, invalidasse la verità della Bibbia, che, essendo stata scritta sotto ispirazione dello Spirito Santo non poteva che essere vera in tutte le sue affermazioni. Ma fra il 500 e il 600 appare e si impone Galileo: il primo risultato storicamente decisivo della sua opera è la
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difesa dell’autonomia della scienza cioè la salvaguardia dell’indipendenza del nuovo sapere da ogni ingerenza esterna. A differenza di altri dotti del tempo che avevano scelto di non sfidare le autorità costituite, soprattutto ecclesiastiche, Galileo intuisce che la battaglia per la libertà della scienza era una necessità storica di primaria importanza da cui dipendeva il futuro dell’umanità. Da ciò la sua lotta su due fronti: l’autorità religiosa e l’autorità culturale personificata dagli aristotelici. La cosmologia tolemaica sosteneva che i corpi celesti, essendo perfetti, fossero incorruttibili e non soggetti a divenire. Questo pregiudizio era già stato negato su base teorica da Cusano, Leonardo e Bruno. Ma è soltanto con Galileo che riceve il suo colpo di grazia su base sperimentale. Infatti, grazie all’uso del telescopio, Galileo scopre macchie scure sulla superficie solare, che si formano e scompaiono, attestando l’esistenza di un processo di trasformazione in atto e dimostrando clamorosamente come anche i corpi celesti fossero soggetti a fenomeni di alterazione e mutamenti. Sempre grazie al telescopio, Galileo potè dimostrare, (cosa che Bruno non poteva fare) l’esistenza di numerose stelle mai scorte prima e che si affollavano davanti al mezzo di osservazione. Inoltre potè rendersi conto che la Galassia è niente altro che una congerie di innumerevoli stelle disseminate a gruppi negli spazi e che le nebulose sono parimenti greggi di piccole stelle. Un altro risultato storicamente decisivo dell’opera di Galileo – che fa di lui il padre della scienza moderna è la scoperta del metodo della fisica, ossia l’individuazione del procedimento che ha spalancato le porte ai maggiori processi scientifici dell’umanità da Newton ad Einstein e ai giorni nostri. E’ questo il momento più comunemente noto del metodo scientifico, denominato sperimentale. “Le necessarie dimostrazioni o matematiche dimostrazioni” di Galileo sono i ragionamenti logici condotti su base matematica, attraverso cui il ricercatore, partendo da un’intuizione di base, e procedendo per una supposizione, formula in teoria, le sue ipotesi, riservandosi di verificarle nella pratica. Non sempre è possibile una verifica diretta, ma è possibile una verifica indiretta delle conseguenze che vengono dedotte dall’accettazione di tali principi. Da questi accenni al metodo emerge chiaramente come in Galileo i concetti di esperienza e di verifica assumano un significato inconfondibile ed originale rispetto al passato: lo scienziato deve esclusivamente occuparsi delle “leggi” che regolano i fatti ossia delle verificabili costanti di ogni comportamento attraverso cui la natura agisce. Dalla rivoluzione scientifica in generale e dal metodo galileiano, in particolare emerge:
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a) la concezione della natura come ordine oggettivo e casualmente strutturato di relazioni governate da leggi; b) la concezione della scienza come sapere sperimentale – matematico ed intersoggettivamente valido, avente come scopo la conoscenza progressiva del mondo circostante ed il suo dominio a vantaggio dell’uomo. La scienza è un sapere sperimentale perché si fonda sull’osservazione dei fatti e perché le sue ipotesi vengono giustificate su base empirica, matematica, che mette capo all’esperimento e cioè ad una procedura appositamente costruita per la verifica delle ipotesi. La quantificazione si configura come una delle condizioni imprescindibili delle condizioni della natura e come uno dei punti di forza del metodo galileiano. La scienza è un sapere intersoggettivo: i suoi procedimenti vogliono essere pubblici, accessibili a tutti e le sue scoperte controllabili da ognuno. In tal
senso la scienza moderna dopo Galileo, si stacca dalla magia e dalle discipline occulte, che presupponendo una concezione “sacerdotale o iniziatica” del sapere, considerano la conoscenza come patrimonio di una cerchia ristretta di individui, che lavorano in segreto, senza esibire alla luce del sole i metodi della loro ricerca. Da ciò l’equazione: scienza = sapere universale che da Galileo in poi ha costituito uno dei suoi fondamenti. Il fine della scienza è, da Galileo in poi, la conoscenza oggettiva del mondo e delle sue leggi e andando incontro a quel fondamentale interesse umano che è il dominio dell’ambiente. Di conseguenza il baconiano “sapere è potere” esprime tutta l’umanità della scienza, cioè il suo collegamento con il soggetto concreto che la gestisce. Conclusioni Ma la scienza moderna, dal ‘500 in poi, non nasce solo per caso o per la genialità degli straordinari umanisti – rinascimentali che l’hanno fondata. C’è un preciso contesto storico, caratterizzato dai mutamenti di struttura dell’economia europea e dal nuovo tipo di società venutasi a delineare all’inizio dell’età moderna. Infatti, la formazione di stati nazionali e cittadini, parallelamente al consolidarsi della civiltà urbano borghese, produce un sistema di vita più complesso e dinamico, che provoca una serie concomitante di esigenze e di bisogni sociali. Ma se l’affermarsi della civiltà urbano-borghese ed il concomitante sviluppo della tecnica (vedi pag.25 di Opera al Nero- Colas Gheel e i telai meccanici) rappresentano la molla storico sociale della rivoluzione scientifica, la cultura tardo – scolastica e rinascimentale, ne rappresentano le basi ideali. In primo luogo il Rinascimento, con la sua tendenza a laicizzare il sapere e la sua rivendicazione della libertà della ricerca intellettuale, ha tracciato la strada maestra della scienza, preparando la possibilità stessa della sua nascita. In secondo luogo, il principio del ritorno ai classici ha prodotto il riemergere di dottrine trascurate per secoli: la filosofia di Democrito e degli atomisti, le teorie eliocentriche dei pitagorici, gli studi di Archimede e di Erone, le ricerche dei geografi, degli astronomi e dei medici dell’età ellenistica, i cui testi hanno fornito l’ispirazione per nuove scoperte, come è accaduto a Copernico. Infine, il Rinascimento, imperniato sulla rivalutazione della natura, ha posto le condizioni di fondo per uno sviluppo dell’indagine naturale, attraverso i tre filoni cui prima abbiamo accennato: l’aristotelismo, la magia e la filosofia della natura, diffondendo l’idea dell’uomo come signore delle forze naturali e anticipando così il concetto del carattere attivo e operativo del sapere, che bacone riterrà proprio della scienza. E infine Leonardo, Copernico e Galileo ci hanno detto che la natura è scritta in termini geometrici per cui l’unico linguaggio atto ad esprimerla è quello rigoroso della matematica. Ma non posso concludere questo breve excursus sulla nascita della scienza senza far cenno all’importanza che ebbe per il sostegno alle ricerche di Galileo prima, e allo sviluppo e alla diffusione della scienza, in seguito, la fondazione dell’Accademia dei Licei nel 1601, ad opera del principe Federico Cesi, straordinaria figura di intellettuale, scienziato e mecenate illuminato che convogliò nell’Accademia i più lucidi ingegni dell’epoca e che ancora oggi, rappresenta la sintesi del Sapere (umanistico e scientifico) e il punto di riferimento più alto per la diffusione dello stesso.
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L’Opera al Nero: immagini dalla pittura GIOVANNA BONASEGALE
Dedico questo scritto alla cara memoria, sempre presente, di Maura Piccialuti. Insieme con lei ho letto le opere della Yourcenar. La vita di Zenone – personaggio immaginario ma non troppo – che ci consegna Marguerite Yourcenar è irrequieta, incalzante, in costante fuga all’interno di due colpevoli prigioni, nelle quali non si stanca di frugare, di rovistare: il mondo e il corpo. Trascorrono in lui inquietudini, turbamenti, alterazioni, rovelli, che abitano il lacerante pensiero filosofico e scientifico rinascimentale e scivolano fino a coinvolgere ogni altra presenza del romanzo. Uomini, animali, elementi di natura, perfino gli oggetti sono complici del tormento conoscitivo di Zenone, che lo conduce a indagare sull’origine delle cose e, insieme, lo minaccia, lo incarcera in un sistema di attese e di presagi. Il desiderio di libertà, diventato suprema malinconia, lo insegue mentre si fanno sempre più imprudenti e azzardati i tentativi di affermare, di dimostrare anche a se stesso, le proprie intuizioni. Fino a intravedere nell’evanescenza forzosa dei propri progetti l’unica concretezza possibile: rendersi libero, attraverso il suicidio, dalla prigione del mondo e dalla morte alla quale è stato condannato. Libertà e morte sono dunque le due protagoniste del romanzo accanto a Zenone, molto più vicine tra loro di quanto la nostra contemporanea coscienza europea sappia immaginare. Per descrivere l’ambiente nel quale Zenone si muove, Marguerite Yourcenar ha guardato la pittura rinascimentale da Leonardo a Bosch, da Dürer a Rubens, da Ruysdael a Hobbema, da Rembrandt a Vermeer, dove non è difficile imbattersi in quella salda unione tra scienza e pittura, che pure trapela, impercettibile e mai ostentata, in alcuni episodi del romanzo. A una nuova teoria della visione condussero gli studi di ottica rinascimentale, che si traspose sì nei dipinti, ma più ancora in una rinnovata visione delle cose, degli oggetti, dello stesso uomo e della natura. Incontriamo con frequenza specchi, immagini riflesse, analisi minuziose dell’anatomia umana e, soprattutto, del mondo degli animali, dagli insetti agli uccelli. Gli esperimenti alchemici invadono anch’essi il campo della pittura e il confine tra medicina, magia e pittura diventa sempre più sottile. I trattati sulle arti figurative sono intrisi di sapere scientifico e gli artisti vengono spesso esortati a consultare gli “anatomici”, a conoscere nel dettaglio il corpo umano per poterlo riprodurre nelle loro opere. Quando, ovviamente, non erano essi stessi a diventare clandestinamente sezionatori di cadaveri.
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Il mondo che incontriamo, seguendo la vita di Zenone, è descritto dalla Yourcenar in maniera altrettanto minuziosa, quasi si trattasse di accompagnarci, attraverso il suo stesso modo di vedere, a percepire gli stati d’animo e le emozioni del protagonista. Tutto mutuato da una cultura scientifica agli albori, ma che ancora oggi ci infonde inconsapevoli suggestioni e interrogativi. I venti specchietti convessi nei quali Zenone vede riflessa e distorta venti volte la propria immagine e soprattutto la lente nella quale – sbigottito, poi quasi spaventato e infine appagato – vede ingrandito il proprio occhio che guarda, quante volte li abbiamo incontrati, prima ancora che si diffondessero le teorie di Keplero, in dipinti fiamminghi? La mano sicura o la figura fiera del pittore che si raddoppiano sulla superficie
di un vetro; il volto che appare appena deformato sulla concavità di una teiera d’argento; l’estrema, superba ambiguità del quadro nel quadro o la sorprendente capacità di qualsiasi rifrazione di luce nel consegnarci oggetti altri, destrutturati rispetto alla conoscenza che ci consente di dare un nome alle cose, quasi irriconoscibili eppure reali: queste stesse sono le visioni nelle quali Zenone si perde. E non gli vale appellarsi alla purezza, perché si accorge subito che la purezza alchemica, quella che nomina i colori e le materie, è anch’essa visione di sogno: raggiunge lo spirito, ma è altrettanto sconosciuta al corpo. Le fisionomie degli attori del romanzo – uomini e donne, grandi borghesi, alto clero, così come la rimbombante folla dei più umili – i loro abiti, la descrizione degli interni sono sì tratte da documentazione d’archivio, dalle fonti, ma la stessa Yourcenar, nella nota finale, definisce ritratti le descrizioni dei personaggi e non può sfuggire la contiguità dei vari dettagli, a volte addirittura dei tratti somatici, con la grande ritrattistica dell’epoca, da Albrecht Dürer a Lorenzo Lotto, ma soprattutto con gli eloquenti esiti espressivi di Hans Holbein il Giovane. Il mondo dei contadini, quello del popolo “minuto” – se ancora in pieno rinascimento si può definire con questo aggettivo una classe sociale a metà tra piccola borghesia, artigiani e salariati – è descritto così come potrebbe uscire da una serie di quadri di Hieronymus Bosch o di Pietro Brueghel, il Vecchio: intriso di non ingenua sensualità, preoccupato della sopravvivenza quotidiana, impaurito e propenso alla delazione. Il romanzo è popolato di elementi naturali: distese di terra, visioni marine o fluviali, foreste, alberi, orizzonti intrisi di nuvole, bagliori di tramonti o di albe. Ma soprattutto è popolato di morte: per tumulti, esecuzioni, vendette, risse, malattie, epidemie, guerre, saccheggi. Questi due temi, natura e morte, hanno indubbiamente un’iconografia complessa, che – a mio parere – oscilla tra i grandi paesaggisti nordici del Cinquecento e del Seicento e la voce forse più intricante del simbolismo europeo: quella di Arnold Böcklin. La morte assume nel romanzo gli aspetti più diversi e in ogni modo domina la nostra immaginazione, perfino la memoria. Su questo grande tema sentiamo vicina la presenza di Böcklin, tanto più vicina se ricordiamo che nel 1928 – nel periodo in cui già elaborava L’opera al nero – la Yourcenar ha dedicato un bellissimo saggio al dipinto L’isola dei morti. L’ultimo dipinto di Böcklin, eseguito nel 1900, s’intitola Melancholia. Una figura femminile, raccolta in lunghi eleganti pepli, contempla dalla riva spoglia di un piccolo corso d’acqua i tronchi d’albero che vi si riflettono e le grandi foglie morte, trattenute in superficie dalle acque. Tra la donna e la natura che la circonda si percepiscono una totale compenetrazione e il silenzio assoluto dell’assenza del mondo terreno, trascendente e immateriale come l’approdo sconosciuto e inesorabile che accoglierà il “naufragio” di ognuno di noi. La Melancholia, che prende per mano Zenone fin da adolescente, parimenti veglia sul silenzio di sé che il medico-filosofo s’impone per tutta la vita. Nel decennio ultimo del XIX secolo Böcklin compose una serie di opere dedicate alla morte, orrenda per violenze di guerra o per la peste. L’Europa della fine dell’Ottocento non era poi così diversa per guerre e morti, per mescolan-
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ze di culture e di odii da quella del Cinquecento. Marguerite Yourcenar conosceva bene queste opere e certamente aveva notato come le due calamità, peste e guerra, per Böcklin fossero non così tanto disgiunte, rappresentando l’ineluttabilità di un destino al quale l’uomo non può che piegarsi. Come in L’opera al nero si inchina di fronte alla peste che guadagna l’Europa viaggiando “senza fretta, al suono delle campane, come un’imperatrice” e va infondendo “un elemento d’insolente uguaglianza nell’esistenza di tutti”. I boschi cedui, gli alberi piegati dal vento, sopra i quali il cielo si aggroviglia di nuvole striate, la nebbia che avvolge le vele di navi in attesa in porti rumorosi, i profili di villaggi di pietra, che si confondono con le pietre lasciate dalle acque di un fiumiciattolo in secca, le pianure intricate di erbe selvatiche, sembra di vederli, i quadri di Jakob van Ruysdael, seguendo i sentieri di Zenone. Quella stessa atmosfera di natura fosca, tenebrosa, piena di misteri, nella quale il protagonista di L’opera al nero sembra muoversi per tutta la vita, abbiamo già incontrato nelle tele del pittore olandese. Ma accanto a questa natura più descrivibile, testimoniata dalla prosa decisa della Yourcenar, ce n’è un’altra, appena accennata, vagamente evocata. E’ la natura in cui si immerge il mito, dove si muovono Apollo, le ninfe, i fauni, le Sibille, gli idoli dei riti pagani, che l’uomo può contemplare, ma dai quali sembra essere escluso: vi regna una bellezza altrimenti negata e a volte vi s’incontrano figure orrorose, spettrali, demoni. Qui sembrano avere dimora i giovani, a causa dei quali Zenone sarà riconosciuto e condannato, intrappolati da uno spirito dionisiaco, quasi allucinogeno, al quale non riescono a sottrarsi e che tuttavia – al contrario di quello che avrebbe auspicato Nietzsche – non si sarebbe dimostrato salvifico. Così come non li salva la loro bellezza. E’ in questa natura tribolata, che incontriamo ancora gli echi di Böcklin, il pittore nato a Basilea che ama il silenzio dell’Italia e i suoi paesaggi incontaminati, specchio dell’anima, che parlano allo spirito prima che agli occhi. La spiritualità visionaria di questo artista moderno, che a sua volta più volte ha attinto dai fiamminghi del Cinquecento, permea l’iconografia della seconda parte del romanzo, dal momento in cui Zenone comincia a percepire il pericolo fino alla decisione di non sottrarsi. La pittura di Böcklin, del resto, ben si confronta con l’ambiente in cui si muove Zenone: figlio di un mercante di stoffe fu all’inizio attratto da quella miscela di colore e di materia, che andava incontrando nei laboratori di tintura di Basilea. Cominciò egli stesso a preparare i colori, ai quali dava la massima importanza all’interno del dipinto, tanto che la sua pittura fu subito indicata dai contemporanei come quella di un colorista. I suoi miscugli di colore e materia sono celebri e il suo interesse per l’alchimia nasce proprio in virtù di questa ricerca cromatica aspirante alla purezza. Il suicidio di Zenone assimila finalmente il nostro protagonista alla natura, della quale ha cercato di carpire i segreti; la sua esistenza in fuga finisce nella visione del nero che si disfa e che insieme raccoglie in sé gli altri colori puri secondo le leggi alchemiche: verde, rosso porpora, bianco. Un ricongiungimento ai princìpi originari, quegli stessi che invoca Böcklin nelle sue rappresentazioni più mature, quando ci indica la natura come punto fermo di sopravvivenza rispetto all’uomo e anche alla storia. 56
Della melancolia o di Saturno Nel linguaggio moderno melancolia ha indicato diverse cose, spesso differenti fra di loro e che vanno dalla malattia mentale di stato ansioso e depressivo, ad un certo tipo permanente di carattere, fino alla tipizzazione di un temporaneo stato d’animo con una inclinazione perciò, assolutamente soggettiva. Costante è il senso di vulnerabilità dato da una più profonda ipersensibilità rispetto all’esterno che porta, in qualche modo, a compensare il cattivo funzionamento del personale termostato emotivo, della hysteroid dysphoria, come la denomina uno dei pionieri, nella seconda metà del Novecento, del riconoscimento di questa patologia e del suo essere continuum, Donald F. Klein. Lo studioso ha individuato e cercato di curare proprio lo “stato psicopatologico generale” del malato, al di là della psicoanalisi, “costituito da un umore molto precario (...) che passa da una vorticosa esaltazione all’infelicità più disperata. Il livello del loro umore è notevolmente sensibile all’ammirazione e all’approvazione altrui. (...) Le loro capacità critiche sono notevolmente influenzate dall’emotività”. Il fondamento di tutti questi diversi significati va ricercato nell’etimologia, nella storia stessa della parola; la coniazione si deve agli antichi greci e deriva dal termine “bile nera” – atra bilis o melancolia – che associata al flegma alla “bile gialla” o rossa e al sangue, formava la teoria dei “quattro umori”. Gli “umori” venivano parallelamente a corrispondere agli elementi del cosmo e alle suddivisioni del tempo; controllavano tutta l’esistenza, i comportamenti dell’umanità e, a seconda del modo in cui si combinavano, determinavano il carattere degli individui. Melancolia o biliosità nera, è una denominazione usata per la prima volta nel Corpus Hippocraticum, dove si fa provenire da determinate “discrasie” di sangue e di umori. Per Ippocrate il sangue contiene lo spirito che può essere offuscato mediante appunto una “discrasia”, un’anormale mescolanza di umori, a seconda della parte del corpo in cui la discrasia colpisce. Nel Corpus si parla già della ciclicità della melancolia, della sua affinità con le stagioni e di un determinato typus melancholicus o meglio un typus bilioso che più tardi verrà denominato come “typus della bile nera”. Inoltre Ippocrate riconosce anche l’esistenza della malattia melancolia, la stessa ripresa in seguito da Platone nel Fedro. Molto importante diviene, ai fini del nostro discorso, l’opera di Platone che contiene una poderosa esposizione sulla follia, la “Mania” alla quale dobbiamo la trasformazione della nozione originale di melancolia, con la caratterizzazione di una doppia valenza all’interno dello stesso termine: da una parte troviamo il concetto di “follia” desunto dalle tragedie greche e, dall’altra, la nozione di “furore” affermata appunto nella filosofia platonica. Per Platone l’uomo che è toccato da questa “Mania” è il tipo di uomo straordinario, geniale, il superuomo per dirla con un termine nicciano, il grande indovino come Sibille e Profeti, il tragico sofferente, Edipo, Oreste, il poeta. Al valore più alto troviamo la “Mania divina”, la più elevata sintonia del “Genio” con il “Cosmo”. Platone arriva ad associare la melancolia anche con i miti, cominciando a considerarla in qualche misura, eroica e ponendola sullo stesso piano del furor, seppur distaccandola dall’estasi, la sorgente della più alta esaltazione spirituale. Per Platone melancolia viene così a significare “insania morale”, se non proprio pazzia che oscura e indebolisce la volontà e la ragione. Aristotele riprenderà questa caratteristica nel XXX libro dei Problemata
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physica, unendo la nozione puramente medica della melancolia di Ippocrate, con la concezione platonica del furore, ricondotta però al senso ippocratico di typus bilioso. In questo modo non solo gli eroi tragici ma tutti gli uomini eccellenti, nelle arti, nella filosofia o nella politica, possono essere colpiti. Dal procedimento ippocratico Aristotele distacca un typus che supera l’abituale livello termico della bile, la quale può essere calda o fredda, considerando coloro con la bile calda o molto calda come persone frenetiche, geniali, facilmente inclini a desideri intensi, ad entusiasmi morbosi. Attributi questi che Aristotele riscontra, in particolar modo, nelle Sibille e negli Indovini, per natura a bile calda, come pure nei poeti che compongono grandi opere solo quando sono in estasi. Aristotele considera la genialità come una disposizione naturale dell’uomo, dovuta alla temperatura della bile del sangue, come si è detto, che deve essere alquanto elevata da sollevare l’animo umano al di sopra della media, ma non tanto da generare una melancolia troppo oscura, portante direttamente alla pazzia. La teoria è spiegata in un passo dei Problemi aristotelici (XXX, I): “(...) quelli che hanno attenuato l’eccessivo calore della bile nera fino ad avvicinarsi a un livello medio, sono sì melanconici, ma più razionali e meno eccentrici e per molti aspetti superiori agli altri o nella cultura o nelle arti o nella guida dello stato. (...) L’abbattimento che si verifica nella vita di ogni giorno, per cui spesso ci troviamo in uno stato di afflizione senza saper dire perché, mentre altre volte ci sentiamo allegri senza apparente ragione. A questi turbamenti e a quelli ricordati prima, tutti siamo soggetti in qualche modesta misura, dato che un po’ della sostanza che li provoca si trova in ognuno. Però nelle persone nelle quali questa caratteristica è radicata, essa ne determina il carattere. Infatti (...) coloro che hanno solo un po’ di questo temperamento, sono comuni, mentre coloro che l’hanno in grande quantità, sono diversi dalla grande maggioranza della gente. Se, infatti, il loro ‘habitus’ melanconico non si attenua affatto, essi sono troppo malinconici; se, invece, esso è un po’ temperato, emergono. Se non hanno riguardi, tendono a malattie melanconiche, per cui individui diversi sono colpiti in differenti parti del corpo: certi soffrono di sintomi epilettici, altri di sintomi paralitici, altri di violenta disperazione o terrore”. Cosicché‚ la persona normale poteva anche essere soggetta a malattie melancoliche, però si sarebbe trattato di disturbi solo temporanei senza profondo significato psichico, senza quei sgradevoli effetti durevoli sulla propria costituzione mentale. Tuttavia il melancolico naturale, anche quando era in perfetta salute, aveva un ethos del tutto particolare che, scegliendo di manifestarsi, lo rendeva in permanenza diverso dalle persone “comuni”, era, per così dire, “normalmente anormale”. Questa singolarità spirituale del melancolico naturale era dovuta al fatto che la bile nera possedeva una caratteristica mancante negli altri umori, cioè quella di influire sulla disposizione d’animo. Aristotele in questo modo attua un’altra sostituzione di concetti all’interno del termine melancolia e dalla nozione mitica del furore platonico passa a quella scientifica di melancolia, operazione resa più facile dal fatto che, “melancolico” e “matto” (nel senso puramente patologico), per lungo tempo erano stati sinonimi e che il particolare dono dei sogni veritieri e delle profezie, proprio del melancolico patologico, corrispondeva all’equazione platoni-
ca di “mantico” e “maniaco”. In questo modo la nozione di melancolia venne ad assumere a sua volta un nuovo e positivo contenuto, e grazie a questo fu possibile riconoscere subito e spiegare il fenomeno dell’ ”uomo di genio“. La tesi di Aristotele del melancolico come di una persona con accentuate facoltà di visione, è ripresa solo dalla filosofia Scolastica del XIII secolo, nel momento in cui il merito dell’individuo non era più basato sui propri doni e capacità intellettuali, ma sulla base delle virtù e delle opere pie realizzate, come prova dell’esaltazione dell’amore in Dio. Un periodo perciò di inaccettabilità delle teorie peripatetiche sull’idea del melancolico come uomo profondamente dotato. In modo diverso, nella poesia dell’epoca tardo-medioevale, troviamo il termine melancolia o melancolico come definizione di precise inclinazioni e condizioni dello spirito, da intendere come alterazione del significato patologico originario, come indicazione di uno specifico stato d’animo, puramente psicologico e più o meno temporaneo. E’ naturale che le due nozioni tradizionali legate alla melancolia, malattia e temperamento, non scomparvero del tutto dalla letteratura e soprattutto dall’uso comune. Inoltre la malincolia, assumendo in sé‚ il contenuto psicologico di nozioni che originariamente si riferivano solo a stati d’animo, ne eredità anche la forma pittorica. In altre parole, la melancolia intesa in questo nuovo senso, compare nella poesia del XV secolo sia come un’espressione verbale sia come una persona attiva e parlante che poteva perfino essere raffigurata. Sarà soltanto nel XVI secolo e, secondo noi, con l’incisione Melanconia I di Dürer, che si avrà una più concreta identificazione fra l’iconografica della melancolia, con la bile nera e la corrispondente nigredo alchemica, tramite l’immagine di una donna seduta, dal volto scuro, piegata in avanti, con la testa posata su una mano. La melancolia non è più malattia fine a se stessa; da questa ispirazione, solo gli uomini del Quattrocento, con la loro nuova concezione dell’umanità, sono riusciti a trarne conclusioni tali da costituire una rivalutazione radicale della nozione di melancolia e la creazione di una moderna dottrina del genio. E’ ancora nel periodo umanistico che troviamo una vera e propria rinascita dell’immagine degli dei e in particolar modo di Saturno che, come annunciato in precedenza, è associato fin dall’antichità alla Melancolia, per via di parentela. Già Dante Alighieri, nel XXI Canto del Paradiso, aveva descritto la sfera di Saturno come il regno della contemplazione, cosicché per traslato anche la melancolia veniva già sentita come il tipico atteggiamento del pensatore. Insieme a Dante molti altri autori del tardo-medioevo giudicavano evidente e diretto il rapporto fra Melancolia e Saturno, dando la responsabilità a quest’ultimo per l’infelice carattere dell’uomo colpito dalla melancolia; questo soprattutto attraverso una corrispondenza sempre più stretta fra l’immagine del dio e le teorie astrologiche; cosicché‚ quando si parlava dell’influsso di Saturno su un determinato carattere o protettore di determinate professioni, s’intendeva Saturno come pianeta, facendo perciò riferimento diretto all’influsso astrologico di questo. La relazione ovviamente porta alla corrispondenza anche fra gli altri caratteri determinati dai vari umori di origine ippocratica: la disposizione sanguigna con Giove, la collerica con Marte e quella flemmatica con la Luna o
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Venere. In questo modo le stelle, gli elementi e gli umori, erano collegati insieme e caratterizzati anche da determinati colori. Nel nostro caso il colore della bile nera sarà scuro e nero, la sua natura come quella della terra alla quale è collegata, fredda e secca; così come il colore di Saturno è scuro e nero, per cui anche Saturno deve essere per natura freddo e secco. Ricordiamo anche che Saturno è considerato uno dei sette pianeti dotati di potenze demoniache che esercitavano un’influenza decisamente negativa sul destino degli uomini e il corso degli eventi terrestri. Dal punto di vista mitologico il dio latino Saturno era legato alle messi, ai raccolti abbondanti; il dio positivo quindi che trova un senso più nettamente negativo, mediante l’unione con la figura corrispondente del dio greco Crono, figlio di Urano, divoratore dei suoi stessi figli, tranne Zeus, salvato con un inganno al famelico potere del padre. Da Saturno, il fondatore di un regno di pace e di concordia in cui tutti gli uomini erano uguali, realizzatore della mitica età dell’oro, al dio Crono, il tempo preposto al tempo o il tempo stesso, con attributo la falce, così come il corrispettivo latino, più un serpente che si morde la coda a simbolo dell’eternità e delle mai interrotte vicissitudini del tempo. Intrinseca alla figura Saturno-Crono diventa la duplicità, l’ opposizione: da una parte il dio benevole dell’agricoltura, dall’altra il dio cupo detronizzato e solitario, l’esiliato, fuggiasco e braccato. Una doppia immagine che in seguito venne ad ampliarsi soprattutto per quanto riguarda i tratti negativi legati a Crono e da questo, come si è detto, in senso astrologico, per l’influsso nefasto del pianeta Saturno sui suoi figli. In questo modo, i “nati sotto Saturno” erano considerati per lo più come persone tristi, angosciate, misogine, con malattie provocate dal freddo, dall’umidità, l’idropisia, i reumatismi. Solo con il neoplatonismo si avrà una rivalutazione in senso positivo della sfera di Saturno, in particolare, e di tutti gli altri pianeti, in generale; secondo Plotino infatti Crono simboleggia l’Intelletto, la facoltà più alta e pura del pensiero razionale e speculativo e, attraverso le fonti orfiche, trasmesse per lo più sempre dai neoplatonici stessi, acquistava il carattere di architetto, costruttore del mondo. Era anche considerato un veggente, definito un profeta e, il fondamento di questa interpretazione, era già insito nella accennata identificazione, riconosciuta anche dai neoplatonici, con il Tempo, il principio fondamentale della teologia orfica. La polarità dell’idea di Crono portò a due atteggiamenti di fondo opposti. La pregnante antitesi cupezza, tristezza, frode vs pensiero razionale o addirittura ispirato avrebbe dominato anche in futuro, anche se la decisa contrapposizione “o/o” ben presto sarebbe stata attenuata dall’altra “sia/sia”. Il Saturno cui competevano il letargico e il volgare fu nello stesso tempo venerato come il pianeta della contemplazione elevata, la stella degli anacoreti e dei filosofi. Nonostante questo, il carattere del “figlio di Saturno”, continuò ad avere un fondo sinistro, cupo, melancolico appunto, questo perché, come la melancolia, Saturno, demone degli opposti, dotava l’anima sia della lentezza e della stupidità che della capacità d’intelligenza e contemplazione. Come la melancolia, Saturno, minacciava coloro che erano in suo potere, per quanto illustri potessero essere, di depressione o addirittura di pazzia. Per citare il Marsilio Ficino, Saturno raramente indica un tipo e un destino umano di natura comune, piuttosto un uomo isolato dagli altri, divino e bestiale, beato oppure
oppresso dalla più profonda miseria. In Ficino, nell’uso del termine “divino”, troviamo già il prototipo della successiva definizione del genio moderno, sia filosofico che poetico e, da Michelangiolo in poi, artistico. Questa in sostanza ci sembra la formulazione più specifica per una lettura profonda di molte opere d’arte legate al tema, partendo in particolare per l’inizio del nostro contemporaneo, dall’ Autoritratto dechirichiano del 1911, nel quale, oltre alla ripresa della posa legata alla Melancolia I düreriana, abbiamo un ulteriore approfondimento proprio attraverso lo studio della sfera di influenza e dell’iconografia di Saturno. Un approfondimento che ci porterà a sottolineare una precisa sovrapposizione di immagine, da Saturno, divinatore e profeta, esiliato e costretto al viaggio, architetto del mondo, a de Chirico, italiano all’estero, Argonauta errante, vaticinateur, l’inquieto costruttore di un nuovo modo di vedere il mondo, anzi proprio di un nuovo mondo, nato dal reale ma realizzato nell’intelletto, mediante la “ragione metafisica”. Lo stesso tragitto è descritto da Alberto Savinio riprendendo però il mito della nascita di Venere e portandolo ad esempio della rinascita dell’arte attraverso la metafisica: “Ed è quest’inquietudine che alfine ci fa sostare e spinger gli occhi al nuovo indizio: al fatto certo di una nuova nascita. E’ l’ansia che prelude a un che di strano che avverrà nel mondo. Fermiamoci: Saturno, un’altra volta, mutilò nel sonno Urano, e su dal sangue sparso germinerà una fecondità novella, fruttificando in ninfe sulla Terra, e Venere comparirà sul Mare. Infatti, s’è a una rinascita, nella totale febbre del suo parto.” Dalle alte sfere mitologiche nasce così una nuova arte, un nuovo artista, pensoso di fronte al nuovo mondo da lui stesso creato, il nuovo Zarathustra, colui che usa la posa melancolica legata, in ambito umanistico, all’immagine di Saturno. Umanistico perchè, come abbiamo già sottolineato, è il preciso periodo storico e culturale in cui si ebbe una riabilitazione della componente sublime e contemplativa del dio, anche mediante la creazione di una nuova iconografia. Questa stretta relazione tra melancolia e Saturno ha comunque origine negli scrittori arabi del IX secolo di cui il più noto è Abu Ma’sar, che collega i pianeti agli umori e, come Crono-Saturno, questo pianeta occupa una cospicua posizione nella letteratura antica, greca in particolare, confluendo poi nei trattati dei mitografi medievali. Da questi la nascita, sul versante dell’illustrazione medica, degli schemi di cauterizzazione il loro scopo era di mostrare in che modo e dove i diversi tipi di pazzi dovevano essere cauterizzati o trapanati. Nel caso del melancolico, la terribile operazione doveva essere compiuta in media vertice. Anche i gesti tipici, il corpo piegato e la testa su una mano, a trattenere la tempia, passano dalla Melancolia, che ovviamente non perde i suoi attributi di riconoscimento, a Saturno appunto, come nell’incisione di Giulio Campagnola raffigurante, appunto, Saturno. Un’opera giovanile dell’artista veneto, dove viene ritratta la figura del dio allungata sul terreno, col braccio alzato, puntato su una roccia, con la testa posata sopra e lo sguardo rivolto pensosamente di lato. Sullo sfondo una città fortificata in riva al mare, con una nave che veleggia verso la costa. Il corpo, con un deciso carattere statuario ha lo sguardo di lato, la testa piegata, il panneggio fluente nella parte inferiore del corpo e il classico elemento del caput velatum.
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Con il Campagnola abbiamo così, a livello artistico, la visualizzazione della nuova iconografia di Saturno desunta dalla Melancolia, con la rinascita, attraverso una più profonda consapevolezza umanistica, da una parte della concezione neoplatonica di Saturno, mediante la quale il più alto dei pianeti era visto come l’incarnazione delle più alte e nobili facoltà dell’animo umano, la ragione e la speculazione; dall’altra parte della nozione peripatetica della Melancolia, secondo la quale tutti i grandi ingegni erano appunto melancolici. Si riscontrano in Saturno i caratteri tipici del genio, melancolico e depresso ma estremamente fiero di questa condizione, accettata appunto come un privilegio, segno di distinzione. Saturno diventa il pensatore seduto con la testa poggiata alla mano, come si può vedere anche da un’opera del Mocetto, altro “melancolico” pittore della modernità, nel quale troviamo però ancora la falce, attributo tradizionale del dio delle messi. E’ ancora Marsilio Ficino, alla fine del XV sec., a dare forma concreta all’idea dell’uomo-genio melancolico, nella sua opera De vita triplici nella quale, analizzando la terapia e i sintomi del carattere saturnino, arriva all’identificazione di quella che Aristotele aveva chiamato la melancolia degli uomini intellettualmente eccellenti, con il “divino furore” di Platone. In questo modo Saturno diventa la guida dello spirito della contemplazione delle cose più alte e nascoste e, egli stesso, come afferma il Ficino, significa “contemplazione divina”. Non sono più solo i “nati sotto Saturno”, i “figli di Saturno” ad essere qualificati per un’attività intellettuale, ma al contrario, un’attività di questo tipo, esercitando una precisa influenza sugli uomini, li mette direttamente sotto il dominio di Saturno, creando una sorta di affinità elettiva. Tutti gli studiosi, gli artisti, coloro che usano l’intelletto, sono predisposti perciò alla melancolia e soggetti all’influsso di Saturno. Le qualità caratteriali associate alla melancolia, come l’irritabilità, la variabilità d’umore, l’amore per la solitudine e la contemplazione, l’eccentricità, diventeranno, nel Rinascimento europeo, quasi di moda e la loro esibizione un atteggiamento prettamente snobistico; così come succederà di nuovo nell’ Ottocento, quando si avrà una reale ripresa della melancolia, intesa ora come raffigurazione della condizione di catarsi spirituale. Schelling, Goethe e poi il maturo romanticismo ottocentesco, in particolare quello tedesco, individueranno nella melancolia la loro ricerca verso un interno, il sinonimo della fuga dalla realtà, dalla società. E’ da mettere in rilievo però che l’immagine della Melancolia, nell’Ottocento tedesco, è soprattutto legata alla figura femminile, è molto raro infatti trovare questo tipo di iconografia rivolta al maschile, cioè alla rappresentazione di Saturno, o di un soggetto traslato in questo personaggio con precise caratteristiche. Nell’iconografia tradizionale in genere si aveva il palmo della mano aperto, sarà Dürer a variare, nell’incisione Melancolia I, la posizione della mano, da aperta a pugno chiuso che per Panofsky rappresenta il simbolo dell’avarizia, anch’essa connessa al temperamento melancolico, e per Calvesi invece allude all’unità dei quattro elementi formanti l’ opus alchemico al quale l’incisione di Dürer si rifà esplicitamente. Nel ritrarre il viso melancolico ne scurisce i tratti, sottolineando, in questo modo, l’altro carattere della melancolia, la facies nigra, tratto citato molto più spesso dalla tradizione che non il pugno chiuso. Sia il figlio di Saturno che
il melancolico (si trattasse di melancolia patologica o di mal temperamentale) erano ritenuti dagli antichi scuri e neri d’aspetto; e quest’idea era comune nella letteratura medica medievale, come pure negli scritti astrologici sui pianeti e nei trattati popolari. Abbiamo visto come, già fin dall’antichità, la sporca e dura sostanza della bile nera trovi il suo corrispondente proprio nella sfera planetaria, fredda e lenta di Saturno, che Macrobio considerava come il “Sole”, il cui corso determinava la vita dell’uomo stesso. Saturno veniva così ad approfondire il proprio carattere negativo, senza dare alcun valore dispregiativo al termine, arricchendolo di una diversa valenza simbolica, quella del “Sole negro”, prima e risolutiva fase dell’ opus alchemico. Il “Sole negro” infatti è anche un elemento alchemico; in questo senso lo ritroviamo ancora come connotazione cromatica nell’immagine, codificata da Dürer, della Melancolia, la già citata facies nigra. Il volto nero è figura ricorrente nelle illustrazioni dei trattati alchemici, posto come allusione della prima fase dell’ opus, la nigredo appunto. L’ opus, inteso come procedimento alchemico, tenderà, attraverso vari stadi alla mutazione finale del piombo in oro o pietra filosofale. Il raggiungimento di questa fase conclusiva del processo alchemico avverrà attraverso un preciso percorso che l’alchimista realizza, passando dal nulla, dal piombo, alla Sapienza, l’oro estratto con fatica dalle tenebre della condizione umana. Il Pernety, basandosi su tradizionali trattati alchemici, nel suo Dictionnaire d’alchimia, pubblicato nel 1758, registra la voce Melancholis come elemento legato alla putrefazione della materia al nero, perciò della prima fase dell’ opus, la nigredo che nasce proprio sotto il “lugubre” segno di Saturno, dello stato doloroso dell’iniziazione e della solitudine. Perciò nigredo, sole negro, Melancolia, Saturno diventano tutti termini di un medesimo stato d’animo, legato all’angoscia, alla depressione che subentra nell’uomo quando è allo stato iniziale di un percorso da seguire, di un fine da raggiungere, una malattia fatta di tante similari patologie che insegnano qualcosa all’uomo della propria personalità tramite anche l’immaginazione artistica. E’ la condizione insistentemente ricercata anche dal nicciano Zarathustra: “Luce io sono: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, essere cinto di luce. Ah, fossi scuro e notturno. Come succhierei i semi della luce! (...) Oh, siete solo voi, voi scuri, voi notturni che create calore da ciò che fa luce! Voi soli a bere latte e refrigerio dalle mammelle della luce. (...) E siete di cose notturne! E solitudine!”. Ma qui siamo già sul versante successivo, Zarathustra è il superuomo che ha saltato la nigredo, è già ad un piano superiore e sa di non poter compiere bene il suo percorso senza prima tornare indietro, per ricominciare a migliorarsi. Tant’è che la Prefazione dello Zarathustra, inizia con un inno al sole, il “grande astro”, per poi continuare: “Ecco! Ne ho abbastanza della mia saggezza; come l’ape che ha raccolto troppo miele, ho bisogno di mani che si tendano. Vorrei profondere e distribuire, finchè i saggi tra gli uomini di nuovo si rallegrassero della loro stoltezza e i poveri della loro ricchezza. Per questo debbo scendere nel profondo: come fai tu la sera quando tramonti dietro il mare e porti luce agli inferi, tu opulento astro. Al pari di te, io debbo ‘tramontare’ come dicono gli uomini, ai quali voglio discendere.” Nel citato “caso” di de Chirico l’ opus artistico diventa la possibilità per aspirare a sfere più alte: la fama, la gloria, l’immortalità già prenotata con la
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firma sul basamento del poeta ne L’Enigma di un pomeriggio d’autunno. La malattia psico-fisica, ma forse l’una dipendeva dall’altra, interferiva con la sua arte: da un punto di vista operativo con la semi-immobilità, ma da quello creativo mettendo in atto, con una fondamentale modificazione di prospettive visuali, la coscienza del “creatore”, anzi del ri-creatore mediante un nuovo sistema, la metafisica, applicata anche all’immagine del sè, tanto da arrivare a produrre una vera e propria “autonomia funzionale” come la denomina Klein: “Una causa produce una risposta adattiva (funzione) che persiste anche dopo la cessazione della causa (autonomia)”. In questo modo anche l’immagine della Melancolia di Dürer, appunto come già Calvesi aveva teorizzato, rispecchia il sentimento (quello dell’artista?) nella fase di nigredo, con tutto ciò che comporta il vivere questa fase, con l’immagine fissa su un problema che non può essere risolto, un problema composto da mille meccanismi: desolazione, melancolia, solitudine, tristezza, angoscia per il futuro, impotenza verso il passato sbagliato o, almeno, ritenuto tale. La situazione psicologica sembra ripercuotersi sul carattere, sui rapporti con il mondo e anche, in certa misura, sull’ attività artistica. Siamo nel campo della metampsicosi nel momento in cui ricordiamo le parole che Nietzsche scrive in Ecce Homo, così come riguardanti la creazione di una sua opera, Aurora. “La limpidezza perfetta e la serenità, l’esuberanza quasi dello spirito, che quest’opera riflette, si accordano in me non solo con la più profonda debolezza fisiologica, ma addirittura con un eccesso di sensazioni dolorose. Nel martirio che mi causava un’ininterrotta emicrania di tre giorni consecutivi, accompagnata da un penoso vomito di muco, possedevo una chiarezza dialettica ‘par excellente’ che esaminavo con grande sangue freddo cose per le quali, in migliori condizioni di salute, non sono uno scalatore sufficientemente ardito, sufficientemente raffinato, sufficientemente freddo.” E ancora, “la malattia può essere addirittura un energico stimolante al vivere, al vivere – di – più.” Nietzsche giunge all’apologia della malattia – afflictio animae – vista come una consumazione, intrinseca alla società, dove si perde ogni capacità di elaborazione creativa. Nietzsche considera l’uomo, inserito nella società, come una tappa all’interno di un processo superiore, avviato verso un fine preciso che trascende gli individui stessi, li schiaccia e spersonalizza. Nell’assenza di ogni possibile significato di questo processo, Nietzsche ricerca l’unico significato possibile nella figura dell’uomo superiore, di colui che riesce ad usare e superare la propria malattia, che poi in senso lato è la malattia stessa della società, assegnando un significato più alto alla propria esistenza. Ci troviamo così al superamento della convinzione schopenhaueriana che la vita sia un “male incurabile”, attraverso una forza interna all’uomo, questa “volontà di potenza” che porterà Nietzsche a constatare la possibilità di vivere tutta la vita in tutti i suoi aspetti, dall’apollineo al dionisiaco. “Un’antica volontà di potenza mi si rivela, ciò che dal popolo è creduto essere il bene e il male”. In questo particolare aspetto rientra la malattia, il peggior male del mondo, ma che nello stesso tempo deve essere utilizzata come spinta ad agire, a superare i propri limiti che sono poi quelli dell’umanità stessa. “E questo segreto me lo svelò la vita stessa: ‘Ecco‘, - disse - ‘io sono ciò che deve sempre superare sé stessa“, così afferma Nietzsche, per il quale: “(...) solo dove c’è
vita c’è anche volontà, ma non volontà di vita, bensì - così t’insegno - volontà di potenza.” Giovanni Papini ne “La Voce” del 20 gennaio 1910, scrive: “I nostri tempi non conoscono vita più nobile, più pura, più dolorosa, più solitaria, più disperata di quella di Federico Nietzsche”, sottolineando così la “terribilità”, ma nello stesso tempo la grandezza, l’eroicità dell’impresa del filosofo tedesco. Lo scrivere legato alla speculazione filosofica diviene così, per il filosofo tedesco, l’unica maniera per “sopportare la vita”, come egli stesso afferma. “Cantare è (...) cosa da convalescenti; il sano può parlare. E quando anche il sano vuole canti, vuole tuttavia canti diversi dal convalescente. (...) Trabocca nel tuo canto, o Zarathustra, guarisci la tua anima con nuovi canti: che tu porti su di te il tuo grande destino che non fu mai il destino di altro uomo! (...) come potrebbe tanto grande destino non essere anche il tuo più grande pericolo e la tua più grande malattia!”. Siamo così alla presa di coscienza di quel “qualcosa” che bruscamente allontana dalla categoria del normale, dalla gente normale; “assente dal senso degli altri, estranea, accidentale alla felicità ingenua, la mia depressione mi dà una lucidità suprema, metafisica. Alle frontiere della vita e della morte, ho talvolta il senso e la presunzione di essere testimone del non senso dell’ Essere, di rivelare l’ assurdità dei legami e degli esseri. Il mio dolore è il volto nascosto della mia filosofia, il suo fratello muto.” E’ il “Sole negro” appunto, Saturno, la possibilità nicciana di tramontare per poi ritrovarsi e superarsi, così come troviamo anche ne Il canto delle tenebre di Dino Campana: “La luce del crepuscolo si attenua / inquieti spiriti sia dolce la tenebre / al cuore che non ama più! / (...) Ascolta, la luce del crepuscolo attenua / ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra: / Ascolta: ti ha visto la sorte: / ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte: (...).” L’umore depressivo diventa supporto narcisistico e spinta, come abbiamo detto, a continuare, per Nietzsche attraverso la filosofia, per de Chirico attraverso l’arte che poi a quella non è minimamente disgiunta. Ricordiamo ancora il passo di de Chirico sulla creazione del dipinto L’Enigma di un pomeriggio d’autunno, dove appunto la malattia e la debolezza, l’instabilità psicologica, portano a vedere la realtà in modo diverso, per una ri-creazione di questa; ri-creazione, non trasformazione nè deformazione, procedimenti tipici dell’arte contemporanea, perchè con de Chirico abbiamo, come già più volte ripetuto, una raffigurazione fedele alla realtà, per una riscoperta di questa in senso “enigmatico” come scrive Papini, “fantasmico” per citare Savinio, metafisico. Ritornando al primo de Chirico, l’artista tenta così di realizzare il sogno di eternità ed immortalità mediante, ad esempio, l’identificazione con Dante ne L’Enigma di un pomeriggio d’autunno, un quadro terapeutico, per una sublimazione, in senso nicciano, della crisi fisica e artistica che l’aveva colpito dopo il ritorno da Monaco e la partenza del fratello. Mentre con L’Enigma dell’oracolo, fra nostalgia e spinta verso il futuro, l’artista realizza l’apologia della propria condizione di filosofo, attraverso la profezia della Pizia, la sacerdotessa di Apollo, il dio del Sole. Infine con il già citato Autoritratto, la prima immagine concreta di de Chirico, in posa melancolica che, come abbiamo visto, è la medesima iconografia umanistica di Saturno, il “Sole negro”, il corrispettivo opposto ma dialettico di Apollo.
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Savinio sembra ancora indirettamente consolidare questa tesi screditando l’immagine di Apollo ne La Nuova Enciclopedia: “Apollo (...) il fugatore di tenebre, l’apportatore di luce, il sole in persona. Ma chi assicura che la luce è migliore delle tenebre? (...) Viene da Apollo la mania della solarità e quell’aggettivo ‘solare’ che ha l’aria di dire tanto e in verità non dice niente. (...) Per riabilitare la luce e salvarla dalle troppe vicine compromissioni, Nietzsche inventò l’oscurità della luce e che il meriggio è più profondo della mezzanotte.” In questo modo si arriva a creare e a superare la precedente condizione psicologica, l’attardamento su un’impostazione pittorica che non soddisfa più, attraverso la creazione di nuovi segni, visioni, che portano in senso lato, l’artista del Novecento ad immedesimarsi con Saturno, il dio che usa l’oracolo per trovare sè stesso, partendo dai suoi abissi, dalle sue radici, fermandosi a meditare sull’enigma che gli si prospetta davanti per poi declamare al vento: “A voi ebbri di enigmi, amanti d’ogni luce crepuscolare, la cui anima è attratta dai flutti verso ogni voragine dell’io: (...) a voi soli racconto l’enigma che vidi, la visione del più solitario.”
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Kiefer al nero: una scelta ed altro ancora “Tutto ciò che esiste è costituito di fuoco, aria, acqua, terra” sentenziarono Empedocle ed altri filosofi greci e da queste quattro sostanze deriverebbe quanto esiste in natura. Già dai primi studi si apprende che i corpi semplici offrono la possibilità di svariate combinazioni come la chimica c’insegna per poi aprire le porte alle grandi intrusioni negli elementi a cui già lo stesso Aristotele aveva aggiunto l’elemento sopralunare o ètere. Ormai è una storia infinita con i suoi vari passaggi che toccheranno da vicino anche le arti. Ed inizia il grande viaggio attraverso la scienza per raggiungere quello che si sarebbe chiamato rimedio assoluto e che nei secoli di mezzo si pensava di poter ottenere attraverso l’uso di una sostanza miracolosa, la pietra filosofale. Procederà in tal modo l’evoluzione del nostro sapere scientifico ed i mezzi saranno molteplici e spettacolari, senza escludere gli approfondimenti in una situazione para-scientifica qual’è stata l’alchimia ed il suo regno sotterraneo dove manipolazioni di sostanze più o meno naturali si sono susseguite con progressivi risultati. Un’indagine senza soste che ricercatori come Paracelso porteranno alla trasformazione del lavoro intuitivo e conoscitivo in uno studio a grande spettro, la chimica. Nella rivoluzione scientifica si inserirà in modo eccellente l’Italia ampliando l’azione di pensiero e di laboratorio ad altre specificità come l’astronomia, la botanica, la stessa medicina e così via, come ci suggerisce la nascita di Accademie e società specializzate in particolari indagini. Di maggior rilievo l’Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 dal principe Federico Cesi e sostenuta da uomini come Galileo Galilei, senz’altro il primo tentativo di organizzazione collegiale del lavoro scientifico dell’età moderna. L’Accademia aveva trovato la sue sede estiva ed originaria in Umbria, ad Acquasparta in una delle residenze di famiglia del principe, il palazzo Cesi che, dopo vari secoli, in tempi a noi vicini ed anche oggi, è stato destinato ad usi consimili, didattici, musicali, artistici. Noi stessi siamo penetrati nel cuore “linceo” usufruendo dei suoi spazi prestigiosi dove le decorazioni parietali si rincorrono di sala in sala servendo da contrappunto a ricognizioni sull’arte moderna e contemporanea nella situazione umbra, iniziativa che ha permesso una prima catalogazione del patrimonio regionale pubblico e privato, dal museo al collezionismo, dalla galleria all’atelier. Ma prima di addentrarci nell’argomento del nostro breve saggio, ossia il rapporto fra arte contemporanea ed alchimia, anticipiamo ancora qualche considerazione su questo tema chiarendo come il clima di magia ed in qualche modo di stregoneria insito nell’impegno alchemico sia stato suggerito e provocato dagli stessi alchimisti per l’aura di mistero di cui amavano circondarsi al fine di mantenere segrete le loro scoperte ed, ancor di più, per celare i loro frequenti insuccessi. Le quattro fasi del magistero alchemico si compendiano nell’opera al nero (nigredo), al bianco (albedo), al giallo (xántõsis), al rosso (rubedo) ed ogni tappa segna la trasformazione della materia in modo sempre più raffinato sino alla conclusione del quarto stadio che dovrebbe portare alla pietra filosofale personificata dalla figura androgina, il Rebis. Nella ricerca si inseriscono gli studi sulla padronanza del tempo e sulle condizioni emotive che ne conseguono sino alla verifica di stati solidali in primo luogo con la filosofia. Si aggiungono materie come l’astronomia, la musica, la matematica fra le principali ed anche applicazioni più specialistiche come la botanica e l’erboristeria a cui si era dedicato Federico Cesi con i suoi elaborati studi sui “semplici” e con il suo interesse al tema del giardino inteso come composizione architettonica ed estetica.
FRANCA CALZAVACCA
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La congiunzione fra le arti visive e l’alchimia avviene di pari passo raggiungendo particolare forza esplicativa. Tanto che ancor oggi molta parte dell’arte si avvale di canoni disciplinari risalenti ai secoli aurei dell’alchimia. Il fascino di questa avventura cognitiva perdura senza dubbi nella contemporaneità. Certamente una spiegazione c’è ed è da ricercare nel significato del termine alchimia che ha subìto nello stesso linguaggio cangianti trasformazioni legandosi profondamente alle mutazioni materiche ed estetiche delle espressioni artistiche, dalla pittura alla scultura, alle pratiche incisorie coniugate in primis con la struttura alchemica per l’uso di acidi e metalli e legni e pietra e carte e fuoco in alterne vicende. La ricchezza e la molteplicità del discorso esoterico danno corpo all’immaginario fondendosi nei lemmi e nella dizione, nell’iconologia e nell’indicazione emblematica e contribuendo con le migliori intenzioni allo sviluppo del pensiero sperimentale. Quasi vent’anni fa, nel 1986, il tema del rapporto fra alchimia ed arte era stato trattato in una delle sezioni della XLII edizione della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia a cura di Mino Gabriele ed Arturo Schwarz nel più ampio panorama sul legame fra arte e scienza. Il sapore occulto e misterico dell’alchimia – con le atmosfere cupe e sulfuree di antri e sotterranei in conventi e manieri ironicamente poi suggerite da Umberto Eco – che ci richiama agli artisti operanti consapevolmente come alchimisti, il fiammingo Jan van Eyck ed il Parmigianino, il primo ad usare e favorire la tecnica dell’acquaforte in Italia, anche ai nostri giorni attrae gli artisti in una comunione di complementarietà fra le discipline. Diversi certo i metodi di ricerca e di investigazione, più liberi i simboli archetipi che emergono dall’immagine. Indubbiamente intrigante l’uso della materia, la cura personale dell’impasto e del colore, lo stesso paradosso dell’action painting, l’apparato dell’informale con le sue manipolazioni materiche e le sue condizioni strutturali, i segni e le costruzioni dell’astrattismo. Dalle avanguardie storiche a Kiefer per intenderci, in alto grado di compenetrazione poetica, oltre l’apparenza letargica della materia. La trasmutazione dell’energia è propria dell’operazione artistica ed offre il suo codice di lettura in maniera attuale. Esaminiamo la testimonianza di Kiefer con i suoi strumenti creativi che accumula rapidamente “come un organismo vivente” (Celant) alimentandosi del corpo stesso da lui programmato. Anselm Kiefer è ricorso spesso alla pratica dell’alchimista – pittore sia quando descrive l’oscura materia dei suoi paesaggi (nigredo) sia quando vuol ricreare la qualità luminosa dello spirito (la “coscienza” o albedo). L’artista tedesco ha legato le importanti tradizioni alchemiche del suo luogo d’origine alla terra di Francia, dove vive, creando una combustione d’impulsi ed idee assolutamente perfetti per dar vita alla sua invenzione artistica. Anche il filosofo Massimo Cacciari parlando di Kiefer per la mostra veneziana del ’97 al Museo Correr non esita ad accostare la sua realtà artistica alla dimensione alchemica, alla “trasformazione del simbolo” attraverso un’elaborazione “iconoclastica” che esalta la potenza dell’immagine, invece di asservirsi ad una realtà puramente descrittiva. La definizione stessa di alchimia parla di una forma di conoscenza rivolta alla mutazione psicologica e spirituale dell’individuo attraverso il dominio delle energie creative che determinano la natura e la mente dell’uomo. Dopo la parte pratica che impone l’apprendimento della materia sin dai suoi elementi primordiali si avvia un percorso di tipo iniziatico che metaforicamente si esprime attraverso il mito della trasmutazione di metalli vili in oro. In realtà l’oro alchemico non è altro che il sapere universale basato sull’armonia degli
opposti. Quanto di meglio per incitare l’artista all’approfondimento di questa capacità d’indagine. Nella sezione della Biennale a cui abbiamo fatto cenno molte sono le presenze degli artisti che hanno saputo trarre dagli insegnamenti alchemici il loro modus operandi. Sono rappresentativi delle varie scuole e tendenze del ‘900 sia stranieri che italiani, dalle sperimentazioni dadaiste al cubismo, al suprematismo, al costruttivismo, al simbolismo, al surrealismo, alla metafisica, all’espressionismo. Un ricco florilegio ha accomunato autori come Alberto Burri, Vettor Pisani, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Luca Patella, Alighiero Boetti, Mimmo Paladino, Bruno Ceccobelli, Omar Galliani, Alik Cavaliere ed ancora Sarenco, Agapito Miniucchi, Romano Notari. Ovviamente sono tanti gli artisti compenetrati dallo spirito esoterico e soltanto la loro citazione occuperebbe troppo spazio. Non possiamo però tralasciare la memoria di un perugino, Edgardo Abbozzo, deceduto improvvisamente nel 2004. Recentemente la rivista lombarda KAMEN’ (giugno 2005) che si occupa di poetiche e di filosofia ha ricordato la figura di Abbozzo per la sua carriera accademica e particolarmente per il suo lavoro artistico che aveva tratto dalla manipolazione delle terre e delle crete la prima formazione plastica e le prime intuizioni intellettuali. L’autore del saggio su Abbozzo, Amedeo Anelli, ha posto l’accento sull’interesse che l’artista aveva sempre dimostrato al rapporto arte-alchimia, uno dei primi a dichiarare apertamente questa influenza sulle sue qualità interiori e sulla sua espressione estetica. Le prime citazioni di Abbozzo, che si era occupato di scultura, pittura ed incisione con grande competenza, sono degli anni ’70 e si dilateranno in seguito all’esame del rapporto fra arte e scienza, fra arte e filosofia, fra arte e poesia. In varie sue importanti mostre in Italia e all’estero, le opere erano dichiaratamente ispirate ad una concezione alchemica del mondo, ai concetti di terra, di aria, di acqua e di fuoco. Spesso la dichiarazione poetica era evidente sin dal titolo dell’opera come La Nigredo, una ceramica che mostra l’universo come un vuoto oscuro, un buco nero e che, presentata a Caltagirone, aveva ottenuto un primo premio. Come già abbiamo sostenuto, altri autori hanno privilegiato questa loro tendenza verso il pensiero alchemico dove si dissolvono le contraddizioni di una logica razionalista sino all’accettazione di un sapere liberatorio ed illuminante, sottolineando maggiormente l’aspetto mentale del progetto più che le potenzialità operative, pur se innegabili. Arturo Schwarz nel suo suggestivo saggio introduttivo alla mostra veneziana ha fatto rilevare come le più attuali correnti del pensiero contemporaneo rechino “una traccia profonda della ricerca alchemica dalla visione ecologica del mondo, dell’uomo e dell’universo al rifiuto della camicia di forza della logica aristotelica e del principio della causalità; dalla teoria dei sistemi a quella della struttura della materia; dalla medicina psicosomatica all’esaltazione dell’amore e dell’erotismo”. Proprio per questo riteniamo che dal magma profondo della materia sia possibile trarre ogni elemento utile a farne immagine e visione, forma e segno, oltre i condizionamenti tecnologici e le categorie di maniera. L’arte deve essere aperta a possibilità di scambi, a dialoghi costanti, anche a contestazioni e polemiche, nell’impeto continuo di un’interiore rivoluzione per un necessario recupero dell’esaltazione e della passione che non possono mancare assolutamente nel processo creativo.
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Abbrecht Durer, Melencolia I (1514): Incisione al mulino. La scritta Melencolia I allude all’egoria dell’”opus” alchimistico nel suo momento d’avvio, caratterizzato da un clima di morte e di “nerezza”, ma confortato dai segnali della futura riuscita (l’arcobaleno, il “quadrato magico”, le ali). 70
L’Alchimia e “L’Opera al Nero” di Marguerite Yourcenar
Introduzione all’alchimia RAFFAELE MAMBELLA
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È difficile stabilire con precisione le origini dell’alchimia(1), le cui indagini spaziano dalla ricerca della longevità alla produzione dell’Elisir dell’immortalità, alla trasmutazione dei metalli. Anzitutto, forse sarebbe preferibile discernere l’esistenza di molteplici alchimie, piuttosto che limitare l’analisi alla petizione di una radice generica. La rilevazione della possibilità di un’identità dottrinale alchemica, sembrerebbe rinviare all’idea duméziliana dell’esistenza di una struttura concettuale, piuttosto che a quella di un archetipo metatemporale. Ovvero alle “somiglianze di famiglie” tra le varie alchimie culturalmente localizzate. Ovviamente nulla ostacola la possibilità di postulare - data l’unità della cultura umana – una ramificazione monogenetica dell’alchimia, a partire da una dottrina originale diffusa da un’area principale a quelle limitrofe (considerazioni analoghe, ancorché piuttosto inverosimili, possono essere fatte per molte scoperte umane come ad esempio l’agricoltura)(2). Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, si tratterebbe pur sempre dell’effetto prodotto da una diffusione storico-culturale e non del rimando ad una dimensione atemporale, all’interno della quale si conserverebbe la purezza primordiale della dottrina alchemica. Oltretutto - e non solamente in questo caso – l’universalità degli archetipi è fortemente messa in discussione dalla critica storiografica: resta tutta da dimostrare l’esistenza di ritualità assimilabili alle pratiche alchemiche presso le culture c.d. “primitive”(3). Per tutti questi motivi - pur non disconoscendo il vantaggio e la possibilità di effettuare delle corrette generalizzazioni all’interno delle “famiglie” alchemiche – riteniamo preferibile accompagnare il sostantivo “alchimia” al corrispettivo aggettivo che ne designa la localizzazione spaziale e culturale (es.: alchimia cinese; alchimia islamica, ecc.). La derivazione del sostantivo dalla radice chem non ha ancora ottenuto una spiegazione accettabile; da notare che in molti testi cinesi, indiani, greci, essa era indicata semplicemente come “Arte” o “trasmutazione”. Contrariamente a quanto teorizzato dagli storici della scienza, è riduttivo definire l’alchimia come una protochimica. L’alchimia consta di una parte materiale e di una spirituale. Sebbene in questi ultimi tempi, siano apparse divulgazioni pseudoscientifiche (“dottrinali”) tese a rivendicare il primato delle applicazioni materiali, è plausibile sostenere il contrario. L’alchimia, in altri termini, sarebbe una disciplina eminentemente spirituale, le cui applicazioni si limiterebbero a simboleggiare ritualmente il processo del perfezionamento interiore. Il laboratorio dell’alchimista non sarebbe altro che una segreta allegoria del percorso di autoperfezionamento gnostico: anche quando questi opera empiricamente, riproduce – consapevolmente o meno – la parabola del viaggio interiore del Sé. La prova di questa subordinazione empirica alla trasposizione spirituale, è data dallo scarso interesse, mostrato dagli stessi alchimisti, verso i risultati dei loro esperimenti. Sherwood Taylor ricorda, come nei trattati alchemici, lo zolfo acquisti importanza quasi esclusivamente in virtù della sua azione sui metalli. Eliade, nel suo Forgerons et alchimistes, sostiene che gli alchimisti greci mostravano un’incomprensibile disinteresse verso i fenomeni chimici, prodotti nel corso dei loro esperimenti(4): questo, avveniva all’interno di una cultura ellenica, il cui pensiero speculativo aveva mosso i primi passi proprio dall’osservazione della natura. Ciò dimostra come la prassi “chimica” sia stata, da sempre, destinata alla
risoluzione allegorica nella dimensione metafisica, e come l’alchimia rientri a pieno titolo nel campo dell’esoterologia, lo studio scientifico dell’esoterismo su basi storiche o antropologiche(5). A corollario di quanto sostenevamo riguardo la preferenza concessa alla rilevazione di differenziazioni culturali inerenti alle molteplici tradizioni alchemiche - in luogo del generico appiattimento sul postulato di una petitio principi o, ancor più nell’astrazione “ideologica” di un esanime concetto svuotato dei fertili predicati storico-culturali - possiamo constatare come le finalità alchemiche acquistino una differente valenza nelle diverse civiltà (In termini duméziliani: come all’interno del quadro ideologico alchemico comune attecchiscano le differenze culturali interne ed inerenti alla rilevazioni dei differenti campi ideologici). Prendiamo un esempio tipico. In tutte le tradizioni alchemiche si riscontrano numerosi miti sull’esistenza di piante, alberi, o fiori, in grado di conferire la longevità, di ridare la giovinezza perduta e addirittura di regalare l’immortalità. Tuttavia, una volta accertata la plausibilità di questo sostrato comune, si può constatare come questo mito acquisti una particolare importanza all’interno della cultura cinese, da sempre tradizionalmente interessata alla produzione di un sintomatico elisir, capace di rendere immortale colui che se ne nutre. Ovviamente non mancano anche in Occidente narrazioni delle gesta compiute da personaggi leggendari, la cui straordinaria longevità ha finito per interessare anche la letteratura ed il cinema. Si pensi ad esempio al misterioso conte di Saint-Germain, o a Giuseppe Balsamo alias Cagliostro, o al fantomatico Fulcanelli, per non parlare di Nicolas Flamel e di sua moglie Pernelle. Tuttavia, in Occidente gli alchimisti sono sempre stati maggiormente interessati alla trasmutazione dei metalli in oro (operazione preminentemente intesa in senso allegorico). Viceversa, l’alchimia, come dottrina iniziatica, conserva sempre il suo carattere di segretezza, a tutte le latitudini. Una leggenda tramanda di come il più antico testo ellenistico Physik kai mystik (200 a.C.) fosse stato nascosto nella colonna di un tempio egizio. Nella tradizione brahmanica, iva si rifiuta di rivelare il segreto dell’alchimia addirittura ad una dea; mentre il più antico alchimista cinese Ko Hung (260-340 d.C.), ricorda come la segretezza sia essenziale per le “ricette”. Nel Rosarium philosophorum si avverte il lettore che questa conoscenza deve essere per “via mistica” come le poesie e le fiabe. Una volta bevuto l’elisir che rende immortali (hsien), l’adepto – secondo Ko Hung – deve continuare a mescolarsi con i mortali, evitando di rivelare il proprio segreto. L’appello al segreto, del resto, porta con sé la necessità di richiamarsi ad un linguaggio fortemente allegorico, per cui, molte pratiche “operative” non sarebbero altro che metafore del cambiamento interiore e spirituale dell’alchimista. Metafore proibite, attraverso le quali potenziare l’autocoscienza dell’adepto. Paradossalmente, un esoterista come René Guénon si rifiuterebbe di attribuire all’alchimia “spirituale” un’impronta così prettamente spirituale, limitandone i contenuti al primo livello di perfezionamento interiore, da lui definito “psichico”. Al contrario per Carl Gustav Jung lo psichico coincide da sempre con lo spirituale (ricordiamo che nel perennialismo guénoniano quest’ultimo termine va inteso nel senso proprio di “realizzazione metafisica”, e non semplice come “autocoscienza” o “sentimento oceanico”). L’importanza dell’alchimia per Jung risiede nel suo essere una sorta di “proto-psicoanalisi” e di realizzare con altri mezzi – mediante l’apparato simbolico – il Sé, il principium individuationis, strutturato attraverso l’esplorazione integrativa dell’Io nell’Es. L’alchimia, dunque per Jung, sarebbe una sorta di antica “tecnica dell’anima”. Attraverso questa chiave interpretativa acquista particolare rilevanza l’immagine del laboratorio come metafora della personalità, attraverso cui ottenere la trasmutazione (principio d’individuazione) del metallo (Io) nell’oro (Sé). D’altro canto presso molte culture tradizionaliste assume una certa importanza l’idea che l’alchimia sia in qualche maniera riconducibile ad una pratica ostetrica. La Madre Terra – venerata essenzialmente nelle civiltà che hanno conosciuto la coltivazione dei cereali - partorisce dal proprio grembo l’oro, qualora non la si ostacoli o disturbi. Caso in cui, essa si trova costretta ad abortire altre varietà di metalli impuri, mentre in realtà soltanto l’oro è da considerare come il figlio legittimo della Madre Terra. In questa chiave di lettura, l’alchimista deve completare l’azione interrotta della Natura. Nell’Alchimist (1610) di Ben Jonson è espressa chiaramente quest’identificazione dell’alchimista con l’ostetrico. Per Simone da Colonia la trasmutazione/parto della Natura deve essere aiutata da uno specifico Elisir, il quale versato sui metalli imperfetti, conduce alla loro completa raffinazione e perfezione(6). Lo stesso Elisir, una volta bevuto, assicura la giovinezza e prolunga la vita di molti secoli, donando, in certi casi, addirittura l’immortalità. È anche probabile che la spinta propulsiva del processo che porta alla genesi della chimica moderna possa essere ricercata nello slancio prometeico degli alchimisti, inevitabilmente teso al potenziamento della creatività umana. Secondo Eliade, l’alchimia è in fondo un’escatologia “naturale” orientata verso il riscatto della natura, il dominio del tempo, il perfezionamento dell’opera di Dio. Ideali, che avrebbero trovato la loro giusta realizzazione nella secolarizzata civiltà industriale. Esisterebbe, quindi, per lo studioso rumeno, un filo rosso che unisce l’alchimia alla tecnica. Secondo Eliade quindi la “corruzione” sarebbe dipesa dal 73
promoteismo originario degli stessi alchimisti: un’interpretazione, a nostro avviso, preferibile a quella che indovina nella dissoluzione dell’alchimia spirituale un ineluttabile “segno dei tempi”, generato da una ferrea legge cosmologica. Si tratta della famosa interpretazione di Heidegger sul padroneggiamento della natura come destino della metafisica(7). In Occidente ai tempi di Keplero, Newton e Cartesio circolavano una grande quantità di testi alchemici (lo stesso Newton attinse a piene mani da questi documenti per elaborare le sue teorie). Con la Riforma e con la Rivoluzione Industriale si produsse tuttavia l’eclissi di queste ricerche: il modello meccanicistico soppiantò la cosmologia qualitativa degli alchimisti. L’interesse degli stessi scienziati del XVII secolo era focalizzato sulle dinamiche della trasformazione, da osservare in laboratorio: la mutazione del bruco in farfalla. Gli scienziati del seicento adottavano gli stessi metodi usati, a suo tempo, dagli alchimisti nei confronti della fisica aristotelica. Quest’ultima, ritenuta insoddisfacente, veniva integrata con nozioni attinte dallo Stoicismo e dall’Ermetismo; allo stesso maniera, gli scienziati accogliendo parzialmente gli assunti alchemici ne avvaloravano le dinamiche “sperimentali” attraverso l’irrobustimento teoretico fornito dalla fisica newtoniana. Ovviamente, sparivano le tracce degli elementi peculiari dell’Arte, come, ad esempio, la pietra filosofale capace di garantire - una volta trovata - la trasmutazione in oro del vile metallo. Del resto, la formazione di questa ipotetica pietra era tutt’altro che semplice. Thomas Norton, un alchimista inglese del XV secolo nel suo Ordinall of Alchemy descrive le difficoltà - e la conseguente frustrazione intrinseca - alla ricerca. È molto probabile, naturalmente, che anche la pietra filosofale non fosse altro che una trasposizione allegorica della trasformazione interiore realizzata dall’adepto; tuttavia essa era anche qualcosa di più di un simbolo. Al contrario, la pietra filosofale costituiva l’oggetto di un’accanita ricerca sperimentale condotta all’interno dei laboratori alchemici. La sua realizzazione era assicurata dal conseguimento e dal superamento di quello stadio, indicato dagli alchimisti, come fase “rossa”, preceduto in ordine decrescente da una fase “bianca” e una “nera”. Quest’ultima doveva essere intesa come una sorta di “morte profana” o “discesa agli inferi”, o anche nel ventre di un mostro marino(8). La fase “bianca”, invece, segna il momento della rigenerazione mistica, della rinascita iniziatica del neofita. L’ultimo stadio, la fase “rossa” era destinata a pochi e indicava il conseguimento della pietra filosofale. Il numero delle operazioni necessarie al processo completo dei tre stadi era oggetto di accese discussioni da parte degli alchimisti rinascimentali, sovente incapaci di elaborare una metodologia comune. Un alchimista come Daniel Stolcius prescriveva undici operazioni chimiche; altri, dodici come George Ripley o sette come Salomon Trismosin. Sinteticamente, si può ritenere la calcinazione, o coagulazione, come una sorta di “putrefazione” della materia, mentre il recipiente usato nell’operazione assurge al ruolo di “bara”; la dissoluzione come una “purificazione”; infine la fermentazione-moltiplicazione-proiezione rende la pietra simile ad un lievito in grado di trasmutare le sostanze cosparse. Uno dei grandi problemi dell’alchimia operativa era quello di ottenere una corretta regolazione del fuoco – nel XVIII secolo non esisteva ancora il termometro: secondo Norton, all’alchimista che otteneva il giusto dosaggio, spettava il titolo di “perfetto maestro”(9). Ovviamente la trasmissione degli insegnamenti avveniva segretamente da maestro ad allievo ed anche il contenuto dei testi era velato da una scrittura segreta e criptica. L’oscurità dei testi alchemici un continuo intreccio di metafore e rimandi simbolici – era dovuto al palese tentativo di scongiurare le inquisizioni della chiesa; ma anche al timore degli alchimisti di essere fatti prigionieri da parte di avventurieri e sovrani, che avrebbero potuto estorcere i segreti con la forza. Un ulteriore motivo poteva probabilmente essere ricercato nelle continue traduzione dal greco, al latino, all’arabo, alle lingue volgari: gli ermeneuti del tempo, privi dei sofisticati strumenti esegetici moderni, avrebbero potuto trovare delle difficoltà e decidere così di lasciare nella forma originaria ciò che non poteva essere comunque tradotto in un modo efficace. L’alchimia costituisce una corrente esoterica presente in molteplici civiltà (pur con i relativi distinguo storico-culturali); vale quindi senz’altro la pena di studiarne la storia e la peculiarità dei diversi sistemi di pensiero che l’hanno, di volta in volta, storicamente strutturata. Altra questione è quella sulla sua presunta attualità per l’uomo moderno. Tutto il corpus esoterico del passato, ovviamente, è in grado ancora d’insegnare qualcosa all’uomo della tecnica, a patto che quest’ultimo rinunci da principio a rincorrere pretese gnostiche o salvifiche. Qualora si cercasse nell’alchimia una dottrina superomistica, lo smacco sarebbe assicurato. È preferibile, dunque, a nostro avviso, limitarsi a vedere in essa niente altro che un grandioso insegnamento esornativo ed esistenziale, allo stesso modo per esempio in cui ancora oggi ci si rivolge alle riflessioni degli stoici, prescindendo dalla loro cosmologia. L’alchimia si ridurrebbe allora ad essere una sorta di lebenphilosophie o di sistema introspettivo sul genere delle religioni e filosofie orientali. Anche questa riduzione tuttavia, presenta alcuni svantaggi di ordine pragmatico. Perché mai l’uomo moderno che 74
decidesse di iniziare un percorso autoesplorativo, dovrebbe affidarsi ad una dottrina superata e antiquata come l’alchimia, anziché per esempio alla psicoanalisi contemporanea? Chiusa dalla chimica moderna da un lato e dalla psicologia dall’altro, l’alchimia sembra dunque oggi aver perso la sua ragione d’essere nella storia della cultura. A questo smacco culturale, si deve oggi aggiungere la mancanza di maestri all’altezza del compito richiesto da una rifondazione e riformulazione dei suoi assunti teoretici; operazione che viceversa ha salvato altre discipline, un tempo, in pericolo di “estinzione” - di fronte all’incalzare delle scienze umane - come la teologia ed in misura maggiore la filosofia.
Le origini dell’alchimia La letteratura sull'Ermetismo, nell'Occidente contemporaneo, per quanto possa sembrar strano in un'epoca che gli appare affatto indifferente, è vastissima e si è ulteriormente ampliata negli ultimi decenni. Sfortunatamente, salvo alcune sparute eccezioni(10), essa appare curiosamente deforme, per lo più inutile per chi voglia seriamente approfondire il tema. Si distingue in due filoni principali, riconoscibili ognuno da un capostipite di successo. Marcelin Berthelot(11) ha inaugurato nel secolo scorso lo studio attento ed esauriente sull'alchimia dal periodo alessandrino a quello medioevale. A lui, ed alla sua scuola, dobbiamo il recupero di rari manoscritti siriaci e greci, nelle uniche edizioni ancora oggi disponibili. Il Berthelot era un chimico di fama, e non si scostò mai dall'opinione che l’alchimia fosse una specie di prechimica, più o meno rudimentale. Tutti i suoi studi e le sue ricerche mirarono ad indagare in tal senso il valore dei testi che traduceva e pubblicava, in un inane tentativo di dimostrare che sotto un linguaggio fintamente esoterico, si celavano banali operazioni metallurgiche, più o meno male interpretate dagli stessi sperimentatori. Questo modo di affrontare il problema è proseguito senza dubbi o tentennamenti sino ad oggi, malgrado sia evidente che gli studiosi che se ne fanno carico siano per lo più costretti o a rinunciare alla comprensione della maggior parte dei testi, O a considerare i nostri antichi predecessori degli ingenui inguaribili, nel migliore dei casi un pò imbecilli, che amavano ripetere operazioni inutili senza alcun risultato probante, tutti presi da una forma, fortunatamente innocua, di monomania schizoide. Ogni tanto, felice caso, scoprivano un nuovo composto o una procedura utilizzabile per scopi meno nobili di quelli cui miravano dichiaratamente, e allora si arricchivano tingendo stoffe, o si ubriacavano nascostamente di ottimo 'brandy', o, i meno onesti, proponevano leghe di princisbecco ad altri imbecilli che le prendevano per ottimo oro. Un esempio relativamente recente, da parte di un esperto di alchimia alessandrina(12), è particolarmente illuminante su questo strano modo di pensare. Avendo esaminato i diversi procedimenti alchemici nei quali ricorre un 'corpo', che gli ermetici greci chiamavano 'zolfo', scopre che non è descritta nessuna tra le reazioni, estremamente evidenti peraltro, dello zolfo comune. Del tutto indifferente alle esortazioni degli stessi testi ("il nostro zolfo non è lo zolfo volgare, il nostro zolfo è zolfo vivo. ..") ne deduce che gli autori (in particolare Zosimo di Panopoli) non avevano alcuna capacità sperimentale, anzi, nessun interesse per una sperimentazione effettiva. Non è nemmeno sfiorato dal dubbio, che non si stia parlando dell'elemento chimico con cui è abituato ad operare(13). All'estremo opposto, un altro gruppo di studiosi si riconosce per l'assoluta ignoranza tecnico-scientifica. Questo ha permesso un'osservazione dei testi ermetici senza alcun pregiudizio del tipo descritto, e li ha condotti ad un'esegesi che legge ogni affermazione o descrizione in senso allegorico. Qui sono nate alcune sottoscuole, che dipendono dalla cultura personale che filtrava le singole letture. C.G. Jung ha inaugurato l'interpretazione psichica che immagina gli alchimisti patire, più o meno inconsapevolmente, un linguaggio metallurgico che cela un processo definito di "individuazione", o con altri oscuri termini similari(14). Altri più vicini allo storicismo religioso o antropologico, ne hanno mediato le teorie con commenti appropriati. A tutti questi si sono aggiunti, sparuta schiera di fondo, i cosiddetti 'esoteristi' che hanno racchiuso ogni possibilità di comprensione in un cerchio perverso che spiega con allegorismi le presunte allegorie, creando un'intensa felicità a chiunque voglia escludere l'esistenza stessa del problema. Ovviamente tutti questi autori evitano accuratamente buona parte della letteratura ermetica, quella cioè che contrasterebbe con troppa evidenza con le loro ipotesi. Si riconoscono anzi per una caratteristica peculiare, che consiste in una circolarità di citazioni che si tramandano l'un l'altro, sempre dagli stessi testi, che nessuno legge integralmente. Sono quindi ancora meno utili dei primi, che hanno almeno reso disponibili edizioni più o meno complete degli autori studiati(15). Resterebbe da verificare quello che i filosofi ermetici hanno detto di se stessi. Sono pochi però, almeno sino al XVII secolo, coloro che hanno introdotto divagazioni teoriche o storiche nei testi, data la sostanziale 75
indifferenza per tutto ciò che non fosse guida alle operazioni. Cosicché nell'epoca medioevale frate Simone da Colonia(16) appare un'eccezione, con queste sue succinte considerazioni premesse alla pratica: "In molti antichi codici si trovano definizioni di quest'arte, della quale dobbiamo conoscere subito l'intenzione. ERMETE disse: l'Alchimia è una sostanza corporea da uno e per uno, composta con preziosa sottigliezza per decorazione alternata, raggiungente l'effetto nella stessa miscela naturale, convertente in genere migliore. Un altro dice: è una scienza che insegna a trasformare ogni genere di metallo in un altro, per mezzo di una medicina propria, come appare da molti libri filosofi. Perciò è da sapersi che è una certa qual scienza così chiamata da un filosofo di nome ALCHIMO e quest'arte insegna a fare una medicina chiamata Elixir, la quale versata sopra metalli imperfetti, li perfeziona completamente, e questo fu la causa perché fu inventata" Il mitico Ermete egizio si pone definitivamente a capo della tradizione iniziatica che da lui ha nome in Occidente, mentre il tentativo di dare un'etimologia ingenua alla scienza operativa, dimostra un'incertezza che non è ancora risolta. Infatti, accettata la trasposizione dall'arabo 'al-kimya', per questo si sono ipotizzate origini molto diverse. Si è supposto venisse da un greco 'chuma', fusione dei metalli; da un 'chemia', forma dell'egiziano ”km.t”, nero, da cui il paese nero, l'Egitto, ma anche, seguendo Mahdihassan, da un cinese meridionale 'kimiya', succo che fa l'oro(17). Avicenna in un'immagine tratta dal Viridarium Chymicum di Stolcius de Stolcemberg, Francoforte 1624. L'epigramma di commento recita: "Egli diffuse nel mondo i segreti del magistero e frammischiò dei simboli nei suoi scritti. Congiungi il Rospo terrestre all'Aquila che vola, scorgerai il magistero della nostra arte". Il mistero delle origini dell'alchimia si riflette nei testi latini nell'uso di annoverare fra i padri dell'alchimia i più diversi personaggi celebri (mitici e storici) dell'antichità giudaico-biblica, dell'antichità cristiana, dell'antichità islamica. Questi dubbi non toccavano i Filosofi del medioevo, e uno splendido manoscritto(18) ribadisce l’origine egizia e l’etimologia, in un'introduzione che mescola norme operative all'elenco degli Adepti assisi in una sorta di Areopago astrologico: "E primo ERMETE TRISMEGISTO re filosofo che siede in Ariete, regnò sull'Egittò: ha scritto sulla corona: così è vero senza mendacio, che è li vero de li veri. Nel libro: così separerai il grosso dal sottile, il fuoco dalla terra. Sulla coscia: la sua sostanza è dalle terre inferiori. Nel piede destro: così credi e vediamo. Nell'altro: perché senza fede è impossibile pervenire". Il nono sedente nel Sagittario fu ALCHIMO il quale tradusse in greco dall'ebraico per primo e dal quale (l'Alchimia) pigliò il nome. Ha scritto sulla corona: così si estolle sopra l'arcano di tutte le scienze del mondo. Nel libro: così faccia in un momento il capo e la coda senza fine. Nella coscia: così la luna percuota mille e il sole diecimila in mille suoi perfettissimi. Nel piede destro: così togli gli impedimenti nella protezione degli astri. Nell'altro: perché gli inferiori sono sudditi dei superiori. Nell'esplosione ermetica del XVII secolo la riflessione storica si fa più attenta, ma non modifica gli assiomi di fondo, che danno all'Egitto e ad Ermete l'inizio dell'Arte Sacra. Così il Maier proprio da questi comincia il testo dedicato all'esame della tradizione in Occidente(19). “…Il primo posto, presso la Mensa Aurea, la Regale Vergine CHEMIA assegnò ed attribuì ad ERMETE EGIZIO, in quanto suo viceré e Vicario... ...che ERMETE non sia una persona fittizia, ma un antichissimo Filosofo Egizio, detto Trismegisto dai greci, consta da innumerevoli prove e circostanze…”. Il medico dell'imperatore Rodolfo corrobora le sue affermazioni con date piuttosto precise: "...egli (Ermete) visse nei tempi prima dei Faraoni, re d'Egitto all'incirca nell'anno del Mondo 1956(20), cioè 300 anni dopo il diluvio, 2007 prima della nascita di Cristo... Cosicché precedette I'uscita di Abramo da Charan, città della Mesopotamia, di circa 44 anni: quest'epoca peraltro coincide con l'età in cui Oceano, Osiride ed Iside, primi dèi dell'Egitto (seppure favolosi) si suppone abbiano regnato, cioè prima della Dinastia degli Egiziani, con la quale i pastori cominciarono a presiedere al regno, nell'Anno del Mondo 2139..." 76
Cinquant'anni più tardi, il danese Oluf Borch, meglio noto come Olaus Borrichius, pone la nascita dell'ermetismo prima del diluvio, e ne fa padre Tubalcain "qui aliis nationibus Vulcanus est"(21). Più propriamente ne riporta l'origine e l'etimo secondo quanto ha letto in Zosimo Panopolitano, in un testo manoscritto della Regia Biblioteca di Parigi, che narra: "...Dicono, o donna, le Sacre Scritture, ossia i libri, che esista una certa specie di geni che fa uso di donne. ...Questo dunque ricordano le Vecchie e Divine Scritture, che gli Angeli attirati da desiderio di donne, insegnarono loro tutte le opere della Natura. ...Da essi, tramandano le medesime Scritture nacquero i Giganti. Pertanto il loro primo insegnamento su quest'arte è, “chema”: chiamarono peraltro quel libro “chema”: da cui anche è chiamata c la stessa arte CHEMIA". Ermete, anzi l’egizio THOYTH, incise poi, su colonne "Iiteris hieroglyphicis sed lingua Sacra sive Aegyptiaca" tutta la dottrina salvata così dal Diluvio, infine tradotta in greco da Agathodemone, padre di Tat. Il nome le venne dall'Egitto, terra di Cham. Chemia quasi chamia" dice Borch che riassume in conclusione la diffusione dell’Arte Sacra: “...nella terra di Cham grazie a Tubalcain... dall'Egitto in Grecia, e quindi nel Lazio, da qui agli Arabi e ai Cinesi, infine in Spagna, Gallia e quasi in tutta Europa…” Evidentemente i filosofi Ermetici, più che a far storia, badavano a trasmettere un messaggio tradizionale: anch'essi dunque si rivelano poco utili a chi, inesperto del loro linguaggio, li voglia seguire su percorsi così scoscesi. È molto probabile che porsi il tema della Storia dell'ermetismo equivalga a voler descrivere la stessa storia dell'umanità. Non crediamo infatti che sia mai esistita una qualche forma di civiltà, che non abbia ospitato, in forma più o meno palese, un nucleo che possiamo definire ermetico. Perché la nostra affermazione risulti più precisa, diciamo che ci pare di poter individuare una cultura ermetica, se si presentano le caratteristiche seguenti; 1 - la convinzione che esista una energia vivificante e intelligente (consape-vole) che permea ed è all'origine della manifestazione universale, e, in particolare, di quel fenomeno che chiamano vita(22). 2 - la credenza in una possibile forma di immoralità fisica dell'essere umano. 3 - una rappresentazione del mondo, sottomesso ad una legge intangibile. 4 - l'esistenza di una tecnologia metallurgica sufficientemente evoluta(23). Ognuna di queste quattro caratteristiche può essere esistita in un particolare periodo e luogo, singolarmente o associata a qualcuna delle altre, ma solo la presenza contemporanea di tutte, permette uno sviluppo completo, teorico e pratico, dell'ermetismo. Se ora ci volgiamo ai documenti che la storia ufficiale ci propone, dobbiamo constatare che solo a partire dal VII, VI secolo a.C. possiamo parlare di storia in senso proprio. Abbiamo poi delle informazioni frammentarie e variamente interpretate, che risalgono all'inizio del 3 millennio a.C.. Al di là di questa barriera, non vi è più nulla che si possa considerare storia in nessun senso. È una constatazione già fatta da altri, su cui non ritorneremo, e che ha a che fare con la teoria dei cicli ripetuti di distruzione parziale della superficie terrestre, che fa tuttavia parte dell'insegnamento tradizionale che stiamo studiando. Qui, a sfatare alcuni luoghi comuni sull'uomo preistorico, che lo vedono simile a certi miserevoli primitivi che sopravvivono nelle foreste tropicali, conviene: una breve deviazione sulla più antica metallurgia(24). Le notizie su miniere preistoriche sono scarse perché per lo più cancellate dall'attività mineraria successiva: appare comunque certo che l'estrazione dei minerali era regolarmente praticata sin dal Paleolitico superiore, cioè almeno 10.000 anni fa, quindi molto tempo prima della cosiddetta età dei metalli(25). Un esempio sono le testimonianze di estrazione del cinabro (solfuro di mercurio) a Vina, nei pressi dell'attuale Belgrado. La più antica metallurgia è certamente quella del piombo. Il più comune tra i suoi minerali, la galena (solfuro di piombo) si fonde così facilmente che basta ad ottenere il metallo un fuoco di legna secca o di carbone di legna all'aperto, con temperature inferiori a 800°C(26). I documenti più antichi su questo pro77
cedimento risalgono al 6500 a.C. a Çatal Huyuk in Asia Minore. Altri reperti in Iraq, Iran e in Egitto suggeriscono tutti per la fusione del piombo una notevole diffusione e un inizio nel VII millennio a.C. In realtà è probabile che più del piombo, interessasse l'argento spesso presente sia nella galena, sia in vari minerali complessi di piombo-antimonio-argento. Numerosi manufatti di argento del IV millennio si sono trovati a Biblo, nel Libano, in Palestina, a Ur e Warka in Mesopotamia, a Beycesultan, Alikar Hyk e Korukustan in Asia Minore. Un altro mitico "padre dell'alchimia": Morieno Romano (Viridarium Chymicum op. cit.). A questo personaggio la tradizione attribuisce la trasmissione del sapere alchemico al principe arabo Calid. Il trattato che espone il presunto colloquio tra Morieno e Calid fu tradotto dall'arabo in latino nel XII sec., probabilmente da Roberto di Chester: quest'episodio è posto da taluni studiosi come l'inizio dell'effettiva diffusione dell'alchimia nell'occidente medievale. Il processo per ottenere l'argento passava per la diffusione dei minerali di piombo: i due metalli si liquefano insieme, mentre altri elementi presenti nel minerale, come ferro, manganese, silicio, calcio e alluminio, passano principalmente nelle scorie. L'argento deve essere poi separato dal piombo e questo avviene per mezzo del procedimento noto come COPPELLAZIONE. La lega di piombo e argento viene fusa in un crogiolo e mantenuta ad una temperatura abbastanza elevata, mentre su di essa viene soffiata aria. L'aria ossida il piombo, trasformandolo in litargirio (monossido di piombo). Le impurità come rame, stagno, antimonio arsenico e bismuto, vengono anch'esse in gran parte ossidate; non l'argento, che per lo più contiene anche una traccia d'oro. Una volta che il litargirio sia stato assorbito dalle pareti del crogiolo (o eliminato con mezzi meccanici) rimane come residuo un globulo fuso di metallo nobile. L'argento così ottenuto contiene sempre una quantità residua di piombo, che può variare dal 2 allo 0,05%. Il coperchio di uno scrigno in argento, proveniente da Nagada in Egitto, del 3600 a.C., ha mostrato all'analisi un contenuto di piombo dello 0,45%, ed è perciò sicuramente un esempio di metallo ottenuto per coppellazione. Ci siamo dilungati su questo processo, in uso ancora oggi, e che appare dunque noto sin dalla più remota antichità, per notare che una civiltà che lo pratichi, non solo ha evidentemente raggiunto un livello tecnologico piuttosto raffinato, ma non può essere ingannata con leghe che simulino oro o argento: la coppellazione infatti, è anche il metodo più certo per riconoscere i metalli preziosi, e separarli da impurezze, Resta da chiedersi quanto una mitologia che narra di Crono-Saturno, il piombo, che mangia tutti i suoi figli, i metalli non nobili, ma non Zeus, il metallo nobile non ossidabile, sia stata influenzata da queste conoscenze metallurgiche. Alla fine del V millennio a.C. abbiamo testimonianze di una metallurgia del rame evoluta, alimentata da una propria industria mineraria. Una miniera sfruttata certamente sin dalla seconda metà del V millennio è a Rudna Glava, in Iugoslavia; nel pressi del confine con la Romania. Non lontano, ad Ai Bunar in Bulgaria, giacimenti di rame furono sfruttati molto presto, mediante la tecnica dell'estrazione a cielo aperto(27). Antiche miniere di rame sono note anche in altre parti d'Europa. Una di esse è stata scoperta a Chinflon in Spagna. Fuori dall'Europa, nell'area di Veshnovch nell'Iran, il minerale veniva estratto da una miniera con gallerie sotterranee lunghe 40 metri. Un'altra antica miniera di rame nell'Asia Occidentale è quella di Kozlu, nella Turchia centrale, i cui pozzi avrebbero una profondità di 50 metri. Notiamo che ottenere il rame dai suoi minerali è piuttosto difficile. I minerali più comuni sono la malachite, l'azzurrite e la calcopirite. I primi due possono essere ridotti a metallo a temperature molto inferiori al punto di fusione del rame (1083°C) ma questo resta disseminato e non disponibile, sinché la temperatura non salga abbastanza per fonderlo e trasformare la ganga, costituita da minerali rocciosi, nello stato di scoria fluida: il risultato si presenta con due liquidi non miscibili sul fondo della fornace. La fusione di tutti questi minerali richiede una temperatura intorno ai 1200° C. La calcopirite, che era la più usata, richiede un arrostimento precedente. I primi fonditori del Mediterraneo Orientale generalmente procedevano riempiendo un forno di pietra con stati alternati di carbone di legna e di mi-nerale combinato con un fondente. Questo, nel forno caldo, tendeva a combinarsi con la ganga e la allontanava dal metallo. In molti minerali la scoria era costituita da ossido di silicio in varie forme. Il fondente appropriato era allora un ossido di ferro, l'ematite, che alla temperatura del forno si combinava con la silice formando un silicato di ferro. Se il minerale di partenza aveva una percentuale significativa di arsenico, ciò che si otteneva non era rame, ma del bronzo naturale, che aveva il vantaggio di possedere una maggior durezza: si preferivano perciò minerali di rame arsenicale sinché, nel II millennio, non si scoprì che lo stagno induriva il rame al pari dell'arsenico con minor tossicità. Nei primi anni del secondo millennio la produzione di bronzo allo stagno aveva superato quella di bronzo all'arsenico. 78
Verso la fine del II millennio il ferro cominciò a sostituire il bronzo nella produzione di utensili ed armi, ma questa non va considerata un'innovazione tecnologica, quanto piuttosto la risposta ad un'improvvisa scarsità di bronzo, probabilmente dovuta ad un'interruzione nel rifornimento di stagno: il bronzo infatti presentava rispetto al ferro vantaggi considerevoli, e quindi solo la necessità può spiegare questa sostituzione insoddisfacente. I primi lavoratori metallurgici infatti estraevano il ferro da minerali, soprattutto ematite e magnetite, per mezzo di un processo molto simile a quello usato per ottenere il rame. Vi era però una notevole differenza. Il ferro non fonde a temperature inferiori a 1537° C e la massima temperatura raggiungibile nei forni in uso all'epoca era di circa 1200° C. La fusione del minerale di ferro a quella temperatura non dà un bagno di metallo fuso, ma una massa spu-gnosa mista a ossido e silicato di ferro. In seguito la martellatura alla forgia trasformava, con una specie di spremitura meccanica, il massello di ferro poroso in una struttura continua di particelle di ferro qua e là interrotta da inclusioni di scoria non eliminata. Questo era il materiale di partenza da cui il fabbro ricavava poi oggetti con ulteriore riscaldamento e martellatura. Ciò che il fabbro si trovava a dover lavorare era un cattivo succedaneo del bronzo. Infatti il ferro così ottenuto è un metallo dolce, decisamente meno resistente(28). Si consideri poi che il bronzo poteva essere fuso alle temperature raggiungibili all'epoca e che si corrode lentamente, mentre il ferro si corrode rapidamente con danni spesso gravi. Si comprende dunque come non si sia trattato di un progresso, almeno per quel periodo(29), anche se allora dovette certamente incominciare uno studio teso a migliorare le prestazioni del ferro e per aumentare la temperatura dei forni, che condusse nel tempo a risultati validi. Ci resta dunque, per concludere, dalle profonde nebbie di questa autentica preistoria che possiamo studiare solo per indizi e tracce, l'immagine di un mondo evoluto, provvisto di una tecnologia per nulla rudimentale, che ha acquisito una notevole dimestichezza con processi di fornace e metallurgici, che sa riconoscere e manipolare composti chimici, i cui resti preziosi testimoniano di civiltà non certo primitive. Questa è la fredda descrizione tecnica, la stessa suggerisce più calde visioni, per quanto solo supposte e mai provate. Ci pare di poter sognare qui operai "benvoluti" che avvertono, in cave oscure che la lucerna appena illumina, l'empito vitale che a pochi è dato riconoscere nella "materia inerte". Li vediamo toccare toccati, manipolare manipolati, osservare osservati, in una sempre più ampia consapevolezza che climi più miti e aure più propizie favoriscono e non ostacolano. Li sentiamo stupiti, chini sui forni, non ancora assordati da progressi improbabili, udire i lamenti del minerale torturato, le grida del metallo liberato. Li scorgiamo sognare titaniche lotte, uccisioni, morti e vendette, vergini e eroi, incesti e nozze sacrali, fiamme divoratrici, fiati velenosi e nascite miracolose. Li scopriamo nascosti in tende sui monti, accoglienti e protette, cuocere lentamente a dolce fuoco di lampada viventi amalgame, olenti e profumati miscugli, in pacifiche notti rugiadose di primavere clementi. Li vediamo, fabbri proscritti e zoppi, mal sopportati, iniziare pochi destinati all'emarginazione invidiosa, che già disprezza e teme, inventare sacerdozi e templi, miti e religioni, per nascondere ai molti e insegnare ai pochi... Un sogno, senza dimostrazioni, senza prove, senza alcuna utilità, piccola parentesi che il lettore indulgente ci avrà perdonato. Ponendoci ora all'inizio del periodo esaminabile, incontriamo due grandi centri di civiltà: quello del bacino dell'Eufrate e quello del basso corso del Nilo. Tra i due corrono rapporti molto precisi, ed entrambi hanno la curiosa caratteristica di affacciarsi sulla scena del mondo con un sistema dottrinale, religioso e scientifico unitario e già completo sin dall'inizio del periodo. Nel seguito non si nota alcun progresso, ma solo decadenza, mentre siamo costretti a presupporre un lungo sviluppo antecedente, di cui non resta alcuna traccia. Dei due, ci interessa particolarmente quello sumero-babilonese(30), perché vi troviamo l'origine di buona parte di quel simbolismo che si trasmetterà intatto nei millenni sino ad oggi. Esaminiamo innanzitutto la teoria(31). Nasce nella Babilonia la cultura sacerdotale: i principi fondamentali sono tutti fondati sulla convinzione che il mondo, la manifestazione fenomenica, è basato su una energia compenetrante, chiamata ME, che imprime vita e movimento alla realizzazione materiale secondo un processo dominato dalla necessità(32). Tutto ciò che è, non è che materializzazione di questa energia spirituale, che è a sua volta emanata direttamente dalla divinità, se addirittura non vi si identifica. Di conseguenza una sottile struttura di invisibili relazioni collega tutto ciò che esiste, dal fenomeno più grande al più piccolo, in una rete apparentemente inestricabile di “simpatie”, che il sapiente soltanto sa discernere, comprendere e, se il caso, utilizzare. Lo studio degli astri allora non è fine a se stesso, ma nell'armonico succedersi dei movimenti planetari, per chi sa leggere e tradurre, si riconosce la forma più 79
chiaramente manifestata di questa legge universale e si traggono informazioni sul mondo inferiore. Una prima triade è la massima manifestazione rivelata: si concretizza in Sole, Luna e Venere, dove Luna è padre, Sole figlio e Venere figlia e sposa di entrambi. È il primo esempio storico di quello che si chiamerà in tempi più tardi l'incesto filosofale, così come dei tre principi che stanno a fondamento della creazione. Agli altri pianeti sono affidate le direzioni spaziali, che conviene ripetere a favore di chi voglia penetrare il simbolismo di certe costruzioni medievali. Occidente a Mercurio, meridione a Saturno, oriente a Giove, settentrione a Marte. A Venere spetta l'alto, al Sole, forza tenebrosa, appartiene il mondo infernale. Ogni pianeta ha un colore: nero Saturno, giallo Giove, rosso Marte, porpora Sole, bianco Venere, azzurro Mercurio, verde Luna. Mercurio occidentale è guida dei morti, conduce agli inferi le anime dei trapassati. È anche luna calante, come stella della sera. Marte è pianeta lunare, è luna piena. Saturno è solare, luna in posizione di sole o luna nuova. Al tempo dell'equinozio, la più evidente immagine astrale, la Croce, era visibile nel cielo di Babilonia, per scomparire al tempo del solstizio. Questa è dunque la Conclusione per antonomasia: nei documenti si mette la croce per Indicare che lo scritto è finito: l'ultimo segno grafico della scrittura è una croce ed ha per nome “adempimento, fine”, cioè TAM, o, secondo la pronuncia babilonese, accolta anche dagli ebrei, T A W. Il mito annuale del dio, si conclude al termine dell'orbita col “dio appeso alla croce”. Risuonano antichi accordi, armonie purissime, canoni su cui per millenni si eserciterà il virtuosismo di misteriosi musicisti, che ripeteranno in infinite variazioni la stessa melodia, che non si può cambiare, perché è l'essenza stessa dell'”Arte della Musica”. Non riconosciamo forse nella scala cromatica dei pianeti e metalli, la successione stessa dei colori alchemici? Nella giusta collocazione, nel corretto succedersi, così come si manifestano attraverso il vetro, da Babilonia al cimitero dei Santi Innocenti dove, quattro millenni più tardi, dice Nicolas Flamel: "...j'ai aussi mis contre la muraille, d'un & d'autre coté, une procession en laquelle sont représentées par ordre toutes les couleurs de la Pierre ainsi qu 'elles viennent & finissent, avec cette inscription francaise: MOULT PLAIST A DIEU PROCESSION S'ELLE EST FAICTE EN DEVOTION... " “... Ho anche messo contro il muro, da entrambi i lati, una processione nella quale sono rappresentati in ordine tutti i colori della Pietra, così come vengono e finiscono, con questa iscrizione francese: PIACE MOL TO A DIO PROCESSIONE S'ESSA È FATTA IN DEVOZIONE…”(33) Un'ipotesi di prassi alchemica prevede, come si è già detto, una tecnologia utilizzabile. In effetti abbiamo già parlato delle conoscenze metallurgiche. Alt informazioni su operazioni chimiche si traggono da testi che descrivono la preparazione farmaci per uso medico. Una tavoletta cuneiforme della fine del III millennio dice: "Purifica e polverizza la (pelle di un) serpente d'acqua; versa acqua sulla pianta AMAM SHDUBKASKAL, su radice di mirto, alkali polverizzato, orzo e resina polverizzata, abete. Fai bollire. Lascia decantare il liquido, (estratto)..." Dalla stessa tavoletta, un'altra prescrizione dice "Purifica, polverizza la...” di una vacca. Versa acqua su un ramo di mirto, una "pianta stella", la radice dell’ albero AB, una mela secca, e il sale IB. Fa bollire. Filtra il liquido. Lava col filtrato. Aggiungi salnitro e la pianta..."(34) Più interessante, un testo di contabilità, che riporta: "Due anelli d'argento, ciascuno del valore di 5 'shekel', del peso di 95/6 'shekel' meno 3 grani, il suo riscaldamento col fuoco uguale a 60 grani, e la sua quantità lasciata uguale a 23 grani" 80
Qui appare una prima operazione, evidentemente una fusione in cui si ossidavano il litargirio le impurezze plumbee che si volatilizzavano, seguita da una coppellazione in cui una piccola quantità di materiale era persa nei fori della coppella(35). Per quanto riguarda i materiali noti e catalogati, una tavoletta elenca una lista su cui leggiamo: "Oro, colore, orpimento, polvere bianca di allume, polvere nera, allume e gesso" Un'altra lista contiene nomi di differenti leghe d'oro: "Oro, oro verde, oro fino, oro bianco, oro rosso, oro sopraffino, oro raffinato" Sin dal terzo millennio abbiamo liste di strumenti che ci danno l'idea di un apparato chimico molto completo: vasi da fusione, apparati per filtrare, vasi separatori, alambicchi, sublimatori e apparati di estrazione così come molti altri tipi di strumentazione sono stati riconosciuti negli artefatti scoperti(36). Nel I millennio la lista dei prodotti chimici include: sale comune, salgemma rosso, calce, salnitro, carbonato di soda, sale armoniaco, alkali dalle piante, gesso, mercurio dal cinabro, allume, zolfo nero e giallo, bitume, varie forme di arsenico, ossido di rame rosso e nero, crisocolla, acetato di rame, ossidi di zinco, ossidi di ferro, ematite, minerale magnetico di ferro, piriti ferrose (che procurano vetriolo), solfuri di ferro, solfato di rame e probabilmente acido solforico ottenuto dal vetriolo verde (chiamato HANNABAHRU). Come si vede, ci troviamo in presenza di una tecnologia sufficientemente, anzi abbondantemente, completa per immaginare tutti i possibili procedimenti alchemici noti. Altri testi suggeriscono l'esistenza di una teoria squisitamente ermetica: quella della Terra Madre, nel cui ventre i minerali crescono come embrioni in gestazione e, se lasciati stare, giungono a maturazione e perfezione. In particolare, una dettagliata istruzione sulla fabbricazione di un forno, utilizza il termine 'KU-BU', embrione, feto, inteso come l'insieme dei minerali disposti perla fusione nel forno, assimilato alla matrice(37). Il testo, che appartiene alla biblioteca di Assurbanipal, dice: "Quando disporrai il piano di un forno per minerali (kubu), tu cercherai un giorno favorevole in un mese favorevole, e allora disporrai il piano del forno. Dopo che il forno è stato orientato e tu ti sei messo all'opera, poni gli embrio-ni divini nella cappa del forno: un altro, un estraneo non deve entrare, ne alcuno impuro deve camminare davanti a loro: tu devi offrire le libagioni dovute davanti a loro: il giorno in cui depositerai il 'minerale' nel forno, tu farai un sacrificio davanti all'embrione; tu poserai un incensiere con incenso di pino; tu verserai della birra 'kurunno' davanti a loro. Tu accenderai un fuoco sotto il forno e depositerai il 'minerale' nel forno. Gli uomini che condurrai per aver cura del forno si devono purificare e (dopo) tu li stabilirai per aver cura del forno. La legna che tu brucerai sotto il forno sarà dello storace (sarbatu), spesso, in grossi ceppi, senza scorza, che non sono stati esposti in fascine, ma conservati sotto una coperta di pelle, tagliati nel mese di Ah. Questa legna sarà messa nel tuo forno". Comunque si voglia interpretare questo documento, appare evidente che rappresenta una sacralità in cui le più minute operazioni metallurgiche assumono un significato non comune. È testimonianza di esperienze vissute e concrete. Qualunque alchimista operativo, millenni più tardi, ne confermerebbe il valore, probabilmente con un discreto sorriso di compiacimento. Questa sacralità attribuita ad operazioni che paiono solo chimiche, si può dedurre anche da un altro testo, lo scritto di un mastro vetraio. Si tratta di Liballit-Marduk, figlio di Ussur-an-Marduk, sacerdote di Marduk in Babilonia. Contiene ricette per fare smalti da rame e piombo. Interessa qui che l'autore sia di casta sacerdotale, e che già anticipi il gergo criptico degli ermetisti po-steriori, esprimendo chiara la volontà di celare la sua scienza a chi non lo meriti. Tuttavia è nel mito che potremmo più facilmente individuare il vero inizio di un linguaggio che trascende la tecnica operativa, e la rivela nella sua pienezza al solo iniziato. Tralasciamo per ora la famosa epopea di Gilgamesh, trattenendone solo il chiaro riferimento ad una bevanda di immortalità. Leggiamo piuttosto l'orgogliosa iscrizione che Sargon, il grande imperatore lasciò a memoria, conservata nei secoli. Ne sottolineiamo le parole chiave:
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"...Sargon il potente, il re di Accad io sono. Mia madre era una sacerdotessa vergine, mio padre ignoto. Il fratello di mio padre abitava sulle montagne. Nella città di Azupirani, sulla riva dell'Eufrate mi portò mia madre, la Vestale. Ella nascostamente mi diede alla luce. Mi mise in un recipiente, che chiuse con bitume, e mi abbandonò al fiume. La corrente mi trascinò via e mi portò da Akki, l'acquaiolo. Akki, l'acquaiolo, fece di me un giardiniere. La mia atti-vità come giardiniere piacque ad Ishtar, e io divenni re e regnai per quarantacinque anni”. La favola appare dunque davvero antica. Nel tempo ne misuriamo le numerose varianti. Il padre ignoto è un dio, dei venti, delle tempeste, della guerra. Oppure decisamente lo stesso Spirito Divino. La vergine, sarà principessa, o “lupa”, a memoria dei numerosi amplessi che non l'intaccano. L'artigiano si fa falegname o fabbro. L'involucro può mutarsi in grotta o ca-verna. Il giardino o “compimento”, può diventare croce o supplizio. La sostanza non cambia. Della trama ermetica che la sostiene, possiamo dare il disegno, che traccia le operazioni conclusive dell'Opera: Nasce il piccolo sole ermetico, il “regulus”, il reuccio, dal mercurio sempre vergine e dal solfo segreto, che non si manifesta mai agli occhi dell'operatore se non dai risultati. La madre lo porta sulle acque del mare dei Saggi, in una generazione coperta dalle più oscure tenebre. Qui sorge racchiuso in un involucro che è la stessa condensazione delle acque superiori, cioè di quell’ acqua secca, definita come l'artigiano stesso dell'opera, il 'leale servitore' estratto dall'acqua, grazie all'artigiano delle acque, si riveste dapprima di tutti i colori, sino allo sbocciare conclusivo, nel giardinetto ermetico, del giglio e della rosa, i due splendidi fiori, che consacrano, con il benvolere della Natura, la somma regalità con la corona dell'Adepto. Non vi è allegoria in questa trama, se non per chi ne rifiuti il reale incanto. Nei secoli, nei millenni, in lunghe notti di veglia, pazienti e fortunati Artisti hanno visto il miracolo, e lo hanno ritrascritto fedeli, annunciando che sulla Terra, nel periodo propizio, ogni anno avviene la grande Epifania, per “gli uomini di buona volontà”.
L’androgino alchemico Ermete Trismegisto, il leggendario fondatore dell’alchimia, addita il mistero primordiale della natura, il principio del fuoco, che avvolge nella sua quadruplice fiamma gli opposti essenziali: sole e luna, maschio e femmina, zolfo e mercurio, che danno luogo all’unità androgina in ogni atto di concezione e nascita in natura. Essi circondano la terra concentrando su di essa le influenze astrali, e nel centro della terra si combinano in un triangolo, o piuttosto, tridimensionalmente, in una piramide, che è la forma del cristallo di sale (sia dei sali marini, sia degli allumi minerali, femminili). Il lato destro del triangolo corrisponde al principio sulfureo maschile, il lato sinistro al principio mercuriale femminile e la base del triangolo al principio salino. La figura contenuta all’interno allude alla quadratura del cerchio, simbolo dell’androginia. La progressione va perciò dal triangolo al quadrato e infine al cerchio. La natura opera nello stesso modo in tutti e tre i regni, quello aereo, quello vegetale e animale, e quello minerale, perché in ciascuno di essi l’armonia deriva dallo stesso accoppiamento di opposti, dalla stessa congiunzione dei principi solare e lunare. La congiunzione può essere raffigurata da un serpente (la natura) con la testa di leone (che divora il fuoco e la putrefazione) e la coda a forma di testa d’aquila (volatilità), nell’atto di estrarre da se stesso l’invisibile e impalpabile rugiada interna che dà compattezza agli elementi più sottili del corpo. In essa è racchiuso il potere del sole e della luna, che il serpente stringe fra le sue spire. Il processo è triplice. Esso inizia con una fase androgina embrionale che, nel caso dei metalli, corrisponde all’impregnazione di un terreno nitroso e salino da una parte di un vapore corrosivo e acre (Zolfo e Mercurio). I due principi vengono raccolti insieme dalla luce solare che penetra nel terreno sotto forma di rugiada. La stessa rugiada che nutre la vita delle piante attiva questo processo di volatilità sotterranea. Il prodotto è detto "materia prima", o "Rebis", o "Androgino di Fuoco" (poiché entrambi i principi sono acri e brucianti), o "Adamo" (poiché entrambi sono il principio primo della generazione nel mondo minerale). Isaac Newton preferiva chiamarlo "Caos". Paracelso, scherzando, lo chiamava l’"Albero-con-la-Mela" o "Seme Ragazza (sale) e Polpa Ragazzo (zolfo)" (il re e la regina accanto all’albero). La polpa col tempo marcirà o brucerà, per essere infine ricreata della sostanza della Ragazza (le lune). La radice di questo
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processo viene spesso indicata come il Drago Velenoso. Nell’Androgino vediamo una nuvola di teste caprine, dalle cui barbe si innalzano un ragazzo e una ragazza che si avvolgono a spirale intorno alle gambe dello stesso. Tale significato simbolico viene associato alla capra in India, dove la parola aja ("capra" in sanscrito) significa anche "non ancora nato" e dunque "natura" (che sottoterra è fetida e ribollente). Perché non è possibile identificare questa sostanza con un unico nome? Perché essa non è necessariamente cinabro, o antimonio solforato, o alcun’altra sostanza in quanto tale. Cercare l’equivalente chimico dell’Androgino di Fuoco è dar la caccia ai fantasmi. L’androgino è una situazione globale, che "accade" quando il principio della luce, del sole e della luna, viene catturato da un terreno aspro e velenoso e comincia a fermentare. Nella seconda fase entrano in opera i vapori di salnitro, che corrodono e affinano l’androgino. L’androgino ora gonfia la terra e soffia via i vapori che l’hanno penetrata, purificandoli nel corso del processo e rendendoli fluidi. Questa fase viene detta il "bagno dell’androgino" o della coppia regale. Essa è seguita dalla terza e ultima fase, in cui dal marasma emerge una pasta vitrea e viscosa, detta la "Pietra dei Filosofi", o la "Perla", o l’"Occhio del Pesce", o il "Primo Magnete", perché attrae dal terreno circostante tutto ciò di cui abbisogna. Gli alchimisti danno alla sostanza che compatta i principi femminile e maschile in natura il nome di "resina", e ritengono che essa sia la forma energizzata del principio sulfureo. August Strindberg, nel suo trattato Antibarbarus (Berlino, 1894), descrive come individuare la resina nella trementina, nella guttaperca, nello zolfo comune riscaldato in una padella, e nell’oro nascente. La resina è semplicemente la dimostrazione di una perfetta amalgamazione dell’androgino, che dà luogo alla pura essenza fluida dell’oro (non si tratta dell’oro comune, che non è altro che la traccia nella materia inerte di una perfetta amalgamazione resinosa androgina). La figura tratta da Urbigerus mostra la sostanza androgina a sinistra nella sua prima fase, e a destra nella sua seconda fase dopo un bagno in quella che sembra essere resina che cola da un buco dell’albero (l’analogo dell’albero della vita nel mondo dei metalli). Il buco dell’albero può essere rappresentato anche come un leone verde che morde il sole, specialmente quando l’opera di trasformazione è compiuta sul regulus di antimonio. I vapori dell’androgino vengono raccolti allo stato fluido da una fornace in cui sono riprodotte le condizioni della seconda fase. Il processo è raffigurato da un uomo fiammeggiante (il minerale) e da una donna che addita il leone e il sole simbolici, e paragona l’estrazione dei fluidi all’ascesa della linfa in un albero. La terza fase può essere rappresentata dalla nuova sostanza che riposa in grembo alla madre, da un embrione che gonfia il ventre dell’androgino dopo le abluzioni della seconda fase, o da un figlio androgino. Vi sono immagini globali della visione alchemica dell’operato della natura, sotto forma di due processi principali: a sinistra la calcinazione dei corpi e a destra la distillazione delle essenze (anime e spiriti). Ciò vale per tutti i regni naturali, ma è particolarmente facile da illustrare nel caso di una pianta. Gli oli eterici sono l’anima solare (zolfo) della pianta, l’alcol ne è lo spirito lunare (Mercurius). Questi due principi sono mostrati come maschio e femmina che entrano nella caverna di Ermes accompagnati dai loro leoni. La pianta viene schiacciata, gli oli vengono separati e gli spiriti vengono distillati in una storta (il pellicano). I vapori che s’innalzano sono rappresentati da un’aquila in volo verso il cielo, che li porta negli artigli come mondo dell’anima e mondo dello spirito. Nell’alto dei cieli, nella fase finale dell’opera, essi si fondono e formano la Colomba dell’amore perfetto. Alla sinistra dell’albero della vita, il residuo oscuro della pianta, che resta sul fondo dell’alambicco (il corvo), viene cotto dal fuoco di marte, U, finché perde il proprio carattere plumbeo (il segno di Saturno W) e acquista una sfumatura di stagno (il segno di Giove V) il colore argenteo della cenere (il cigno bianco). Le ceneri sono trattate con resine e fuoco, finché il loro sale libera la propria "umidità radicale" (come avviene per le ceneri usate nella produzione del vetro). Questa è rappresentata dal pavone con la coda costellata di occhi, e in maniera ancor più appropriata dalla Fenice, che si nutre di resine e si brucia per poter rinascere. La Fenice risorge dalle proprie ceneri portando negli artigli due mondi (la terra e il fuoco del processo) e, nella fase finale che ha luogo nell’alto dei cieli, diviene il puro agnello del sacrificio. Qui il corpo calcinato (la Fenice morta) viene saturato dalla tintura fluida (la Colomba morta), finché le due essenze si fondono nella Pietra della Pianta (la Pietra Filosofale), che è la pianta nella sua forma più pura ed essenziale. Shakespeare scrisse una poesia su questo tema, The Phoenix and the Turtle (La Fenice e la Colomba), in onore dei due uccelli morti e divenuti un’unica essenza. Il disegno indiano allude all’eterno processo di androginizzazione vivificante che avviene nell’atmosfera, mostrandoci il congiungimento a mezz’aria dell’acqua e del fuoco. Secondo l’alchimia, l’umidità terrestre, sospesa nell’aria e impregnata dei raggi della luna, si scioglie nei raggi del sole dando vita a due 83
essenze androgine sottili: Mercurius, l’essenza delle trasmutazioni, e il sale, agente della fissazione. Insieme, dopo aver dato vita alle piante sotto forma di rugiada, esse penetrano nella terra, dove diventano il seme dei metalli. Vale la pena di notare che il fuoco e l’acqua nel disegno hanno otto braccia: la fusione può avvenire solo tramite un doppio incrocio. In una società stabile i matrimoni incrociati fra cugini tendono ad essere istituzionalizzati, e corrispondono al passaggio di un’affermazione superficiale dell’androginia a una più radicale e totale. Ciò spiega forse anche perché l’anomalia dei gemelli siamesi ermafroditi, con i loro doppi organi sessuali in ordine scambiato, non è del tutto sgradevole all’occhio. Anche l’immagine rinascimentale dell’androginizzazione c’insegna la fusione tramite incrocio. La reciproca bramosia dei due opposti (simboleggiata dal cane) genera una spirale (rappresentata dalle spire del serpente, dalla catena tirata in direzioni opposte dai due cupidi e dal motivo delle viti avvolte sui loro sostegni nello sfondo). Ciò è possibile perché, mentre la spinta solare, raffigurata dai piedi alati dell’uomo, mantiene il maschio contratto nello sforzo (a ciò allude l’uccello con le ali chiuse che la donna innalza sopra la sua testa), la donna diviene volatile (com’è indicato dall’uccello con le ali spiegate che l’uomo regge sopra la testa di lei). La fusione androgina s’innalza a spirale solo in presenza di correnti incrociate, proprio come avviene per l’effettivo chiasma dei nervi ottici nel cervello. C. G. Jung ha sottolineato che in ogni intimo incontro fra un uomo e una donna vi è sempre uno scambio incrociato, che coinvolge l’uomo e la sua anima femminile, Anima, da una parte, e la donna e la sua anima maschile, Animus, dall’altra. La Brhadaranyaka Upanishad (IV.3.21) dice che "come nelle braccia di una donna amata perdiamo ogni distinzione fra l’esterno e l’interno, così l’essere umano (purusha) abbracciato dall’assoluto onniscente (prajnatmana) è soddisfatto in ogni suo desiderio (kama); solo il desiderio dell’assoluto persiste, ogni altro sparisce, così come sparisce ogni dolore". La rappresentazione simbolica del matrimonio in Picta poesis di Barthélemy Aneau (fig. XIV) ci mostra quanto queste idee fossero vive nel Rinascimento europeo. Il marito e la moglie sono uniti da un nodo d’amore e si fondono nell’albero della vita, che è rappresentato anche dalla croce che essi formano con le braccia (Mosè e il satiro, sullo sfondo, rappresentano forse il controllo e gli impulsi, la Legge e la Natura). D. Cheney ha notato che la scena assomiglia all’incontro fra Amoret e il marito (che ci ricordano Salmacide ed Ermafrodito) in La regina delle fate di Edmund Spenser (libro III, ed. 1590). Britomart li osserva, "per metà invidioso della loro beatitudine" e "molto toccato dai loro spiriti gentili": per metà Mosè approvante, per metà satiro adocchiante, ovvero, nel linguaggio di Spenser, in parte devoto di Diana, in parte donna tentata da Venere. La fusione perfetta era simboleggiata dall’amore fra Ermes e Afrodite, dal quale nacque Ermafrodito. Michael Mayer commenta la stampa dicendo che Ermafrodito corrisponde al Parnaso, la montagna dalla doppia vetta dove Apollo soggiorna con le Muse e attraverso la quale passa l’asse del mondo. Ciò suggerisce la colonna vertebrale dell’Uomo Cosmico e il serpente Kundalini che snoda in essa le sue spire. Queste correlazioni fra unione sessuale ed essenza del cosmo in Occidente sono evocate solo tramite velate allusioni in trattati alchemici, come appunto quello di Mayer, ma nei templi dell’induismo esse erano insegnate apertamente. Su un’incisione, Alberto Magno, maestro di Tommaso d’Aquino, indica un androgino che regge una Y. Alberto, ci dice il testo, rappresenta qui la suprema autorità sia spirituale sia temporale. La Y, come insegna Filone, è simbolo del Verbo che penetra l’essenza di tutti gli esseri. Gli gnostici Naasseni insegnarono che esso rappresenta l’intima natura dell’essere, che è insieme maschile e femminile e, in quanto tale, eterna. Il globo di Khunrath rappresenta simbolicamente gli insegnamenti fondamentali dell’alchimia. Centro ed essenza della terra è il Caos, che qui appare come androgino (Rebis) che combina contrazione ed espansione, femminile e maschile in una spirale unificata. Esso è la forza creatrice della realtà. Gli opposti vengono agganciati e messi in movimento dall’essenza della luce, che prende la forma del principio della Salinità, di una bruciante acredine nelle viscere della terra. La spirale dell’androgino attivato produce la "Coda di Pavone" o "Arcobaleno": materia fecondata ed energizzata, pronta a generare il seme dei corpi minerali e vegetali. L’applicazione pratica di questa teoria viene suggerita dall’immagine dell’androgino sul fuoco. La materia prima androgina del regno minerale giace in uno stato di latenza, sotto un sole eclissato e una luna nuova. Per risvegliarsi e crescere, per ricevere i raggi invisibili del sole e della luna, e per trasformarsi in un seme minerale, l’androgino richiede il fuoco della fermentazione. Questo è il precetto generale. Nell’effettiva preparazione dei farmaci alchemici ciò significa che due sostanze opposte, come il mercurio e lo zolfo, devono venir saturate con certi succhi e poi macinate fino a formare una polvere nera e fine. 84
Tale polvere viene racchiusa in un vaso sigillato e riscaldata a fuoco lento finché fermenta. In questa stampa i corpi congiunti rappresentano le due sostanze, l’oscurità che li circonda è il vaso alchemico, la graticola il "calore di fermentazione" necessario perché la trasformazione possa avvenire. Ancora oggi è possibile vedere questo processo in atto in ogni laboratorio per la produzione di medicine ayurvediche in India. Gli addetti praticano di quando in quando un’apertura nel recipiente per esaminare il grado di trasformazione delle sostanze in esso contenute, indicato dai cambiamenti di colore. Nei testi alchemici occidentali questa fase del processo è simboleggiata dalla Coda di Pavone che si dispiega sopra l’androgino. Per il mistico, ciò che accade nel recipiente sigillato è la Genesi stessa in scala ridotta. Il processo fu visualizzato in questi termini da Jacob Boehmen in Von der Gnadenwahl (1623): "Adamo, rivestito della suprema Gloria, né uomo né donna, bensì entrambi, temperato con entrambe le tinture, sia come Matrice Celeste nel fuoco procreatore dell’amore, sia come Mascolinità affine al fuoco essenziale" (5:35). Il processo alchemico di fusione tramite fermentazione è qui rappresentato da un re e una regina che giacciono fianco a fianco, con le loro anime che si librano sopra i corpi nudi. Il fine del processo è lo stesso che si proponevano le coppie di asceti del cristianesimo primitivo: liberare i principi che animano l’essere umano tramite fermentazione e fusione dei corpi sottili. Le illustrazioni dei testi alchemici ci indicano come gli alchimisti interpretassero l’operato segreto della natura. Newton si attenne scrupolosamente alle criptiche istruzioni dei testi: "dovrai passare attraverso il ferro", "il ferro era presente nel minerale grezzo originario", "dovrai usare un magnete". Mediante una coppa di antimonio è possibile preparare un farmaco in quantità illimitata, semplicemente versando acqua nella coppa: l’antimonio, come un magnete, s’impregna delle influenze libere, vivificanti dell’aria. "Dovrai usare del piombo": Newton ottenne un Piombo Filosofico. Quando alla fine mescolò dell’oro al suo preparato, all’interno dei vasi sigillati posti sulla fiamma vide alberi ramificarsi, apparire e scomparire, e divampare colori iridescenti, che nel disegno alchemico sono rappresentati dai movimenti circolari del serpente. B.J.T. Dobbs (The Foundations of Newton’s Alchemy, or the Hunting of the Greene Lyon, Cambridge/New York, 1975) spiega l’esperienza di Newton dicendo che egli vide formarsi e dissolversi "composti intermetallici instabili". Gli alchimisti invece avrebbero descritto la stessa esperienza dicendo che Newton aveva lavato l’Androgino di Fuoco, il quale dispiegò quindi il suo "arcobaleno" o "Coda di Pavone". William Blake diede voce a una tradizione diffusa e particolarmente viva presso gli alchimisti, immaginando che la materia visibile sia preceduta da una fermentazione invisibile, nel corso della quale il principio maschile della luce e del tempo ruota come una "spada fiammeggiante" entro il velo di neve e ghiaccio del principio femminile, che rappresenta l’essenza dello spazio. Il gelido velo o la solida crosta dell’aspetto femminile della materia primordiale costituisce l’aspetto visibile del reale, l’illusione cosmica o maya. Tutto ciò può essere rappresentato come un uovo, il cui tuorlo corrisponde al principio maschile del sole e del tempo (che altro non è che l’ombra gettata dal sole su un quadrante), mentre l’albume e il guscio visibile corrispondono al principio femminile dello spazio. Nel disegno alchemico l’uovo diventa il globo, l’albume la polpa vegetale, il tuorlo il sole, raffigurato qui come la testa maschile dell’androgino, i cui piedi femminili sono immersi nell’elemento acqua, in fondo alla valle, o utero, situata fra le due colline del fuoco (la salamandra) e dell’aria (le aquile). L’Uomo Cosmico appare come il bambino, replica del globo androgino. La stampa di Blake tratta da For the Children: The Gates of Paradise (Per i bambini: le Porte del Paradiso), ci mostra l’Uomo Cosmico o Uomo Eterno come Eros alato che esce dal guscio dell’uovo, riecheggiando la tradizione greca che vede in Eros il dio dell’origine della vita. Blake gli mette in bocca queste parole:
"I rent the Veil where the Dead dwell: When weary Man enters his Cave He meets his Savior in the Grave. Some find a Female Garment there, And some a Male, woven with care".
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"Io squarcio il Velo che avvolge i Morti: lo stanco Uomo, entrando nella sua Caverna incontra il suo Salvatore nella Tomba. Colà alcuni trovano un Abito Femminile, altri un Abito Maschile, tessuti con cura". L’incontro con due serpenti accoppiati è presso molti popoli il più favorevole degli auguri. Nel mito di Tiresia un tale incontro segna l’inizio del destino di androgino e veggente del protagonista. Nello yoga e nel tantrismo il motivo dei serpenti allacciati rappresenta il perfetto equilibrio delle energie interne. Formicolii della spina dorsale, serpenti eretti e falli in erezione sono fenomeni imparentati fra di loro. Una nota acuta produce un brivido lungo la spina dorsale; e una melodia che si snoda a spirale, suonata da un flauto, ritmata da un tamburo o ballata da agili e leggiadre membra, fa alzare sia i serpenti sia i falli. La particolare e completa estasi dell’androgiia è simboleggiata dal caduceo che, in quanto rappresentazione dell’accoppiamento di serpenti, denota la corrispondenza, sezione per sezione, dell’essere androgino con il cosmo. Il cammino dello zodiaco può essere proiettato su un caduceo come nell’illustrazione. Nella tradizione occidentale, Giordano Bruno, in De immenso et innumerabili (VI,5), descrive la compenetrazione di serpenti accoppiati come emblema dell’amplesso fra il Sole-Dioniso e la Terra-Cerere. I raggi solari, egli dice, penetrano nell’utero dell’umidità terrestre per raggiungere eternamente il femore stesso della madre cosmica. Il femore è l’osso con cui si fanno i flauti. Entrare in rapporto con questo nucleo della vita cosmica è il fine dell’adepto, sia come alchimista sia come mistico. L’adepto s’identifica con Mercurio, il fluido principio androgino della realtà. Mercurio dapprima è assopito e si astrae dal mondo della veglia per sognare i giusti sogni. Il suo corpo sottile emerge dal suo inguine come un caduceo (indicazione anche del sonno REM, in cui si producono erezioni). Sopra di lui aleggia il principio della luce e del calore. Nella fase successiva lo vediamo incoronato, con il caduceo perpendicolarmente eretto che va a toccare il centro del cuore, dove il sole e la luna si congiungono androginamente. Un piede poggia sulla terra, l’altro sul fuoco. Nella terza immagine la trasformazione è compiuta: Mercurio è ora il perfetto androgino e regge il globo imperiale nella mano sinistra e il caduceo nella destra. Il caduceo è ora esternato e conferisce armonia non solo all’uomo interiore, ma anche al mondo esterno. Saturno e la Luna, Giove e Mercurio, Marte e Venere si fondono finalmente l’uno nell’altro e tutti insieme in un’unità, e Mercurio li porta, come un mazzo di fiori, dentro le viscere della terra, dove diverranno le anime rispettivamente del piombo e dell’argento, dello stagno e del mercurio, del ferro e del rame, formando una spirale che culmina nell’oro solare. Il Mercurio di Agostino di Duccio ci appare all’apice del suo potere. I dettagli di questa immagine devono essere stati suggeriti dagli ermetici che si erano raccolti alla corte di Sigismondo Malatesta. Le stelle sullo sfondo alludono all’armonia delle sfere; il bastone magico guida le anime nella discesa e nella risalita dalle profondità della terra; il gallo della vigilanza è appollaiato sul piede sinistro; il cappello conico della magia s’innalza verso il cielo sul capo dell’androgino, e le nubi che gli fluttuano intorno alle ginocchia suggeriscono, come ha osservato Adrian Stokes (The Stones of Rimini) il moto elicoidale di un vortice che s’innalza. Il piede destro, maschile, poggia sulla roccia con cui è possibile accendere il fuoco, mentre il piede sinistro, femminile, è immerso nelle femminili acque. La saggezza, in greco sophia, rappresenta il legame fra l’Unità Divina e gli archetipi ideali della Creazione. Certi teologi russi hanno ravvisato in Santa Sofia la Quarta Persona di Dio. Come esperienza di vita, in tutta la storia del cristianesimo, dai primi gnostici ai recenti sofianisti russi, Sofia rappresenta lo struggente desiderio di una pace e di una grazia oltremondane, simile, secondo il tradizionale paragone degli gnostici, all’indefinibile nostalgia provata dal figlio di un re che vive, ignaro delle sue origini, in povertà. Teologicamente Sofia è lo specchio di Dio e, nel contempo, lo specchio della pura consapevolezza per gli uomini. Essa è femmina in rapporto a Dio, ma androgino in rapporto all’umanità. Vladimir Solovev, il grande sofianista russo dell’Ottocento che evocò Sofia come sfida allo Spirito dell’Umanità del pensiero positivista, vedeva la mascolinità di Sofia manifestarsi in Gesù e la sua femminilità in Maria. L’immagine di Sofia compare a Novgorod nel Mille, ma può forse provenire da Bisanzio. Il suo aspetto infuocato deriva forse dalle descrizioni dell’Arcangelo Purpureo della Suprema Illuminazione contenute negli scritti dei neoplatonici persiani. Nella mano sinistra tiene il caduceo e con la mano destra si stringe al seno una pergamena contenente i segreti esoterici. Alla sua destra è la Vergine incinta del Bambino, alla sua sinistra san Giovanni Battista. Questi due assistenti, i due canali che trasmettono la sua influenza al livello della effettiva manifestazione, sottolineano entrambi la trascendenza delle divisioni sessuali. 86
L’androgino, o Rebis alchemica, è alato come Sofia ed è in tal senso una personificazione della saggezza cosmica. Un’ala è rossa e l’altra bianca, a indicare gli spiriti dell’oro e dell’argento, del sole e della luna, del sangue e del latte del corpo vivente della natura. Indossa un abito nero bordato di giallo, che suggerisce il nero della materia prima androgina in cui tuttavia sono presenti in potenza le correnti della vita metallica aurea. Il verde del paesaggio è il prodotto della mescolanza dei colori di Rebis. Egli/ella regge con la mano destra un cristallo, in cui i suoi colori appaiono in successione convergente al centro, dove va collocato l’uovo o seme minerale che l’Androgino porta nella mano sinistra, lunare. Secondo la teoria alchemica, lo spirito lunare agirà nell’uovo, provocando la putrefazione della calce spenta della terra, fino ad attivare in essa il nucleo solare latente che risorgerà allora in un corpo cristallino vivo e capace di crescita, così come l’acredine del fuoco provoca la putrefazione delle morte ceneri e della sabbia in un fluido vivente che diviene infine vetro.
La bisessualità nell’antichità greco-romana "Androgino". Etimologicamente si tratta della traduzione italiana del composto che, in greco antico, associa paradossalmente due sostantivi designanti i poli di una opposizione irriducibile: ‘anér-andròs’ "uomo", e gunégunaikòs "donna". Tale origine etimologica e la complessità delle forme che la trasgressione di tale opposizione presenta, spiegano come l’uso del termine "bises-sualità" sia preferibile a quello di "androginia".(38) Inoltre è necessario determinare l’ambito di riferimento di questo termine. Nell’antica Grecia, se vogliamo prestar fede a Flegonte di Tralle (De mirabilius, Cap. 2 = Paradoxographorum graecorum reliquiae 15 F 1. 118-220 Giannini), gli esseri umani, riconosciuti come bisessuati, erano considerati prodigi funesti e venivano, per questo motivo, sterminati impietosamente. Un insieme di testimonianze concordanti(39) ci porterebbe a pensare che le cose andassero nello stesso modo nel mondo romano, dove si abbandonavano gli "ermafroditi" sull’acqua, in alto mare o in un fiume, dentro un contenitore che non tardava a capovolgersi. In tal modo dal territorio della città veniva espulso un essere carico di una forza inquietante, senza esercitare su di lui una violenza suscettibile di ritorcersi contro coloro che l’avessero applicata. Tale espulsione era accompagnata da alcune cerimonie espiatorie descritte da Tito Livio (XXVII, 36, 7). D’altronde, parlare di bisessualità nell’antichità greco-latina non significa parlare di transessualità né di omosessualità. Nella documentazione letteraria antica si possono trovare solo due casi – quello dì Héraïs-Diofante (Diodoro Siculo, fram. XXXII, 10.2 seg.) e quello di Callo-Callon (Diodoro Siculo, fram. XXXII, 11) – nei quali, dopo un intervento chirurgico, un essere inizialmente di sesso femminile, viene dotato di un sesso maschile e si vede socialmente riconosciuto come maschio. Ma, sembra, l’autore menziona questi due casi solo per denunciare la "superstizione" che porta a considerare gli esseri bisessuati come prodigi funesti, da cui bisogna purificare la comunità ed il territorio in cui essa si è stabilita (Diodoro Siculo, fram. XXXII, 12). Inoltre, se è vero che il termine "androgino" è stato utilizzato per designare sia uomini effeminati (Antologia greca VI, 254), sia donne mascoline (Luciano, Amores 28) che praticavano l’omosessualità, l’assimilazione dell’omosessualità alla bisessualità rimane un fenomeno assai raro che, come vedremo in seguito, si spiega innanzitutto con delle considerazioni relative al ruolo rispettivo del maschio e della femmina nella società. Sradicata dalla realtà, in cui è considerata presagio funesto, la bisessualità gioca, in compenso, un ruolo considerevole nel campo della mitologia, e questo tanto sul piano della teo- (-gonia, -logia) quanto su quello della cosmo- (-gonia, -logia) e su quello dell’antropo- (-gonia, -logia). Tale divergenza tra lo status della bisessualità nel campo del reale e in quello dell’immaginario potrebbe spiegarsi così. Allo stato attuale delle cose, l’indistinzione dei sessi, o piuttosto la loro sovrapposizione, rappresenta una minaccia insostenibile, nella misura in cui rimette in gioco l’opposizione fondamentale che fornisce le basi alle strutture sociali, economiche, politiche, giuridiche e perfino religiose che reggono ogni comunità; il sesso (dal latino ‘sexus’ che deriva dalla radice ’sec-‘ da cui deriva ‘seco’ "tagliare, separare, dividere") dovrebbe essere considerato non soltanto come organo adempiente una determinata funzione, ma anche (e forse soprattutto) come segno indicante quale/i ruolo/i l’individuo che ne è provvisto potrà svolgere in un dato sistema. Se tale segno è equivoco, il sistema si intorbida e minaccia il caos. In compenso è proprio questo caos originale ed il suo progressivo ordinamento che prima d’ogni altra cosa cerca di raffigurarsi l’immaginario mitico. 87
Da cui l’importanza che questo accorda alla bisessualità. La scelta dell’antichità greco-romana come punto di partenza per ogni ricerca sulla bisessualità, è fuori discussione. E non può non essere che il mito raccontato da Aristofane nel Simposio(40). In questo dialogo di Platone, sei personaggi tessono l’elogio di Eros seguendo le regole del genere letterario definito da Aristotele nella sua Retorica (I, 9, 1367b 28-36). Fedro, Agatone, Pausania, Erissimaco, Aristofane e Socrate descrivono la natura di Eros; poi considerano i benefici che devono risultare da questa natura. Questi sei elogi di Eros possono essere raggruppati in tre coppie nell’ambito delle quali possiamo distinguere un’opposizione prevalente che spicca sullo sfondo di un accordo fondamentale. Per Fedro e Agatone non c’è che un solo Eros, ma, mentre per Fedro, Eros è il più antico degli Dei, per Agatone è il più giovane. In compenso, Pausania ed Erissimaco ritengono che esistano due Eros corrispondenti alle due Afroditi, l’Uraniana la cui origine è lo sperma che cola nel mare, dai testicoli recisi di Urano (Esiodo, Teogonia 178-206) e la Pandemia, figlia di Zeus e di Dione (Omero, Iliade V, 370); tuttavia, Pausania non esamina le conseguenze di tale dualità che all’uomo, mentre Erissimaco estende le sue argomentazioni all’insieme degli esseri. Infine, Aristofane e Socrate pongono il problema ad un altro livello: quello dell’unità primordiale di cui permane la nostalgia al cuore stesso della separazione che implica l’unione sessuale. Per Aristofane, infatti, Eros è l’unico dio che permette ad ogni essere umano di realizzare il suo desiderio più profondo: unirsi nuovamente alla metà di se stesso da cui è stato separato. E, per Socrate che pretende riportare le parole di Diotima, una sacerdotessa di Mantinea [Mantinea: città dell’Arcadia Orientale a nord dell’odierna Tripolis – n.d.t.], Eros non è un dio, ma un demone che, data la sua funzione di intermediario, permette di trasformare l’aspirazione verso il bello e il bene, che l’uomo prova, in un possesso perpetuo per mezzo della procreazione secondo il corpo e soprattutto della creazione secondo l’anima. Trascendendo l’opposizione tra il sensibile e l’intelligibile, l’animo che riesce ad astrarsi dal sensibile per contemplare l’intelligibile opera un ritorno verso le sue origini e ritrova così il suo vero essere. Più in generale, mentre le prime due coppie di discorsi, quello di Fedro e di Agatone e quello di Pausania e di Erissimaco, hanno come sottofondo la teologia tradizionale trasmessa, nell’antica Grecia, da Omero ed Esiodo in particolare e dalla maggior parte dei poeti in generale, la terza coppia di discorsi, quello di Aristofane che, più verosimilmente, si riferisce all’orfismo, e quello di Socrate, che traspone, su un piano platonico, dove viene operata una scissione tra il sensibile e l’intelligibile, un certo numero di idee religiose difficili da identificare, inaugura un tipo di speculazione in cui la bisessualità gioca un ruolo preponderante e che conoscerà una prodigiosa fortuna nel quadro del rinnovamento dell’orfismo, di cui saranno testimoni i neo-platonici e gli apologisti cristiani, compiacenti in un caso e critici nell’altro. Il discorso di Aristofane si apre con la descrizione dell’antica natura umana e dei rapporti che gli esseri umani di allora intrattenevano con il resto dell’universo: "Una volta, in effetti, la nostra natura non era la stessa di oggi, ma un’altra. In origine c’eran tre generi d’esseri umani, non due, come adesso: il maschio e la femmina. Ma ne esisteva anche un terzo, che partecipava degli altri due, il cui nome sopravvive, anche se esso è scomparso oggidì. In effetti esisteva allora un genere distinto, che di fatto come di nome aveva la stessa natura degli altri due; ora, di questo genere non sussiste che il nome ritenuto infamante. Inoltre la forma di ciascuno di questi esseri costituiva un insieme con dorso rotondo e fianchi circolari; essi avevano quattro braccia, e gambe in numero pari alle braccia; avevano anche, su un collo cilindrico, due visi, perfettamente simili tra loro, mentre la testa per questi due volti, opposti l’uno all’altro, era unica; avevano poi quattro orecchie e due organi sessuali e tutto il resto era come lo si può raffigurare a partire da questo ragguaglio. Per quanto riguarda la loro andatura, essa si sviluppava in linea retta nella direzione desiderata; e quando si mettevano a correre, rapidamente tale corsa rassomigliava a quella di coloro che fanno la ruota rovesciandosi, cioè gettandosi all’indietro e rimettendosi in equilibrio sulle gambe con un movimento circolare: essi avanzavano rapidamente facendo la ruota come se si appoggiassero sugli otto arti che possedevano. Orbene, se i generi (degli esseri umani) erano tre e così costituiti è per questa ragione che all’inizio il genere maschile traeva origine dal sole, il femminile dalla terra, e quello che partecipava delle due nature dalla luna; e giustamente, se essi mostravano una forma circolare, sia nella loro struttura, sia nell’andatura, era perché rassomigliavano ai loro congiunti. Essi erano dunque temibili in virtù del loro vigore e della loro forza, e grande era il loro orgoglio. Ora, se se la presero con gli dei, a quel che Omero dice di Efialte e di Oto, e tentarono la scalata del cielo è affare loro, in quanto avevano l’intenzione di combattere gli dei" (Simposio 189d 6 - 190c 1, trad. Martini, Sansoni). 88
In tale descrizione, intervengono vari elementi di ordine antropologico, cosmologico e perfino teologico, il cui inventario mette in luce l’intento del discorso di Aristofane. Inizialmente, l’umanità era costituita di esseri doppi(41), se consideriamo come punto di riferimento lo stato attuale delle cose. Ecco perché tali esseri erano dotati di due organi sessuali dello stesso tipo di quello che gli esseri umani possiedono ora: maschio (M)/femmina (F), riuniti in coppie, nelle quali questi elementi di base M ed F sono così distribuiti: maschio originale (M, M), femmina originale (F, F), e androgino (M, F) o (F, M). Dobbiamo notare che tali esseri che, come vedremo in seguito, possiedono ognuno una coppia di sessi collocati sopra le natiche, non si riproducono unendosi gli uni agli altri, ma emergendo dalla terra come le cicale (Simposio 191b 6 - c 2)(42). L’unione sessuale indissociabile da una disgiunzione dei sessi non diverrà possibile se non dopo la bisezione di questi esseri doppi da parte di Zeus. Così costituiti, questi esseri doppi, intrattengono, peraltro, un rapporto privilegiato con il cerchio, sia nella loro struttura che nei loro movimenti. In virtù di tale considerazione, possiamo passare dal campo dell’antropologia a quello della cosmologia. Infatti, Aristofane giustifica il rapporto privilegiato di tali esseri doppi con il cerchio, risalendo alla loro origine: infatti il maschio originale discenderebbe dal sole, la femmina originale dalla terra, e l’androgino dalla luna che partecipa dell’uno e dell’altro sesso. Sul piano astronomico, come già fece notare Empedocle, la luna, trovandosi tra la terra e il sole (DK 31 B 47), riceve la luce del sole e, come il sole, rischiara la terra (DK 31 B 42, cf 45) (43). Tale collocazione intermedia e la successione delle fasi lunari fanno della luna un luogo di riconciliazione dei contrari. Da qui il suo carattere ambivalente, anche nel campo della sessualità, come attesta Plutarco (De Iside et Osiride 368 c-d) identificando la dea egizia Iside con la luna(44). Tutto ciò evidenzia un aspetto inquietante dell’unità, una manifestazione della quale è costituita dalla bisessualità. Ricusare la divisione e la separazione, significa mantenersi nel caos o tornarvi. Di conseguenza, la separazione tra cielo e terra, la distinzione tra gli dei e gli uomini e la differenza tra i sessi sono solidali l’uno con l’altro e assicurano il mantenimento di un ordine antropologico, cosmologico e perfino teologico che rimettono in gioco gli esseri doppi del mito raccontato da Aristofane, volendo abolire ogni distanza tra cielo e terra, tra gli dei e gli uomini. Dal momento che questi esseri se la presero con gli Dei a somiglianza di Oto e di Efialte che, avendo imprigionato Ares per tredici mesi in una giara (Omero, Iliade V, 385 segg.), avevano concepito il progetto di muoversi all’assalto del cielo dove risiedeva il pantheon degli dei, ammassando il monte Ossa sul monte Olimpo e il monte Pelio sul monte Ossa (Omero, Odissea XI, 305-320). Nel punire questi esseri doppi, Zeus cerca prima di ogni altra cosa di stabilire una considerevole distanza tra i sessi, tra il cielo e la terra e tra gli dei e gli uomini. Il problema che Zeus deve affrontare a causa di questa rivolta dei primi uomini è il seguente: come punirli senza sterminarli? In un primo momento, decide di indebolirli tagliandoli in due "come quelli che tagliano le sorbe per metterle in conserva, o quelli che dividono le uova con un capello" (Simposio 190d 7 - e 2). In questo modo, fa ironicamente notare Aristofane, Zeus raddoppia il numero degli uomini che rendono omaggio agli dei e fanno loro delle offerte. Dopo l’intervento di Zeus, Apollo, il dio guaritore, rivolta il viso e la metà del collo dei nuovi esseri così costituiti e richiude la ferita provocata dalla bisezione chiudendo la pelle del ventre in quel punto che ora è chiamato "ombelico". Ma il nuovo stato di cos non è vitale. Ogni metà, sospirando la metà perduta, cerca di raggiungerla e, avendola trovata, la stringe in modo da costituire, come prima, un solo essere con essa, l’una e l’altra lasciandosi allora morire di inedia. Anche Zeus è costretto ad entrare di nuovo in azione per salvare gli esseri umani che ha appena prodotto con il suo intervento. "Trasporta i loro organi sessuali nella parte anteriore – fino a quel momento anch’essi li avevano avuti fuori" (Simposio 191b 6-7). La nuova disposizione degli organi sessuali permette ad ogni metà di accoppiarsi con la metà complementare, ma in modo discontinuo, così che il tempo rimanente venga dedicato alle altre occupazioni dell’esistenza. Da cui questa tipologia dei comportamenti sessuali. "Ognun di noi, in conclusione è l’"immagine" di un essere umano(45), dato che è stato tagliato come le sogliole, e da un unico essere due ne sono stati tratti. Ecco perché ciascuno è sempre alla ricerca della propria "immagine". Anche tutti quei maschi che sono una parte dell’essere misto che allora giustamente era chiamato androgino sono attirati dalle donne, ed è da questo genere che deriva la maggior parte degli adulteri; e allo stesso modo è da questo genere che provengono, a loro volta, le donne, che si struggon per gli uomini, e le adultere. Invece tutte quelle che sono una fetta di donna, non riservano grande attenzione agli uomini, ma sono piuttosto inclini verso le donne; ed è da questo genere che derivano le donne omoses89
suali. Infine quanti sono una fetta di maschio, ricercano i maschi". (Simposio 191d 3 - e 6, trad. Martini). Tale tipologia permette di rendere conto dell’omosessualità maschile e femminile, senza ridurre l’omosessualità ad una deviazione dell’eteroses-sualità, poiché l’androgino appare, conviene insistervi, come il genere da cui derivano gli eterosessuali, uomini e donne. Resta, nondimeno, il termine "androgino" che, come abbiamo visto, designa, nell’Antologia greca e particolarmente in Luciano, degli uomini effeminati e delle donne mascoline praticanti l’omosessualità, e qualifica già, nell’Atene del IV sec. a.C., l’uomo che ha dato prova di debolezza. Come ricorda K. J. Dover(46), la commedia di Eupolis intitolata gli Astrateutoi (gli uomini che non hanno assolto il servizio militare) si intitola anche gli Androgunoi (fram. 3, Supplementum comicum Demianczuk). Inoltre, un certo Cleone ridicolizzato da Aristofane negli Acarnesi (88, 844) e ne I Cavalieri (958, 1293) a causa della sua grossezza e della sua ingordigia aveva, raccontano, abbandonato il suo scudo sul campo di battaglia per fuggire più velocemente. Per più di dieci anni, Aristofane alluderà a questo atto di vigliaccheria ne I Cavalieri (1372), le Nuvole (353-355), i Calabroni (15-23), la Pace (446, 670-678, 1295-1301) e gli Uccelli (289 segg.). E nel corso della discussione sulla declinazione dei sostantivi ne le Nuvole (670-680), "Kléonimos", che, in greco antico, dà risalto al genere maschile, diventa, messo al femminile da Aristofane, "Kléonimè". Questo uso del termine "androgino" è probabilmente quello al quale allude Aristofane quando dice di questo vocabolo che adesso "è ritenuto oltraggioso" (Simposio 189 e 4-5). D’altronde Platone riprende la stessa idea, ma in un altro contesto. Nel III libro delle Leggi, ritiene che l’unica pena che converrebbe infliggere a colui che per fuggire abbandona le armi sul campo di battaglia, sarebbe la metamorfosi inversa di quella che trasformò Kainis (nome proprio femminile in greco antico) in Kaineus (il suo equivalente maschile)(47). Figlia del re dei Lapiti [Lapiti = Favoloso popolo gigantesco della Tessaglia – n.d.t.], Kainis, che si rifiuta a tutti gli uomini, viene rapita da Poseidone, il quale come compenso per il piacere ottenuto, promette di esaudire il desiderio che la ragazza esprimerà. Ella gli chiede di diventare uomo in modo da non dover più subire un tale oltraggio, e/o forse, secondo la versione di Acusilao (FGrH 2 F 22), per non essere più costretta a partorire. Poseidone la trasforma allora in Kaineus, un uomo, il cui corpo non può effettivamente essere "penetrato". Guerriero invulnerabile, Kaineus conficca la sua lancia nel mezzo dell’agorà, ordinando che gli vengano resi gli onori dovuti agli dei e che si giuri su di lui. Per punirlo di tanta empietà, Zeus scaglia contro Kaineus i Centauri affinché lo seppelliscano sotto dei tronchi d’albero. Alcuni pensano che Kaineus vinto, ma sempre invulnerabile sia scomparso sotto terra (Pindaro fram. 167 Schroeder); altri raccontano che da questo cumulo di alberi ammonticchiati sia uscito un uccello meraviglioso, unico tra tutti, la Fenice (Ovidio, Metamorfosi XII, 525-532). Il mito di Kaineus, che racconta come una ragazza rifiutandosi all’unione sessuale sia divenuta un guerriero invulnerabile, propone una metamorfosi che appare inversa a quella che Platone indica quale punizione per l’uomo che si è mostrato vile in combattimento. Nell’un caso e nell’altro, è chiamata in causa la regola sociale che, nell’antica Grecia, permette di definire la condizioni di uomo e quella di donna: "Il matrimonio è per la ragazza ciò che la guerra è per il ragazzo: per entrambi, segna la realizzazione della loro vera natura, all’uscita da uno stato in cui ognuno partecipa dell’altro"(48). Per una ragazza il rifiuto al matrimonio equivale alla rinuncia alla femminilità e quindi al rigetto per un verso della guerra, come illustrano gli esempi di Atena e delle Amazzoni che, nonostante il loro equipaggiamento da guerriere, rimangono donne. Con Kaineus, il cambiamento è radicale: è il corpo stesso che cambia sesso. Al contrario, l’uomo che rifiuta di portare le armi o che si mostra vile in combattimento, rinnega la sua virilità e, di conseguenza, passa dalla parte delle donne. In tale contesto, il travestimento costituisce una temibile astuzia di guerra, nel caso di guerrieri che si travestono da donne le quali, per principio, non hanno niente a che fare con la guerra (Plutarco, Solone 8-9). Questa complementarietà della guerra e del matrimonio, indicativa del sesso sul piano sociale, si manifesta anche in alcune pratiche istituzionali(49). I combattimenti fittizi, nel corso dei quali delle adolescenti di una stessa fascia di età si affrontano come guerrieri, presentano un duplice aspetto. Hanno lo scopo di mettere queste ragazze a disposizione del gruppo in vista del matrimonio. Ma hanno anche valore di prova di probazione virginale. Vicino al lago Tritonis, in Libia, ove la tradizione greca stabiliva la nascita di Atena Tritogeneia (Eschilo, Eumenidi 292, Pausania I, 14, 6), si celebrava una festa annuale nel corso della quale 90
la ragazza più bella, era, al modo della dea guerriera, rivestita della panoplia oplitica. Salita su un carro da guerra, faceva il giro del lago. Poi, il gruppo delle ragazze, diviso in due schiere, si batteva a colpi di pietra e di bastone; quelle che soccombevano in conseguenza delle ferite venivano qualificate come "false vergini" (Erodoto IV, 180 e 189). Mentre le false vergini si tradiscono con la prova di guerra, la natura autenticamente combattiva di un giovane può essere rivelata da un’apparenza virginale. Ciò vale per Achille, allevato, come una ragazza, tra ragazze e con abiti da ragazza (Apollodoro III, 13, 8; Igino Fabulae 96); e per Partenopeo (colui che assomiglia ad una vergine), un feroce guerriero, adoratore della sua lancia (Eschilo, Sette contro Tebe 526 segg.). D’altronde, le iniziazioni, che permettono ad ognuno dei sessi di acquisire definitivamente la vera natura di uomo o di donna, comportano, per mezzo dei travestimenti, la partecipazione momentanea alla natura dell’altro sesso. Le iniziazioni guerresche fanno comunemente ricorso a travestimenti femminili(50). Al contrario, a Sparta, la giovane sposa indossa, il primo giorno di nozze, abiti maschili (Plutarco, Vita di Licurgo 15, 5). E sembra anche che ad Argo la donna dovesse, la prima notte di nozze, per dormire con il marito, applicarsi una falsa barba (Plutarco, Virtù femminili, 245 e-f). Detto ciò, qualunque sia il comportamento sessuale degli individui, uomini o donne, che formino una coppia nello stato attuale delle cose, la discontinuità che caratterizza l’unione sessuale dopo il duplice intervento di Zeus rimane velata dalla nostalgia della continuità che Aristofane così descrive: "Allo stesso modo, coloro che trascorrono insieme, dall’inizio alla fine, tutta la vita sono delle persone, che non saprebbero neppur dire che cosa si augurano di vedere pervenire all’uno per opera dell’altro. Giacché nessuno potrebbe credere che sia l’atto sessuale, in fin dei conti, il motivo del piacere che induce ciascuno a dividere la sua esistenza con un’altra persona con uno zelo così grande. Ma è evidente che c’è qualche altra cosa che l’anima di ciascuno di loro desidera, qualche altra cosa che non sa esprimere; ciò che essa desidera, a mala pena intuisce e lascia intendere. Supponiamo anche che Efesto, tenendo i suoi strumenti in mano, all’improvviso davanti a loro mentre giacciono sullo stesso letto, ponesse questa domanda: "Che volete, o uomini, che avvenga di voi, all’uno per opera dell’altro?" e che vedendoli tutt’ora indecisi, soggiungesse: "Non è vero che voi avete voglia di questo: di confondervi il più possibile l’uno con l’altra nello stesso essere in modo da non separarvi mai, né notte né giorno? Ebbene, se è questo che desiderate, io acconsento che voi vi fondiate insieme e che al calore della mia forgia vi fondiate in un’unica lega sicché di due diventiate uno e che, finché vivrete, viviate tutti e due insieme d’una esistenza comune e che, una volta morti, laggiù nell’Ade, al luogo di essere due, siate ancora uno, dopo una morte comune… Guardate se è questo che desiderate e se siete soddisfatti d’averlo conseguito…". A udir ciò sappiamo bene che nessuno, proprio nessuno, risponderebbe di no, né mostrerebbe di aver mai desiderato altro. Ma crederebbe d’aver udito precisamente quello che egli desiderava da tanto tempo: di sentirsi unito e fuso con l’amato, e di divenire di due un essere solo" (Simposio, 192 c 2 - e 9, trad. Martini). Ora, sembra proprio che la nostalgia espressa dal mito di Ermafrodito (Ovidio, Metamorfosi IV, 285388) inverta, in qualche modo, il mito raccontato da Aristofane nel Simposio. All’età di quindici anni, questo figlio di Ermete e di Afrodite lasciò l’Ida che l’aveva visto nascere. Giunse in Caria nelle vicinanze di un lago dalle acque di una bellezza meravigliosa. La ninfa di questo lago, Salmacis, che non si dedicava mai al duro esercizio della caccia e che trascorreva il tempo in occupazioni prettamente femminili, si innamorò di lui e gli fece delle avances. Ermafrodito che non sapeva ancora cosa fosse l’amore, si spogliò. Ma, quando si bagnò nelle acque del lago, Salmacis si tuffò e si aggrappò a lui implorando gli dei di far sì che i loro due corpi non venissero più separati. Gli dei esaudirono il voto: così l’uno e l’altra non formarono più che un solo corpo che sembrava "non avere alcun sesso ed averli entrambi" (Ovidio, Metamorfosi IV, 379). Da parte sua, Ermafrodito ottenne dagli dei che colui che si fosse bagnato nelle acque di quel lago perdesse la sua virilità. ‘Mutatis mutandis’ la fusione di Ermafrodito e di Salmacis annulla, quindi, la bisezione operata da Zeus sull’androgino nel mito che Aristofane racconta nel Simposio. Forse Aristofane allude implicitamente proprio a questa nostalgia dell’unione originale, d’altronde indissociabile dall’orgoglio e dall’arroganza degli esseri doppi dell’umanità precedente, quando evoca la possibilità di un nuovo sdoppiamento, nel caso che gli uomini persistano nella loro malvagità (Simposio, 192 e - 193 a). Il desiderio di una fusione totale sembra condurre ad una confusione che distrugge l’ordine attuale delle cose, nel rispetto del quale risiede, in ultima analisi, per l’uomo la virtù. 91
Con ogni evidenza, il mito raccontato da Aristofane nel Simposio rinvia a considerazioni di ordine antropologico, cosmologico e perfino teologico, nelle quali interviene una logica dell’unione e della separazione, il cui artefice è Eros, l’essere divino, al quale, conviene rammentarlo, sono dedicati i sei elogi che costituiscono l’essenza del Simposio. L’Eros cui ci si riferisce è probabilmente quello orfico, la cui figura non è comunque totalmente estranea a quella dipinta da Esiodo. Nella Teogonia, Eros appare come una delle tre divinità primordiali: "Dunque, prima di tutto vi fu il Chaos; poi Gaïa (la Terra) dai larghi fianchi, seduta sicura da sempre, offerta a tutti i viventi […] ed Eros (l’Amore), il più bello tra gli dei immortali, colui che spezza le membra e che, nel petto di ogni dio come di ogni uomo, doma il cuore e il saggio volere". (Esiodo, Teogonia, 116-122). Secondo la descrizione che qui ne viene data, l’azione di Eros è universale, poiché si rivolge altrettanto bene agli dei quanto agli uomini. Inoltre, a causa del suo carattere primordiale, Eros sembra destinato a svolgere un ruolo di primaria importanza come demiurgo. Paradossalmente, tuttavia, le prime generazioni si hanno senza il suo intervento (Teogonia, 123-132). Infatti, Eros, inizia a manifestarsi solo con l’abbraccio di Urano (il Cielo) e di Gaïa (la Terra). Ora, tali abbracci permanenti sono così esagerati da impedire ai figli che ne derivano di vedere la luce (Teogonia, 132-138). Dal momento in cui interviene, quindi, Eros tesse tra gli esseri – maschio e femmina – dei quali provoca l’unione, dei legami così forti che bloccano in qualche modo il processo di generazione in corso e che, così facendo, innescano un movimento di ritorno verso il caos. Affinché le generazioni possano riprendere il loro corso, deve essere stabilita una considerevole distanza tra Gaïa (la Terra) e Urano (il Cielo), la cui vicinanza costituisce una grave minaccia. Inoltre, sembra che si debba interpretare in questo senso il gesto di Cronos che recide il sesso del padre, Urano, determinando così quella separazione che permette ai figli, che Gaïa (la Terra) ha generato nel suo seno, di venire alla luce (Teogonia, 178-200). Il gesto di Cronos separa definitivamente Urano da Gaïa. Ma, proprio questo stesso atto, realizzando la necessaria separazione, assicura un’unione complementare, nella misura in cui dallo sperma che cade in mare dai genitali recisi di Urano nasce Afrodite che, in qualche modo, dà il cambio ad Eros, il quale, con Imero (il Desiderio), le fa subito coorte. Così viene instaurata tra Gaïa e Urano e, di conseguenza, tra tutti gli esseri, una notevole distanza in cui unione e separazione, vicinanza e lontananza, si equilibrano. Successivamente, infatti, tutti gli altri dei e dee verranno generati con l’aiuto di Afrodite e quindi di Eros, che ne è indissociabile, sebbene vi sia qualche eccezione, Atena ed Efesto per esempio. Così dunque Eros, divinità primordiale, che cede il passo ad Afrodite, cui poi farà coorte, si vede attribuire da Esiodo una funzione demiurgica, nella misura in cui appare come principio di unione che assicura la generazione di tutti gli esseri, quando non la blocchi per un eccesso di potenza. Tale funzione demiurgica gli viene riconosciuta anche da Ferecide (DK 7 B 3, A 11), Parmenide (DK 28 B 13), Empedocle (DK 31 B 17, 27, ecc.) e Acusilao (DK 9 B 2, 3 = FGrH 2 F 6). Ma è solo con l’orfismo(51) che tale aspetto di Eros viene sistematizzato. Nella teologia tradizionale dell’antica Grecia ed in Esiodo in particolare, l’equilibrio tra unione e separazione viene stabilito definitivamente dal gesto di Cronos che recide i genitali del padre. Nell’orfismo, al contrario, questo equilibrio rimane provvisorio, poiché viene continuamente rimesso in discussione. Unione e separazione si succedono in una pulsione che si integra in un movimento ciclico. D’altronde ecco perché la bisessualità vi svolge costantemente un ruolo tanto importante. Il postulato sul quale si basa la teogonia(52) orfica in Diogene Laerzio è così formulato: "Tutto procede dall’uno e si risolve in esso" (Diogene Laerzio I, proemio 3). Damascio, l’ultimo capo della scuola neo-platonica di Atene, conosce almeno tre versioni di questa teogonia. La versione più antica, alla quale allude Damascio, è quella di Eudemio (OF 28), un discepolo di Aristotele. Tale versione sembra corrispondere a quella conosciuta da Aristotele stesso (OF 24). Inoltre, presenta molte affinità con quella parodiata da Aristofane ne le Nuvole: "In principio, era il Caos e la Notte e il nero Erebo e il Tartaro ampio: terra e aria e cielo non esistevano. E nel grembo immenso dell’Erebo la Notte nero-alata partorì dapprima un uovo senza seme, dal quale, nel corso delle stagioni, nacque il bramato Eros, dalle fulgide ali d’oro sul dorso, simile ai veloci mulinelli del vento. È lui che, unitosi la notte al Vuoto alato nell’ampio Tartaro, fece schiudere la nostra stirpe e la fece apparire per prima alla luce. Fino ad allora, prima che Eros mescolasse tutti gli elementi, gli immortali non 92
esistevano; poi, man mano che li mescolava gli uni con gli altri, nacquero il Cielo e l’Oceano e la Terra e la stirpe immortale degli dei beati". (OF 1 = Uccelli 693-702). In tutte le testimonianze che abbiamo appena citato, la Notte svolge il ruolo di principio primordiale. E per Aristofane, il primo dio che essa genera, cioè Eros, esce da un uovo. Ora, gli esseri doppi all’origine dell’umanità presentano anch’essi la forma di un uovo. Ecco perché non è azzardato correlare queste due testimonianze del poeta comico ad una stessa tradizione. D’altronde, ciò che resta di questa prima versione non differisce fondamentalmente dall’inizio della seconda versione consegnata ai Discorsi sacri in 24 rapsodie, ai quali alludono i neoplatonici ed alcuni apologisti cristiani. In queste Rapsodie orfiche, troviamo, secondo Damascio, "la teologia orfica consueta" (OF 60), di cui Proclo fornisce la testimonianza d’insieme più succinta: "Orfeo ha insegnato che sono Re gli dei che sovrintendono a ogni cosa, conformemente al numero perfetto (6 = 1 + 2 + 3 = 1 x 2 x 3), Fanes, la Notte, Urano, Cronos, Zeus, Dioniso. Fanes in effetti è il primo a tenere lo scettro: "In primo luogo ha regnato l’illustre Eriképaios". In secondo luogo viene la Notte, che ha ricevuto lo scettro da suo padre. Urano l’ha ricevuto per terzo da sua madre, Cronos per quarto, quando, come si dice, fece violenza a suo padre. Zeus per quinto quando si rese signore di suo padre, e dopo di lui, per sesto, Dioniso". (OF 107 = PROCLO, Commento al Timeo di Platone III, 168. 17-25). Riprendiamo nei dettagli, completandola, questa testimonianza di Proclo. E con Cronos ageraios (il tempo "che non invecchia") che questa seconda versione della teogonia orfica ha inizio. Da Cronos nascono l’Etere e il Caos (OF 66). Nell’Etere, Cronos crea un uovo (OF 70), che si apre in due, lasciando uscire Fanes (OF 72), il primogenito degli dei. Meravigliosamente bello e raggiante di luce, il suo collo è sormontato dalla testa di differenti animali (OF 79), e alle sue spalle sono attaccate due ali d’oro. È bisessuato (OF 81). Egli che porta la semenza di tutti gli altri dei, è chiamato Fanes, Metide, Protogenia, Eriképaios, Eros e perfino Dioniso (OF 105, 109). Fanes trasmette il potere alla Notte (OF 101, 102), che gli dà due figli, Urano (il Cielo) e Gaïa (la Terra) (OF 109), i quali, a loro volta, generano in particolare i Titani e le Titane (OF 114 e segg.) e quindi Cronos e Rea. Così come raccontato da Esiodo nella Teogonia, Cronos mutila suo padre (OF 127) che, con i suoi abbracci eccessivi, impedisce ai figli che Gaïa gli ha dato di vedere la luce. Poi Rea usa un sotterfugio per salvare Zeus dall’essere inghiottito, ed egli libera i suoi fratelli e le sue sorelle e si impadronisce del potere (OF 148-157). A questo stadio, il processo delle generazioni si arresta per realizzare un nuovo punto di partenza: la teogonia propriamente detta fa posto alla cosmogonia. Perché, su consiglio della Notte, Zeus inghiotte Fanes. E, a partire dall’unità così ricostituita in lui, dal momento che con il suo gesto è divenuto l’inizio, il centro e la fine di ogni cosa, crea l’universo (OF 168). Proprio come Fanes, Zeus è bisessuato; ha come contraltare una divinità femminile che è ad un tempo sua madre, sua sorella, sua figlia e soprattutto sua moglie con il nome di Rea, Demetra e Core (OF 145, 198). Ma improvvisamente Zeus trasmette il potere a un Dioniso ancora bambino (OF 207). Con Dioniso, la cosmologia viene sostituita dall’antropogonia. Attirato in un imboscata, il bambino viene ucciso dai Titani che lo tagliano a pezzi, poi lo mangiano, dopo averlo cotto secondo una ricetta inversa a quella del sacrificio tradizionale di tipo prometeico(53). Soltanto il cuore viene salvato da Atena che lo porta a Zeus, perché faccia ri-vivere Dioniso. Per vendicarne la morte, Zeus colpisce con la folgore i Titani e li brucia. E, dalla fuliggine che si deposita dalla fumata di tale combustione, nascono gli uomini la cui costituzione è duplice: una parte del loro essere deriva da Dioniso, ed un’altra dai Titani che lo hanno ingerito (OF 210 e segg.). Rimane una controversia sulla data di questi Discorsi sacri in 24 rapsodie(54). Gli uni, distinguendo l’influenza del mitraismo attraverso la figura del Cronos ageraios delle Rapsodie orfiche, che non sarebbe altri che il Zurvan akarana ("che non invecchia") degli Iraniani, rappresentato nel mondo greco-romano con i tratti dell’Aion leontocefalo mitraico(55), ritengono che la composizione di questi poemi non sia anteriore all’epoca imperiale. Gli altri, ricordando questa frase del Filebo: "Alla sesta generazione, dice Orfeo, fermate l’ordine dei vostri canti" (OF 14 = Filebo 66 c 8-9), sostengono che questi poemi siano stati composti un secolo o due prima dei dialoghi di Platone. I due punti di vista non sono inconciliabili, se facciamo una distinzione fra una tradizione religiosa ed i testi sacri che ne esplicitano il senso e ne legittimano i riti(56). Già ai tempi di Platone, circolavano degli scritti che attribuivano ad Orfeo una teogonia in cui si succedevano sei generazioni. Quali dei intervenivano in questo processo e in qual modo? È impossibile determinarlo con certezza. Ma questi stessi temi sarebbero stati ripresi e sottoposti, con molte sottigliezze e virtuosismi, ad un lavoro di trasformazione nelle Rapsodie orfiche che sarebbero state realizzate molto più di recente, contemporaneamente all’inizio dell’era cristiana. 93
L’influenza del mitraismo, che in questa seconda versione è limitata, diventa determinante nella teogonia che, secondo Damascio, "viene attribuita a Geronimo ed a Ellanico – nell’ipotesi che questi due autori non siano una persona sola" (OF 54). Questa teogonia, Damascio non la considera orfica. Ma Atenagora, un apologista cristiano del II secolo d.C., attribuisce ad Orfeo una teogonia quasi identica (OF 57, 58, 59), così come Apione, secondo lo pseudo-Clemente di Roma (OF 55, 56). Questa teogonia pone all’origine, l’acqua e la materia, da cui verrà tratta la terra. Da un insieme di acqua e di terra deriva Cronos, un serpente alato provvisto di molte teste, e in particolare delle seguenti: quella di un uomo, di un toro, di un ariete e di un leone. Questo essere straordinario si chiama anche Eracle. Bisessuato, è appaiato ad un’entità femminile Anankè, la Necessità, che è della stessa natura di Adrastea [Questo concetto ci riconduce all’Adamo Kadmo della tradizione ebraico-cristiana. Egli fu creato dal fango (acqua e terra) ed era bisessuato. Inoltre da lui fu tratta Eva. – n.d.t.]. Cronos comincia col generare l’Etere, il Caos e l’Erebo. Poi, in essi depone l’uovo da cui esce il dio chiamato Protogenia, Zeus e Pan. La successione sembra simile a quella descritta nella seconda versione. Questa "terza versione" sembra presupporre le due precedenti – opinione che non è condivisa in particolare da M. L. West20 – da cui tuttavia si distingue soprattutto per l’apporto di una risposta molto più elaborata al problema fondamentale: chi produce l’uovo da cui esce Fanes-Eros? In Aristofane, la Notte, contemporanea al Caos, all’Erebo e al Tartaro, produce un uovo nato dal vento (hupenemios), cioè un uovo senza seme o più familiarmente un uovo chiaro. Come già nota Aristotele nella sua Storia degli animali (VI, 2 559 b 20 segg.), le uova chiare sono uova non fecondate. E Luciano (De sacrificiis 6), descrivendo la nascita di Efesto che, secondo alcuni autori, Era avrebbe generato da sola per vendicarsi di Zeus che aveva fatto nascere Atena senza l’intervento della moglie, dice di Era "che generò un figlio senza ricorrere al marito (hupenémion paîda)". Secondo la testimonianza di Aristofane, quindi, l’uovo primordiale non è fecondato da un’entità maschile che si sarebbe accoppiata con un’entità femminile, la Notte, ma per mezzo dei venti (ànemoi), considerati nell’antica Grecia come vettori di fecondità(57), cosa che equivale a dire, in definitiva, che questa generazione non è d’ordine sessuale. Nella seconda versione della teogonia orfica, Cronos produce prima l’Etere ed il Caos. Poi, nell’Etere, "crea" (éteukse) un uovo argentato (OF 70). L’uso del verbo teukhein non evoca l’atto sessuale, ma un’attività artigianale, e più precisamente quella concernente la lavorazione dei metalli, poiché l’uovo prodotto è definito "argentato". D’altronde tutto ciò viene esplicitamente confermato dal commento di Damascio: "Il verbo éteukse designa infatti, più verosimilmente, un artefatto e non il frutto di una generazione". È giocoforza dunque concludere che, tanto in Aristofane che nelle Rapsodie orfiche, la sessualità degli esseri precedenti l’uovo primordiale rimane indeterminata. Nella terza versione, in compenso, Cronos, costituito a partire da un insieme di acqua e di terra, si presenta come un essere effettivamente bisessuato, cui è accoppiata la Notte chiamata anche Anankè e Adrastesa; è lui che produce l’uovo primordiale da cui esce Protogenia. Questo Cronos (il Tempo) ha la qualifica di mégas ("grande"), di ageraos ("che non invecchia") e di aphthitometis ("dal composto imperituro"). L’appellativo "grande" può essere inteso sia da un punto di vista qualitativo a causa della situazione e del ruolo che Cronos riveste, sia da un punto di vista quantitativo a causa dello spiegamento, in qualche modo infinito, del tempo. D’altronde, dire del tempo che non invecchia significa riconoscere che l’età appartiene a ciò che è misurato e non alla misura. Infine, l’espressione "dal composto imperituro" rinvia a ciò che abbiamo appena detto ed apre nuove prospettive. L’aggettivo "imperituro" riprende la stessa idea dell’espressione "che non invecchia". E il sostantivo metis ("intelligenza pratica, astuzia"), che qualifica questo aggettivo, si conviene al dio che gioca il ruolo di principio di tutte le cose e che perciò deve, prima di tutto, essere Provvidenza. D’altronde, Cronos è chiamato anche Eracle. Perché? Nel suo Perì agalmaton (Sulle rappresentazioni degli dei, fr.8, 13.3 segg.), Porfirio assimila, con l’aiuto di un gioco di parole, Eracle al sole, cui si identifica Fanes che, in uno stadio ulteriore, diviene la replica di Cronos, poiché è l’essere radioso, la cui nascita fa apparire alla luce ogni cosa. Possiamo spiegarci l’aspetto di Cronos uguale a quello di Fanes, riferendoci al corso del sole nei segni dello zodiaco. L’uno e l’altro hanno l’aspetto di serpenti alati dotati di molte teste: quella di un uomo, di un toro, di un ariete e di un leone. Con ogni evidenza, queste teste si riferiscono ai segni dello zodiaco nei quali si trova il sole durante il suo percorso annuale. Bisogna anche ricordare che, nella tradizione orfica, il sole è alato (OF 62). Infine, vi sono tre ragioni che possono spiegarci perché Cronos e Fanes abbiano il corpo di un serpente. Ciò potrebbe voler indicare il corso sinuoso del sole nei segni dello zodiaco; per instaurare un’opposizione tra l’alto, dominio degli uccelli, e il basso, dominio dei serpenti; o per illustrare la qualifica ageraos, i serpenti che ogni anno rinnovano la pelle, 94
sbarazzandosi della loro geras, termine che, in greco antico, significa ad un tempo "vecchia pelle" e "vecchiaia". In definitiva, dalla prima versione alla terza, l’origine dell’uovo primordiale viene sempre più anticipata da un movimento regressivo. Nella prima e nella seconda versione, i differenti esseri che precedono l’uovo primordiale sono sessualmente neutri. Non hanno né l’uno né l’altro sesso, poiché, in questo senso, si collocano al di qua di ogni distinzione. Ma le cose vanno in tutt’altro modo nella terza versione in cui la figura di Cronos anticipa quella di Fanes-Eros, primo vero dio che abolisce tale neutralità. Infatti, quando l’uovo primordiale, quest’uovo nato dal vento, quest’uovo non fecondato, quest’uovo chiaro, che nessuna entità maschile ha fecondato e la cui forma perfetta racchiude l’insieme degli esseri in un’unità anteriore ad ogni distinzione e che assicura la coincidenza dei contrari, si scinde in due parti che, secondo certi autori, formano il cielo e la terra (OF 28, 55, 56), ne esce un serpente alato, dotato di molte teste: quella di un uomo, di un toro, di un ariete e di un leone, che chiamano Fanes, Eros, Protogenia, Metide ed Eriképaios. Si tratta infatti di un essere duplice, che ha due visi (OF 37), due paia di occhi (OF 76) ed è bisessuato (OF 80). In questo frammento, troviamo perfino la precisazione seguente:"… Fanes ha due organi sessuali nella regione delle natiche". Di conseguenza, sembra che, nella seconda versione della teogonia orfica, poco mancasse a rappresentare il primo dio sul modello dell’androgino del Simposio di Platone. Questo dio ha come primo nome Fanes che deriva dal verbo phaino "brillare, far brillare; apparire, fare apparire", ed è etimologicamente correlato alla radice -bha "manifestare". Quando esce dall’uovo primordiale, Fanes illumina ogni cosa (OF 86, cfr. OF 1), instaurando così questo processo di differenziazione in cui consiste la teogonia orfica e che le tenebre, in cui tutto si confonde, ostacolano. Dio che separa e distingue (OF 74, 94), Fanes è anche quello che unisce e mischia (OF 55-56, cfr. OF 2). Principio di ogni disgiunzione e di ogni distinzione, antenato di tutti gli dei (OF 89), padre (OF 60) e demiurgo (OF 61, 96) di ogni cosa, Fanes, nelle Rapsodie, viene anche chiamato Eros, Protogenia, Metide ed Eriképaios. In Aristofane (OF 1), Euripide (OF 2), Eudemio (OF 28) e Apollonio di Rodi (OF 29), il dio che esce dall’uovo primordiale si chiama Eros. Si tratta di antichi frammenti che, molto verosimilmente, si riferiscono ad una versione della teogonia orfica anteriore a quella delle Rapsodie. Ma, in queste due versioni, è la Notte a produrre l’uovo da cui esce Eros. E, come ha ben visto Clémence Ramnoux(58), la sostituzione di Fanes ad Eros risulta da una modificazione delle caratteristiche e del ruolo della Notte. Secondo la prima versione, la Notte può essere detta "madre di Eros", perché depone l’uovo, da cui esce Eros "dal dorso scintillante di ali d’oro" (OF 1). Sorgendo dall’uovo primordiale, Eros illumina la Notte che lo circonda. Il nuovo stato di cose modifica le caratteristiche ed il ruolo della Notte. Prima dello schiudersi dell’uovo, la Notte mantiene ogni cosa in un’oscurità che rende impossibile ogni distinzione, ogni determinazione; in seguito, diventa l’opposto complementare di Fanes-Eros. Ecco perché viene presentata come sua moglie. Ma questa sposa è anche sua figlia, nel senso che la luce diffusa da Fanes-Eros assicura l’identità della Notte instaurando l’opposizione luce/oscurità. E i restanti esseri prendono origine dall’incesto primordiale tra il primo dio bisessuato e la sua parte femminile che è ad un tempo sua madre, sua sorella e sua figlia. Proclo descrive così questa singolare situazione: "Ma Fanes nelle processioni è dio unico, nei canti lo si chiama ad un tempo "Femmina e Generatore" (cfr. OF 81), genera le Notti e, in qualità di padre, si unisce a quella: "Poiché colse il fiore virginale della propria figlia". (OF 98 = Proclo, Commento al Timeo di Platone I, 450. 22-26). In questo brano la Notte appare evidentemente come figlia-sposa di Fanes che, di conseguenza, viene qualificato come "padre" e "generatore". La generazione cui ci si riferisce non ha niente a che fare con una vera unione sessuale. Fanes-Eros non stacca da sé la Notte come sua metà tenebrosa, che per farne il suo necessario complemento (OF 104). Ecco d’altronde perché l’espressione "primo matrimonio" viene applicata da Proclo non all’unione del primo dio con la Notte, ma all’unione di Urano con Gaïa (OF 112). Tra Fanes-Eros e la Notte, non troviamo quella differenziazione sessuale che, sola, rende possibile una vera unione sessuale, e quindi un matrimonio. Ma, e questo va da sé, la sostituzione di "Fanes" ad "Eros", a seguito di una modifica radicale del ruolo e delle caratteristiche della Notte, in ultima ana-lisi si spiega con il fatto che, nelle Rapsodie, i due nomi designano lo stesso essere (OF 74, 82, 83). Da ciò consegue che Eros è dotato degli stessi attributi di Fanes. Ha due volti (OF 37). E soprattutto è bisessuato (OF 37). D’altronde, quest’altro nome del primo dio trae origine dalla sostantivazione di un attributo: 95
"Protogenia". In effetti, l’aggettivo protogonos che qualifica ad un tempo Eros (OF 2) e Fanes (OF 58, 64, 85), può divenire un nome proprio (OF 31, 54, 86, 87) che, in questo caso, designa il primo dio chiamato anche "Fanes" ed "Eros". Così Protogenia deve condividere tutti gli attributi di Fanes e di Eros, ivi compresa la bisessualità. Questo primo dio si chiama anche "Metide". L’origine di questo nuovo nome deve ricercarsi nell’attributo polumetis "che ha molta métis" che, negli Argonauti di Orfeo, qualifica Eros (OF 29 = Argonauti 424). In greco antico, il termine metis(59) designa l’intelligenza pratica, l’astuzia; da cui un rapporto privilegiato con la pronoia, cioè la provvidenza. Anche Damascio considera Metide come la ragione (noûs) di Fanes (OF 60), mentre Jean Malalas interpreta Metide come Consiglio (Boulé) (OF 65). A tale aspetto di intelligenza pratica che, nel caso del primo dio, evoca la Provvidenza, le Rapsodie aggiungono la fecondità. Metide in effetti si vede qualificata alternativamente come "primo generatore" (OF 168) e come "prima generatrice" (OF 169). Ancor più, è presentata come "ricettacolo della semenza illustre degli dei" (OF 85). Per tutte queste ragioni, Metide, che si identifica quindi con Fanes, Eros e Protogenia, deve essere considerata come un essere bisessuato. Questo elenco non sarebbe completo se omettessimo il nome di Eriképaios. Tanto nell’antichità (OF 60, 65, 80) che in epoca moderna contemporanea(60), si sono fatti svariati tentativi per spiegare l’etimologia di questo nome. Nessuno è pervenuto a risultati conclusivi. Ma l’aspetto importante del problema risiede nell’identificare Eriképaios in Fanes, Eros, Protogenia e Metide. Ora, Proclo (OF 170), Damascio (OF 60) e Nonno lo scoliaste (OF 80) lo affermano senza alcun dubbio. Qualificato come "primo nato" (OF 167), Eriképaios viene anche detto "femmina e generatore" (OF 81). Proclo, proponendo un’esegesi del verso in cui si trova tale espressione, spiega perché, essendo l’immagine della vita in toto, Eriképaios è dotato delle teste di svariati animali: quella di un ariete, di un toro, di un leone e di un serpente. "Eriképaios" è quindi proprio uno dei nomi del primo dio, bisessuato, che esce dall’uovo primordiale. Questo primo dio viene anche chiamato Zeus (OF 54), Pan (OF 54) e Dioniso (OF 170). In seguito vedremo come si spiega l’attribuzione di due di questi nomi al primo dio: Zeus e Dioniso. Ma se viene chiamato Pan (il Tutto), è semplicemente, come ricorda Damascio, perché egli è "l’ordinatore di ogni cosa e dell’intero universo" (OF 54). È alla Notte, sua figlia-moglie che Fanes trasmette il potere (OF 101, 102). A questo riguardo dobbiamo notare due cose. Si tratta del solo regno femminile. Inoltre, dopo aver concluso il suo regno, la Notte non cessa, come vedremo, di intervenire come consigliera e come aiuto. Detto questo, la Notte genera Urano, cui spetta il terzo regno, e Gaïa (OF 109). La bisessualità fa, quindi, posto alla distinzione dei sessi, essendo Urano maschio e Gaïa femmina. Urano e Gaïa consumano anche il primo matrimonio (OF 112). La cosa non si svolge senza difficoltà. Disteso su Gaïa, Urano non finisce di unirsi a lei, impedendo così ai suoi figli, concepiti nel seno di Gaïa, di uscire alla luce (OF 109). Allora, scelto e protetto dalla Notte (OF 129), Cronos recide il sesso del padre (OF 127) e libera i fratelli e le sorelle, come lo aveva supplicato di fare sua madre. Questo gesto, che corrisponde a quello descritto da Esiodo, è suscettibile della stessa interpretazione. Dal momento in cui si manifesta la differenziazione sessuale, questa rischia di essere abolita per gli eccessi di unioni che ha reso possibile. Ma trasponendo questo problema sul piano politico(61), Cronos, nelle Rapsodie orfiche così come nella Teogonia di Esiodo, cerca di arrestare al suo livello il corso delle generazioni in modo da mantenere definitivamente e a suo profitto il potere di cui si è impadronito (OF 117) conseguentemente all’evirazione di Urano. Per realizzare tale scopo, inghiotte i figli che Rea, sua moglie, partorisce (OF 80). Ma questo Dio dell’astuzia (OF 131, 140) è sconfitto da Metide. Perché Zeus, scelto e consigliato dalla Notte, fa sorbire a Cronos, suo padre, una bevanda che lo fa cadere nel sonno più profondo (OF 148). Reso inoffensivo da quest’astuzia (OF 149), Cronos viene incatenato da Zeus (OF 154), che quindi si impadronisce del potere regale. Con Zeus, s’innesca un ritorno alle origini. Il quinto re ha capito la ragione dell’insuccesso di suo padre. Per acquisire definitivamente tutto il potere, bisogna assimilare non la propria progenie, ma i propri antenati, in modo da neutralizzare, facendoli propri, la loro potenza sempre in atto. Poiché il passato determina il futuro, neutralizzando il passato ci si assicura il futuro. In Esiodo (Teogonia, 886-900), Zeus raggiunge questo scopo inghiottendo Metide. Nell’orfismo, l’azione di Zeus è duplice: incorporazione-creazione: l’inghiottimento di Fanes-Metide (OF 82, 167) costituisce il primo atto di una cosmogonia così descritta da questo mirabile inno a Zeus: "1 Zeus è nato per primo, Zeus dalle brillanti saette è l’ultimo. 2 Zeus è la testa, Zeus è il centro, da Zeus hanno avuto origine tutte le cose. 96
3 Zeus è nato maschio, Zeus è un giovane vergine immortale. 4 Zeus è il supporto della Terra (Gaïa) e del Cielo stellato (Urano). 5 Zeus è re, solo Zeus è il primo artefice di tutti gli esseri. 6 È nato sovrano unico, unico daimon, potente monarca dell’universo. 7 Unico è il suo corpo reale, nel quale si muovono in cerchio tutte queste cose: 8 il fuoco, l’acqua, l’aria, la notte, il giorno 9 e Metide, primo generatore, e il delizioso Eros. 10 Infatti, tutte queste cose si trovano nel corpo del grande Zeus. 11 La sua testa e il viso di bell’aspetto 12 sono il cielo rifulgente di luce. Tutto attorno volteggiano i 13 capelli d’oro degli astri marmorei. 14 Alle sue due estremità si levano due corna taurine d’oro, 15 il levante e il ponente, che delimitano il corso degli dei celesti. 16 I suoi occhi sono il sole e la luna che lo fronteggia. 17 Il suo proprio intelletto; senza menzogna, reale è l’imperituro etere, 18 attraverso il quale tutto sente, tutto osserva; e non esiste 19 né voce umana, né clamore, né rumore eclatante, né altro rumore 20 che sfugga alle orecchie di Zeus, il potentissimo figlio di Cronos. 21 Ecco qual è la sua testa immortale e la sua intelligenza. 22 Il suo corpo è brillante come il fuoco, immenso, incrollabile. 23 È stato costruito intrepido, robusto, molto potente e inamovibile. 24 Le spalle del dio, il suo petto, l’ampia schiena, 25 è l’aria molto potente, e sulle spalle gli hanno messo delle ali, 26 grazie alle quali volteggia ovunque. Il suo santo ventre, 27 è la terra, madre universale, e le cime elevate delle montagne. 28 Al centro del suo corpo, vi sono le onde del mare dal boato profondo; 29 e più in basso i suoi fondamenti, sono le radici all’interno della terra, 30 il vasto Tartaro, i limiti estremi della terra. 31 Dopo aver nascosto tutto questo, di nuovo Zeus, per ricondurlo alla luce che dà gioia, 32 doveva, con un’operazione meravigliosa, trarlo dal suo cuore". (OF 168) Fanes è il principio di ogni cosa, ma da lui non derivano in effetti che esseri divini e l’abbozzo di un ordine universale, in cui tali esseri divini trovano ad un tempo un luogo ed un campo di azione. In compenso, l’azione di Zeus deve svilupparsi su un piano puramente cosmologico, come insegna la Notte al suo pronipote (OF 164, 166). Così si spiega infine il fatto che, nell’inno citato, ad ogni parte del corpo di Zeus corrisponda una parte del mondo sensibile. Zeus sostituisce dunque, sul piano della cosmologia, l’azione di Fanes, al quale la terza versione della Teogonia orfica attribuisce il nome di Zeus (OF 54). Ecco perché la descrizione di Zeus, nell’inno a lui dedicato, corrisponde, mutatis mutandis, a quella di Fanes. Identica a quella del primo dio, l’azione di Zeus trova la sua origine nell’unità assoluta che perfettamente esprime il cerchio, o, meglio, la sfera, e in cui la fusione degli opposti è conseguenza necessaria. Zeus è contemporaneamente primo/ultimo, testa/centro, maschio/femmina, cielo/terra. Dal momento che egli è il generatore e il re di tutte le cose del mondo sensibile, potremmo dire che la sua bisessualità è naturalmente manifesta. Identificandosi a Fanes, Zeus deve identificarsi anche ad Eros. Il verso 9 dell’inno a Zeus lo conferma. Per Proclo, l’identificazione di Zeus con Eros esprime il potere unificante del quinto sovrano (OF 168). Zeus, nel quale coincidono tutti i contrari, assicura al di fuori di sé, in qualità di Eros, l’unità indispensabile al mantenimento della coesione dei diversi elementi costituenti il mondo sensibile. E anche se ciò non viene esplicitamente espresso possiamo, per inferenza, affermare che Zeus si identifica a Protogenia. Dall’inizio dell’inno, Zeus, che ha appena ingoiato Eriképaios-Protogenia (OF 167) assume la qualifica di "primo" (OF 168). In compenso l’identificazione di Zeus con Metide è assolutamente esplicita (OF 168, 170, 184). Ogni volta, Metide viene associata ad Eros, rappresentando l’intelligenza pratica che, in qualche modo, tesse i legami richiesti dall’amore. E nel verso 9 dell’inno, Metide, entità femminile, viene qualificata come "primo generatore".
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Da cui, attraverso Metide, una riaffermazione della bisessualità di Zeus. Infine, Zeus, che l’ingoia (OF 167), si identifica ad Eriképaios (OF 170). Poiché, proprio come Fanes, Eros, Protogenia, Metide ed Eriképaios ai quali si identifica incorporandoli, Zeus realizza in se stesso la fusione di tutti gli opposti, ivi compresa e prima di tutto la fusione dei sessi – maschio e femmina – Zeus è in grado di costituire il mondo sensibile, stabilendo, tra gli elementi che lo compongono, una giusta distanza in cui si equilibrano unione e divisione. Con Dioniso, a cui, anche se è ancora un fanciullo, Zeus, di sua piena volontà, trasmette il suo scettro (OF 207, 208), l’antropogonia prende il posto della cosmogonia. Dalle ceneri dei Titani, fulminati da Zeus per aver ucciso, smembrato, cotto e mangiato Dioniso, nascono gli uomini, la cui origine è duplice: una parte viene da Dioniso e l’altra dai Titani. La madre di Dioniso è Demetra che svolge, nei confronti di Zeus, lo stesso ruolo della Notte nei riguardi di Fanes: da un lato ne è la madre con il nome di Rea, dall’altra la sorella, la moglie e la figlia con il nome di Core (OF 59). Infatti, la divinità designata con questi tre nomi: Demetra, Core e Rea rappresenta la parte femminile di Zeus, principio di tutto ciò che viene dopo di lui. In questa prospettiva, l’identificazione di Dioniso con Zeus va da sé (OF 170). E siccome, da parte sua, Zeus si identifica a Fanes e quindi ad Eros, Protogenia, Metide ed Eriképaios, ne segue che anche Dioniso si identifica a tutte queste divinità. Anche il sesto re dovrebbe essere dotato di tutti gli attributi che appartengono a questi e, in particolare, della bisessualità. Ma non troviamo niente di esplicito al riguardo, e neanche rispetto alla possibilità di una congiunzione, nella persona di Dioniso, della fine e dell’inizio di questo movimento ciclico di cui abbiamo appena descritto le tappe fondamentali. La bisessualità, dunque, nell’orfismo svolge proprio un ruolo costante e determinante. Sia prima dell’uovo con Cronos, che dopo l’uovo con Fanes, origine di tutti gli dei, con Zeus origine di tutte le cose sensibili e con Dioniso origine di tutti gli uomini, ogni principio realizza in sé stesso questa coincidenza dei contrari – e in particolare quella dei sessi – a partire dalla quale si innesca questo movimento di scissione sempre più elaborato nel quale consiste ogni "creazione" e che deve portare all’instaurazione, tra gli elementi d’insieme considerati di volta in volta, di una considerevole distanza, in cui unione e divisione si equilibrino. In definitiva, l’interpretazione generale di Platone, proposta da un neoplatonico come Proclo, riposa sul postulato secondo il quale esiste un’armonia prestabilita tra la "teologia" che troviamo nei dialoghi di Platone, quella che ci è stata trasmessa da Omero ed Esiodo, e quella che ci è stata tramandata attraverso le Rapsodie orfiche e gli Oracoli caldaici. Ad ognuna di queste "teologie", Proclo ha dedicato un’opera: la Teologia platonica, unica opera pervenutaci nella sua quasi totalità, il Commento alle Opere e i giorni di Esiodo, la Teologia orfica e il Commento agli Oracoli caldaici. In questa dichiarazione: "Se fossi stato il maestro, non avrei lasciato in circolazione, di tutti i testi antichi, che gli Oracoli (caldaici) e il Timeo" riportata da Marinus a conclusione della Vita di Proclo (§ 38 fine, 170. 13-14), Proclo indica chiaramente quale gerarchia stabilisse tra queste teologie. Della raccolta di Oracoli caldaici, che la tradizione attribuisce ad un autore di nome Giuliano, del quale è difficile sapere se si tratti di Giuliano il Caldeo o di suo figlio Giuliano il Teurgo che visse verso la fine del II secolo d.C., non restano più che dei frammenti, che lasciano supporre una dottrina molto simile a quella di Numenio, pur lasciando aperta la questione della priorità dell’una sull’altra(62). D’altronde, Michel Tardieu ha ripreso, adattandola, l’ipotesi di Wilhelm Kroll, secondo la quale gli Oracoli caldaici affondano radici nel contesto dottrinario che vide l’apparizione dello gnosticismo sebbene escluda ogni rapporto di filiazione(63). La cosa è tanto più interessante in quanto la bisessualità in certi trattati gnostici gioca un ruolo considerevole, e in particolare nel quinto trattato del codice II scoperto vicino Nag-Hammadi. Questo scritto, datato agli anni 330-340 d.C. da un punto di vista paleografico, ma il cui contenuto risalirebbe, essenzialmente, alla seconda metà del II secolo d.C., sviluppa una teo-cosmo-antropogonia che appare un tentativo di sintesi tra il giudaismo e la religione popolare di un Egitto in cui l’influenza greca era determinante. Come spiega Michel Tardieu, che ha tradotto e commentato questo trattato(64): "I tre tempi delle costruzioni dogmatiche del giudeo-cristianesimo o del giudeo-ellenismo, vi sono evidenziati nettamente: al tempo cosmogonico, in cui dei, uomini e bestie vivono insieme ed in cui gli dei combattono per la sovranità, succede il tempo attuale, intermedio e confuso, in cui l’uomo se-parato ad un tempo dagli dei e dagli animali, elabora il sistema degli scambi e delle comunicazioni; a questi due tempi ne succede un terzo, l’anti-tempo escatologico o meta-storia, nel corso del quale termina la confusione del
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mondo attuale. Allora gli uomini tornano al loro punto di partenza, alla sfera primordiale, recuperati sia dal divino (salvezza riuscita) sia dalla efferatezza infernale (dannazione), in entrambi i casi dalla nonumanità. La sistemazione di questi tre tempi costituisce il disegno del mito dogmatico contenuto nel V trattato". (Michel Tardieu, Tre Miti gnostici, op. cit., pagg. 49-50). Naturalmente la bisessualità si manifesta nel tempo "cosmogonico", in cui prendono posto una teogonia ed un’antropogonia. Il sesso delle prime otto entità – ivi compreso quello della Pistis Sophia – che intervengono nella teogonia non è precisato. In compenso, il demiurgo Jaldabaoth è bisessuato (NH II 5, 148.7). Da lui nascono sei arconti, bisessuati anch’essi (NH II 5, 149.11, 24 segg.). Occupando i sette cieli, Jaldabaoth ed i suoi figli sono infatti le divinità planetarie che presiedono ai sette giorni della settimana. Contro Pistis Sophia, Jaldabaoth commetterà un duplice atto d’empietà, le cui conseguenze saranno decisive. Per punire Jaldabaoth del suo primo atto d’empietà, Pistis Sophia accorda a Sabaoth, uno dei figli del demiurgo, la sovranità. Jaldabaoth replica creando la morte, che è bisessuata (NH II 5, 154.28) e che prende, nel cielo arcontico, il posto lasciato vacante da Sabaoth. A sua volta, la morte crea un settenario di vizi, tutti bisessuati (NH Il 5, 154.29) ognuno dei quali crea un settenario di demoni bisessuati (NH II 5, 155.1). In risposta, Sabaoth, unito a Sophia-Zoe, crea un settenario di virtù bisessuate (NH II 5, 155.6) dalle quali emanano spiriti buoni e innocenti in quantità. A questo primo atto d’empietà che aveva inaugurato una cosmo-teogonia, ne succede un altro che inaugura l’antropogonia. Questa antropogonia, che si sviluppa in due tappe – il ciclo di Adamo e il ciclo di Eros – trova la sua conclusione nel ciclo della Fenice che ricapitola i dati essenziali dei tre momenti del tempo. Il ciclo di Adamo comprende tre sequenze disposte una dietro l’altra: l’Adamo pneumatico, l’Adamo psichico e l’Adamo terrestre. Appena Jaldabaoth dichiara: "Se qualcuno preesiste a me stesso, che si manifesti affinché possiamo vedere la sua luce" (NH II 5, 156.1-2), appare il primo Adamo sotto forma di una luce proveniente dall’ogdoade primordiale. Complemento di Jaldabaoth, Pronoia si innamora di questa luce. Desiderando l’unione con l’Adamo-luce, Pronoia si impadronisce di un po’ di luce e la diffonde sulla terra; da questi raggi luminosi nasce Eros, la cui bisessualità viene affermata insistentemente (NH II 5, 157.1 segg.), che presiede alla funzione sessuale (NH II 5, 157-19 - 158.1). Dopo aver trascorso due giorni sulla terra, l’Adamo-luce vuole risalire verso la sua fonte luminosa. Ma la cosa è impossibile. I sette arconti si burlano di lui e decidono di creare un uomo a loro somiglianza. Sophia-Zoe, precedendoli, crea allora l’Adamo psichico, chiamato anche Eva o Afrodite, da cui il suo rapporto con la bisessualità (NH II 5, 161.12 segg.). L’ottavo giorno si manifesta l’Adamo terrestre, il quale è così creato. Il sesto giorno, i sette arconti gettano la loro semenza nel mezzo dell’ombelico della terra, poi foggiano un uomo: Jaldabaoth produce il midollo e il cervello, mentre gli altri arconti si incaricano del resto del corpo. Ma è Sophia-Zoe che dà il soffio, cioè l’anima, ad un Adamo effigiato nell’immobilità della terra; Adamo allora può muoversi, ma non riesce ad alzarsi. Trascorre il settimo giorno, quello del riposo. Viene l’ottavo, nel corso del quale l’Eva primordiale, figlia di Sophia-Zoe, risveglia Adamo che può muoversi. Quindi ha luogo l’episodio della tentazione, della caduta e dell’espulsione dal paradiso. In questo paradiso, Eros, nato il primo giorno dall’Adamo-luce, presiede al mondo vegetale e minerale (NH II 5, 157.1 - 159.28). E il redattore conclude la parte del suo trattato relativa ai tempi cosmogonici ricordando gli animali che, molto verosimilmente, apparvero il quinto giorno: l’uccello Fenice, i serpenti e due torri, tre simboli "egizi" del paradiso (NH II 5, 169.35 - 171.2) che evocano la soteriologia e l’escatologia. In particolare è il caso della Fenice. Paragonata al triplo Adamo ed al triplo battesimo – pneumatico, con il fuoco e con l’acqua – la tripla Fenice – quella immortale, quella che vive mille anni e quella che viene distrutta – è la sintesi dei tre tempi – cosmogonico, storico ed escatologico – citati sopra. Perché, come vedremo in seguito, questo uccello straordinario, che è bisessuato, costituisce un simbolo di resurrezione. Negli Oracoli caldaici, ma in modo frammentario questa volta, ritroviamo questo rapporto privilegiato della bisessualità con gli esseri originari. Gli Oracoli caldaici, alla sommità della loro gerarchia divina, collocano il primo Nous (Intelletto). Questo dio trascendente, avviluppato nel silenzio, viene qualificato, ad un tempo padre (OC 25) e madre (OC 30), ed è lui che origina se stesso, e da cui tutto procede: "Quando ebbe concepito le sue opere effettivamente, l’Intelletto (Nous) paterno nato da se medesimo inseminò del tutto i pesanti legami del fuoco dell’Amore (Eros), perché la totalità delle cose continuasse, in un tempo infinito, ad amare e non crollasse tutto ciò che la luce intellettiva del Padre aveva tessuto: è grazie a questo amore che gli elementi del mondo continuano il loro corso". (OC 39)
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A questo primo Nous, da cui dipende il mondo intellegibile, se ne aggiunge un altro che corrisponde al demiurgo del mondo sensibile in cui si manifesta un terzo Nous che sarebbe quello dell’Anima del mondo. Tutti questi punti hanno dato luogo a controversie che permangono tutt’ora. Da cui la difficoltà di farsi un’idea esatta di questa dottrina in cui la bisessualità potrebbe svolgere un ruolo ben più importante di quello che abbiamo appena indicato. Infatti, Proclo paragona continuamente le Rapsodie orfiche agli Oracoli caldaici(65) che, a loro volta, presentano molte similitudini con il Corpus ennetico(66). La raccolta di dialoghi noti con il nome di Corpus Hermeticum si colloca tra il 100 e il 300 della nostra era, anche se affonda le sue radici in una tradizione che potrebbe risalire al secondo sec. a.C.. Contiene pochi elementi egizi. Le idee che vi sono esposte sono quelle di un pensiero greco sincretico in cui si intrecciano platonismo, aristotelismo e stoicismo. Vi si scorgono tracce di giudaismo e perfino di una letteratura religiosa che prende origini in Iran; in compenso, non vi sono tracce di influenze neoplatoniche e cristiane. Uno dei testi più importanti di questo corpus riporta una rivelazione fatta da Ermete Trismegisto – cioè il dio egiziano Thoth, scriba degli dei e divinità della saggezza, che i greci identificavano al loro Ermete e al quale davano l’appellativo di Trismegisto "Tre volte grande" – nel Pimandro (il Pastore degli uomini). Questa rivelazione propriamente detta (§ 4-26) descrive successivamente una cosmogonia (§ 4-11), un’antropogonia (§ 12-23) e un’escatologia (§ 24-26). Nel primo Nous, che è il Padre, si forma all’inizio il mondo luminoso delle Potenze, cioè il mondo intellegibile, archetipo del mondo sensibile (§ 4-8), che viene creato dal secondo Nous. Figlio del primo, questo Nous che svolge il ruolo di demiurgo, produce i corpi celesti (§ 9) e la vita animale (§ 10-11). Ecco come viene descritta la generazione dei sette Governatori del mondo sensibile ossia dei sette pianeti (Saturno, Giove, Marte, Venere, Mercurio, il Sole e la Luna) ad opera del secondo Nous, figlio del primo qualificato "maschio-e-femmina": "Ora, il Nous Dio, essendo maschio-e-femmina, esistendo come vita e luce, partorì con una parola un secondo Nous demiurgo che, essendo dio del fuoco e del soffio, foggiò i Governatori, sette di numero, che avviluppano nei loro cerchi il mondo sensibile; e il loro governo si chiama Destino". (CH I, 9) E il movimento circolare di tali corpi celesti permette l’esistenza di animali privi di ragione che, come vedremo in seguito, sono, per un certo periodo, dotati di due sessi. La nascita dell’uomo avviene in tre tappe. Il primo Nous genera l’uomo archetipo, immagine del Padre, che, a somiglianza del suo modello è bisessuato (I, 15.6). La Natura si invaghisce allora dell’Uomo, il quale si invaghisce della sua immagine riflessa in lei; cosa che spiega la sua caduta dal mondo intellegibile al mondo sensibile. Da qui segue che l’uomo è doppio: mortale nel corpo e immortale nell’anima; ad un tempo schiavo e maestro del Destino retto dai corpi celesti. Fecondata dall’Uomo, la Natura partorisce subito sette uomini terrestri maschi-e-femmine corrispondenti ai sette pianeti, anch’essi maschi-e-femmine (I, 16.8). Tutti gli esseri del mondo sensibile permangono in questo stato fino alla fine di un periodo indeterminato. Allora uomini e bestie vengono divisi in maschi e femmine; e si genereranno a seguito di un’unione sessuale. "Adesso ascolta il punto che tu brami intendere. Questo periodo, una volta finito del tutto il legame che univa ogni cosa, fu stremato dalla volontà di Dio. Perché tutti gli animali che, fin qui, erano ad un tempo maschi-e-femmine furono separati in due contemporaneamente all’uomo, e divennero gli uni maschi da una parte, gli altri femmine dall’altra. Subito Dio disse una parola santa: "Accoppiatevi accrescendovi e moltiplicatevi in moltitudine, tutti voi, che siete stati creati e fatti. E colui che ha l’intelletto si riconosca come immortale, e sappia che la causa della morte è l’amore, e conosca tutti gli esseri". (CH 1,18). È superfluo ricordare che, in questo caso come in quelli citati sopra, la bisessualità è propria degli esseri originari: dei, uomini, bestie, a partire dai quali si operano tutte le distinzioni fondamentali, ivi compresa quella dei sessi. Trattati gnostici, Oracoli caldaici e trattati ermetici presentano l’un con l’altro delle rassomiglianze sorprendenti. Tale fenomeno non sembra tanto dover essere spiegato con un prestito diretto quanto con una dipendenza da bisogni analoghi e con un riferimento ad uno stesso fondo intellettuale caratterizzato da un vasto sincretismo, in cui il pensiero greco, pur rimanendo dominante, subisce numerose influenze straniere: egiziana, iraniana e, soprattutto ebraica. In questo contesto, la creazione si realizza generalmente 100
in due tappe: creazione del mondo intellegibile, poi creazione a sua immagine del mondo sensibile. In particolare ciò permette di spiegare il fatto che nella Genesi (I, 27 e II, 7-22) ci siano due versioni della creazione dell’uomo. Il promotore di questa idea sembra sia stato Filone d’Alessandria (De opificio mundi, § 69 e segg.) che distingue l’uomo creato con la terra, composto da un corpo e da un’anima, maschio o femmina e mortale (Gen. II, 7-22) dal suo modello, l’uomo creato ad immagine di Dio (Gen. I, 27) che, riunendo in sé i due sessi come le due specie che derivano dallo stesso genere, non è, di fatto, né maschio né femmina. Presso i Padri della Chiesa, tale interpretazione subirà una serie di profonde modifiche(67). Dalla filosofia e dalla teologia in cui si combinano le tradizioni giudaico-cristiane e greche, si ritorna all’antichità, per quanto concerne la bisessualità, alla mitologia greco-latina propriamente detta con la figura della Fenice(68). Nell’antica Grecia, il primo autore che parla della Fenice, favoloso uccello, originario dell’Etiopia ed il cui mito è legato al culto del Sole in Egitto, è Erodoto (II, 73); in seguito, poeti, mitografi, astrologi e naturalisti hanno precisato una quantità di dettagli sull’uccello del fuoco. Ma fu nel IV secolo d.C. che il mito della Fenice conobbe la sua maggiore popolarità nel mondo greco-romano. Allora, infatti, apparvero delle opere a lei interamente dedicate. Lattanzio e Claudiano composero, entrambi, un poema in suo onore. All’inizio del Basso Impero, una serie di circostanze contribuiscono a restituire attualità a questo mito, tributario di concezioni astrologiche, scientifiche e religiose. L’Impero, impegnato a risollevarsi dalla decadenza politica e sociale in cui versava, faceva della Fenice un simbolo di continuità e di rinnovamento. D’altronde, i cristiani vedevano in questo mito onorato dai pagani, un argomento ad hominem in favore della resurrezione: quella del Cristo e quella della carne. L’aspetto generale della Fenice è quello di un’aquila di considerevole grandezza ed il cui piumaggio si fregia dei colori più belli: rosso fuoco, azzurro chiaro, porpora ed oro. Generalmente sono tutti concordi nell’affermare che visse in Etiopia, durante un periodo di tempo che, a seconda degli autori, varia tra 500, 1461 e perfino 12954 anni. Quando la Fenice sente giungere la fine della sua esistenza, raccoglie delle piante aromatiche e dell’incenso per costruirsi una specie di nido, che sarà ad un tempo la sua tomba e la sua culla, perché, unica nella sua specie, la Fenice non può riprodursi che rinascendo. Secondo alcuni autori, l’uccello dà fuoco al nido sul quale riposa, e dalle ceneri di questo rogo profumato sorge una nuova Fenice. Secondo altri, la Fenice muore nel suo nido che ha, precedentemente, impregnato della sua semenza. Allora, nasce una nuova Fenice, che raccoglie il cadavere di suo padre e lo porta ad Eliopoli per farlo ivi bruciare dai sacerdoti del Sole sull’altare del dio. Terminata la cerimonia o subito dopo la sua rinascita, l’uccello ritorna in Etiopia per un altro periodo di tempo [Spesso per gli alchimisti l’Etiopia indica l’Opera al nero – n.d.t.]. Si capisce quindi come la durata della vita della Fenice sia stata paragonata a quella del "grande anno". Inoltre, sembra assolutamente naturale che la Fenice, di per se stessa principio e fine in una serie infinita di cicli, sia un essere bisessuato: "O destino fortunato! O trapasso felice Che dio concece all’uccello di nascere da se stesso! Ch’egli sia maschio o femmina o anche né l’uno né l’altra, Felice essere, che ignora i legami di Venere! La sua Venere, è la morte; la morte, il suo unico amore: Per poter nascere, aspira a morire. È figlio di se stesso, suo discendente, suo padre. È ad un tempo nutrice e nutrito; È lui e non lui, lo stesso e non lo stessa, Conquistando con la morte una vita eterna". (Lattanzio, Poema sulla Fenice 161-170) Ora, sembra che, proprio sotto il profilo della bisessualità, Levio, autore di un Pterygion Phoenicis, poté stabilire un rapporto tra la Fenice ed una Venere maschio o Afrodite che Filocore nel suo Atthis assimilava alla luna, come abbiamo visto maschio e femmina ad un tempo. Ecco cosa racconta Macrobio, in proposito, nei Saturnali: "C’è di più: a Cipro, ella (Venere) ha una statua in cui è rappresentata con il corpo peloso, ma in abiti femminili, con un fallo e delle parti virili, e si pensa che sia ad un tempo maschio e femmina. Aristofane la chiama Aphroditos (Fram. 702 Hall-Geldart). Levio dice anche: "Quindi adorano Venere il fecondo, che è maschio e femmina, come la feconda Noctiluca (Colei che illumina la notte la Luna)". Anche Filocore, nel suo Atthis, dice che si confonde con la luna e che, per offrirle sacrifici, gli 101
uomini si vestono da donne e le donne da uomini, perché è ritenuta contemporaneamente maschio e femmina". (Macrobio, Saturnales III, 8, 2-3) Ritroviamo qui, dei temi ben noti. In quasi tutti i casi esaminati fin qui, la bisessualità si manifestava nella simultaneità. Erano dotati di due sessi per volta gli esseri che svolgevano il ruolo di principi o di archetipi, a partire dai quali si operavano divisioni, distinzioni, separazioni indissociabili da un aggruppamento, da una identità e da un’ione complementare che assicurasse una distanza conveniente tra gli elementi che intervengono nell’ordine attuale delle cose. Altri esseri sono affetti da una bisessualità che, in questo caso, prende corpo solo nella successione temporale: gli stessi esseri sono talvolta maschi e talaltra femmine, o viceversa. Una bisessualità di questo tipo, non riferendosi ad una definizione del ruolo sociale di uomo e di donna come in certi casi citati sopra, caratterizza non l’origine, ma la mediazione. In questo campo, l’esempio più interessante è, incontestabilmente, Tiresia, l’indovino. Ci sono pervenute tre versioni del mito di Tiresia(69). La prima, che comprende tredici varianti, si compone di due episodi. Nel primo, Tiresia incontra una coppia di serpenti in atto di copulare e viene cambiato prima in donna per aver aggredito la femmina, poi in uomo, per aver, dopo un certo lasso di tempo, aggredito il maschio. Nel secondo episodio, Tiresia, proprio per la sua esperienza dei due sessi, viene scelto come giudice da Zeus e da Era che discutono per sapere chi, dell’uomo o della donna, provi maggior piacere nell’atto sessuale; a loro risponde che, il godimento della donna è nove volte superiore a quello dell’uomo. Incollerita da questa risposta, Era acceca Tiresia. Ma, per compensarlo, Zeus regala allo sfortunato il potere divinatorio e una lunga vita. La seconda versione, che comprende quatto varianti, si compone di un solo episodio. Tiresia viene accecato da Atena, per averla sorpresa, nuda, al bagno. Ma, sensibile alle suppliche della sua compagna Cariclo, madre di Tiresia, Atena per compensarlo, gli fa dono del potere divinatorio, di una vita lunga, della facoltà di conservare i sensi e la ragione dopo la morte, e di un bastone. Infine, la terza versione, che comprende una sola variante e che, con molte probabilità, è opera di un noto mistificatore Tolomeo Cenno, che provava un piacere maligno nel trasformare i miti famosi. Questa si compone di sette episodi, nel corso dei quali Tiresia superò, incarnando successivamente il sesso maschile e quelle femminile, le sette età della vita, per concludere la sua esistenza trasformato in topo, animale imparentato ad Apollo, e il cui comportamento era considerato, nell’antica Grecia, particolarmente divinatorio. Tiresia, prima di tutto, deve essere considerato un mediatore, poiché trascende tutta una serie di opposizioni fondamentali, apparentemente irriducibili. In quanto indovino, Tiresia stabilisce un legame tra il mondo degli dei e quello degli uomini, e tra passato, presente e futuro; poiché capisce il significato del comportamento e del linguaggio degli uccelli, messaggeri degli dei, congiunge in qualche modo il cielo alla terra; e poiché nel presente sa a cosa attenersi su ciò che è realmente accaduto in passato e su ciò che effettivamente avrà luogo in futuro, sostituisce, nel corso del tempo, la discontinuità con la continuità adottando, così, il punto di vista degli dei. Essendo stato partecipe dei due sessi, Tiresia ha avuto esperienza della condizione maschile e di quella femminile, in cui risiede la distinzione più comune e più essenziale del genere umano; ecco perché, d’altronde, Zeus ed Era lo interpellano come giudice, funzione mediatrice per eccellenza, a proposito della loro controversia sull’entità del piacere sessuale provato dall’uno e dall’altro sesso. Inoltre, poiché la sua vita si estende alle sette gene-razioni della casa reale di Tebe, Tiresia può svolgere il ruolo di mediatore che rivela, in particolare ad Edipo, i veri legami tra le generazioni; d’altronde tale longevità si accorda perfettamente con la sua condizione di indovino, in quanto mediatore tra gli dei e gli uomini, Tiresia, pur rimanendo mortale, partecipa dell’immortalità che caratterizza gli dei. Infine, poiché è il solo essere umano a conservare i sensi e la ragione dopo la morte, Tiresia si colloca in uno stadio intermedio tra la vita e la morte. A Tiresia, bisogna riallacciare gli Enareti di cui fa menzione Erodoto (I, 105; IV, 67). Questi divini Sciiti ebbero da Afrodite Urania il dono divinatorio, indissociabile dall’androginia con cui la dea li colpì, loro ed i loro discendenti, per punirli di un sacrilegio che avevano commesso contro uno dei suoi templi in Siria, e che il trattato ippocratico Dell’aria, delle acque e dei luoghi (106-110) cerca di spiegare razionalmente. Sembra proprio che si debba ricondurre la bisessualità degli Enareti alla loro condizione di indovini(70). Quali conclusioni trarre chiudendo questo dossier, che rimane incompleto? In tutti i casi esaminati, un essere che abbia entrambi i sessi rivela la sua posizione in rapporto all’insieme delle coppie di opposti che intersecano la struttura del reale. In tale prospettiva, si impone una distinzione fondamentale tra la bises102
sualità simultanea e la bisessualità successiva. La bisessualità simultanea è appannaggio degli esseri che svolgono il ruolo di principi o di archetipi. Poiché instaurano l’insieme delle opposizioni che costituiranno l’armatura della realtà, gli esseri che giocano il ruolo di principi devono collocarsi al di qua di tali opposizioni. Ecco perché sono dotati in particolare dei due sessi. In seguito, al loro livello, la generazione si opera non per mezzo della mediazione di un’unione sessuale indissolubile da una divisione preliminare dei sessi, ma attraverso un processo simile alla scissiparità e che si realizza in una serie di unioni incestuose, in quanto la loro parte maschile si dissocia da e si unisce alla loro parte femminile, ad un tempo loro madre, sorella e figlia per generare il rimanente degli esseri. D’altronde, gli esseri che svolgono il ruolo di archetipi, uomini o animali, si trovano in qualche modo nella stessa posizione rivestita dal genere in relazione alle sue specie. Anch’essi possono essere dotati di attributi che, in seguito, si riveleranno essere, in quanto differenze specifiche, i poli di una opposizione irriducibile. Anche in questo caso, la generazione non può avvenire attraverso l’unione sessuale: avere l’uno e l’altro sesso equivale a non avere né l’uno né l’altro. La bisessualità successiva, d’altronde, caratterizza degli esseri che sono essenzialmente dei mediatori poiché, per stabilire una relazione veritiera e duratura tra degli opposti, bisogna partecipare dell’uno e dell’altro. Da ciò deriva che una relazione di questo tipo equivale, solo fino ad un certo punto, ad un ritorno alle origini nel quadro della successione temporale. In un contesto completamente diverso, un cambiamento di sesso può anche essere interpretato, nell’antica Grecia almeno, come una contestazione dello stato sociale di uomo e di donna, la ragazza che si rifiuta al matrimonio divenendo un guerriero "impenetrabile" e l’uomo, che si è mostrato vile in combattimento, vedendosi perciò assimilato ad una donna. Ecco, dunque, il quadro generale in cui devono essere collocate le seguenti descrizioni dei miti relativi alla bisessualità. Dissociati gli uni dagli altri, questi miti possono apparire sconcertanti. Ma correlati tra loro, esprimono delle rappresentazioni e delle speranze che rispettano alcune regole derivanti dall’etica e perfino dalla logica. Così si spiega l’importanza che il tema della bisessualità rivestì nel mondo greco-romano e, soprattutto, nel neoplatonismo. Al di là del carattere artificiale che presenta, presso i neoplatonici, la ricerca sistematica di un’armonia prestabilita tra le differenti teologie (quelle degli Oracoli caldaici, dell’orfismo, di Esiodo e di Omero) e la teologia nella quale, di per sé, consiste, in ultima analisi, la filosofia di Platone, emerge una sensazione che potrebbe essere condivisa da molti contemporanei. Non è assurdo pensare che la filosofia, come la concepì Platone e di cui i neoplatonici sono gli ultimi rappresentanti, trasponga in tutt’altra forma e in tutt’altro contesto un insieme di temi precedentemente sviluppati nella mitologia greca. Nel momento in cui quella va spegnendosi, la filosofia greca ritorna sulle sue origini attuando una vera archeologia del sapere che tenta disperatamente di trasmettere.
Ermete Trismegisto e gli emblemi ermetico-geroglifici nei secoli XV-XVIII Perché è importante penetrare il significato dei simboli. Una adeguata comprensione critica dell'accostamento 'arte/alchimia' è stata effettuata solo da tempi relativamente recenti, coincidente con la pubblicazione di un testo fondamentale che è "Psicologia e Alchimia", uscito nel 1944 e tradotto in lingua italiana solo nel 1950.L'autore è quel Karl Gustav Jung che, pur non mettendo in stretta relazione le due cose, riscontrava "le analogie dell'immaginario alchemico con l'inconscio collettivo"(71), contrappondendolo all'inconscio individuale esplorato in chiave del tutto diversa da Freud. È ipotizzabile, quindi, l'esitenza di determinati archetipi, sopiti nel nostro inconscio collettivo di 'umanità', momenti e simboli ricorrenti nell'immaginazione, dal mito all'arte. Fu tuttavia solo negli anni '60 che questo campo venne ulteriormente indagato, ad opera soprattutto di italiani. I Filosofi o Alchimisti si sono sempre compiaciuti di celare nelle Poesie, nelle Favole, nelle Opere Musicali, i segreti del Magistero Alchemico. Tutta questa componente di mistero e di occultazione, è dovuta principalmente al fatto che l'alchimista ricerca la decifrazione e la conoscenza delle Leggi della Natura, delle norme che la regolano, che la trasmutano, in quell'incessante flusso che va dall'Uno al Molteplice e viceversa. Il più Grande Mistero dell'Uomo e del senso della vita. Per fare questo, egli ha fatto ricorso ad un vocabolario espressivo che ha attraversato i millenni e che, in Occidente, risale per la maggior parte ed iconograficamente ai codici tardomedievali, che sono giunti fino ad oggi in varie copie compilate dai pazienti amanuensi. 103
Trattati greci e siriaci molto antichi, probabilmente derivati da influssi Egizi, vennero tradotti dai filosofi e da studiosi Arabi che, nel XII secolo li diffusero in trattati alchemico-neoplatonici. Gli stessi che, nel XV secolo, giunsero poi in tutta Europa, soprattutto manoscritti egizio-ellenici (ad opera dei sapienti bizantini). La cultura classica e la 'branca' cristiana più attenta all'esegesi simbolica delle Scritture, trasmisero a quella umanistica e rinascimentale la convinzione che l'antico Egitto costituisse un punto di riferimento indissociabile dalla genealogia delle conoscenze umane. In questo contesto assunse sempre maggiore spicco la figura di Ermete Trismegisto, il tre volte grande, considerato il padre fondatore del sapere e scriba degli dèi, per molti collegabile al dio egizio Toth, inventore dell'alfabeto, depositario di tutte le Conoscenze. Divenuto Ermete per i Greci e i Romani, che gli attribuivano l'invenzione delle arti e delle scienze, venne citato come autorità dottrinale anche da alcuni Padri della Chiesa come Tertulliano e Lattanzio, che lo definì "perfettamente dotato di ogni sapere". Ad Ermete Trismegisto, personaggio sospeso nel mistero del tempo, sacerdote, filosofo, legislatore, mago, alchimista (nel pavimento del duomo di Siena, dove la sua figura campeggia su una tarsia marmorea del 1482, è scritto che egli fosse 'contemporaneo di Mosè') ma più di tutto un "semidio", si fa risalire un trattato chiamato "Corpus Hermeticum"(72) in realtà collocabile tra il II e il III sec.d.C. (un tempo ritenuto molto più antico), composto da 14 trattati che vennero diffusi in Europa grazie alla loro traduzione ad opera di Marsilio Ficino(73) negli anni 1463-64. È il periodo in cui la magia, le scienze occulte, la riscoperta dei grandi filosofi dell'antichità vive un momento di grandissimo splendore. Ad Ermete viene attribuito anche un trattato-cult di tutta la Scienza Ermetica: la Tabula Smaragdina o Tavola di Smeraldo(74) costituita da 10 punti in cui tutti noi dovremmo trovare uno stimolo alla riflessione. La Tradizione narra che Ermete stesso incise le parole con la punta di un diamante sulla la-stra di smeraldo (verde). Così come la leggiamo oggi, si può dire che risale all'incirca al IX secolo, di matrice islamica redatta su fonti precedenti, e fu fatta circolare da personaggi dei quali si fanno i nomi più svariati, a cominciare da Alessandro Magno, che ne sarebbe entrato in possesso tramite un suo soldato che l'avrebbe rinvenuta in una delle piramidi di Giza. Ma cos'è l'ermetismo? Si differenzia dall'esoterismo? E dalla religione? Perchè l'uomo porta con sè una "Conoscenza", una "gnosi", da dove essa deriva? Chi gliel'ha data e perchè tutte le Tradizioni l'hanno in comune? Vediamo di riflettere su queste cose, senza pretesa di riuscire a rispondere! Alla base di tutto c'è il rapporto del 'sacro' con l'anima umana. Tutte le religioni si occupano di fondere questo connubbio dal momento che - conoscendo il sacro - l'essere umano può trasformare sè stesso in un essere spirituale e che oltre la materia esiste qualcosa di impalpabile e di indicibile, di immortale. Ma possiamo affermare che l'unità trascendentale delle religioni è l'unità dell'esoterismo, il cui significato etimologico è 'nascosto, segreto', così come l'anima è invisibile e interiore. L'esoterismo è una dottrina, una Scienza che spiega i misteri dell'universo e i suoi fini e che articola due livelli di sapere, quello tasmesso oralmente (base della Tradizione, la Parola, il Verbo) e in maniera scritta (il Testo Sacro, che conserva i misteri occultandoli sotto un linguaggio ambiguo (decifrabile con un'apposita chiave di lettura), che va debitamente interpretato. L'esoterismo ha una vocazione universale e, in quanto 'gnosi', ha un linguaggio universale: sintetizza i simboli e i miti presenti in ogni Tempo, riunifica le religioni stesse in una comune Origine, che è la Rivelazione primordiale. Dio, o gli dèi, l'hanno posseduta da sempre e i Profeti, i Maestri l'hanno portata avanti quale retaggio ancestrale. La comprensione non del tutto semplice di questo concetto porta l'uomo ad una profondissima riflessione interiore, in cui cercare la propria conoscenza e la propria natura 'divina', quel 'germe' che aspetta di crescere e fiorire dentro ognuno di noi. Socrate, il grande filosofo greco vissuto tra il 470/469 e il 399 a.C, ha rivelato la chiave della scienza delle corrispondenze: "Conosci te stesso e conoscerai l'universo degli dei". L'esoterismo comincia con l'origine delle razze, umane, con l'origine delle lingue, ha una storia ed una archeologia. Ha un suo linguaggio che, di volta in volta, è stato codificato e cifrato nelle varie Culture e Civiltà (geroglifici Egizi, lingua sanscrita, Cabala ebraica, araba, Testo Biblico…ognuna conosce le chiavi di una linguistica del sacro, che traduce i messaggi ispirati). Così gli dèi della mitologia "prendono forma" ovvero non sono più - a questa luce - "delle semplici immagini ma proiezione di esperienze significative delle forze concepite direttamente nell'uomo, nella natura o nell'aldilà" . L'unità dell'esoterismo risiede nella struttura sacra della natura umana, nel fatto di partire dalla concezione fondamentale che l'uomo è una creatura divina, da un UNO proveniente e a Lui somigliante in tutto e per tutto. Chiamare 'Dio', UNO o 'Tutto', o 'Principio' questa 'struttura originaria' è ininfluente ai 104
fini della comprensione che esiste una Coscienza Superiore, alla quale ognuno può arrivare attraverso l'iniziazione, la meditazione, l'ascesi... Ognuno deve volgersi a riscoprire ciò che in ogni Tempo i Maestri, i Santi, i profeti ci conducono: la nostra 'riunficazione' con il Tutto, la fusione del microcosmo con il macrocosmo. La Rivelazione originale si perde nella notte dei tempi ed è segnalata solo dal riferimento alle nomenclature mitologiche L'ermetismo o 'scienza di Ermete' (Trismegistos) è miticamente riferito alla rivelazione del dio egizio Thot (ellenizzato in Ermete-Thot), divenuto un archetipo culturale del nome patronimico del Dio di tutte le iniziazioni. Cosa significa questo? Che è un 'polo', come una calamita del nostro inconscio, che genera in noi (o dovrebbe generare) un ricordo, attirare una memoria simbolica vivente, un linguaggio, uno stile di pensiero. Per questo quando abbiamo parlato di alchimia abbiamo parlato di 'immaginazione', proprio perchè si tratta di mentalità simbolica. Alchimia ed ermetismo sono coincidenti e in definitiva possiamo assimilare l'ermetismo con ogni forma di tradizione esoterica. Una curiosa analisi del termine "Ermete", ci dicono i Saggi, si riferisce al linguaggio propriamente detto: "hermeneus" equivale ad interprete, messaggero (ed Hermes era Mercurio per i Greci, il messaggero degli dèi), borsaiolo, commerciante e "che froda con le parole", cioè colui che 'trama con la parola', che la padroneggia e simula agli altri, che non la comprendono per quella che è realmente (il profano non capisce il linguaggio degli inziati) e non vanno oltre. Ermetismo, pertanto, inteso come funzione esoterica del linguaggio. L'ermetismo restituisce alla cultura il senso delle sue mitologie, delle metafore, delle allegorie religiose, ci apre l'accesso al mondo degli dèi e dei simboli. Ermete incarna il 'vecchio saggio', l'Archetipo cui si riferiva K.G.Jung. Dal XV e XVIII secolo, l'iconografia eremetica si arricchisce con immagini simboliche di provenienza sia neopagana rinascimentale sia da una sintesi proposta dai libri di emblemi e di imprese. Ma cosa indicano esattamente questi ultimi termini? Nel 1531 esce un lavoro, ad opera di Andrea Alciato(75), dal titolo "Emblemata" (Emblematum Liber), in cui compaiono per la prima volta questi 'accostamenti': da un lato c'è una figura, un'immagine (chiamata "corpo") che ha valenza allegorica, dall'altro delle parole che esprimono un motto, (chiamate "anima"). Possono essere accompagnate da brevi frasi in versi o prosa che tentano di dare una spiegazione di tale accostamento. In genere sono costituiti da fini incisioni che le ornano (in genere sono conosciuti più per queste ultime che per altro). L’Intelligenza deve portare a superare l’apparente dicotomia per rintracciarvi l’intenzione simbolica unficatrice. Il prototipo degli "emblemata" può farsi risalire agli "Hyerogliphica" di Horapollo, un trattato breve che risale ai primi secoli dopo Cristo, in cui vengono spiegati i geroglifici usati dagli Antichi Egizi in base al loro senso morale e simbolico, tramite una lettura ideografica e che giunse in Europa per mezzo di una copia acquistata nel 1419 nell'isola greca di Andro e da lì portata a Firenze, dove iniziò a destare notevole interesse nell'ambiente neoplatonico di Marsilio Ficino. Gli umanisti vi scorsero,infatti, la testimonianza di un linguaggio arcano in cui c'era un tramite tra l'immagine e la parola, che non potevano essere disgiunte. Si recuperò la sacra Sapienza Egizia dopo che era caduta nell'oblìo per quasi dieci secoli (l'ultimo tempio 'pagano’ in Egitto, a Philae, in cui perdurava il culto della dea Iside, fu chiuso nel 560 d.C. per ordine dell'Imperatore Giustiniano, che ne fece portare le statue del culto a Costantinopoli e incarcerare i sacerdoti presenti). La scrittura geroglifica ammette una frattura tra il senso primario di un testo religioso (fonetismo) e il suo significato profondo (il glifo inteso come simbolo vivente). La parola diventa quindi 'Sacra' (o il sacro si articola alla parola) e diventa simbolismo esoterico, ovvero comprensibile a colui che lo padroneggia, tanto che per tutti gli altri è impenetrabile senza l'apposita “chiave” di lettura. J. Francois Champollion(76), nel suo “Precis de systeme hieroglyphique”: distinse infatti tre tipi diversi di scrittura del nome del Sovrano: fonetico, figurativo e simbolico. Gli Egizi adottavano una scrittura per i testi sacri e un'altra per i libri contabili, opportunamente celata dall'utilizzo di simboli che indicavano il significato “divino” (rivelazione, materia prima) della prima o il carattere materiale della seconda scrittura. Naturalmente possiamo ritenere che tutti gli antichi testi contengano una duplice chiave di lettura e di interpretazione (nell'inno 10.71 dei "Rig Veda"(77) sono riassunte le idee dei Rishi sul linguaggio: "La parola sacra è un'invenzione degli antichi saggi...solo l'eletto è chiamato a “vedere”. L'iniziazione passa da un apprendimento attraverso la lettura”). Nel 1499 venne pubblicato a Venezia il più celebre libro illustrato rinascimentale, opera di Francesco Colonna(78), dal titolo "Hypnerotomachia Poliphili", che nel 1600 venne ristampata a Parigi in una versione diversa firmata da Bèroalde de Verville(79), che intese rivelarne i contenuti alchemici(e che pare rifarsi ad 105
un precedente lavoro di Jacques Kerver del 1546). Verso il 1540 Nostradamus(80) scrisse "Interpretation des hièroglyphes de Horapollo". La strada era ormai tracciata (dal '500 all'800 prolifereranno gli emblemi su base mitologico-pagana) e molti alchimisti si riferiranno nei loro scritti appunto a questi, nei quali il segno sacro diventa rappresentazione della presenza delle forze cosmiche, in cui sono insite le geometrie nascoste della Natura, con i suoi Numeri, Pesi e Misure. Nel 1588 viene pubblicata a Roma un’opera, di Principio Fabrizi, intitolata "Delle allusioni et emblemi sopra la vita, opere et attioni di Gregorio XIII", in occasione della celebrazione del Papa. Le incisioni sono chiaramente di ispirazione pagano-alchemica. Nel 1612 viene stampato il primo grande trattato alchemico sui miti greci ed Egizi, "Arcana Arcanissima", dovuta ad un paracelsiano e rosacroce, medico e segretario privato dell'Imperatore alchmista Rodolfo II a Praga: Michael Maier(81) 1568-1622). In quest'opera l'autore colloca la mitologia pagana quale allegoria ermetica dell'Antica Scienza Alchemica, opera che diverrà un caposaldo per tutti gli alchimisti dei tempi seguenti. Nel corso del 1600 vedono la luce altre opere fondamentali per l'iconografia ermetica: l'Atalanta Fugiens, sempre del Maier, costituita da cinquanta incisioni eseguite dal maestro tedesco Matthaus Merian il Vecchio, e il Viridarium Chymicum, di Daniel Stolcius(82), costituito da centosette incisioni. In essi, il concetto di 'emblema' comunemente inteso, viene 'trasferito' sul piano alchemico e alle varie fasi dell'opus alchemico e sul modo in cui procedere. Contemporaneamente anche molti scritti filosofici vengono recuperati o interpretati, segno che gli alchimisti vogliono discutere della loro scienza. Nel 1593 compare una Iconologia, di Cesare Ripa(83), che vedrà la prima pubblicazione illustrata nel 1603, in cui vi sono schedate ed elencate varie figure cui potranno riferirsi stereotipatamente gli alchimisti seguenti, e nel 1686 appare un'opera costituita da incisioni in-folio, "Escalier des Sages ou la Philosophie des Anciens", composta da Barent Coenders van Helpen(84). Nel 1758 A. Joseph Pernety, compilerà "Les fables egyptiennes et grecques dèvoilèes", l’ultimo e più completo trattato sull'argomento, che gli era stato ispirato dall'opera di Mair, "Arcana Arcanissima". La cosa di fondamentale importanza è che l'iconografia alchemica che compare nel primo '600, rappresenta la saldatura, di natura iconologica, di due basilari aspetti della cultura europea del 1400 e del 1500: la rivisitazione dei miti pagani e la ricerca filologica di stampo umanistico sulle immagini geroglifiche. Molti artisti rinascimentali, che respirarono questo clima, quantomeno furono attratti dall'Arte Regia, quando non si accostarono direttamente ad essa (i colori usati per molti dipinti furono preparati con procedimenti alchemici) ed intesero trasporne i contenuti occultandoli (a volte neanche troppo) nelle loro opere. Di questa visione e volontà di trasmettere un messaggio preciso non si è ancora tenuto debito conto, in quanto ancora poco indagato il significato alchemico contenuto in molti dipinti e sculture, che purtroppo vengono ancora viste dai più attraverso un canale puramente estetico. Il momento della riflessione sul simbolo deve essere quello della conversione dello sguardo su sé e sul mondo. Assistiamo attualmente ad un’epoca in cui c’è molto bisogno di riconciliarsi con il Sé, inteso come Universo e le sue manifestazioni. Quindi, dobbiamo riuscire a trovare nei simboli la funzione unificatrice. Gli Antichi lo sapevano ed erano in grado di farlo ‘vivere’ per armonizzare il ‘grande’ con il ‘piccolo’, il Cielo con la Terra, lo Spirito con la Materia. Si può ora citare un passo di Micheal Mirabail(85): "Il tempo unificatore del simbolo non ha mai disertato la temporalità dell’esperienza umana, soggetta ai cicli evolutivi e non ripetitivi delle mitologie, nel momento stesso in cui crede, dopo il XIX secolo, di poter spezzare il modello ellitticco dell’evoluzione a favore della storia lineare, sintomo della frattura tra significante e significato, tra senso e linguaggio, delle nostre culture schizofreniche".
Un principio, quattro elementi... Secondo la Teoria generale alchemica, la materia grezza è assimilabile al concetto di caos indifferenziato, materializzatosi in un liquore minerale nelle viscere della terra, considerata un organismo vivente quale Grande Madre che nutre e matura i minerali e i metalli generati nelle sue viscere. Questa sostanzaprincipio, eterica e semimaterializzata, viene chiamata simbolicamente Mercurio dei Saggi o dei Filosofi. Dal Mercurio dei Saggi derivano tutti i corpi dell'Universo, ed è all'origine dei sette metalli primari, così come la luce bianca origina i 7 colori del prisma, che si possono ridurre ancora alla luce bianca. 106
Quindi, anche i sette metalli si possono 'ricondurre' al Mercurio dei Filosofi. Ai sette metalli corrispondono i sette pianeti dell'astronomia e dell'astrologia antica. Per gli alchimisti, tutta la creazione evolve verso la perfezione: i metalli verso l'oro, che rappresenta la forma più nobile della loro specie, così come l'uomo tende verso la divinizzazione. Da un lato l'uomo, estraendo il minerale dalla terra, arresta questo processo lentissimo di trasformazione, ma dall'altro (grazie al 'dono' che gli è concesso da Dio) egli può accelerare questo processo grazie alle virtù della PIETRA. Variamente, alcuni teorizzano che per una causa imprecisa, ci fu qualcosa che “bloccò” l'evoluzione dei minerali, così come l'uomo subì la 'caduta' simboleggiata dalla cacciata dall'EDEN e si allontanò dalla propria natura divina. L'alchimista viene allora inteso come colui che accelera il processo della Natura, restituendo l'Originaria Perfezione. Dalla divina Unità, avviene il passaggio alla molteplicità multiforme. Manifestazioni diverse della 'materia prima', cioè del Mercurio dei Saggi, sono i 4 elementi: TERRA, ACQUA, ARIA, FUOCO trasmutabili, secondo gli alchimisti, gli uni negli altri. Il filosofo greco Empedocle osserva che l'intero mondo del divenire, la natura e gli universi sono generati dall'attività di due principi divini, che ha chiamato con i termini simbolici di zolfo e mercurio, di opposta polarità i quali, a loro volta,attraverso l'azione del terzo principio, il sale, determinano l'incessante assemblarsi e dividersi dei 4 elementi primari. Terra-solidi; acqua-liquidi; aria-gas; fuoco-radiazione. Se di per sè questa teoria è irrazionale, ambigua e incongruente, si può cercare di trovarvi una logica: il passaggio dalla terra (stato solido) all'acqua (stato liquido) all'aria (stato aereo, vaporoso) al fuoco (luce) segna le successive trasformazioni e 'sublimazioni' della materia che progressivamente si smaterializza fino a raggiungere l'eterea e luminosa consistenza della pietra filosofale.
Le due vie... Partono dagli stessi principi. Esiste l’Ars brevis e l’Ars longa, comunemente definiti via breve e via lunga, oppure via secca e via umida. Tuttavia, nella simbologia ermetica, con via secca e via umida vengono anche indicati altri due procedimenti che sono propri della via lunga. E si riferiscono al tipo d’illuminazione. “Dio, ripetono i Maestri, procura la saggezza a chi gli sembra opportuno e la trasmette mediante lo Spirito Santo, Luce del mondo”. Questa è la via secca, cioè senza particolari rivelazioni e, laboristicamente, i Testi parlano di forni ad alte temperature, crogioli di terra refrattaria o porcellana e tempi di lavorazione di settimane (è difficile e pericolosa). E'quella seguita da quasi tutti gli Adepti. Da un manoscritto del XVII sec., conservato presso la Biblioteca Civica di Trieste, Ms.2-27: Il Dragone alchemico inteso come paradigma dell'intera Arte: i tre simboli sopra le le tre teste del mostro ermetico indicano Mercurio, Zolfo e il Sale, i tre protagonisti della Via Secca o Breve (materia prima grezza, cavaliere armato e sale mediatore o Fuoco segreto). La via umida, invece, comprende la rivelazione totale, cioè sia il campo spirituale sia fisico. Essa opera, praticamente, a basse temperature in vasi e utensili di vetro pirex, usando oro e 'mercurio' e con tempi di cozione lunghissimi (interi anni) e ininterrotti, secondo i 'sette regimi'. La trasparenza del vaso permette all'artista di poter seguire le molteplici trasformazioni e le variazioni della gamma cromatica del 'compost': nel matraccio, mantenuto a temperatura costante e moderata, si susseguono le fasi di intense colorazioni: il nero, il bianco, il giallo... la coda di pavone... il rosso della maturazione... Sotto il segno di Venere (simboleggiato in alto dalla dea dell'amore), si realizza l'unione alchmistica simboleggiata dalla coda di pavone (compresenza dei colori) e dalla musica ('armonia'). La figura del pavone è equivalente a quella dell'arcobaleno.
Le operazioni alchemiche... Si è visto che il mezzo per rivitalizzare i minerali (e l'Uomo) è il Fuoco Segreto; bisogna individuare quali sono le condizioni e i metodi per incorporare di fatto questa radiazione nei materiali iniziali. I Maestri ricordano che l'alchimia è chiamata anche "Agricoltura Celeste" perchè l'artista deve seguire la Natura e i suo cicli stagionali, solari e soprattutto lunari. Enigmaticamente, Atorene ci tramanda che le operazioni più importanti "avranno dunque luogo con 107
la Luna crescente, quanto più essa è vicina alla sua pienezza, preferibilmente con un cielo sereno...la Luna non è soltanto l'evocazione della bellezza e la luce nell'immensità delle tenebre, essa costituisce anche un'emittente di onde. Così, come i raggi catodici divengono raggi X riflettendosi su una placca di metallo, i possenti raggi solari hanno delle proprietà molto diverse una volta che siano riflessi dal nostro satellite". Le stagioni sono buone a secondo del simbolismo. Può essere il solstizio invernale, caro al Bambinello di Natale; il solstizio estivo con l’emblematica figura di San Giovanni, battezzatore per eccellenza. L’autunno con la morte della natura e immagine della morte mistica; la primavera con il risveglio della natura e immagine del risveglio dell’intelligenza o iniziatica. È durante la notte ermetica (nostro buio) che si possono catturare o condensare le illuminazioni, che però necessitano della calma e purezza della psiche. Queste illuminazioni possono essere più abbondanti soltanto nel mese di maggio, il mese della Madonna o del mercurio filosofico, cioè nello stadio della terza operazione filosofale, quando è stata realizzata la base del Magistero e la psiche non è più vittima di confusioni. Dopo i lavori preliminari, si affronta la Prima Opera, la separazione. Così come in Genesi leggiamo "Dio vide che la luce era buona cosa e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte" (Genesi I, 4 - 5). Per giungere a questo, l'alchimista assiste all'attrazione dei 'tre protagonisti', al loro metaforico 'combattimento', alla loro calcinazione (separazione vera e propria del 'fisso' dal 'volatile', della luce dalle tenebre,dello spirito dalla materia). Allegoria ermetica, tratta dall' "Aurora Consurgens", del XIV-XVsec. (Biblioteca Centrale di Zurigo, codex rhenovacensis 172): incontro-scontro tra le due opposte nature: solforosa e fissa (simboleggiata dal leone, dal cavaliere, e dal Sole, maschile, penetrante, igneo, la ‘psiche'), mercuriale e volatile (simboleggiato nel grifone, leggero, sottile, femminile, lunare, l'Intelligenza Universale). Il 'sale' - il mediatore tra le due - si associa volentieri sia al fisso che al volatile. Il principio maschile (zolfo) dovrà attirare verso di sè la parte solforososa contenuta nella natura mercuriale, e viceversa. Otterrà, al termine di questa prima fase, una sostanza che viene chiamata calamita dei saggi, specchio dell'arte, l'aimant, che sarà in grado di incorporare il nostro 'sale' e allo stesso tempo caricare il 'sale' di energia. È questo uno dei 'passaggi' cruciali alchemici: questo racchiude il verbo dimissum, la parola perduta, il verbo creatore... l'incarnazione di Dio nella materia. Dal vecchio drago nero, solfureo, si otterrà la Bianca Vergine, (statuetta egizia di epoca romana che rappresenta idealmente la nostra 'calamita', il mercurio dei saggi), che recherà una stella o 'artiglio del grifone' (e indicherà all'artista che sta procedendo sulla strada giusta). E' paragonabile al motto "in hoc signo vinces" (con questo segno, vincerai) detto dall’angelo all’imperatore Costantino. Vediamo ora i nostri due protagonisti iniziali sublimati, la vergine e il prete, ma dov'è finito il prode cavaliere, che -armato della sua spada di ferro- aveva affrontato il drago nero e aveva attirato su di sè lo zolfo arsenicale liberando la vergine metallica? Il fatidico 'lingotto' ottenuto, separato in due da un colpo di martello, rivela una parte bassa, lucente e più pesante, quindi raccolta sul fondo dello stampo che raccoglie la fusione e una parte più alta, nerastra, uno scarto solforoso che è chiamato caput mortuum, la testa morta, che è più leggera ed occupa la parte più alta del cilindro...il principio maschile, igneo, si è installato nella terra (il caput). Esso non è inservibile, anzi costituirà uno dei punti cruciali delle successive operazioni. Le due nature dovranno essere nuovamente unite. Dalla testa morta dovrà rinascere lo Spirito divinizzato. Allegoricamente, l'Horus egizio nascerà dal dio Osiride morto; dal sacrifico di Gesù sulla croce, dipenderà la sua divinizzazione e la Redenzione dell'umanità. La croce è simbolo del crogiolo alchemico, dove la materia viene purificata e spiritualizzata. A queste operazioni, lungamente ripetute, gli alchimisti danno il nome di aquile o sublimazioni: allegoria della potenza dell'aquila che porta la preda fin sopra le alte vette, così il potente 'cavaliere' ha saputo portare in superficie la Bianca Vergine che si nascondeva all'interno del Drago Nero Solfureo (ovvero ha separato la Luce dalle Tenebre, lo Spirito dalla Materia). La separazione della prima opera deve ora divenire unione delle due opposte nature per dare origine all'androginia, la perfetta fusione tra maschio-femmina, tra Dio e l'uomo, che provoca la morte della nostra dimensione materiale. Questo nuovo 'prodotto', che in alchimia si chiama rebis, la cosa duplice, è il risultato della seconda Opera. Allegoricamente è il bambino divino, partorito dalla Vergine mercuriale, chiamato in molti modi: remora, Hermes, pesce, mercurio filosofico (da distinguersi dal mercurio dei saggi che lo ha generato)... Ora, il nostro prodotto, chiamato anche uovo filosofico, deve essere sottoposto alla terza prova, quel108
la del fuoco. Incessantemente, la nostra materia continua ad incorporare l'energia 'radiante' perciò aumenta notevolmente di peso. L'alchimia è chiamata anche Arte della Musica perchè in questa fase si producono sette suoni, sette sibili in scala armonica crescente che indicano il buon andamento delle operazioni. Su di esse l'artista deve modulare il 'fuoco' adattandolo in perfetta armonia con il cambiamento delle note. Visivamente, gli è impedito di vedere cosa accade nel suo 'composto', poichè sulla superficie è comparsa una sorta di crosta calcarea, il 'guscio dell'uovo appunto. È la pietra. La sua forza può essere molto differente. In seguito la si moltiplica, per aumentare la sua forza, con il mercurio che si è messo da parte a questo scopo".
La pietra filosofale I collegamenti con i quattro elementi, le quattro stagioni, i quattro momenti del giorno, le quattro età dell'uomo suggeriscono la ciclicità dell'opus alchemico, che ha per simbolo la RUOTA o l'OUROBOROS, il serpente che si morde la coda. Con questo simbolo l'immaginario pagano volle rappresentare il perpetuo moto del mondo, l'unità del Tutto (il cerchio) che si dispiega nella molteplicità delle trasformazioni cicliche (per le sue spire, il serpente è simbolo delle fasi lunari) per tornare poi sempre in sè stessa (la congiunzione della coda con la testa), conciliando così l'apparente contraddizione tra l' "uno" e il "molteplice". Le fasi dell'opus'alchemico sono -a seconda dei trattati- da tre a cinque, ma più comunemente quattro: nigredo ('putrefacio') = fase della materia al nero, grezza, assimilabile al piombo, all'uomo materiale; albedo = contrassegnata dal colore bianco (la vergine bianca, la mente nobilitata); la fase 'citrinitas', contrassegnata dal giallo (l'uovo filosofico); rubedo = corrisponde al rosso e all'oro o pietra filosofale; talvolta è la 'viriditas', corrispondente al verde, colore della vegetazione e della vita. Le quattro fasi simboleggiano un 'sistema' simbolico e ciclico, di cui l'alchimia diventa il cardine, compendiando in sè, e a sè subordinando, ogni altra quadripartizione antropologica e cosmica. Alla 'nigredo' corrisponde l'elemento terra, la notte, l'inverno, la vecchiaia e la morte, la malinconia. All' "albedo" corrisponde l'elmento acqua, l'alba, la primavera, la fanciullezza e l'umore flemmatico. Alla 'citrinitas' corrisponde l'elemento aria, il meriggio, l'estate, la giovinezza. Alla rubedo l'elemento fuoco, la luce limpida dell'autunno e del tramonto, la maturità, la luce dell'illuminazione. L'impresa va sempre ripresa da capo e ripetuta:dalla maturità (il culmine) si ricade nel punto più basso, nell'inverno, la notte, la vecchiaia e la morte, l'interramento e la putrefazione. Ma questa ciclicità è garanzia rasserenante perchè dall'inverno si risalità alla primavera, dalla notte all'alba, dalla morte ad una nuova rinascita (Martin Lutero vedeva nell'opus alchemico il simbolo stesso della resurrezione). Gli alchimisti concordano da migliaia di anni che il Grande Magistero porta all'acquisizione di una triplice corona regale, al conseguimento supremo, cosidetto donum dei (ottenuto da pochissimi Adepti nel corso dei secoli), all'ottenimento della pietra filosofale, detta anche rubino dei saggi, una polvere rossa e granulosa che viene ottenuta al termine della Terza Opera dopo un procedimento lungo e difficoltoso. Il donum dei o pietra filosofale contiene in sè tre proprietà per colui che la consegue: - la panacea o medicina universale (la pietra disciolta in un liquore alcolico produrrebbe l'elisir di lunga vita che, ingerito, è in grado di guarire qualsiasi malattia e di conferire l'Immortalità); la seconda è l'acquisizione dell'onniscenza o scienza innata che gli permette di prendere consapevolezza del passato, del presente e del futuro, del bene e del male (cogliere esattamente il biblico frutto dall'albero della Conoscenza, secondo le regole): il raggiungimento di questo stato è lo scopo supremo della creazione, ovvero l'incarnazione dello spirito divino nella densità della materia; la terza proprietà della pietra è quella trasmutativa, la meno importante ma quella più ricercata dagli avidi e che ha colpito maggiormente l'immaginario popolare: è la capacità della pietra di trasmutare - a sua volta - altre porzioni di metallo in oro. La forma assunta a questo scopo viene chiamata polvere di proiezione, la pietra viene anche chiamata tintura per il suo potere di tingere i metalli vili. Da ciò deriva l'enorme potere di arricchimento detenuto dall'Adepto, che egli userà per scopi strettamente umanitari, avendo egli sviluppato un senso morale parallelo all'elaborazione della pietra e costituendo anzi una conditio sine qua non per la riuscita finale. Leggende, miti universali, fiabe... nascondono un significato alchemico specifico, le cui chiavi le detiene solo colui che è in grado di decifrarlo. Così, perfino l'ingenua fiaba di Biancaneve assume un'interpretazione del tutto 'diversa' da quella cui siamo abituati. Biancaneve incarna la giovane Vergine, la 109
miniera d'oro. I sette nani o gnomi (dal greco gnosis=conoscenza) sono l'aspetto della materia minerale nei suoi sette prolungamenti (i 7 metalli planetari) ed ognuno ha l'aspetto e il carattere del pianeta che lo domina: Saturno, la Luna, Venere, ecc. Ma è il saturnino (Brontolo) a fornire i maggiori servigi al gruppo e a salvare la situazione in molti casi. Biancaneve è consegnata dalla malvagia regina al cacciatore Verde perchè la faccia morire. Ma si tratta di una morte apparente causata dall'ingestione della mela avvelenata e in seguito la giovane Vergine sposerà il Principe dei suoi sogni che è giovane e bello. Egli incarna il nostro Mercurio Filosofale (negli antichi miti, Mercurio aveva come attributo una eterna giovinezza nel volto e nel corpo). Dall'unione del Mercurio e della Vergine (il principe e Bianceneve) nasce la conclusione di tutte le fiabe: vissero felici e contenti ed ebbero molti bambini... La moltiplicazione ermetica ottenuta grazie alla Pietra, risponde all'insegnamento della Genesi "Crescete e moltiplicatevi". In altre sezioni, pur se non diffusamente, ho cercato di fornire un percorso di ricerca che ha toccato i punti salienti della civiltà umana conosciuta, dagli Albori, interrogandoci dapprima sull'Origine stessa della Vita, con le teorie della Scienza che non spiegano gli anacronismi diffusi in ogni tempo; abbiamo identificato una Mitica Età dell'Oro, di Perfezione Edenica, della perduta Atlantide; le cui tracce confluiscono probabilmente verso l'Antico Egitto (l'alchimia occidentale come ci è nota oggi, viene formulata nel II sec. d.C. ad Alessandria d'Egitto in ambiente neoplatonico-gnostico); abbiamo ipotizzato come l'Arca dell'Alleanza dell'enigmatico Mosè potesse essere uno strumento derivato da conoscenze magico alchemiche, ma ne abbiamo anche visto il significato esoterico, sottile; molto probabilmente - l'Alchimia (insieme alle Grandi Scienze Iniziatiche: Cabbala, Astronomia, Geometria Sacra) è stata importata in Europa dai Templari, attraverso il contatto con il mondo Arabo durante le Crociate; ne abbiamo analizzato i simboli collegabili (forse?) al loro 'passaggio' come messaggio universale e ancora controverso nelle interpretazioni correnti; delle magnifiche cattedrali Gotiche, miracoli architettonici che sfidano le leggi fisiche, che sarebbero dei veri e propri 'libri di pietra'. Attraverso le indicazioni dell'enigmatico Adepto Fulcanelli, siamo approdati a Parigi, ed egli ci ha aperto le porte di alcune Dimore Filosofali (vedi Cattedrali Francesi); abbiamo incontrato un esempio di 'convivenza' tra Bibbia e Alchimia (Basilica S. M. Maggiore a Bergamo); incontrato il potere taumaturgico fuso con l'Astrologia, la Magia e la Medicina, nel corso del tempo, fino a giungere all'Illuminismo, e quindi all'ESILIO delle prime oltre i confini dell' ufficialità, relegandole a pseudo scienze, sciocche superstizioni e scalzandole dagli scranni su cui per millenni erano state onorate. Nel Settecento, l'avvento della CHIMICA, della BIOLOGIA, delle scienze 'esatte', di tutte le discipline considerate scientifiche, chiuderà le porte a quell'intricato mondo di simboli e Sapere, che comunque non è scomparso, ma continua ad essere vivo. Abbiamo visto come alcuni enigmatici personaggi in odore di alchimia (Cagliostro) destìno ancora grande interesse; di come altri (Principe di San Severo) portassero avanti esperimenti e studi, di nascosto, riuscendo a raggiungere dei risultati strabilianti e incredibili (e ancora poco noti e considerati), e hanno voluto lasciare un messaggio della loro 'filosofia' nelle loro opere, che vanno analizzate indagandole dal punto di vista simbolico e non solo visivo. Ci siamo occupati dei valori portati avanti dalla Massoneria, che identifica il Tempio con la Costruzione di sè stessi, dalla pietra grezza alla pietra levigata, dall'uomo materiale e grossolano all'Uomo Nuovo, Spiritualizzato e Perfetto, attraverso un linguaggio prettamente simbolico, racchiudendo il Pensiero della Scienza Antica.
Arte e alchimia L'Artista rinascimentale sembra ergersi quale 'Redentore' di una società che deve recuperare il 'senso' del simbolo perduto. È questo significato che è stato travisato, infatti l'arte del Rinascimento è stata intesa riduttivamente alla semplice 'imitazione' delle apparenze esterne, mentre andrebbe indagata in modo più profondo, vedendo in essa l'emulazione dei processi creativi della Natura (in un chiaro parallelismo con l'Alchimia). Durer fu l'inventore della tecnica dell' "acquaforte", sulla quale occorre spendere due parole. La tecnica necessita di una lastra di metallo, su cui agisce un acido che la corrode (proprio come l'acqua mercuriale dissolve la materia prima alchemica), quindi il fuoco scalda e affumica il metallo (sembrano intravedersi i passaggi dell'opus). In questo contesto, risalta in maniera eccelsa una delle opere più famose di Durer. Questa incisione è stata fatta al bulino nel 1514 (la data si può vedere in basso a destra con la sigla dell'artista, ed è inserita anche nel 'quadrato magico' nelle due caselle centrali in basso). Il titolo è "MELEN110
COLIA I": in essa vediamo una figura alata che ha un atteggiamento meditativo, è 'scura' in volto, tiene nella mano destra un compasso e intorno a lei vi sono molti oggetti e strumenti; ogni dettaglio della scena rappresenta un simbolismo ben preciso. Sul numero I sono state avanzate parecchie ipotesi ma la più accreditata pare voglia indicare una condizione primitiva, come il primo gradino della conoscenza da salire, come la prima opera degli alchimisti, come lo stato d'animo di malinconia, di angoscia e travaglio interiore, assimilabile alla notte, alla 'nigredo', all'elemento terra. La donna, infatti, è scura in volto e la scritta sul nastro sorretto dal pipistrello sembra indicare proprio questa condizione di 'melanosi', di 'nigredo', paragonabile ad uno stato d'animo di tristezza, pensosità. A. J. Pernety nel 'Dictionnaire' che pubblicò nel 1758 riporta: "Melancolia significa putrefazione della materia, perchè il colore nero ha qualcosa di triste, e perchè l'umore del corpo umano chiamato melancolia è considerato come bile nera e cotta, che causa vapori tristi e lugubri". Inoltre aggiunge che "La materia al nero degli alchimisti è chiamata anche 'primo segno' dell'opus poichè senza annerimento non ci sarà bianchezza". Si intravede comunque un cammino che porterà all'esito positivo dell'opera, che potrebbe essere rivelato dalle 'ali', segno di elevazione dalla condizione puramente materiale verso quella spirituale, e dalla corona vegetale che cinge il capo (vittoria?) della donna; una borsa vuota giace accanto alle pieghe del suo abito ma forse sarà destinata a riempirsi del simbolico 'oro'. Anche il sole che è sullo sfondo allude al 'sol niger', un sole in eclisse, offuscato ma che tornerà a splendere (fenomeno simboleggiato dall'arcobaleno, realizzazione finale). Sulla sinistra, si nota un "crogiolo" alchimistico (dietro la pietra a parallelepipedo). Sotto la veste della donna 'malinconica' di Durer spunta, sulla destra in basso, un mantice, altro 'attrezzo' dell'alchimista operativo. Dalla prima fase dell'opus sembra che il Durer ci conduca alla seconda, figurativamente riconoscibile nel sole (maschile, igneo) che si immerge nell'acqua (femminile, lunare) per realizzare l'unione dei contrari, dalla quale si arriverà alla realizzazione finale attraverso i 'colori dell'iride', la coda di pavone, l'arcobaleno (felice sviluppo e conclusione dell'opera). Il quadrato magico si inserisce frequentemente in epoca rinascimentale per la sua associazione con le tavole cabalistiche dell'epoca. Questo è un quadrato di Giove, formato da 16 caselle, in cui la somma delle righe verticali, orizzontali e diagonali, fornisce sempre la stessa cifra, il 34. Si potrebbe supporre che come i colori dell'iride si riconducono all'unità della luce bianca - i diversi numeri confluiscano nell'uguaglianza della stessa cifra magica. La particolarità di questo 'quadrato magico' risiede anche nel fatto che esso è presente in una incisione celebrativa del famoso alchimista e medico Paracelso (1493-1541): C'è una ruota appoggiata a quella sorta di 'torre' (l'athanor?), su cui è inciso il 'quadrato magico': sembra una ruota di macina, forse allusiva alla 'macinazione' della materia prima grezza ma sicuramente simbolo della ciclicità del processo della Natura e dell'alchimia. ll putto alato raffigura il mercurio che trasforma sè stesso da materia a spirito. Sopra la torre, che è da intendersi come il "forno alchimistico" in cui avvengono le trasformazioni della materia, vi sono anche una clessidra, una bilancia e un campanello. La bilancia allude ai dosaggi della materia ma è anche simbolo di sublimazione (passaggio da uno stato ad un altro). La clessidra al tempo necessario per la realizzazione della Grande Opera, che si deve svolgere nelle ore notturne, indicate dai numeri romani incisi nel piccolo semiarco sopra la clessidra: VIIII, X, XI, XII, I, II, III, IIII. Quindi, le operazioni si devono svolgere tra le nove di sera e le quattro del mattino. La donna sembra anche attendere, aspettare con pazienza che il processo si svolga secondo i 'canoni'. I sette pioli della scala appoggiata alla 'torre' sembrano ricordare le sette fasi e il sette è un numero magico formato dal tre e dal quattro, guarda caso le stesse cifre che scritte vicine danno 34, la somma delle cifre del quadrato magico. Il 3 corrisponde al divino, all'invisibile mentre il 4 alla terra, al creato e visibile: la scala ha quattro pioli bene in vista mentre gli altri tre occultati. Nei disegni preparatori del Durer, erano sette anche le chiavi che pendono dalla cinta della donna, mentre nell'opera finale sono ridotte a quattro (un 'ripensamento' di intenzioni nell'artista?), ma è palese che una di esse risalti maggiormente sulle altre: solo chi detiene quella giusta potrà aprire il Grande Libro Chiuso della Natura. Altri strumenti sono sparsi, a terra, nell'incisione del Durer: dei chiodi, simbolo della Passione di Cristo-Pietra: la materia subisce un 'martirio' che ha per simbolo stesso quello del Cristo-Lapis. La materia grezza, la nuda pietra simbolica si trasformerà in pietra levigata e perfetta solo dopo un lungo e difficile 111
travaglio, per operare il proprio riscatto: la tenaglia, il martello, i chiodi sono tutti simboli della passione di Cristo. La sfera a terra, e la ruota, indicano il 'vaso' delle trasmutazioni, che dall'Uno portano al molteplice per ritornare poi all'Unità, concetto esplicitato nella "quadratura del cerchio". La donna tiene in mano un compasso, infatti, che allude proprio a questo. Sembra che Durer abbia voluto ipotizzare il processo alchimistico nei suoi tre aspetti: meccanico (strumenti), chimico e interiore (all'interno dell'athanor e di sè stessi) e cosmico (il sole che si accosta all'acqua, lunare). Tutti riunificati nel simbolo della sfera. L'Intelligenza indispensabile alle operazioni potrebbe essere indicata dal capo appoggiato alla mano, che lo regge. Il poliedro sfaccettato allude alla sfaccettatura in piani distinti e separati che devono inglobarsi per ottenere l'unità (la sfera, punto di inizio e di fine di tutta la Grande Opera alchemica). Il tema figurativo di Duerer ritorna in altri artisti. Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553) amico e parente di Martin Lutero. In questa opera del 1532 (conservata a Copenhagen, presso lo Statens Museum) ritroviamo la donna con le ali, la borsa accanto a lei; il cane e la sfera. Duplice allusione hanno i tre pargoli o putti che 'armeggiano' attorno ad essa: simboli dei tre 'agenti' principali dell'Opus ma al contempo indicatori della metafora alchemica del "ludus puerorum", secondo cui il difficile processo alchemico sarebbe in realtà 'un gioco da bambini' per chi possiede la 'chia-ve' dell'interpretazione delle leggi della Natura e ha compreso ormai come procedere. La "nigredo" sembra, nel dipinto di Cranach, concentrata nella fosca nube che al suo interno racchiude delle figure d'incubo, mentre la donna sta scorticando un ramoscello, simbolo della materia che viene sgrossata e liberata dalla propria scorza esteriore e scura, per portare alla luce il chiaro midollo (la parte interiore). Nel dipinto di Domenico Fetti (1589-1624) intitolato "Allegoria alla Malinconia", realizzato all'incirca nel 1621 e conservato a Parigi, al Museo del Louvre, ritroviamo uno dei quattro temperamenti di cui parla l'antichità classica, appunto la Malinconia, che può portare ad una ispirazione geniale o alla depressione. La donna si regge il capo, come nell'incisione del Durer. Ma con l'altra tiene un teschio, di cui tocca la nuca: l'occiput, sede dell'Intelligenza. Il teschio è un simbolismo ricorrente in alchimia. Sotto, un corpo ripiegato su sè stesso, quasi informe e minuscolo nella scena, simbolo della trascurabilità della materia corporea, di cui importante è ciò che la anima, lo Spirito (che è rappresentato alchemicamente dal 'caput mortuum'). Di Georges de La Tour (1593-1652), e del 1644 circa e la "Santa Maria Maddalena medita davanti a un teschio", conservato a Parigi, al Museo del Louvre. La donna tocca il teschio, mentre la luce della fiamma sembra illuminarla; lo sguardo rivolto alla Croce, appoggiata sul tavolo, allude alla Redenzione che, come il Cristo ha ottenuto divinizzandosi, tutti possiamo raggiungere. Sembra di intuire che, dalla meditazione pensosa, possa scaturire il guizzo del genio interiore che, dal buio in cui è immersa, porterà la Luce. Michelangelo, attravero la cerchia degli umanisti della corte di Lorenzo dè Medici, entrò sicuramente a contatto con i concetti filosofici dell'antichità classica e i suoi rimandi alla mitologia ermetica. Nella cupola della Sacrestia Nuova della Chiesa di San Lorenzo, a Firenze, dove trovano posto i sepolcri di Giuliano e Lorenzo de’ Medici, le sette fasi dell'opera sembrano sintetizzarsi nei percorsi concentrici che confluiscono al centro del cerchio e che sono, infatti, sette. Nella stessa Sagrestia Nuova vi sono i sepolcri di Giuliano e Lorenzo de’ Medici, uno di fronte all'altro e ognuno recanti due coppie di sculture: il Sepolcro di Giuliano, duca di Nemours, con le sculture del Giorno e della Notte; il Sepolcro di Lorenzo, duca di Urbino, con le sculture dell'Aurora e del Crepuscolo. Anzitutto, sembra che la figura di ogni duca sia legata virtualmente da un simbolico triangolo con le statue soggiacenti al di sotto. La Notte e il Giorno si voltano le spalle, alludendo alla condizione di seperazione, di opposzione di due diverse nature; tra l'altro la Notte appoggia il capo nella mano proprio come la Melancolia di Durer, ad indicare che i due atteggiamenti sono sinonimi (Notte=malinconia, nerezza, buio mentale e materia primitiva). Sotto la scultura, schiacciato ma non domo, sembra affacciarsi lo stesso volto del Giorno e alcuni volatili. Il 'Giorno' ha qualcosa di 'non finito' dal quale prorompe una luce diffusa. Sul lato opposto, abbiamo l'altro gruppo marmoreo, che sembra più aperto e consecutivo. Le statue appaiono in 'movimento' e 'allungate' (Michelangelo favorì le forme serpentine, dinamiche) tese ad una 112
unione: Crepuscolo e Aurora si 'aprono', per rinnovare il miracolo della Creazione, ovvero garanzia di rinnovamento e resurrezione, tema sottinteso trattandosi di due monumenti funebri. Attraverso l'informe, Michelangelo conferisce alla forma spettacolare realismo e bellezza: Dio ha concesso all'uomo la possibilità di realizzazione, che l'artista rinascimentale fa proprie, a 'somiglianza' ed emulazione delle sue virtù demiurgiche: Dio è la meta stessa da raggiungere, verso cui bisogna proiettarsi e Michelangelo lo fa con la forza delle proprie opere. Che egli conoscesse le metafore dell'alchimia appare evidente da alcuni suoi scritti, come questo ad esempio: "Io sto rinchiuso come le midolla da la sua scorza, qua pover e solo, come spirto legato in un'ampolla" Tra i contemporanei del geniale Michelangelo, va citato Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino (1503-1540), precursore del manierismo. Egli si occupò di alchimia in senso chimico e della ricerca dell'oro materiale, come ebbe a scrivere di lui un altro grande, il Vasari: " ...avendo cominciato a studiare le cose dell'alchimia (...) perdeva tutto il giorno a tramenare carboni, legna, bocce di vetro (...); e non avendo altra entrata, e pur bisognandogli anco vivere, si veniva così consumando con questi suoi fornelli a poco a poco". C'è da dire che proprio 'tutto il giorno' non lo perdeva sicuramente dietro ai fornelli dal momento che ha prodotto tante opere e tutte straordinarie, dalla forma gentile ed elegante; i suoi personaggi sono contraddistinti da una raffinatissima eleganza, da un allungamento delle proporzioni, e usava colori cangianti. Però, nell'ultima parte della sua vita, è pur vero che tralasciò il proprio lavoro per dedicarsi totalmente all'alchimia. Nel celebre dipinto della Madonna dal collo lungo, che risale al 1535 ed è conservato a Firenze, presso la Galleria degli Uffizi, notiamo qualcosa di interessante per la ricerca del simbolismo alchemico. Cronologicamente siamo verso l'ultima fase dello stile dell'artista, in cui si vede l'esasperazione delle forme, la presenza dei contrasti (figure grandi e piccole, superfici vuote e quelle traboccanti di forme), E’ probabile un intensificarsi del misticismo nell'autore. Di interesse particolare è il vaso ovale sorretto dall'angelo sulla sinistra: in trasparenza si vede all'interno una croce portata da due angeli. Un richiamo all'alchimia evidente, in cui si ravvisa l'iconografia del mercurio all'interno del vaso-uovo, da cui scaturirà la materia spiritualizzata, proprio come Michelangelo aveva definito "spirto legato in un'ampolla". La croce, è simbolo di Cristo-Pietra dell'alchimia cristiana. Per analogia, la Vergine stessa assume nel dipinto la valenza di 'vaso' da cui è venuto, per Spirito Divino, il Cristo-Lapis (uomo divinizzato). L'enigmatico Hieronymus Bosch (vero nome Jeroen Anthoniszoon Van Aeken, 1450-1516) è del tutto singolare dal punto di vista tematico, poichè riprende numerosi temi dell'iconografia cristiana ma trasformandoli secondo il proprio linguaggio figurativo che appare visionario. Pur rimanendo ancora nell'ambito di una attenta ricerca da parte degli studiosi, il suo simbolismo può ricordare quello ermetico-alchemico, anticipando quanto faranno i surrealisti in seguito. Del resto, gli alchimisti da sempre hanno occultato nei contesti più svariati i loro 'messaggi' e probabilmente Bosch non è stato da meno, pur tuttavia conferendovi una rivisitazione del tutto personale. Così possiamo osservare come nel suo famosissimo "Trittico delle Delizie" trovino posto figure nere, bianche, vetri trasparenti, amplessi simbolici nell'acqua, coppie all'interno di ampolle, fantasie vegetali, la diffusione dei colori rossi... I 'fuochi dell'inferno' ricordano la prima operazione alchemica della calcinazione, le fontane che sembrano complicati alambicchi... In questo apparente 'caos' materiale c'è in realtà una ricerca di armonia che attraverso l'ossessione della confusione della mente rozza, vuole raggiungere la felicità filosofale della mente nobilitata, della materia spiritualizzata. Anche Leonardo (1452-1519) ebbe quasi certamente contatti con la materia alchimistica e la sua celeberrima opera, la Gioconda, realizzato nel 1505 circa e conservato al Louvre di Parigi, 'gioca' su uno dei punti-cardine alchemici: l'androginia. Molto si è discusso chi fosse questa donna, che non ha una vera e proria identità, sembra assumere sia un carattere maschile come femminile, allusivo. Il famoso 'sorriso' sembra racchiudere questo segreto. Nel 1919, un artista francese, Marcel Duchamp, creerà un dipinto uguale apponendo dei vistosi BAFFI alla Gioconda. Quello che potrebbe apparire un gesto dissacratorio, nasconde forse l'intuizione sottile dell'ermetismo e dell'androginia... 113
Giorgione (1477-1510) e Tiziano1488-1576) mostreranno grande attenzione per gli elementi della Natura, palesando che la loro arte è un'imitazione della Natura stessa. Dall'unione armoniosa dei 4 elementi scaturisce la Perfezione, altrimenti c'è separazione e morte. A seconda del loro grado di perfezione del loro 'mescolamento', si hanno forme di vita più o meno evolute, dal regno vegetale a quello animale. Questa è la teoria percepita alla base del dipinto "La Tempesta" di Giorgione. Mentre Tiziano, nel dipinto "Concerto campestre", del 1511, conservato a Parigi presso il Museo del Louvre, sembra alludere alla concertazione dei quattro elementi, per realizzare quel divino 'accordo' che mette in vibrazione armonica l'universo e le sue manifestazioni (macro e microcosmo). La figura di sinistra potrebbe identificarsi con l'elemento acqua, il suonatore vestito di rosso il fuoco, l'aria il giovane con i capelli rigonfi, e la terra la figura seduta di donna. Nel corso del '500 l'alchimia conobbe un forte impulso presso molte corti italiane ed europee. A Firenze, la famiglia dè Medici si aprì a tali studi circondandosi di filosofi, poeti, pittori, musicisti e anche sperimentando in molti casi a livello chimico la pratica alchemica. Francesco I dè Medici (1541-1587) si fece costruire uno Studiolo Alchemico, in Palazzo Vecchio, ora Museo. Vi è un dipinto di Giovanni Stradano intitolato "Il laboratorio dell'alchimista", presente nello Studiolo. Questa stanza, che il Granduca si fece allestire, è un ambiente al primo piano, sul lato sud del Palazzo, molto particolare e intrisa di mistero. Ogni sua parte è decorata con un complesso di pitture e statue allegoriche, raffiguranti i concetti fondamentali dell'alchimia, della quale era studioso appassionato. Qui egli si ritirava in meditazione, poichè l' "officina" dove 'passare alla pratica' alchemica pare fosse ubicata presso la Chiesa di San Marco. Presso il museo di Storia della Scienza, a Firenze, si può ancor oggi ammirare una interessante ricostruzione del 'laboratorio alchemico', nei sotterranei. Pare che Francesco I dè Medici avesse scoperto per primo il segreto per fondere il cristallo di rocca facendone vasi; fondò una scuola per la lavorazione delle pietre dure, che esiste tuttoggi; fu tra i primi a produrre gemme artificiali ed inaugurò proprio a Firenze la lavorazione della porcellana a imitazione di quella cinese. Si narra che fosse riuscito a realizzare una sorta di 'elixir vitae', un 'olio di vetriolo', potente afrodisiaco; pare che finisse per restare vittima dei suoi stessi preparati farmaceutici, che esigeva di 'testare' in prima persona. Molti appartenenti al clero cristiano diressero gli interessi e le ricerche proprio verso l'alchimia. Il Cardinale Francesco del Monte, ad esempio, ambasciatore della famiglia dè Medici a Roma, aveva aperto una "distilleria" di cui, nel 1597, fece affrescare uno degli ambienti dal CARAVAGGIO (1571-1610), oggi visibile nel soffitto del Casino di Villa Ludovisi, a Roma. In questo dipinto sono raffigurati Giove, Plutone e Nettuno che, secondo il racconto di Omero, si spartirono, rispettivamente, il dominio del cielo, della terra e dell'acqua. Nacque la corrispondenza che Plutone simboleggi la terra, Nettuno l'acqua, Giove l'aria. In alchimia questa corrispondenza designa i tre stati della materia (solido, liquido, gassoso) e da essi la trasmutazione finale in luce (fuoco). Nel dipinto si intuisce l'allegoria del processo di trasmutazione della materia, in cui dal 'passaggio' dai vari stati si giunge alla 'pietra filosofale', sintetizzata nel globo luminoso, che rappresenta il cosmo in cui si vedono sole e luna in congiunzione, la fascia dei segni zodiacali (di cui sono chiaramente indicati Ariete, Toro e Gemelli, sotto i quali l'opus doveva compiersi secondo un antico precetto). La realizzazione della 'pietra' mima la Creazione, di cui una bella frase di Cesare della Riviera (1603) ci fornisce una sintesi concettuale: " Far la pietra dè Filosofi altro non è che fare il mondo picciolo, e la produttione della luce è la prima giornata della formazione di quello (...) Fassi cotal magistero, mediante la divisione delli quattro elementi, nella quale la luce viene seprata dalle tenebre". Nel dipinto del Caravaggio sono ben rappresentati tali allegorie, il tutto appare 'pervaso' da un fluido cosmico, assimilabile al 'sale' o Fuoco Segreto (o Mercurio celeste) o Spirito Universale. Tra i nobili che furono particolarmente interessati all'alchimia troviamo, in Europa, l'imperatore Rodolfo II (1552-1612) che si fece raffigurare come il dio romano del capodanno e del commercio, Vertumno, cui la mitologia attribuisce un'illimitata capacità di trasformazione. È abbastanza evidente l'allegoria con l'alchimia. Il dipinto. del 1590 conservato presso il castello Stokloster ad Uppsala, fu eseguito da Giuseppe Arcimboldo (1527-1593). Tra l'altro si potrebbe ricercare un significato ancora più sottile, cioè quello di considerare tutte le cose costitutite dalle stesse componenti di base, provenienti dalla stessa origine, organizzate secondo 'forme' diverse, con una vibrazione diversa ma sulla quale -tramite una opportuna armonizzazione- tutto potrebbe essere messo in comunicazione e sulla stessa frequenza. Il dipinto merita sicuramente un interesse profondo oltre quella che comunemente si considera una visione ironica dei tratti del monarca interpretata dall'Arcimboldo (pittore singolare, attento a fondere fini allegorie con il Mondo della Natura). 114
Il Parmigianino e l'alchimia Le fonti Ne Le Vite, edizione del 1550, Vasari attribuisce al Parmigianino un inte-resse così forte e dissennato per l’alchimia da averlo condotto alla rovina: “Et volse con quello, che non potè mai imparare, perdere la spesa e il tempo, et farsi danno alla propria vita. Et questo fu ch’egli stillando cercava l’archimia dell’oro, et non si accorgeva lo stolto, ch’aveva l’archimia nel cervello. Ma il cervello, che aveva a continovi ghiribizzi di strane fantasie, lo tirava fuor de l’arte: potendo egli guadagnare quello oro, che egli stesso avrebbe voluto: con quello che la natura nel dipignere, e il suo genio gli avevano far le figure; le quali con pochi imbratamenti di colori, senza spesa, traggono de le borse altrui le centinaia de gli scudi. Ma egli in questa cosa invanito, et perdutovi il cervello, sempre fu povero; e tal cosa gli fa perdere tempo grandissimo, et odiarlo da infiniti, che più per il suo danno, che per il loro bisogno, di ciò si dolevano...” L’interesse del Parmigianino per l’alchimia è collocato da Vasari in un’epoca ben precisa della vita del pittore, quella più estrema: “Poi si tolse a fare alla Madonna della Steccata una opera grandissima a fresco... In questo tempo si diede all’alchimia, et pensando in breve arricchirne, tentava di congelare il Mercurio...”. Il lavoro alchemico avrebbe provocato il dissesto economico e la rovina mentale dell’artista, che sempre più trascurava i pennelli per dedicarsi alle manipolazioni alchemiche: “Perché tenendo egli di molti fornelli et spese, non poteva riscuotere tanto dell’opera, quanto in tal cosa consumava. La qual pazzia fu cagione, ch’egli lasciato per dilettazione di tal novella, la utilità e il nome dell’arte propria, per la finta et vana, in malissimo disordine della vita e dell’animo si condusse”. Presto l’interesse per l’alchimia divenne così esclusivo da impedire di concludere il lavoro alla Steccata, incorrendo nelle ire dei committenti, che si rivolsero alla giustizia: “Là onde egli non potendo resistere, una notte si partì di Parma; et con alcuni suoi amici si fuggì a San Secondo; et quivi incognito dimorò molti mesi, di continuo alla alchimia attendendo. Et perciò aveva preso aria di mezzo stolto; et già la barba e i capelli cresciutigli, aveva più viso d’uomo salvatico, che di persona gentile come egli era”. Sempre secondo la testimonianza di Vasari, l’alchimia fu indirettamente la causa della morte dell’artista, poiché, essendosi il Parmigianino riavvicinato a Parma, i committenti lo fecero imprigionare, costringendolo alla promessa di dar fine all’opera. “Ma fu tanto lo sdegno che di tal cattura prese, che accorandosi di dolore, dopo alcuni mesi si morì d’anni XXXI...”. L’edizione 1568 de Le Vite tratteggia in modo più dettagliato le condizioni del Parmigianino alle prese con la febbre per l’alchimia: “Intanto cominciò Francesco a dismettere l’opera della Steccata, o almeno a fare tanto adagio, che si conosceva che v’andava di male gambe; e questo avveniva, perché avendo cominciato a studiare le cose dell’alchimia, aveva tralasciato del tutto le cose della pittura, pensando di dover tosto arricchire, congelando mercurio; ...e non avendo altra entrata, e pur bisognandogli anco vivere, si veniva così consumando con questi suoi fornelli a poco a poco...”. In questa versione de Le Vite il Parmigianino, abbandonata la Steccata dopo la lite con i committenti, fuggì a Casal Maggiore “dove uscitogli alquanto di capo l’alchimie, fece per la chiesa di Santo Stefano, in una tavola la nostra Donna in aria, e da basso San Giovanbattista e Santo Stefano...”. Fu una breve tregua, poiché “Francesco, finalmente, avendo per sempre l’animo a quella sua alchimia, come gli altri che le impazzano dietro una volta, ed essendo di delicato e gentile, fatto con la barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo salvatico ed un altro da quello che era stato, fu assalito, essendo mal condotto e fatto malinconico e strano, da una febbre grave e da un flusso crudele, che lo fecero in pochi giorni passare a miglior vita...”. A condurre l’artista alla tomba non sarebbe stato dunque il dispiacere per l’essere stato condotto in prigione, ma una malattia caratterizzata da malinconia e febbre.
La fine del Parmigianino: testimonianza storica o stereotipo letterario? La testimonianza del Vasari non è accettata da tutti. D’altro canto, la tradizione del Parmigianino alchimista tramandataci da Vasari non non era unanime, se appena sette anni dopo la prima edizione de Le Vite, in Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (Venezia 1557) L. Dolce scriveva che “Il Parmigianino 115
fu incolpato a torto ch’egli attendesse all’alchimia...”. M. Fagiolo Dell’Arco e altri autori prima di lui(86) rifiutano la versione del Dolce ritenendo che essa nascesse da un atteggiamento moralistico: a loro avviso, L. Dolce condivideva l’opinione di quanti nel suo tempo consideravano l’alchimia un’arte eticamente riprovevole, e smentiva di proposito la fama alchimistica del Parmigianino per non screditare la figura dell’artista. È anche vero che la versione di Vasari è avvalorata da un’altra attendibile fonte quasi coeva, Edoari da Herba, che ricorda il Parmigianino come “peritissimo alchimista”. Se consideriamo l’effettiva posizione dell’alchimia nella società europea del XVI secolo, troviamo che le motivazioni addotte per rifiutare la testimonianza di L. Dolce sono labili. L’alchimia non fu mai considerata arte eticamente illecita, salvo nei casi in cui essa fu piegata alla falsificazione dei metalli a scopo di lucro. Nel XIV e XV secolo la questione della liceità dell’alchimia era stata ampiamente soppesata da teologi e giuristi: i primi tendevano a ritenere l’alchimia una scienza falsa ma non magica o diabolica (tale era la posizione espressa, ad esempio, nel 1486-1487 nel manuale inquisitoriale Malleus Maleficarum di H. Institor e J. Sprenger); i secondi si schierano pressoché unanimemente per la liceità dell’alchimia, al punto che sul finire del XV secolo Hyeronimus de Zanetinis prendeva atto dell’esistenza di una tradizione giuridica di due secoli a favore dell’alchimia(87). D’altro canto, per gli stessi motivi la testimonianza del Vasari sull’interesse del Parmigianino per l’alchimia non può essere rifiutata a priori. I rapporti tra pittura e alchimia nel XV/XVI secolo sono stati ormai ampiamente dimostrati(88). Pittori alchimisti furono van Eyck e Beccafumi. E di Cosimo Rosselli (1439-1507) lo stesso Vasari scrive che “La sua passione per l’alchimia fu causa...che lo condusse ad un’estrema povertà”. Semmai questa seconda testimonianza del Vasari, riferita a Rosselli e anch’essa centrata sull’interesse per l’alchimia come fattore che conduce l’artista alla rovina, dovrebbe costringerci a chiederci quanto siano attendibili i dettagli vasariani sulla fine del Parmigianino. Dai brani sopra citati, dal loro tono, appare chiaro che Vasari ritiene l’alchimia una scienza illusoria. Nella cultura europea del Medioevo e del Rinascimento l’alchimia fu accolta con sentimenti contrastanti(89). Se da un lato l’alchimia fa studiata o praticata anche da principi e re, dall’altro essa non riuscì a entrare nelle università, dove pure era accolta e insegnata l’astrologia. Come si già detto, i teologi tendevano a considerare l’alchimia una falsa scienza, in ciò seguendo il giudizio di Tommaso d’Aquino, per il quale l’alchimia era una scienza teoricamente possibile ma i cui procedimenti di imitazione della natura molto difficilmente potevano essere realizzati in laboratorio.(90) Sulla liceità dell’alchimia non disputavano solo teologi e giuristi. Anche eruditi e uomini di scienza polemizzavano spesso se l’alchimia fosse scienza vera o falsa, e su questo problema scrissero dei trattati. Il più noto di questi testi era la Pretiosa margarita novella, opera scritta nel 1330 circa dal medico lombardo Pietro Bono e ancora molto nota all’epoca del Parmigianino, tanto da essere stampata a Venezia nel 1546.(91) E nel 1544 fu scritto a Firenze Questione sull’alchimia di Benedetto Varchi, che discettava se l’alchimia fosse “vera e lodevole, o falsa e biasimevole”.(92) I dubbi sull’alchimia erano stati accolti da figure di spicco della cultura europea del XIV-XVI secolo, ispirando un modello letterario che raffigurava l’aspirante alchimista come un disgraziato che va incontro alla rovina personale e sociale. Nel De remediis utriusque fortunae, del 1366 circa, Francesco Petrarca scriveva: “Individui ricchissimi si consumano per tale futilità. E mentre si sforzano di diventare più ricchi, dedicandosi a questa brutta faccenda, gettano via malamente le ricchezze guadagnate bene. E infine, avendo speso così i loro averi, viene loro a mancare perfino quanto è necessario ai più elementari bisogni. Alcuni, evitando la conversazione degli altri cittadini, se ne stanno in disparte, angosciati e addolorati, avendo preso l'abitudine di non pensare ad altro che ai mantici, alle pinze e ai carboni, e di non frequentare altri che non appartengano alla stessa eretica consorteria; e quasi diventano uomini selvatici. Alcuni, avendo smarrito dapprima la luce della ragione, hanno poi perso anche la luce degli occhi in questo esercizio".(93) Per Petrarca la pratica dell'Arte conduce al disordine della vita individuale e famigliare. Egli così avverte l’aspirante alchimista: "La tua casa si riempirà di ospiti strani e di apparecchi bizzarri. Si riempirà di mangioni e di beoni... di bugiardi, di impostori e di soffiatori... In ogni angolo della casa vi saranno bacinelle, fiale e bocce piene di acqua fetida, di erbe sconosciute, di strani sali, solfo, alambicchi e fornelli.... Vi saranno affanni inutili, stoltizia, squallore del viso e caliggine degli occhi... Condurrai la tua vita 116
con vergogna e con biasimo, lavorando di notte, nascondendoti come i ladri".(94) Anche per Geoffrey Chaucer - ne il Racconto del famiglio del canonico, uno del Canterbury Tales, 1388 - l'alchimia è una "dannata" e "balorda scienza sfuggente", che riduce sul lastrico coloro che la perseguono, e gli alchimisti vi sono descritti come individui che ovunque si rechino possono essere riconosciuti per l'odore di zolfo che emanano e per il loro aspetto male in arnese. Lo stereotipo letterario dell'alchimista folle si rinforzò nei decenni a ca-vallo tra XV e XVI secolo. Nel 1494 fu pubblicato a Basilea il poema satirico-didascalico Narrenschiff (Nave dei folli) di Sebastian Brant, che metteva alla berlina anche quanti desideravano arricchirsi con "la brutta menzogna dell'alchimia", riuscendo soltanto a ridurre in polvere e cenere le loro ricchezze. Nell'Elogio della follia (1511) di Erasmo da Rotterdam gli alchimisti sono: "Coloro che con nuove e misteriose arti cercano di trasformare la specie naturale delle cose e vanno a caccia per terra e per mare di una misteriosa quintessenza. Questa dolce speranza li domina tanto che non retrocedono davanti ad alcuna fatica né spesa, e con meravigliosa inventiva escogitano ogni volta qualcos'altro, e, se s'ingannano, godono persino della delusione, finché, sfumato tutto il loro avere, non hanno più neanche il necessario per costruirsi una stufetta".(95) D’altro canto, queste raffigurazioni letterarie dell’alchimista corrispondevano ad una realtà precisa. Nel De secretissimo philosophico opere chemico, attribuito all’alchimista tedesco Bernardo di Treves e certamente scritto nella seconda metà del XV secolo(96), l’autore descrive la vicenda della propria ricerca alchimistica come un ininterrotto dilapidare per decenni le sostanze di famiglia in inutili esperimenti. Il presunto Bernardo di Treves descrive l’alchimia dell’epoca come una specie di follia collettiva che aveva investito l’Europa: “Ho visto molti uomini, anzi infiniti, che si affaticavano in queste amalgamazioni e nelle moltiplicazioni al bianco e al rosso, con tutte le materie immaginabili...”(97). Ad un certo punto la vergogna del fallimento è tale che: “Per la qualcosa, non potendo quasi né bere né mangiare, diventai così magro che tutti pensavano fossi stato intossicato da qualche veleno...”.(98) Parmigianino apparteneva realmente alla schiera degli “infiniti” che “congelavano il mercurio” fino all’autodistruzione fisica o il Vasari volle soltanto rappresentare la morte dell’artista - in realtà dovuta a qualche malanno ignoto - secondo lo stereotipo letterario sull’alchimia così in voga nel suo tempo? Alla luce degli elementi disponibili, entrambe le ipotesi sembrano possibili. In che cosa consisteva la ricerca alchemica all’epoca del Parmigianino? L’alchimia era arrivata in Europa alla metà del XII secolo, con le traduzioni in latino effettuate sui testi arabi, in Spagna. Prima di quest’epoca erano giunti in Europa da Bisanzio solo pochi trattati ellenistici sulle tinture dei metalli. E infatti nella prefazione alla propria traduzione in latino del testo arabo poi noto come Libro di re Khalid, effettuata nel 1144, Roberto di Chester scriveva: “Cosa sia l’alchimia, e quale sia la sua composizione, che la latinità non ha ancora conosciuto, lo spiegherò in questo libro”.(99) L’alchimia araba era a sua volta l’erede dell’alchimia ellenistica, fiorita in Egitto nei primi secoli della nostra era. La questione delle origini dell’alchimia è complessa, e la discussione delle diverse ipotesi esula da questa sede. E’ appena necessario sapere che l’alchimia nacque dall’incontro in Egitto tra tecniche artigianali di lavorazione e di falsificazione dei metalli, speculazioni magico mistiche orientali (persiane e forse ebraiche) e la gnosi ermetica. Già nelle prime opere di alchimia a noi note (trattati di Zosimo di Panopolis, il Libro di Comario, etc.(100) la ricerca della trasmutazione dei metalli vili in oro si sovrappone e si confonde con quella della rigenerazione spirituale dell’operatore. Come il metallo vile viene fatto morire nel crogiolo perché possa rinascere purificato come metallo perfetto e immortale (l’oro), così - su un diverso piano - l’alchimista persegue un processo di morte e purificazione spi-rituali per riconquistare la perfezione dell’uomo edenico. Nell’ellenistico Il libro di Comario mezzo di tale duplice trasformazione è un pharmakon di vita che si ottiene con il lavoro alchemico. Se l’alchimia (o Arte sacra, come la chiamavano gli alchimisti ellenistici) era certamente ispirata dalla gnosi ermetica, è altrettanto certo che tra i testi ermetici propriamente detti (posti cioè sotto il nome di Hermes Trismegisto) a noi noti esistono libri di magia e di astrologia, ma non un solo testo di alchimia. Anche se Hermes viene indicato come padre dell’Arte sacra dallo stesso Zosimo, ermetismo e Arte sacra non sono sinonimi. Dall’Egitto ellenistico l’alchimia si attestò in Siria, dove probabilmente si arricchì di elementi dottrinari provenienti dall’estremo Oriente, e da lì fu assorbita dalla cultura araba. Anche tra gli arabi l’alchimia fu un insieme inestricabile nella cui letteratura i segreti sulla lavorazione dei metalli si mischiano a quelli che dovrebbero consentire all’alchimista di riconquistare la perfezione primordiale.(101) Per qualche tempo l’alchimia latina conobbe soltanto le traduzioni dei testi arabi, come le opere di Jabir, la Tavola smeraldina, la Turba dei Filosofi, etc. Agli inizi del XIII secolo apparvero i primi testi origi117
nali di alchimia latina, compresi alcuni trattati presentati come traduzioni di libri di Jabir (latinizzato Geber) ma in realtà scritti da un europeo. All’epoca del Parmigianino i testi di riferimento erano costituiti dalle traduzioni dall’arabo sopra citate, dai libri del falso Geber, dalle opere di Arnaldo di Villanova, dello pseudo Raimondo Lullo, di Giovanni di Rupescissa, di Bernardo di Treves. Nei trattati di alchimia latina sono prevalenti (o forse sono più evidenti) gli aspetti tecnici legati alla lavorazione dei metalli rispetto alle pretese magico-mistiche, anche se ad una più profonda lettura alcuni di essi sono interpretabili anche come tecniche di manipolazioni delle energie psicofisiche, in linea con le pretese di parte dell’alchimia cinese, ellenistica ed araba. Capisaldi teorici della prima alchimia latina sono: l’unità della materia; i due princìpi (Solfo e Argento vivo); la teoria dell’evoluzione dei metalli (che nella miniera si trasformano da imperfetti a perfetti grazie agli influssi delle forze naturali, per cui l’alchimista non fa altro che riprodurre in laboratorio, con ritmo accelerato, l’opera della natura); la suddivisione delle operazioni in sette o più fasi (caratterizzate da cambiamenti di colore della materia lavorata, di cui le principali sono nigredo, albedo e rubedo); la fabbricazione della Pietra filosofale e/o dell’Elisir al rosso come obiettivo finale della ricerca. Questo sistema rimase pressoché immutato fino a Paracelso (1493 o 1494-1541), che spostò l’accento dell’alchimia sugli aspetti naturalistici e medici, facendo dell’alchimia una scienza finalizzata non più alla fabbricazione dell’oro ma alla preparazione di medicine per curare i malati(102). Da un punto di vista tecnico Paracelso non fu un innovatore, poiché riprese idee e scoperte di Villanova, Rupescissa, lo pesudo Lullo. Fu soltanto con Paracelso però che i due principi costitutivi della materia (Solfo e Mercurio o Argento Vivo) divennero tre (i tria prima) con l’aggiunta del Sale (principio “neutro”) ai primi due. I libri di Paracelso divennero noti dopo la sua morte. Ne consegue, ad esempio, che il Parmigianino non poteva conoscerli e che l’alchimia cui si dedicò era quella pre-paracelsiana, basata su due soli principi costitutivi della materia. L’epoca di Parmigianino, invece, fu quella della riscoperta della filosofia ermetica che fece seguito alla traduzione in latino (dal greco) - da parte di Marsilio Ficino - del Corpus Hermeticum, raccolta di 17 trattati attribuiti al mitico Hermes Trismegisto importata nella Firenze di Cosimo de’ Medici nel 1460 dall’impero di Bisanzio. Fino ad allora si era attribuita ad Hermes grande fama, ritenendolo un sapiente realmente vissuto in tempi remoti, il quale secondo l’interpretazione di Lattanzio (III-IV secolo) aveva addirittura profetizzato l’avvento del Cristo. Nel contempo tra gli scritti ermetici si conosceva solo il Pimandro e qualche frammento. La traduzione del corpus fece diventare l’ermetismo una filosofia alla moda nel mondo rinascimentale. Influenzata dall’ermetismo nacque una magia rinascimentale dotta, che soppiantò la vecchia magia diabolica e popolare dei grimori. In questo spirito erano nate la qabbalah cristiana di Pico della Mirandola (1463-1494) e la occulta philosophia di Cornelio Agrippa (1486-1535). Imbevuto di ermetismo, neoplatonismo e qabbalah (oltre che della “vecchia” astrologia), il mago rinascimentale divenne un sapiente che mirava alla conoscenza suprema, usando strumenti come la meditazione sui simboli e le speculazioni sui numeri e le lettere dell’alfabeto(103).
Sul simbolismo di alcune opere Chi ha ricercato tracce di simbolismo alchemico nelle opere del Parmigianino si è soffermato soprattutto sul ritratto del conte Sanvitale (1524), sull’affresco ispirato al mito di Atteone a Fontanellato (1524) e sulla decorazione incompiuta della Chiesa di S. Maria della Steccata, affidata al pittore nel 1531. Bisogna notare, anzitutto, che se si presta fede a Vasari le prime due opere furono eseguite alcuni anni prima che il pittore cominciasse ad interessarsi all’alchimia. Il ritratto Sanvitale - Comunque, ad attirare l’attenzione generale di quanti hanno cercato i segni del simbolismo alchemico anche nelle opere precedenti gli anni dell’interesse alchemico del Parmigianino è stato soprattutto il numero 72 raffigurato nel medaglione posto nella mano destra del conte Sanvitale. Per Fagiolo Dell’Arco esso avrebbe un chiaro significato ermetico, poiché - in base alle corrispondenze numeri/pianeti/metalli - il 2 corrisponde a Giove e il 7 alla Luna, il che equivarrebbe ad una coniunctio (la congiunzione tra gli opposti è uno dei capisaldi delle pratiche alchemiche)(104). Ma l’autentica congiunzione di cui parlano gli alchimisti è quella tra Re e Regina, tra principio maschile e femminile, ossia tra Solfo e Mercurio, simbolicamente raffigurato in tutta l’iconografia alchemica come unione tra Sole e Luna, e non tra Giove e Luna. D’altro canto, le corrispondenze tra numeri e 118
pianeti variava quasi da autore ad autore di alchimia. E infatti per Van Lennep, che evidentemente attinge a fonte diversa da Fagiolo dell’Arco, il 7 è il numero di Saturno e il 2 quello di Giove(105). Per C. Mutti addirittura il 72 corrisponde all’unità nel tutto(106). Se proprio avesse senso cercare un significato al 72 in chiave di simbolismo alchemico, si dovrebbe dire più semplicemente che il 7 è il numero dei metalli e dei pianeti e che 2 è il numero dei due princìpi costituitivi della materia metallica al tempo del Parmigianino (Solfo e Mercurio, poiché il terzo principio, come già detto, fu introdotto solo da Paracelso). L’affresco del mito di Atteone - Quanto al mito di Atteone, per Fagiolo dell’Arco si tratta anch’esso di un simbolo della congiunzione(107). Mutti e Van Lennep vi vedono una rappresentazione del “furore eroico”, poiché tale era il significato ermetico attribuito a questo mito da Giordano Bruno. Bruno visse dopo Parmigianino e come filosofo ermetico non era minimamente interessato all’alchimia, anzi nella sua commedia Il candelaio mise alla berlina le ricerche alchemiche: ciò dimostra una volta di più che nel Rinascimento filosofia e magia ermetica non coincidevano con le teorie alchemiche, e l’interesse per l’alchimia non coincideva necessariamente con l’interesse per la magia erme-tica e viceversa. È pur vero che gli alchimisti usavano attribuire significati alchemici ai miti dell’antichità. Quest’uso fu molto in voga nel XVII e XVIII secolo, ma i suoi presupposti risalgono a molto prima. In De Alchemia dialogi duo (1548) l’italiano Giovanni Bracesco già forniva i significati alchemici di una serie di miti e di personaggi della mitologia greca, tra i quali non figura comunque il mito di Atteone. In realtà le miniature dei manoscritti alchemici dimostrano come il simbolismo alchemico tra XIV e XV secolo avesse connotazioni diverse da quelle mitologiche(108). E anche l’esame dei manoscritti alchemici circolanti in Italia fatta da Giovanni Carbonelli mostra immagini che fanno riferimento piuttosto ad aquile, draghi, alberi, sole, luna, stelle ed altri simboli non mitologici(109). È ben vero che - come sostiene Fagiolo dell’Arco - la metamorfosi di Atteone potrebbe voler significare la metamorfosi della materia e dell’operatore stesso così cara all’alchimia, ma è impossibile dimostrare che questo fosse il significato profondo dell’affresco. D’altro canto, ne La metamorfosi di Atteone il dettaglio delle donne al bagno ricorda piuttosto, anche sotto l’aspetto formale, un dettaglio di una delle 22 miniature dello Splendor Solis, testo di alchimia del XVI secolo (la copia più antica è del 1532-1535), in cui le bianche figure femminili che si bagnano in una vasca simboleggiano piuttosto il bagno di Diana ossia l’albedo (processo di imbiancamento). Semmai si insistesse a ricercare significato alchemico in quest’affresco, il senso occulto dell’opera sarebbe questo, essendo il bagno di Diana un simbolo ben noto all’alchimia dell’epoca del Parmigianino. La Steccata - Risalendo ad un periodo successivo all’approccio di Parmigianino all’alchimia, l’affresco della Steccata dovrebbe essere l’opera dell’artista nella quale ricercare con più attenzione tracce del simbolismo alchemico. In realtà nell’opera non appare nulla di così evidente. Esistono tuttavia alcuni elementi sui quali conviene soffermarsi. L’insieme costituito dalla tre vergini stolte e le tre vergini savie è caratterizzato dal fatto che le sei vergini sono tutte raffigurate con un’anfora sul capo. Il modello iconografico della fanciulla che reca un’anfora sul capo non è sconosciuto all’alchimia. Vedasi l’insieme delle quattro figure femminili con l’anfora sul capo che simboleggiano i quattro elementi e le corrispondenti fasi della Grande Opera in un’incisione del primo Seicento(110). Nel caso delle immagini alchemiche, però, l’elemento centrale è costituito non dalle figure femminili ma in ciò che si intravede nei vasi semitrasparenti che recano sul capo. Nell’immagine alchemica sopracitata, infatti, in trasparenza si distinguono nei quattro vasi altrettanti simboli che Jung interpreta come quelli di nigredo, albedo, citrinatio, rubedo. Nella già citata serie di XXII miniature dello Splendor Solis, all’incirca coeve del periodo alchemico del Parmigianino, le immagini 12-18 mostrano tutte il vaso alchemico in trasparenza, con all’interno simboli che rappresentano le corrispondenze tra regimi e pianeti. Questa caratteristica della trasparenza manca nell’affresco della Steccata, così come nelle sei figure e nei sei vasi manca qualsiasi altro dettaglio che faccia pensare all’alchimia. Ai lati delle sei vergini sono, a coppie, le figure a grisaille di Adamo ed Eva e quelle di Mosè ed Aronne. Proprio la figura di Aronne mostra un simbolismo ricorrente nell’iconografia alchemica: il serpente attorcigliato al bastone, combinazione che caratterizza il caduceo ermetico. Nella figura della Steccata il simbolo sta chiaramente a ricordare l’episodio biblico di Levitico XXI: 4-9, in cui Mosè fa fabbricare un serpente di bronzo che poi pone su un’asta per salvare gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi. Ma nell’i119
conografia alchemica il serpente trafitto o arrotolato su un’asta sta a significare la fissazione del Mercurio. In modo tale è presentato, ad esempio, nel Le livre des figures hiéroglyphiques che dovrebbe risalire al XV secolo(111). È altresì vero che questo simbolo ricorreva nell’iconografia cristiana come simbolo del Cristo, e della promessa di vita eterna. Sfugge invece, ai sensi dell’iconografia alchemica, il collegamento tra i quattro personaggi (Adamo ed Eva, Mosè ed Aronne). Se Adamo ed Eva possono rappresentare la coppia maschile-femminile, o Solfo-Mercurio, non si trovano precedenti per la simultanea raffigurazione di Mosè ed Aronne. In Fagiolo Dell’Arco si attribuiscono valenze alchemiche ad altri particolari dell’affresco, quali le colombe e i granchi. In effetti la colomba è frequente simbolo dell’albedo (vedi la miniatura XI dello Splendor Solis, raffigurante la coctio), mentre il granchio è segno alchimistico citato in dizionari di alchimia(112). Esso è raffigurato anche in una miniatura dell’Aurora consurgens (inizio XV secolo). Ma questi due simboli, isolati da un contesto, non rivestono alcun significato. La Madonna dal collo lungo - Anche a questo dipinto sono state attribuite valenze alchemiche (Fagiolo Dell’Arco, Mutti). Questa raffigurazione della Vergine starebbe a simboleggiare il vaso alchemico, in genere rappresentato in forma ovoidale (da cui Uovo filosofale) o in forma di vaso dal collo fortemente allungato (vedi, ad esempio, le miniature dello Splendor Solis precedentemente citate). Ed è anche vero che il simbolismo dell’alchimia latina prese assai presto ispirazione da quello cristiano, stabilendo tra l’altro il parallelismo tra il Cristo nato dalla Vergine Maria e la Pietra Filosofale nata dall’Acqua Mercuriale. Ma il parallelismo tra il vaso alchemico e la matrice di una divinità femminile è molto più antico, poiché già nell’alchimia ellenistica si era stabilito il parallelismo tra il vaso alchemico e l’utero di Iside(113). All’alchimia ellenistica appartiene l’espressione “La terra vergine (il Lapis) sarà trovata nella vagina della vergine”(114). Ma anche in questo caso gli indizi sono troppo labili per attribuire all’opera un sicuro significato alchemico nel senso indicato da Dell’Arco: e cioè che la Vergine dal collo lungo, matrice del Figlio, raffigura il vaso alchemico in cui prende forma la Pietra Filosofale. Per le motivazioni sopra esposte (l’attestato parallelismo tra Vergine Maria e vaso alchemico in molta dell’alchimia latina) si tratta di una interpretazione valida in linea teorica ma che avrebbe bisogno di ulteriori prove a sostegno.
La genesi del romanzo “L’Opera al Nero” di Marguerite Yourcenar Il romanzo è frutto, come molte altre opere di Marguerite Yourcenar, di una lunga e tormentata, intima gestazione, di una novella scritta nel 1934. Il libro narra la storia di un alchimista e filosofo, Zenone, un uomo perseguitato per la sua intelligenza. Una storia che la Yourcenar ambienta nel XVI° secolo, ma che è una storia comune in tutti i tempi e tutte le epoche. Nel simbolismo alchemico, l'Opera al Nero - una delle quattro della Grande Opera - è l'inizio del processo di trasmutazione interiore dell'Uomo, cioè il distacco dalle cose terrene. Si chiama così perché consiste in un rinchiudersi in se stessi come in un guscio che, impedendo l'accesso alle sollecitazioni mondane, permette all'Uomo di maturare interiormente e di crescere spiritualmente e di crescere spiritualmente. Il paragone con il guscio calza perfettamente perché è all'interno del guscio che l'uovo fecondato diventa pulcino, allodola, corvo, eccetera. Ed è proprio il corvo che, dato il suo colore nero, viene raffigurato graficamente come simbolo dell'Opera al Nero. Il nero è anche il colore della morte, ed è ben scelto perché l'Opera al Nero comporta un "morire a se stessi". Ma non si tratta di una morte fisica, bensì di un morire alle cose del mondo, anche perché l'iniziato deve saper di-stinguere due modi di morire: l'uno consapevole, e l'altro non consapevole, ed il controllo su se stessi deve essere così raffinato da riconoscere la morte e usarla come veicolo e senza subirla come un evento. L'Opera al Nero non è un processo né semplice né facile perché, come ogni primo passo, è il più duro, essendo ostacolato dalle abitudini acquisite durante la vita materiale e dall'ambiente in cui l'individuo vive di solito. Ecco perché il simbolismo alchemico raffigura l'Opera al Nero come un guscio che racchiude un corvo, uccello tutt'altro che vivace e allegro, e dotato di voce sgradevole all'orecchio. E, già da questo simbolismo che si può ben capire che, che se l'Opera al Nero resta fine a sé stessa e non si evolve nei suoi tre stadi successivi (il Bianco, il Rosso, l'Oro), essa diviene null'altro che uno stimolo che conduce l'individuo verso aree della coscienza disgregate, malsane e dissociate, a null'altro tendendo che alla distruzione - individuale o collettiva - della persona e del contesto sociale. Laddove opera l'Opera al Nero 120
"negativa", si verificano sorprendenti cambiamenti di "segno" della realtà quale dovrebbe essere ed il Bene istituzionale si trasforma nel Male occulto, perché i sacerdoti dell'Opera al Nero "non alchemica" si trovano ben distribuiti nei contesti del potere, nelle stanze del bottone ecclesiastico, nelle segrete del dogma teologico e nelle coscienze devastate dei ministri del Dio istituzionale o di altri, occasionali Dei. Le vicende dell’”Opera al Nero” sono ambientate nel periodo del Rinascimento, del quale si possono cogliere i tratti attraverso la presentazione dei personaggi, come mercanti, banchieri, ecclesiastici, regnanti, donne…, e le loro storie. In particolare la vita di Zenone si svolge tra il 1510 e il 1569, anno della condanna e del suicidio. Il testo offre al lettore riferimenti precisi a date, personaggi come ad esempio Francesco di Valois e Margherita d’Austria, e avve-nimenti storici. Gli ambienti ed i personaggi sono descritti in modo preciso e accurato e offrono un ritratto vivo e quotidiano di questo periodo storico. I viaggi di Zenone toccano diverse tappe sparse in tutto il mondo: dall’Oriente, alla Svezia, a Parigi… Una parte consistente della sua vita si svolge nelle Fiandre. Marguerite Yourcenar ci fa vivere direttamente le condanne per eresia, la diffusione di nuove correnti religiose come l’anabattismo o la dottrina di Calvino, le nuove scoperte, la corruzione dei costumi tra religiosi, gli studi degli alchimisti… Anche alcuni personaggi minori sono autentici, ripresi dalla storia o dalle cronache locali, come ad esempio il professor Rondelet, che realmente sezionò il cadavere del figlio. Molti degli avvenimenti descritti sono ispirati a fatti realmente accaduti, ma sono stati lievemente modificati ed adattati alle vicende di Zenone. La prima traccia, l’idea stessa del romanzo nasce, come per le Memorie di Adriano, da lontano e precisamente, come la scrittrice racconta in una nota preziosa, da un racconto, D’apres Durer, pubblicato nel 1934, e da un pro-getto concepito tra i diciotto e i ventiquattro anni. Anche il nome del protagonista, Zenone, è già presente nei primi anni venti, a più di quarant’anni dalla conclusione del romanzo, avvenuta nel 1965, con la successiva pubblicazione nel 1968. Zenone, quindi, accompagna l’autrice prima e dopo il personaggio di Adriano e diventerà, come lei stessa ha affermato, come “un fratello”, cioè come qualcuno che ha lo stesso sangue, le stesse radici, e forse è intrecciato al suo stesso cammino interiore di intellettuale silenziosamente attenta al mondo storico, quanto a quello incerto e angoscioso del mistero. Marguerite Yourcenar e Zenone, infatti, vivono la loro esperienza di fede e la loro avventura del sapere nel buio della psiche, divisi dagli uomini perché divisi dalle loro follie e dalle loro atrocità e come “pellegrini nel buio” non hanno che la loro ragione e il loro sentire a guidarli. Si potrebbe dire che qui si riscontra anche il profondo disagio dell’intellettuale dei nostri tempi, qualora abbia l’ardire di allargare le proprie riflessioni al di là del presente o al di là del pragmatismo che ha sopraffatto il nostro pensiero. La scrittrice, tuttavia, ci aiuta a non disperderci nel creare legami tra secoli ed avvenimenti tra loro distanti. Ella, infatti, traccia un preciso quadro di riferimenti e di letture: il romanzo si svolge nel secolo XVI e il protagonista, Zenone, pur essendo un personaggio di fantasia, ricalca figure emblematiche di questo periodo storico, come Campanella e Giordano Bruno. È proprio la presenza nel romanzo di un ambiente storico e di un perso-naggio immaginario, quanto di più lontano vi può essere dal clima sessantottino, che ha contribuito a consegnare Marguerite Yourcenar alla fredda distanza dei classici o degli scrittori accademici. In seguito, infatti, quasi per dare ragione a questo distacco dalle indicazioni narrative degli anni Sessanta e Settanta, l’autrice si dedicò ai tre volumi che riguardarono la storia della sua famiglia, concepiti come un percorso dai rami fino alle radici, scavando nel profondo del tempo passato quasi per cercare solidità e fondamenti alla propria esistenza. Ci sono in parallelo racconti, articoli e saggi ma “L’Opera al Nero”, ancor più delle “Memorie di Adriano”, rappresenta lo sforzo maggiore compiuto dall’autrice ed è soprattutto la dimostrazione per metafora della sua personalità intellettuale più intima. Solo così poteva e sapeva parlare di sé, percorrendo un’altra strada, la presenza nella vita di un nome, di un personaggio, di un epoca, tutti punti che si sono coagulati in un intellettuale del Cinquecento vissuto per conoscere, sperimentare e comprendere anche se stesso, per cercare le ragioni ultime dell’esistenza attraverso le molteplici culture del mondo. Zenone è un concentrato di quegli uomini del XVI secolo, per i quali vale il motto che poi fu di Adrian Leverkuhn, placet experiri, cioè è piacevole sperimentare, è l’interprete del Rinascimento, ma è inoltre l’emblema della disfatta dell’intellettuale contemporaneo. Nel protagonista vediamo, infatti, la storia inte121
riore di Marguerite Yourcenar e la sua profonda e sofferta solitudine. Ripercorrere la vita di Zenone fino al suicidio, che lo sottrae al supplizio del rogo, è oggi più emozionante di quanto potesse esserlo trent’anni fa; infatti il mistero e la certezza scientifica, il caos supremo del mondo e il suo destino sono più che mai il fondo di ogni esistenza contemporanea. Si dimentica troppo spesso il valore contemporaneo de “L’Opera al Nero”, la forte metafora che si nasconde nel personaggio di Zenone, che attraversa quell’Europa descritta come regno dell’ingiustizia; negli anni Sessanta, infatti, pochi si accorsero, pur giudicandone il successo, che “L’Opera al Nero” parlava delle radici dell’uomo d’oggi, immerso in rapidissimi cambiamenti che non riesce a fronteggiare. Riguardo al personaggio di Zenone possiamo dire che per delinearne la fisionomia sia fisica sia ideologica, non ci sono stati dei veri e propri modelli di riferimento. Ad esempio, dice la Yourcenar, “Zenone avrebbe potuto avere certe opinioni dal momento che Campanella le ha avute, o che Giordano Bruno è morto per esse”, facendo così intendere che il pensiero del personaggio non si rifà a correnti ideologiche precise. La figura “storica” di Zenone è quindi immaginaria, ma racchiude in se caratteristiche personali di diversi personaggi realmente esistiti ed operanti nel ‘500. La sua nascita illegittima ricorda quella di Erasmo da Rotterdam, mentre la carriera di medico alchimista e filosofo che ha viaggiato anche in Oriente ricorda l’immagine di Paracelso. Gran parte delle ricerche scientifiche e delle osservazioni di Zenone sono state costruite sulla base dei Quaderni di Leonardo da Vinci e anche molte delle invenzioni quali la formula del fuoco liquido e i progetti idraulici corrispondono a quelli di Leonardo. Durante un suo discorso con Enrico Massimiliano Zenone parla delle tante invenzioni che si potrebbero fare, ma anche del fatto che equipaggiare la nostra specie porterebbe ad aumentare il disordine alla luce della bestialità e delle follie dell’uomo che aveva osservato durante i suoi spostamenti. Questa linea di pensiero appartiene a figure come quella di Leonardo e di Cardano. Le accuse nei confronti di Zenone richiamano quelle di empietà, eresia e di carattere secolare di Campanella e Giordano Bruno, così come i riferimenti alla omosessualità di Zenone è un ulteriore elemento di richiamo a diverse personalità intellettuali dell’epoca. L’aspetto fisico rispecchia il suo temperamento tutto fuoco e fiamme, possiamo quindi facilmente immaginarlo tenace e nervoso, pallido, magro, emaciato, ma indistruttibile, con gli occhi vispi e attenti. Zenone è nato, quindi, mescolando gli studi della Yourcenar riguardo alla medicina dell’epoca, alla magia, alla teologia, alla filosofia del tempo, al suo interessamento a documenti genealogici per rendere più realistico e più vero il protagonista. Nel personaggio da lei più amato l’autrice ha trasfuso tutta la sua passione per la giustizia e per l’uguaglianza degli uomini, la sua sofferenza per la crudeltà umana. Zenone dimostra infatti di avere delle contraddizioni al suo interno, di avere esitazioni e spesso di essere sopraffatto dalla paura. È un dissidente inquieto, ma ambientato in una natura che non cambia, mare, pietra, cielo. Nonostante ciò Zenone è senz’altro un uomo dotato d’ingegno e di cuore, che non si fa condizionare dalla società a cui appartiene, come la stessa Yourcenar, tanto da venire condannato da essa. È l’interprete del Rinascimento. Si pone contro tutto: contro l’università, la famiglia, la ricchezza, le autorità, i principi… Respinge l’ideologia, l’intellettualismo del suo tempo e il pensiero cristiano, benché sia proprio con certi uomini di Chiesa, con il Priore dei Cordiglieri, che riesce a intendersi meglio; infatti il priore e Zenone sono complementari: il priore, uomo di corte ed umanista, con i suoi conflitti interiori, e Zenone, ribelle in ogni situazione della vita, uomo di scienza dallo spirito avventuroso. Dal punto di vista culturale, infatti, si può dire che Zenone non è un vero e proprio umanista ed ha le caratteristiche dell’autodidatta. Possiamo sottolineare un ultimo aspetto della psicologia del protagonista, quello che riguarda il porsi rispetto agli altri personaggi. Per Zenone questi ultimi si cancellano, si dissolvono. Ciascuno lascia una scia, ed è di ciò che egli si ricorda, più che dell’uomo stesso. Le persone esistono per lui come manifestazione più o meno passeggera. La figura della donna che emerge nel romanzo non è positiva. Le donne che appaiono spesso sono donne oggetto di desideri carnali, belle o brutte indifferentemente, altre volte non hanno avuto la forza ed il coraggio per dichiarare i loro ideali e per questo sono sottomesse e remissive oppure sono senza alcuna capacità intellettiva. Nessuna di loro ha avuto molta importanza per Zenone tranne qualche rara eccezione, ma sempre e comunque temporaneamente. Idelette è giovane e carina, ma si fa coinvolgere in giochi pericolosi e uccide il suo bambino. 122
Marta non ha avuto il coraggio di dichiararsi apertamente, teme la morte, ama il denaro ed è sommessa al marito. Benedetta timida e timorosa muore di peste dopo aver soccorso la madre. Hilzonde non si cura molto del figlio perché gli ricorda la sua disgrazia, tradisce il marito a Munster e muore sul patibolo. L’unica che rimane fedele a Zenone e non ha una brutta fine è Greta, la vecchia governante di casa Ligre che fino all’ultimo si preoccupa di lui. Marguerite Yourcenar, in un saggio pubblicato nel 1980, esprime la sua predilezione per una scelta esistenziale consapevole del ruolo che spetta alla morte nella vita dell’uomo. Bisogna dire, prima di addentrarsi in quelli che possono considerarsi come i capolavori yourcenariani, che vita e morte si sono trovate accoppiate vicino alla culla della piccola Marguerite, la cui nascita ha segnato appunto la fine del viaggio terreno della madre Fernande. In tutte le opere della Yourcenar c’è la presenza costante ed ossessiva della morte: tutte si concludono con la morte, spesso violenta, del protagonista. I protagonisti di quei due capolavori yourcenariani sono Adriano e Zenone: entrambi devono fronteggiare il problema e la realtà della morte e, in modi diversi, a seconda del loro carattere e della loro storia, scelgono di viverla lucidamente. Adriano, dopo il suicidio sacrificale di Antinoo, deve confrontarsi con quella morte già tante volte incontrata sui campi di battaglia o nella vita privata, senza mai coglierne la tremenda evidenza. La lunga lettera-memoria che indirizza a Marco Aurelio è quindi un tentativo, da parte dell’imperatore, di cogliere il senso ed il valore della propria esistenza, come uomo pubblico e privato, per capire, accettare e vivere “ad occhi aperti” la propria fine. Il rapporto che Zenone ha con la morte è più bruciante e più intenso di quello di Adriano. Il medico, filosofo, alchimista ed avventuriero della conoscenza ha avuto infinite occasioni di lottare con la morte e di meditare su di essa, e l’impatto con il corpo del giovane servo Aleï divorato dalla peste si rivela cruciale. La fine atroce del giovane costringe Zenone, uomo che ha già superato i quarant’anni e che ha un ricco bagaglio di esperienze e conoscenze, a guardare con occhi nuovi la morte e, quindi, la vita ed il mondo, cioè il teatro in cui vita e morte combattono il loro eterno duello. La stessa cosa accade per Adriano dopo la morte di Antinoo. A questo punto la vita di Zenone subisce un’inversione: dopo aver molto viaggiato, decide di ritornare nella sua città natale, Bruges. L’alchimista, che è andato per anni alla ricerca del grande segreto dell’universo, liberato alfine del suo smisurato orgoglio (si ricordi il passo di Pico della Mirandola posto in esergo all’opera), è ora pronto ad accostarsi, per vie inattese, alle soglie di quel mistero che ha inutilmente cercato di svelare. Nella solitudine dell’ospedale di San Cosma si compie la mors philosophica, che è la prima difficilissima tappa della ricerca alchemica, quella dell’“Opera al Nero” che dà il titolo al romanzo. Essa consiste nella capacità di spezzare i propri limitati confini individuali, di rinunciare a se stessi come persona per identificarsi con la realtà circostante. La “morte filosofica”, premessa forse della “morte fisica”, libera Zenone da ogni egoismo e lo trasforma in una sorta di santo laico, che pone la sua scienza e la sua vita al servizio di coloro che soffrono. È la seconda tappa sulla via della perfezione perseguita dagli alchimisti, quella dell’“Opera al bianco” che prepara al grande momento in cui l’uomo, liberato da ogni impurità soggetta al logorio del tempo, accede alla purificazione assoluta dell’“Opera al rosso”, che è anche estasi della conoscenza totale. Zenone raggiungerà questa vetta sublime al momento della morte. L’estenuante ricerca dell’alchimista è dunque anche una lenta iniziazione alla morte, che diviene il momento in cui lo scienziato e l’uomo si realizzano compiutamente. Zenone, come Adriano, ha voluto “entrare nella morte ad occhi aperti”, ma, coerente con la sua scelta esistenziale di avventuriero della conoscenza, la sua morte, oltre ad essere un invito alla lucidità, ci offre, in più, la speranza di poter svelare un giorno il mistero dell’esistenza. Non è un paradosso parlare di iniziazione alla morte: se è vero infatti che tutti gli esseri umani, con tempi e modalità diversi, arrivano al termine del loro soggiorno sulla Terra, non ne consegue che tutti muoiano. La morte non è dunque un dono, gradito o sgradito, ma una conquista che non a tutti riesce. In conclusione, queste due opere, che possono essere considerate una sorta di testamento spirituale di Marguerite Yourcenar, racchiudono un ripetuto invito a guardare in faccia la realtà, ma anche, e soprattutto, a non complicare inutilmente la tremenda semplicità della vita e della morte. Il progetto del “L’Opera al Nero” è derivato dall’interesse che la Yourcenar aveva per le cronologie famigliari della sua città d’infanzia, rendendosi conto in seguito che quei dati avrebbero potuto fondersi dando vita ad universo umano. Alla base dell’opera al nero vi furono, oltre che il libro intitolato “Memoires 123
anonymes sur les troubles des Pays-Bas” (“Memorie anonime sui disordini dei Paesi Bassi”), numerosi appunti presi dall’autrice fin dai diciotto anni, la lettura di vari documenti genealogici e lo studio di autori illustri e non del Rinascimento. Grazie a tutto ciò l’autrice è riuscita a creare un mondo ideale in cui inserire le vicende del personaggio principale, vale a dire di Zenone. Bisogna però dire che il primo progetto dell’opera era in realtà una sorta di archivio romanzato di fatti, uomini e consuetudini dei paesi del Nord Europa, in cui la storia di Zenone non sarebbe stata l’unica, ma una fra tante. Il romanzo era stato iniziato attorno al 1957 o ’58, e l’idea del titolo non era ancora ben definita nella mente della Yourcenar. Ad ogni modo la formula “Opera al Nero” appare già due anni prima della data d’inizio dell’opera in un suo saggio su Thomas Mann. È così che questo titolo iniziò ad affluire vagamente nella testa della Yourcenar; dico vagamente perché la scrittrice voleva prima “vedere” quello che sarebbe successo a Zenone, poiché lei quando scrive non ha idee precise né sui personaggi né sui fatti, dato che è convinta che la fisionomia dei primi e lo scaturire dei secondi prendano forma da soli gli uni dagli altri.
La struttura del romanzo Per quanto riguarda la struttura dobbiamo innanzi tutto dire che l’opera si compone di tre parti: nella prima, intitolata “La vita errante”, si racconta dell’infanzia di Zenone, dei suoi parenti e dei suoi viaggi in giro per il mondo. Metaforicamente parlando, si può paragonare l’errare di Zenone ad un viaggio conoscitivo e labirintico che non si ferma di fronte a nulla. Zenone dimostra infatti di voler conoscere tutto, come per esempio aveva già fatto Ulisse e la stessa autrice. Vogliamo però accennare alle citazioni di Pico della Mirandola tratta da “Oratio de hominis digitate”, che apre la prima parte del romanzo: l’autrice sembra voler sottolineare gli ideali del primo Rinascimento, quello in cui la fede nella dignità e nei poteri infiniti dell’uomo è ancora immensa. “Nec certam sedem, nec propriam faciem, nec munus ullum peculiare tibi dedimus, o Adam, ut quam sedem, quam faciem, quae munera tute optaveris, ea, pro voto, pro tua sententia, habeas et possideas. Definita ceteris natura intra praescriptas a nobis leges coercetur. Tu, nullisangustiis coercitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te posui, tibi illam praefinies. Medium te mundi posui, ut circumspiceres inde commodius quicquid est in mundo. Nec te caelestem neque terrenum, neque mortalem neque immortalem fecimus, ut tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor, in quam malueris tute formam effingas…” (“Oratio de Hominis Digitate” - Pico della Mirandola) “Non ti diedi né volto, né luogo che ti sia proprio, né alcun dono che ti sia particolare, o Adamo, affinché il tuo volto, il tuo posto e i tuoi doni tu li voglia, li conquisti e li possieda da solo. La natura racchiude altre specie in leggi da me stabilite. Ma tu che non soggiaci ad alcun limite, col tuo proprio arbitrio al quale ti affidi, tu ti definisci da te stesso. Ti ho posto al centro del mondo affinchè tu possa contemplare al meglio ciò che esso contiene. Non ti ho fatto né celeste né terrestre, né mortale né immortale, affinché da te stesso, liberamente, in guisa di buon pittore o provetto scultore, tu plasmi la tua immagine.” (“Orazione sulla dignità umana” - Pico della Mirandola) Nella seconda parte, intitolata “La vita immobile”, si narra del ritorno a Bruges del protagonista e del suo incontro con il priore dei Cordiglieri e con il monaco Cipriano. Inizia così la fase della vita di Zenone dedicata esclusivamente alla riflessione e alla rielaborazione dei contenuti acquisiti durante i viaggi, che gli hanno permesso di raggiungere la maturità. Riportiamo, anche di questa parte, la citazione introduttiva: si tratta di un motto alchimistico: si delinea in questo modo l’idea di un Rinascimento di-sincantato in cui la dignità dell’uomo consiste nel reggere allo sfascio, ed è proprio quello che emergerà dalla lettura dell’ultima parte del romanzo. Obscurum per obscurius Ignotum per ignotius. Andare verso l’oscuro e l’ignoto attraverso ciò che è ancora più oscuro ed ignoto. 124
Nella terza parte, intitolata “La prigione”, si parla dell’arresto di Zenone, del processo e della sua morte. Non è viltà, né da viltà procede S’alcun, per evitar più crudel sorte, odia la propria vita e cerca morte… Meglio è morir all’anima gentile Che supportar inevitabil danno Che lo farria cambiar animo e stile. Quanti ha la morte già tratti d’affanno! Ma molti ch’anno il chiamar morte a vile Quanto talor sia dolce ancor non sanno (Giuliano de’ Medici) Nella prima parte del romanzo, fino al suo ritorno a Bruges, le vicende vengono narrate seguendo l’intreccio: gli eventi non rispettano l’ordine cronologico, i viaggi di Zenone vengono presentati al lettore mediante flash-back e alcuni degli incontri fra i personaggi, in un primo momento appaiono privi d’importanza per poi acquistare significato successivamente. La fabula viene rispettata dal suo rientro nella città natale fino al tragico suicidio, interrompendosi solo qualche volta, durante la sua permanenza in prigione, per ritornare con la mente a istantanee della vita trascorsa.
La forma del romanzo Il linguaggio è di livello alto e specifico, soprattutto nella trattazione dei casi clinici e delle osservazioni in campo medico ed alchimistico. Le vicende sono raccontate in terza persona da un narratore esterno e onnisciente. Zenone nasce nel 1510, figlio illegittimo di Hilzonde e Alberico dei Numi, prelato di stirpe fiorentina. La madre non se ne cura troppo perché gli ricorda l’amante fuggito e il giovane cresce destinato alla Chiesa. Fin da ragazzo è preso dalla sete di sapere. Sebbene non creda molto si iscrive alla scuola di Teologia. Durante le sue uscite osserva con attenzione la natura, le pietre, gli animali, le piante e gli astri. Prova rancore per lo stato sacerdotale a cui è stato spinto contro la sua volontà e decide di partire per conoscere il mondo. Nel frattempo la madre si sposa con Simone, si converte all’anabattismo e si trasferisce a Münster dove vive seguendo le regole dell’uguaglianza e dell’abbandono dei vincoli terreni. La città però viene assediata, iniziano i disordini e sia Hilzonde sia Simone trovano la morte. La loro figlia Marta viene affidata a Salomè, sorella di Simone, e cresce con la cugina Benedetta a casa dei Függer. Purtroppo arriva la peste e Salomè e Benedetta muoiono colpiti dalla malattia: è in questa occasione che nella casa dei Függer arriva un medicocce si scoprirà poi essere Zenone. In questi anni Zenone ha viaggiato, compiuto studi sul corpo umano, sulla circolazione del sangue, sulla materia e ha composto “opere” scritte però con un linguaggio soggetto a diverse interpretazioni per evitare guai e persecuzioni. Decide di ritornare a Bruges, dove col nome di Sebastiano Theus, prende il posto del medico. Cura indifferentemente ricchi e poveri, ripercorre i suoi viaggi, studia il fuoco, l’acqua, le sostanze e il corpo. Coinvolto in una vicenda di sette che riguarda frati e giovani fanciulle viene arrestato e riconosciuto come Zenone. Le voci negative sul suo conto riemergono come se nessuno l’avesse mai dimenticato durante tutti quegli anni e viene accusato di eresia, empietà, sodomia e favoreggiamento dei ribelli. Il suo processo minaccia di prolungarsi perché diverse autorità pretendono di occuparsene. Viene condannato infine al rogo. Per non pensare alle crudeltà che l’uomo può procurare ai suoi simili, ripercorre i suoi studi, fa calcoli, inventa alfabeti e rivede le lingue imparate. Per un istante pensa a ritrattare ma poi decide di non farlo; gli resta da decidere se aspettare l’esecuzione o uccidersi. Preferisce la seconda perché vuole che la sua sia una fine razionale e si taglia le vene. “Opera al Nero” è una formula del processo d’estrazione dell’oro dalla materia che gli alchimisti francesi traducono così dal latino ed indica la fase iniziale della ricerca alchimistica, cioè la dissoluzione 125
degli elementi nel fuoco. È la parte più impegnativa della Grande Opera, che sul piano dello spirito, invece, corrisponde al proposito giovanile di Zenone: tutto negare per vedere di affermare qualcosa; tutto disfare per riemergere nella seconda fase, l’opera al bianco, il momento di totale abbandono dell’io; nell’opera al rosso, infine, si verifica la riconciliazione dello spirito e della materia: Zenone la raggiunge nel sangue. Note 1) Nella cultura Mediterranea venne considerato fondatore dell’Alchimia Ermete Trimegisto (nome che significa il Re tre volte Grande) una figura probabilmente immaginaria a cui furono attribuite numerose scritture; all’epoca dell’antico Egitto, Ermete fu spesso identificato con una divinità che possedeva la conoscenza di tutte le arti e le scienze sacre e segrete della mummificazione dei corpi. La parola Alchimia è pure incerta si ritiene infatti che la etimologia venga da Al ( = il in arabo), e Kimia (la terra del "Kamel" = il cammello, cioè l'odierno Egitto; oppure il suolo del "Kem-it", che significa "nero", e che quindi si riferisce all'aspetto scuro della terra fertile dell'Egitto). Altri ritengono invece che Alchimia possa derivare dal vocabolo greco "chyma" (che significa: scioglimento-fusione). Già gli alchimisti egiziani avevano notato che la terra nera nel Nilo doveva la sua fertilità all' "humus", residuo della macerazione di foglie alberi ed animali morti. Avevano anche capito che le piante venivano mangiate dagli animali erbivori e che i carnivori mangiavano gli erbivori e cioè che l'uomo apparteneva a questa catena alimentare biologica, dove ogni essere vivente, quando si decomponeva ritornava in ciclo. Pertanto al fine di evitare la "reicarnazione" dei resti umani in seguito a "trasmutazioni periodiche" dell'humus, essi svilupparono la Alchimia per mummificare i corpi dei morti, in modo che il corpo mummificato alchemicamente rimanesse inalterato dopo la morte; gli egizi chiusero infatti le mummie in tombe serrate "ermeticamente" (vocabolo quest'ultimo che deriva da "Ermes"). Per dimostrare tendenza alla purezza solare dei loro re, gli egiziani fecero costruire le piramidi sopra le tombe dove i re vennero sepolti. Il quadrato, ottenuto combinando i quattro triangoli equilateri che simboleggiano i quattro elementi, rappresentava la base della piramide mentre i lati che correlano la base al vertice in direzione del sole, rappresentarono la "rettificazione", cioè il simbolo della purificazione espressa come tendenza alla elevazione della terra. Più il re era potente e di valore, più elevata doveva essere la sua piramide. I miti ed i simboli della alchimia sono stati sempre correlati principalmente alla purificazione dei metalli seguendo il principio detto del "Solve e Coagula" (dissolvi e solidifica), utile anche per la produzione di coloranti di profumi e di medicamenti; artigianali già sviluppate all’epoca delle antiche popolazioni Assiro-Babilonesi. Il simbolismo di ogni trasformazione alchemica fu concepito nell’ambito della idea che l’uomo, che è parte della natura, proponendosi il ruolo di ordinatore del tempo dello sviluppo naturale, potesse aiutare, la natura ad accelerare i tempi di evoluzione prestabiliti dagli influenze celesti. L’"opus Alchemico" sintetizzato nella frase "pensa agendo ed agisci pensando", fu infatti considerato come "la levatrice delle trasformazioni vitali della natura" proprio in quanto gli alchimisti ermetici ritennero che qualora venisse scoperto il segreto, detto della "Pietra Filosofale" o principio di purificazione di tutte le qualità, ciò avrebbe permesso di "trasmutare" tutti i metalli in oro puro a partire dallo stato di materia imperfetta. Infatti le sostanze che compongono l’universo vennero considerate, potenzialmente "oro", ma temporalmente esistenti in varie fasi della loro purificazione che, naturalmente senza l’intervento dell’Opus Alchemica, si sarebbe realizzata in tempi indefiniti. La Pietra Filosofale è stata quindi considerata il mistero da scoprire, che di fatto è quello della intelligenza della natura, da assecondare per accelerare i ritmi temporali della trasmutazione verso la perfezione. Si disse pertanto negli scritti Alchemici "nessun uomo all’interno di una barca può ostinarsi a svuotare il mare", volendo indicare come l’uomo armato di sola ragione è impotente di fronte al mistero occulto della purificazione alchemica, proprio in quanto il pensiero razionale non è in grado di cogliere l’essenza intelligente della propria natura ovvero della "Pietra Filosofale". L’intuizione Alchemica di base risiede in una prospettiva cosmologica globale che correla i metalli al cielo ed ai pianeti; pertanto ogni trasformazione, al di là delle apparenze, non è di natura cao-tica e casuale in quanto è favorita dagli influssi intelligenti ("energheja") del cielo sulla terra. Pertanto nella tradizione della Alchimia Metallifera piombo, ferro, stagno, rame, mercurio, sono soggetti alla corruzione, mentre due, (argento, oro) sono incorruttibili, cioè rispettivamente meno e non soggetti al decadimento fisico prodotto dal tempo. La maggiore o minore perfezione gli alchimisti ritennero che dipendesse dallo stato di maturità qualitativamente raggiunto. Solo l'oro sarebbe il risultato ultimo di una scala di perfezione che tutti i metalli potevano raggiungere in seguito a "trasmutazioni". Si pensò inizialmente che le "trasmutazioni" sarebbero state il risultato di un gran numero di trasformazioni progressive frutto del miglioramento cognitivo dell’Opus Alchemica nonché dall’influsso benevolo degli astri nel cielo. Nel "Libro dei sette capitoli", attribuito ad Ermete le fasi di ciascuna trasformazione sono descritte come fasi di transizione che vennero associate alle influenze del sole, della luna e dei cinque pianeti visibili ad occhio nudo. La fase iniziale di ogni trasformazione venne considerata protetta da Mercurio (Argento vivo) che fu considerato il solvente per eccellenza. Infatti si sapeva che il mercurio scioglie anche l’oro e l’argento formando con tali metalli delle amalgame liquide. Si ricorda che gli antichi artigiani alchimisti purificavano l’oro e l’argento sciogliendoli con mercurio dalla terra impura e poi con il fuoco allontanavano il mercurio estraendo oro ed argento puri, da impurità ed anche dalle leghe con altri metalli. Proprio sulla base di tali procedimenti sperimentali già da vari secoli a.C. si conosceva che il Mercurio (principio passivo Femminile perché senza forma) sciogliesse lo zolfo giallo (considerato come principio maschile o fuoco solido), dando origine al cinabro (di colore rosso - detto sangue matriciale; Mercuro e Solfo si imparentavano nel così detto matrimonio Alchemico) Alla fase iniziale di ogni trasformazione che serviva a dissolvere la sostanza allo stato embrionale in "materia prima", succedevano tre fasi dette di "espansione"; la prima, protetta da Saturno, (pianeta correlato al Piombo), che veniva detta fase di "NIGREDO", cioè dello scioglimento o della macerazione apparentemente caotica; protegge la seconda fase (detta di "RUBEDO" per la temperatura del "calor rosso" raggiunta dai metalli riscaldati dal fuoco nel forno Alchemico), il pianeta Giove (associato allo Stagno); la terza fase detta "ALBEDO" corrisponde al massimo del calore e della lucentezza del metallo ed aveva la protezione della Luna (associata all’Argento). Poi succedevano altre tre fasi di "contrazione e raffreddamento", che furono considerate rispettivamente sotto la protezione di Venere (Rame), di Marte (Ferro) e infine del Sole (Oro e/o solfo). Da questa teoria delle trasformazioni osservata sperimentalmente gli Alchimisti conclusero che la maggiore o minore perfezione della materia dipendeva dallo stato di maturità da essa raggiunto.
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L’alchimia fu pertanto considerata l'arte di distruggere i composti che la natura ha formato in modo imperfetto al fine di migliorare la loro natura purificandoli e modificandone le proprietà temporanee al fine ultimo di raggiungere la perfezione assoluta. È importante considerare alcuni elementi della saggezza Alchemica, che hanno condotto questo particolare atteggiamento mentale a sopravvivere, con più o meno elevata fortuna, in tutte le epoche nell’immaginario collettivo umano, traversando civiltà così profondamente diverse dell’oriente e dell’occidente. Hanno contribuito a tale longevità del pensiero Alchemico : a) la dimensione bipolare, complementare, interattiva, di ogni concetto, fondata sul modello primitivo della coppia "YIN-YANG"; in tal modo l’Alchimia distinse come complementari i concetti interpretativi del divenire, non separando mai le relazioni tra qualità e quantità, tra forma e sostanza o tra spirito e materia. b) La fiducia della creatività dell’uomo nel forzare i segreti della natura al fine di far precipitare i ritmi temporali per il raggiungimento della perfezione "a-temporale". c) Il contesto evolutivo cosmologico e globale che si attua in un tempo irreversibile, in cui tutto cambia eccetto il mutamento, in modo guidato da una natura complessivamente intelligente di cui l’uomo è integralmente partecipe. d) L’idea cosciente della necessità di conoscere sia esteriormente che interiormente all’uomo per penetrare nella scoperta progressiva del mistero della natura, così da realizzare l’evoluzione delle conoscenze umane, in seguito al miglioramento delle due componenti dell’EGO interiore dell’uomo, la cui intelligenza è correlata a due fattori; 1°) "l’intuito" che è simbolizzato dal sole e dalla rarità e purezza dell’oro; 2°) "la ragione", quest’ultima ha come simboli alchemici Saturno ed il Piombo. Pertanto gli alchimisti non fidandosi della ragione fondata sulle conoscenze già acquisite, ritennero che i simboli fossero fortemente espressivi in quanto trascendono la parola e stimolano l’intuito, pertanto apprezzarono il ricorso a processi intuitivi come la "Cabala", proprio in quanto essi considerarono più importante la attività sperimentale, che quella cognitiva; giudicarono infatti come, "Brucia Carboni" i saputelli capaci di sfoggiare cognizioni, che all’atto pratico non promuovevano nulla di nuovo, sperimentalmente utile. Per le peculiari caratteristiche sia di intuito e fantasia che di praticità, tra gli Alchimisti si annoverarono anche molte donne, tra esse famose nell’antichità furono ad esempio, Cleopatra e Maria l’Ebrea (quest’ultima è rimasta rinomata per aver ottenuto vari nuovi prodotti regolando la temperatura di reazione in un bagno di acqua, infatti ancora oggi tale metodo di riscaldamento è detto "a bagno Maria"). E da notare infine che gli Alchimisti considerarono i bambini più puri nelle loro capacità intuitive dei grandi, proprio a causa delle lacune cognitive, evidenti nelle conoscenze umane qualora vengono commisurate con il fine di raggiungere la perfezione. Durante il periodo dello sviluppo del pensiero scientifico all’ epoca della Magna Grecia, l’alchimia perse quel carattere di attività esoterica correlata strettamente a le concezioni astrologiche e pur mantenendo i principi della antica alchimia ermetica quali, la correlazione tradizionale tra astri ed elementi ed il principio comune alla alchimia di ogni epoca della ricerca della perfezione e della purezza della materia contemporaneamente a quella del pensiero. In quest'epoca l'alchimia sviluppò la sua dimensione speculativa interagendo con la cultura scientifica e filosofica della Magna Grecia e pertanto l’alchimia accettò la concezione dei Quattro elementi (Fuoco-Acqua-Aria e Terra), come fondamento della composizione di tutti i corpi, ma gli alchimisti correlarono le proprietà di "Estensione e Contrazione" dell’aria e della Terra ai principi attivi del Fuoco e dell’Acqua. Si ritenne pertanto che i quattro elementi non esistessero puri, in quanto tutte le sostanze venivano ad essere combinazioni di tali proprietà elementari che ancora che tendevano a svilupparsi verso la purezza dell’oro; genuinità che nel campo del pensiero cognitivo fu oggettivamente associata all’idea della scoperta della "Pietra Filosofale". Quest’ultima è stata interpretata come la chiave della comprensione della via della purezza, che può essere raggiunta tramite salti di livello intuitivo detti "visio" (cioè di immaginazione o di rivelazione divina). Il simbolismo attribuito ai "Quattro Elementi" fu il seguente: FUOCO- Triangolo rivolto verso l'alto per indicare la proprietà di salire verso il cielo ACQUA- Triangolo rivolto verso il basso per indicare la proprietà di discendere verso la terra tagliato da un segmento, per indicare la capacità spontanea di estensione ARIA- Triangolo rivolto verso l'alto tagliato da un segmento, per indicare la capacità spontanea di estensione TERRA- Triangolo rivolto verso il basso per indicare la capacità di cadere verso il basso. Ai quattro elementi furono accoppiate le rispettive qualità, sensazioni e colori: Fuoco - caldo - luce- rosso, Acqua - umido - liquido - blu, Aria - secco - gas - bianco, Terra - freddo - solido - nero. I due elementi fluidi , aria ed acqua, vennero considerati i principali enti di trasferimento rispettivamente del calore (fluido oscuro) e della luce (fluido luminoso), e vennero correlati all'influsso (Energheja) del firmamento, che tramite il trasferimento del suo poteredi informazione (=capacità di dare forma alle cose), muove i venti ed il mare, determinando il movimento e che generando i fulmini feconda la terra. Nel mondo arabo l’alchimia si sviluppò ponendo in chiara evidenza come l’intervento di perfezionamento dell’uomo portava ad una maggiore perfezione dei prodotti artificiali alchemici rispetto a quelli naturali. Si deve agli alchimisti Arabi un grande sviluppo delle tecniche di distillazione con gli "alambicchi" che utilizzarono perseguendo l’idea di tentare di estrarre lo "spirito" (il respiro vitale emesso dal Sole che dà vita alle cose), che si riteneva esercitasse la funzione di legame per tenere assieme gli elementi terreni e i frutti della terra. L'alcool distillato dal vino e dalla frutta fu ad esempio ritenuto un elixir magico, in quanto medicamento capace di curare dalle infezioni delle ferite ed anche vari altri mali. Grande sviluppo ebbe la Alchimia araba al tramonto dell'impero romano. L'Islam dette un grande incremento alla civiltà mediterranea e riuscì a integrare sotto un nuovo profilo concettuale la scienza classica di origine greca con la cultura orientale (dell'India e della Cina). In particolare ciò avvenne quando l'impero islamico realizzò il suo immenso dominio esteso dall'India alla Persia al nord-Africa, e poi alla Sicilia e alla Spagna. In quell'epoca fu al massimo fulgore la capitale dell'Islam, che si spostò da Damasco (661-750 d.C) a Bagdad, dove con grande tolleranza culturale il Califfo Harum al-Rashid ( 786 - 809 a.C. detto l'Illuminato, famoso per i riferimenti al suo tempo nel libro "Le Mille ed una Notte", iniziò a far convergere le culture dei popoli conquistati per dar sviluppo alla "Casa della Sapienza" con una grandiosa biblioteca e grande mecenatismo per i saggi di ogni provenienza culturale e religiosa. In questo ambito l'alchimia Islamica fiorì sviluppando la così detta "via umida" (detta così a differenza delle "via secca" che utilizza il fuoco per fondere sostanze omogenee e separarle da quelle eterogenee). Le nuove tecniche alchemiche condussero a scoprire molti acidi ed alcali e nuovi sali nonché liquori medicamentosi utili a rendere più perfette le attività dell’essere umano. La finalità della "via umida" fu quella di ricercare l’ Elixir di lunga vita, ovvero "Oro-Liquido" oppure la "Medicina Vera ed Universale", come estremo obbiettivo del perfezionamento della vita terrena. Diversamente dal mondo Arabo la Alchimia venne invece considerata "arte segreta" nella sponda cristiana del mediterraneo, dove gli
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alchimisti furono normalmente considerati gente di malaffare, stregoni dediti ad arti magiche ed occulte più che studiosi di scienza. Contemporaneamente a Bagdad l'alchimia, libera da condanne e pregiudizi religiosi, iniziò a prendere sviluppo come scienza e tecnica separando la propria cultura dalla magia. Il più famoso alchimista arabo fu Giabin ibn Hayyan, che visse durante la seconda metà del VII sec. d.C. e perfezionò il processo di distillazione costruendo nuovi tipi di alambicchi con cui ottenne moltissimi altri "elixir" e "tinture" a base di alcool ed anche l'acqua distillata quale solvente esente da impurezze. La preparazione dell'alcool (la cui etimologia deriva da "al-ghul", che significa spirito del demonio), fu permessa per uso medicinale nonostante che l'assunzione di bevande alcoliche fosse proibita e punita con fermezza dal Corano. L'Alchimia Araba sviluppò processi tecnici artigianali di grande rilevanza, tra essi la produzione della carta secondo metodi importati dalla alchimia cinese. Già dal 793 d.C. fu realizzata a Bagdad la prima cartiera nella quale si ottenne una produzione semi-industriale della carta da una pasta di fibre di canapa e di gelso, mescolate ad allume e colla, che veniva levigata e ridotta a foglio e fatta seccare al sole. La produzione della carta si diffuse rapidamente nel mondo islamico portando un forte contributo alla stessa diffusione della cultura. Alcuni alchimisti medievali in campo cristiano pensarono che la possibile "tramutazione" dei metalli vili in oro era essenzialmente funzione della scoperta della Pietra Filosofale e cioè delle capacità creative dell’ingegno umano. Pertanto essi intesero l’Alchimia come l'agente di perfezione parallelo alle indicazioni di purezza spirituale proposte da Cristo. L'Uomo fu quindi considerato per analogia il "Forno filosofico" in cui si compie l'elaborazione del pensiero capace di scoprire le capacità di trasmutazione che conducono alla purezza. Secondo gli "alchimisti mistici" il Cristianesimo fondato sulla Chiesa si propone di salvare l’uomo, ma non la natura a cui l’uomo appartiene, mentre per essi il Cristo è il salvatore dell’universo nella sua totalità e non solo dell’anima umana. Pertanto rifacendosi, secondo la secolare tradizione alchemica alla inseparabilità delle concezioni apparentemente in contrapposizione quali "spirito e materia", sostennero il principio della "coincidenza oppositorum", che diceva che ogni manifestazione del pensiero ha due componenti: una manifesta ed una occulta di indole spirituale,che non sono mai separabili. Tale coicidenza tra azione spitituale e materiale fu simbolicamente rappresentata dall' "uroboro" (il serpente che si morde la coda). In considerazione di ciò venne detto che: "Se tu vuoi realizzare la nostra Pietra, sii senza peccato, realizza una vita dedita alla perfezione del mistero dello spirito." Da questa impostazione gli Alchimisti Mistici, vollero stabilire tutta una serie di equivalenze che avevano per scopo la ricerca l'ottenimento della purezza, parallelamente a quella della salvezza e purificazione spirituale proposta da Cristo al fine di coinvolgere secondo la tradizione alchemica, riletta in senso cristiano, l'intera realtà materiale e spirituale del mondo e degli esseri umani. La leggenda della Santo Graal (Calice che aveva contenuto il sangue di Cristo in Croce), fu interpretata come la ricerca della "parola perduta" cioè di una verità rivelata da ricercare dalla quale trarre la saggezza necessaria per attuare la scoperta della Pietra Filosofale. Inoltre, per ridurre i quattro elementi a una trinità di funzioni, gli alchimisti mistici ritennero che: Acqua + Aria = Creavano il Principio del Mercurio Aria + Fuoco = Creavano il Principio dello Zolfo Fuoco + Terra = Creavano il Principio il Principio del Sale Ed i tre principi furono associati come elementi terreni opposti ma coincidenti con il Padre il Figlio ed lo Spirito Santo. Per questa loro importazione tendente ad correlare l’Alchimia di origine pagana agli insegnamenti religiosi del cristianesimo, gli alchimisti medioevali mistici, furono perseguitati dalla Chiesa di Roma, principalmente in quanto tentarono in modo ritenuto blasfemo di unire con analogie e metafore, la Trinità dell’Unità divina a Trinità ed Unità terrene, là dove vennero a volte equiparati, Spirito, Anima e Corpo, a Zolfo (ovvero: Fuoco solido), Mercurio (ovvero: Acqua permanente) e Sale (ovvero capa-cità di unione del Padreterno). Al di là di questa impostazione stravagante, gli alchimisti medioevali importarono nell’Europa Cristiana lo sviluppo della cultura Alchemica progredita nella civiltà Araba di quel periodo e ciò fu comunque importante per lo sviluppo culturale successivo all’epoca medievale. L'alchimia metallica (via secca) e quella degli Elixir o Quintessenze (via umida) fu riscoperta nell’occidente europeo nel tardo medioevo, in gran parte dalle traduzioni della Alchimia dell’era della Magna Grecia e dalle tradizioni scientifiche arabe introdotte in Sicilia ed in Spagna. Ancora per motivi religiosi dovuti alla difficoltà di integrazione con le concezioni sviluppate nell'Islam, gli studi alchemici furono proibiti dalla chiesa cristiana e gli alchimisti perseguitati e condannati dalla sacra inquisizione. Solo nel periodo del tardo medioevo in europa, in alcuni casi rimasti famosi, gli studi alchemici furono approfonditi da personaggi potenti sia tra la nobiltà che nella sfera ecclesiastica, tra essi Alberto Magno (1193-1280), Ruggero Bacone (1214-1294), e lo stesso Tommaso D'Aquino (1226-1274). Cecco d’Ascoli autore del libro alchemico "L’Acerba", non essendo un potente, fu messo al rogo a Firenze il 17 Luglio del 1327. Raimondo Lullo (Ramon Llull di Palma de Majorca 1232-1315) discendente di un antico casato aristocratico e pertanto vicino alle leve del potere, fu uno tra i più famosi alchimisti europei; egli tentò una interessante giustificazione della Alchimia in relazione al concetto di "libero arbitrio" dell'uomo, così da farla accettare nell’ambito della teologia della chiesa cristiana. Nel "Liber de segretis naturae seu de quinta essentia" il ragionamento di Lullo in favore dell'Alchimia fu all'incirca il seguente: "Dio non può fare quello che vuole, ...perchè Egli può esercitare solo il bene" L'uomo invece può incorrere nel male perché ha a disposizione solo il calore del fuoco, per portare a purezza le cose terrene, ma con l'aiuto dei principi essenziali e con la fede potrà in futuro concepire e realizzare delle "trasmutazioni" naturali come già è in grado di compire utili trasformazioni artificiali degli elementi naturali. Perciò la Alchimia, che è la vera arte nel promuovere il sapere, non può essere condannata dalla Chiesa, in quanto la scelta tra il bene ed il male appartiene al libero arbitrio dell'uomo; quest’ultimo è frutto della sua ignoranza, ma l’ignoranza umana stessa è stata voluta dalla giustizia di Dio e quindi è un bene dal punto di vista del Dio Padre Onnipotente. Quindi l’uomo può sbagliare provando e riprovando nella ricerca della Purezza, mentre Dio non può aver fatto assolutamente alcun errore né alcuna ingiustizia. Sulla base di tale ragionamento e convinzione Raimoldo Lullo è rimasto famoso sia per la revisione di molti errori che egli attribuì ad errate convinzioni alchimiche di alcuni suoi contemporanei e predecessori, sia per la sua tenacia nel difendere e divulgare gli studi alchemici. In seguito, pur lentamente gli studi alchemici sulla "trasmutazione" degli elementi, ottennero anche per il lavoro di difesa e di chiarezza impostato per primo da Raimondo Lullo, una profonda trasformazione concettuale che permise di realizzare in occidente lo sviluppo dell'alchimia in scienza chimica. Firenze fu uno dei centri di sviluppo della Alchimia Rinascimentale proprio in quanto Cosimo I° dei Medici (1517-1574) fece tradurre e diffuse prima in latino e poi in volgare il "Corpus Alchemico" di Ermete Trimegisto. Cosimo dei Medici volle così importare a Firenze una nuova cultura in modo da rendere libera la Toscana dalle influenze del potere temporale dei Papi e quindi fu mecenate del rifiorire di una nuova cultura rinascimentale che ebbe origine da un processo di integrazione della antichissima cultura alchemica con la emergente capacità produttiva artigianale fiorentina nella fusione dei metalli, nella preparazione e la fissazione dei coloranti per le stoffe e gli arazzi e nella preparazione dei medicamenti in farmacia da parte della potente corporazione fiorentina degli "speziali". L'alchimia fu vista dal casato dei Medici come una cultura globale e quindi più adatta a salvare il mondo perfezionandone la sua natura, ivi compresa quella umana, con una finalità non limitata alla salvezza dell'uomo, come richiedeva la tradizionale impostazione culturale dell’alchimia di indole mistica; in
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tal senso la riscoperta della alchimia ermetica fu considerata a Firenze una utile componente di un processo di rinnovamento culturale capace di superare il medioevo. Il risultato più evidente di un tale processo di integrazione culturale, tra alchimia ermetica e "arti e mestieri" del rinascimento, fu infatti quello di iniziare a mettere in dubbio l'utilità delle concezioni aristoteliche, che avevano rappresentato la cultura scientifica dominante nel medioevo, la quale si era perfettamente integrata nella tradizione cristiana ufficialmente accettata dalla Chiesa di Roma. Con il Rinascimento Fiorentino inizia una riflessione quanto mai prammatica sul concetto di "trasmutazione in oro", che con ogni evidenza fino ad allora era risultato impossibile da sperimentare. Anziché ritenere colpevoli le conoscenze raggiunte, intelligenze del calibro di Leonardo Da Vinci (1452-1519), iniziarono a ritenere impossibile, il fatto che, le deboli forze messe in giuoco dal fuoco, quale agente di trasformazione, potessero condurre al raggiungimento di un puro stato di "nigredo", capace di disciogliere qualsiasi sostanza e raggiungere lo stadio di "materia prima", in quanto solo tale stato di perfezionamento della fase iniziale delle trasformazioni, avrebbe permesso di ricombinare la materia e raggiungere effettivamente la "trasmutazione" qualitativa degli elementi in oro. Piuttosto che approfondire tali critiche, che in seguito condussero a nuove forme di pensiero ed al recupero della teoria Atomistica ad iniziare dal libro di Robert Boyle (edito nel 1661), nella Firenze Medicea fu vincente la prassi delle Arti e Mestieri che, con Vannoccio Biringuccio - (scrittore del Libro "De La Pirotechnia" -Siena 1540), Benvenuto Cellini e molti altri, favorirono in Toscana la crescita il Rinascimento Italiano creando una scuola di artigiani ed artisti famosi nel saper adoperare l’arte del fuoco per fabbricare vetri, fondere metalli, produrre nuovi coloranti, sperimentare nuovi medicamenti ... sviluppando gli insegnamenti della antica Alchimia. (2) A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni. (3) Tuttavia, proprio E. Zolla ha testimoniato l’esistenza di queste pratiche anche presso le civiltà c.d. “primitive”. (4) M. Eliade, Forgerons et alchimistes (tr. Italiana Arti del metallo e alchimia, Torino 1960) (5) I cui esponenti principali sono rispettivamente Antoine Faivre e Pierre Riffard. (6) M. Eliade, Forgerons et alchimistes (tr. Italiana Arti del metallo e alchimia, Torino 1960) (6) Ibidem. (7) È da escludere però che Eliade abbia assimilato ulteriormente l’insegnamento heideggeriana, non avendo avuto alla base una vera formazione filosofica. (8) Cfr. il pescecane o la balena che inghiotte Pinocchio. (9) Cfr T.Norton, Ordinall of Alchemy, in E. Ashmole, Theatrum Chemicum Britannicum (10) Fra queste va certamente ricordato, di Elemire Zolla, Le meraviglie della natura, Milano 1975. (11) In particolare del Berthelot: Introduction à I'etude de la cbimie des Anciens et du Moyen Age, Paris 1889; Les origines de l'Alchimie, Paris 1885; La chimie au Moyen Age, Paris M.DCC.XCIII. (12) F.Sherwood Tavlor: A survey Qf Greek Alchemy. citato da M.Eliade. (13) Tra l'altro in greco theion significa 'zolfo', ma anche 'divino', proveniente dalla divinità, 'Sacro', in modo aggettivo, e 'divinità', 'natura o essere divino' come sostantivo. Il che dovrebbe indurre a caute riflessioni. (14) In realtà Jung era stato preceduto da H. Silberer, allievo di Freud che a sua volta aveva ripreso temi sviluppato da E. A. Hitchook, generale statunitense, erudito e massone influenzato da Swedemborg. Sono le opere di Jung e dei suoi allievi comunque a guidare ormai questa tendenza. Per questi pro-blemi vedi A History of psychological interpretation of Alchemy di L. H. Msartin jr., in Ambix vol 22 n° 1, marzo 1975 (15) Non daremo indicazioni bibliografiche, peraltro facilmente accessibili. Non possiamo però non ricordare La tradizione ermetica di J. Evola, non fosse che per la notevole ilarità che ci ha procurato la lettura di alcuni brani, in un testo eccezionale, oltre che per la noia profonda che ispira, per l’idiozia delle dottrine socio-politiche sottintese. (16) Speculum minus alchimiae Bibl. Univ. Bologna 153, cap. 1 Sec. XIII (17) Ne riparleremo con più dettagli nell’esame dell’antica alchimia cinese. E’ certamente un’ipotesi suggestiva. (18) Liber Laureatus, R. Bibl. Cas. 1477, n. 1: “Guglielmi Philosophi liber de Monade inc. Unus Deus in essentia….". Studiato particolarmente da Carbonelli, vedi Sulle fonti storiche della Chimica e dell’Alchimia in Italia, Roma 1925. (19) Symbola Aurea Mensae duodecim nationum… Autore Michaele Maiero… Francofurti… MDCXVII, lib. 1: “Hermetis Aegiptiorum regis et antesignani Symbolum”: Sol est eius coniugii pater et alba Luna Mater, tertius succedit, ut gubernator, Ignis (20) Si intende, dalla creazione del mondo (21) Jo. Jacobi Magneti… Bibliotheca Chemica Curiosa, seu rerum ad Alchimiam pertinentium Thesaurus instructissimus… Genevae MDCCII Tomus Primis, lib 1, Sectio prima “De Alchimiae ac Primariorum in ea Scriptorum historia” Subsectio prima: “De hortu & progressu Chemiae Dissertatio” Autore Olao Borrichio medico regio & in Accademia Hasniens Professore publico. (22) Uso qui una terminologia forzatamente imprecisa, per non appesantire il discorso. Le parole vanno quindi intese nel loro senso più “ingenuo”. Prima fra tutte "energia". (23) Almeno la metallurgia del bronzo. Vedremo che ad una tecnologia che non conosca ancora la fusione del ferro, corrispondono forzatamente metodi alchemici, più tardi compresi sotto il generico nome di "via umida". (24) Per questa parte vedi in particolare: L.B. Iovanovic Le origini dell'estrazione del rame in Europa, “Le Scienze”, n. 143. N.H.Gale e Z.StosGale Piombo e Argento nell'antico Egeo “Le Scienze”, n.156. R.Maddin, G.D.Muhly e T.S.Wheeler Come ebbe inizio l'età del ferro, “Le Scienze”, n.113 e la bibliografia citata. (25) L’inizio dell’età del bronzo antica (EBI) si pone intorno al 350 a. C. (26) Questa temperatura è molto superiore al punto di fusione del piombo metallico che è di 327°C. (27) Cultura di Karanovo VI, tardo Calcolitico. (28) Questo ferro ha una resistenza a trazione di circa 28 kg.\mm2 , solo di poco superiore a quella del rame puro (22 kg.\mm2). Il processo di incrudimento causato dalla continua martellatura può portarne la resistenza a 70 kg.\mm2. Tuttavia un bronzo all’11% di stagno ha, allo stato di getto, una resistenza a trazione di 48 kg.\mm2, che dopo la lavorazione a freddo può raggiungere 84 kg.\mm2. (29) Il ferro non venne fuso prima della metà del primo millennio a. C., quando il processo fu realizzato per la prima volta dai cinesi in estremo oriente. (30) Per semplicità non discuteremo qui del difficile e controverso problema dell'attribuzione alla cultura sumera o a quella semita che le succedette, delle singole caratteristiche notate. Siamo comunque convinti che l'insegnamento originario sumero sia stato solo parzialmente deformato dai popoli successivi.
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(31) Per quel che segue vedi, tra l'altro: Hugo Winkler, La cultura spirituale di Babilonia, Ed. Rizzoli, Milano 1980; H.C.Puech, Storia delle
religioni, vol.I, Ed. Laterza, Bari 1970. (32) Anche i decreti reali hanno il nome di “me” per analogia. (33) N. Flamel Les Figures Hieroglyphiques, in Trois Traictez de la Philosophie Naturelle….par P. Arnaud, Sieur de la chevallerie Poicteuin
…Paris MDCXII (34) Martin Levery, Research sources in ancient Mesopotamian chemistry. Ambix VI, 3 (35) Ibidem (36) R. Campbell Thompson A Survey of the chemistry of Assyria in the Seventh Century b.C. in Ambix, II, 1 (37) M. Eliade Forgeron et Alchimistes, Paris 1977 (38) A questo proposito, Marie Delcourt ha raccolto un dossier che approfondisce questi studi di cui propone una differente interpretazione d’insieme. Marie Delcourt, Hermaphrodite. Mythes et rites de la bisexualité dans l’antiquité classique, Parigi, PUF, 1958; Hermaphroditea. Recherches sur l’être double promoteur de la fertilité dans le monde classique, Latomus 86, Bruxelles, 1966). (39) Un dossier riguardante almeno sedici casi è stato raccolto da Luc Brisson, "Aspect politiques de la bisexualité. L’histoire de Polycrite (Phlégon, De mirab., cap. 2; Proclo, In Remp. II, 115.7-15, Kroll)", in Hommages à Maarten J. Vermaseren I, Leida, Brill, 1978, pagg. 80122 e soprattutto la tabella a pag. 110. (40) Un’analisi di questo mito è stata proposta da Luc Brisson, "Bisexualité et médiation en Grèce ancienne", nella Nouvelle Revue de psychanalyse n. 7 (Bisexualité et difference dei sexes), 1973, pagg. 27-48. D’altronde, su questo stesso mito, si possono trovare dei cenni molto interessati nel libro di François Flahaut, L’Extrême Exìstence, Parigi, Maspero, 1972, pagg. 23-27. (41) Questa rappresentazione dell’uomo delle origini come essere doppio risale ad Empedocle (DK 31 B 57-62). Si trova un commento a tali frammenti in Jean Bollack, Empédocle, Parigi, Minuit, I, 1965, pagg. 191-207; III, 2, 1969, pagg. 417-434, e in Denis O’Brien, Empedocles’ cosmic cycles, Cambridge, Univ. ress, 1969, pagg. 205-208, 227-229. (42) Nella sua Storia degli animali (V, 30, 556a 14-b 20), Aristotele spiega che le femmine, fecondate dai maschi, depongono in terra delle uova da cui usciranno le larve che diverranno cicale. Si capisce, quindi, che un’osservazione imprecisa di questo processo abbia potuto portare a credere che le cicale nascessero dal suolo o per generazione spontanea o a seguito della deposizione del seme, la fecondazione essendo stata confusa in quest’ultimo caso con la deposizione delle uova. (43) Un commento su questi frammenti si trova in Jean Bollack, Empédocle, Parigi, Minuit, III.1, 1969, pagg. 281-295. (44) Cfr. Plutarch’s De Iside et Osiride, edito con un’introduzione, traduzione e commento di J. Gwyn Griffiths, Univ. of Wales Press, 1970. (45) In greco antico, sùmbolon designa un oggetto tagliato in due pezzi, la cui riunione costituisce un segno di riconoscimento. A questo proposito, cfr. Philippe Gauthier, Symbola. Les Etrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy, 1972, pagg. 65-66. (46) A proposito di tutto questo, cfr. Kennet J. Dover, Greek homosexuality, Londra, Duckworth, 1978, pagg. 144-145. Tradotto da Suzanne Saïd con il titolo: Homosexualité grecque, Bibliothèque d’ethnopsychiatrie, Grenoble, La Pensée Sauvage, 1982, pag. 178. (47) Questo mito è stato analizzato da Marie Delcourt, "La légende de Kaineus", Revue de l’histoire des religions, 144, 1953, pagg. 129-150. (48) Jean-Pierre Vernant, "Guerre des cité" (1968), in Mythe et société en Grèce ancienne, Parigi, Maspero, 1974, pag. 38. (49) Per un elenco di tali pratiche istituzionali, cfr. Marie Delcourt, Hermaphrodite, op. cit., pagg. 5-27; e Jean-Pierre Vernant, in Mythe et société en Grèce ancienne, op. cit., pagg. 38-39. (50) In proposito, cfr. Pierre Vidal-Naquet, "L’origine de l’éphébie athénienne" (1968), in Le Chasseur noir, Parigi, Maspero, 1981, pagg. 164168 in particolare. (51) L’ultima volta i frammenti orfici sono stati riuniti da Otto Kern, Orphicorum fragmenta, 1922, Dublino/Zurigo, Weidmann, 1972. Tutte le citazioni rinviano a questa edizione identificata con il segno OF seguito dal numero del frammento. (52) Il termine "teogonia" è considerato in un’accezione estesa che comprende la teogonia propriamente detta, la cosmogonia e l’antropogonia. (53) Questo mito è stato analizzato da Marcel Detienne, "Dionisos orphique et le bouilli rôti", Dionysos mis à mort, Parigi, Gallimard, 1977, pagg. 161-217. (54) Per una scorsa delle opinioni in proposito, cfr. W. K. C. Guthrie, Orphée et la religion grecque (1935), Parigi, Payot, 1956 (trad. dall’inglese di S. M. Guillemin, pagg. 83-95). La scoperta, nel Febbraio 1962, a Derveni, a nord di Salonicco, in Grecia, di un rotolo di papiro che il contesto archeologico permette di collocare nella seconda metà del IV sec. a.C. e che presenta un commento neoplatonico ad una teogonia orfica necessariamente più antica, potrebbe modificare sensibilmente i termini della controversia. Su questo papiro in corso di decifrazione e di interpretazione, cfr. tra gli altri, Pierre Boyancé, "Remarques sur le papyrus de Derveni", Revue des études grecques 87, 1974, pagg. 91-110. (55) F. Cumont, "Mithra et l’orphisme", Revue de l’histoire des religions 109, 1934, pagg. 63-72. R. A. Turcan, in Mithra et le Mithriacisme, Parigi, PUF, 1981, pag. 100, contesta tale interpretazione. (56) Ivan M. Linforth, The arts of Orpheus, Berkeley, Los Angeles, Univ. of California Press, 1941, pagg. 291-306. (57) M. L. West, "Graeco-Oriental Orphism in the Third Century B.C.", Assimilation et résistance à la culture gréco-romaine dans le monde ancien, Travaux du VI Congrès international d’Etudes classiques (Madrid, settembre 1974) riuniti e presentati da D .M. Pippidi, Bucarest, Editura Academiei, Parigi, Les Belles Lettres, 1976, pagg. 221-226. (58) Marcel Detienne, "Potagerie des femmes ou comment engendrer seule", Traverses 5-6, 1976, pagg. 75-81. (59) Clémence Ramnoux, La Nuit et les enfants de la Nuit, op. cit., pag. 194 e segg. (60) In proposito, Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne, Les ruses de l’intelligence. La mètis des Grecs, Parigi, Flammarion, 1974, hanno raccolto un dossier. (61) W. K. C. Guthrie, Orphée et la tradition orphique, pagg. 114-116 e note 18-19, pag. 163. 25 – Jean-Pierre Vernant, "Les combats de Zeus", 1971 e "L’union avec Mètis et la royauté du ciel", 1974, in Les ruses de l’intelligence. La mètis dei Greci, op. cit., pagg. 61-103, pagg. 104-124. (62) Hans Lewy, Chaldean oracles and theurgy (1956), nuova edizione di Marcel Tardieu, Parigi (Etudes augustiniennes) 1978. L’ultima recensione dei frammenti è la seguente: Oracles chaldaïques con antichi commenti scelti, testo stabilito e tradotto da Edouard des Places, Parigi, Les Belles Lettres, 1971. Tutte le citazioni rinviano a questa edizione designata dal segno OC seguito dal numero del frammento. (63) Michel Tardieu, "La gnose valentinienne et les Oracles chaldaïques", The Rediscovery of Gnosticism, Proceedings of the International Conference on Gnosticism (Yale, New Haven, Connecticut, 28-31 Marzo, 1978), Studies in the history of religions (Supplemento a Numen,
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41), vol. I: The School of Valentinus, ed. da Bentley Layton, Leida (Brill) 1980, pagg. 194-231; cfr. Wilhelm Kroll, De oraculis chaldaicis, Breslauer phiologische Abhandlungen VII, 1, Breslau, Koebner, 1894: ristampa 1962, Hildesheim, Olms. (64) Michel Tardieu, Trois Mythes gnostiques. Adam, Eros et les animaux d’Egypte dans un écrit de Nag-Hammadi (II 5), Parigi, Etudes augustiniennes, 1974. Questo trattato sarà designato con il segno NH II 5; nelle citazioni, le prime cifre che seguono questo segno rinviano alla numerazione delle tavole del codice II nell’edizione fotografica di Pahor Labib (Il Cairo 1956), le seconde alle righe di ognuna di queste tavole. (65) Hans Lewy redige un quadro dei paralleli stabiliti da Proclo fra i tre sistemi teologici in l’Excursus VII: "Proclus Exposition of the Chaldean System of the Noetic Entities", Chaldean Oracles and Theurgy, pagg. 481-485. (66) Corpus Hermeticum, testo curato da A. D. Nock e tradotto da A. J. Festugière, Parigi, Les Belles Lettres, I, 1945; II, 1945; III, 1954; IV, 1954. Tutte le citazioni rinviano a questa edizione designata con il segno CH seguito dal numero del trattato e da quello dei paragrafi. Per un parallelo tra ermetismo e gnosticismo, cfr. Giulia Sfameni Gasparro, Gnostica et hermetica. Saggi sullo gnosticismo e sull’ermetismo, Roma, ed. dell’Ateneo, 1982. (67) Charles Kannengiesser, "Philon et les Pères sur la double création de l’homme", Philon d’Alexandrie. Colloques nationaux du C.N.R.S., Lione 11-15 Settembre 1966, Parigi, C.N.R.S., 1967, pagg. 277-296. Cfr. anche La "doppia creazione" dell’uomo negli Alessandrini, nei Cappadoci e nella gnosi, a cura di Ugo Bianchi, Roma, ed. dell’Ateneo & Bizzarri, 1978. (68) Jean Hubaux e Maxime Leroy, Le Mythe du Phénix dans lei littératures grecque et latine, Bibliothèque de la Faculté de philosophie et lettres de l’université de Liège, fasc. 82, 1939; R. Van Den Broek, The Myth of the Phoenix according to Classical and Early Christian Tradition, EPRO 24, Leida (Brill), 1972; A. J. Festugière, "Le symbole du Phénix et le mysticisme hermétique", Fondation Eugène Piot. Monuments et Mémoires 38, 1941, pagg. 147-151. (69) Luc Brisson, Le Mythe de Tirésias, EPRO 55, Leida, Brill, 1976. (70) Contro l’interpretazione di Georges Dumézil, "La maladie des Enarées", 1946, in Romans de Scythie et d’alentour, Parigi, Payot, 1978, pagg. 212-218. D’altronde, si può leggere ciò che François Hartog dice a proposito degli Enareti in Le miroir d’Hérodote. Essai sur la représentation de l’autre, Parigi, Gallimard, 1980, pagg. 141-148. (71) Carl Gustav Jung, "Sulla psicologia dell’inconscio", Boringhieri,Torino. "Vivendo tale archetipo (Ermete,n.d.a.), il moderno fa l’esperienza della modalità più antica di pensiero, come attività autonoma di cui si è l’oggetto. Ermete Trismegisto o il Thot della letteratura ermetica, Orfeo, Pimandro, e il Pimen (Pastore) di Hermas che gli è apparentato, sono altre formulazioni della stessa esperienza. A tale archetipo converrebbe anche il nome di Lucifero, se tale nome non fosse così compromesso". Jung aggiunge anche che questo archetipo di ‘vecchio saggio’ è associabile a Zarathustra, ed è l’"archetipo del senso". (72) L’opera è stata analizzata in modo rigoroso da Festugière in "La Rèvelation d’Hermes Trismègiste", 4 volumi, Gabalda, 1944-54. (73) Marsilio Ficino (1433-1499), filosofo e letterato italiano che è considerato il principale esponente dell’Umanesimo; dedicò la propria vita alla traduzione di testi classici (i dialoghi platonici, gli inni attribuiti ad Omero e Orfeo, la Teogonia di Esiodo, etc.) che gli permisero di ‘conciliare’ la filosofia classica con la religione cristiana in una concezione ‘armonica’ dell’universo, nel quale l’essere umano è contemporaneamente centro e mediatore tra l’Uno (Dio) e la molteplicità delle Sue manifestazioni. (74) Si veda, Marabout Universitè, vol.I, pag.14. (75) Andrea Alciato (1452-1550) illustre giurista lombardo che prestò la propria professione di insegnante ad Avignone, Bruges, Bologna e Pavia ma che ha lasciato una celebre opera di stampo filosofico, "Emblematum Liber", in cui raccolse epigrammi latini accompagnadoli con figure allegoriche in cui emerge la sua notevole conoscenza della classicità antica. Vi ricorrono riferimenti mitologici, simbo-lici e favolosi. L’opera venne ripubblicata ben 180 volte nell’arco di duecento anni e fu tradotta in varie lingue. (76) J.F.Champollion (1790-1832) è considerato il moderno decifratore dei caratteri geroglifici Egizi dandone l’interpretazione fonetica ed ideografica. (77) Raccolta di 1070 testi di incerta datazione (almeno prima del 1600 a.C.) che rappresentano il più antico trattato della letteratura indiana. I “Veda” completi sono costituiti da altre tre raccolte di documenti scritti. (78) Francesco Colonna è famoso per il più celebre libro illustrato rinascimentale (in italiano "La Battaglia d’amore in sogno di Polifolo"), edito da Aldo Manuzio.Personaggio misterioso, viene identificato con un omonimo frate veneziano ma è più probabile che possa trattarsi del protonotaro apostolico nonché patrizio romano, Francesco Colonna, signore di Palestrina. (79) Bèroalde de Verville, nome vero Francois Brouard (1566 ca.-1629 ca.) fu medico, dedito all’alchimia, poligrafo, umanista, abiurò il protestantesimo. Fu autore di molte opere. (80) Michel de Nostredame (1503-1566) era provenzale e fu medico ed astrologo alla corte del re Carlo IX, protetto dalla regina Caterina dè Medici, sua madre e reggente. Con lo pseudonimo di Nostradamus scrisse le famose ed enigmatiche "Centurie" profetiche. (81) M.Maier: godette nel ‘600 grande notorietà in parte per i libri dei suoi emblemi (oltre all’Atalanta Fugiens, ricordiamo "Symbola Aureae Mensae"), in cui per la prima volta rivisita in modo organico i miti pagani, interpretandoli in chiave ermetica. (82) Daniel Stolcius fu alchimista alla corte dell’imperatore Rodolfo II (1552-1612). (83) C.Ripa (ca. 1500–1620 o forse 1625) intese riferirsi costantemente ai miti pagani e l’opera citata ha costituito uno dei repertori figurativi più seguiti da poeti, pittori e scultori fino al 1800. (84) La sua identità non è nota, anonimo scrittore di alchimia del 1600. (85) M.Mirabail, docente di psicopedagogia e studioso di esoterismo, nel 1976 ha fondato un Centro di Ricerche Esoteriche in Francia. (86) M. Fagiolo Dell’Arco, Il Parmigianino. Un saggio sull’ermetismo nel Cinquecento, Roma 1970, p.102-103. (87) A. De Pascalis, L’Arte dorata, Roma 1995, pp. 172-173. (88) J. Van Lennep, Art et alchimie, Bruxelles 1971, e soprattutto il più recente J. Van Lennep, Alchimie, Bruxelles 1984. (89) A. De Pascalis, op. cit., pp. 169-175 (90) Ibid., p. 62 (91) Vedi introduzione note di C. Crisciani alla Preziosa margarita novella, Firenze 1976 (92) B. Varchi, Questione sull’alchimia, Firenze 1827, XXII e XXIII. (93) A. De Pascalis, op. cit., p. 176 (94) Ibidem pag. 399 (95) E. da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di N. Petruzzellis, Milano 1966, p. 78. (96) L. Thorndike, A History of magic and experimental science, 1923-34, Vol. III, p. 176-190.
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(97) La parte saliente di quest’opera di Bernardo di Treves è tradotta in: A De Pascalis, op. cit., pp. 114-117 (98) Ibidem (99) J.J. Manget, Bibliotheca Chemica Curiosa, Ginevra 1702, Tomo I, p. 507. (100) J. Lindsay, Le origini dell’alchimia nell’Egitto greco-romano, Roma 1984. M. Berthelot, Collection des anciens alchimistes grecs, Parigi
1888 (101) H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1991, pp. 143 ss (102) W. Pagel, Paracelso, Milano 1989, pp. 209 ss. (103) F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969 (104) M. Fagiolo dell’Arco, op.cit., p. 40-41 (105) J. Van Lennep, op. cit., p. 298 (106) C. Mutti, Pittura e alchimia, Padova 1978, p. 13. (107) M. Fagiolo dell’Arco, op. cit., p. 38 (108) B. Obrist, Les débuts de l’imagerie alchimique (XV - XVI siècles), Parigi 1982 (109) G. Carbonelli, Sulle fonti storiche della chimica e dell’alchimia in Italia, Roma 1925. (110) J. D. Mylius, Philosophia reformata, Francoforte 1622, ill. II. L’illustrazione è riprodotta anche in C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Roma
1950, p. 252 (111) Per i problemi di datazione di questo testo, vedi A. De Pascalis, op. cit., pp. 108 ss. (112) Vedi: G. Testi, Dizionario di alchimia e di chimica antiquaria, Roma 1950 (113) J. Lindsay, op. cit., pp. 287-309. (114) Ibidem
Glossario dei principali termini alchemici Acqua: uno dei quattro Elementi degli Antichi. Non ha nulla in comune con l'acqua volgare. Affinaggio: operazione con la quale si separa da un metallo tutto ciò che gli è estraneo. Si pratica particolarmente sull'oro e sull'argento. Alberi: un albero che porta delle lune significa il Piccolo Magistero, la Pietra al bianco. Se porta dei soli, è la Grande Opera, la Pietra al rosso. Se porta i simboli dei sette metalli o i segni del sole, della luna e 5 stelle, si tratta allora della materia unica da cui nascono i metalli. Albificazione: calcinazione al bianco o al rosso. Alludel: apparecchio composto di vasi sovrapposti e comunicanti tra loro per effettuare una sublimazione lenta. Amalgamazione: unione intima di diversi elementi metallici, in un tutto assai omogeneo e molto malleabile. Angelo: simboleggia la sublimazione, ascensione di un principio volatile come le figure del "Viatorium spagyricum". Animali: in genere, quando ci si trova in presenza di due animali della stessa specie ma di sesso differente, come leone e leonessa, cane e cagna, stanno a significare lo Zolfo ed il Mercurio preparati in vista dell'opera, o ancora il fisso ed il volatile. Il maschio rappresenta allora il fisso, lo Zolfo, e la femmina il volatile, il Mercurio. Uniti, gli animali esprimono il congiungimento, le nozze, il matrimonio. Se si combattono: fissazione del volatile o volatilizzazione del fisso. Come nelle figure di Basilio Valentino, "Le Dodici Chiavi della Filosofia". Gli animali possono simboleggiare inoltre gli Elementi: Terra (leone o toro), Aria (aquila), Acqua (pesci, balena), Fuoco (dragone, salamandra). Se un'animale terrestre figura in un'immagine ermetica con un animale aereo, essi significano rispettivamente il fisso ed il volatile. Apollo: il sole, l'oro. Aquila: simbolo della volatilizzazione ed anche degli acidi impiegati nell'Opera. Un'aquila che divora un leone, significa la volatilizzazione del fisso per mezzo del volatile. Due aquile che si combattono hanno lo stesso significato. Argento dei Saggi: il Mercurio dei filosofi. Aria: uno dei quattro Elementi degli Antichi. Non ha rapporto con quella che respiriamo. Athanor: forno a riverbero. Bagno: simbolo della dissoluzione dell'oro e dell'argento, della purificazione di questi due metalli. Bagnomaria: apparecchio disposto in modo che il vaso contenente la materia, sia immerso nell'acqua calda. Bianco: Pietra al Bianco, pietra ancora imperfetta, di cui tutte le possibilità trasmutatorie non sono ancora sviluppate od ottenute. Calcinazione: riduzione dei corpi in calce; può essere secca o umida. Caldo: una delle quattro qualità elementari della Natura. Camera: simbolo dell'Uovo Filosofico, quando il Re e la Regina vi sono rinchiusi (Zolfo e Mercurio). Cane: simbolo dello Zolfo, dell'Oro. Il cane divorato da un lupo, significa la purificazione dell'Oro per l'antimonio. Cane e cagna associati significano il fisso ed il volatile. Caos: simbolo dell'Unità della Materia ed anche del colore nero, "Primo stadio dell'Opera", della putrefazione. Capitello: cavità di vetro munita di becco, che si adatta al collo della cucurbita per poter distillare gli spiriti minerali. Capitello, cappa, alambicco, sono pressappoco la stessa cosa. Cementazione: operazione con la quale per mezzo di polveri minerali, che si chiamano cemento, si purificano i metalli al punto che non vi resti più che la purissima sostanza metallica. Cigno: simbolo dell'Opera al Bianco, secondo stadio dopo la putrefazione e l'iridescenza. Quest'ultima non figura nel ternario classico della Grande Opera, nero, rosso, bianco. Circolatorio: vedi Pellicano.
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Circolazione: consiste nel far circolare i liquidi in un vaso chiuso per effetto d'un calore lento. Circonferenza: Unità della Materia, Armonica Universale. Cucurbita: vaso a forma di zucca aperta in alto, che si copre con un capitello per la distillazione dei vegetali o altre materie. Coobazione: azione di rimettere lo spirito metallico distillato, sul suo residuo. Corona: simbolo della regalità chimica, della perfezione metallica. Ne "la Margharita Preciosa" i sei metalli sono prima presentati come schiavi, con la testa nuda ai piedi del Re, l'Oro. Ma poi, dopo la Trasmutazione essi sono figurati con una corona in testa. Da cui, nell'Alchimia Spirituale, la frase di L.C. de Saint Martin: "Ogni uomo è il suo proprio Re", cioè ogni uomo porta in sé la possibilità del ritorno alla sua regalità perduta, nel piano spirituale ed angelico. Corvo: Uno dei primi stadi dell'Opera, la putrefazione. Crisopea: La Pietra Filosofale, la Grande Opera realizzata. Crogiolo: vaso di terra refrattaria svasato verso l'alto, destinato alla fusione dei metalli o dei corpi duri. Decrepitazione: azione di scaldare il sale comune in un crogiuolo per scacciarne l'umidità. Deflegmare: consiste nel separare l'acqua contenuta nei corpi (o flema), per evaporazione o distillazione. Diana: vedi luna. Digestione: disaggregazione, involuzione e maturazione della materia, ottenuta esponendo il vaso contenente al calore del bagnomaria, per un tempo conveniente. Distillazione: operazione durante la quale si separano le parti sottili dei corpi solidi e liquidi, o ancora lo spirito della materia, che l'invischiano. Dragone: un dragone che si morde la coda, l'Unità della Materia. Un dragone nelle fiamme, il simbolo del Fuoco. Parecchi dragoni che si combattono, la putrefazione. Dragone senza ali, il Fisso. Dragone alato, il Volatile. Ermafrodito: il risultato della congiunzione dello Zolfo con il Mercurio, chiamato anche Rebis. Falce: simbolo del Fuoco. Fenice: simbolo del colore rosso dell'Opera. l'Uovo della Fenice è l'uovo filosofico. La Fenice è anche lo Zolfo ed il Mercurio dei Saggi, uniti e congiunti al termine ultimo dell'Opera. Fiori: rappresentano i colori nel corso dell'Opera. Fisso: Zolfo metallico o cane di Corascene. Fontana: tre fontane rappresentano normalmente i tre Principi: Zolfo, Mercurio e Sale. Ci sono ancora altri aspetti di questa parola. Freddo: una delle quattro qualità elementari della Natura. Fuoco di Ruota: prima fase della seconda Opera, fuoco dolce e lento. Fuoco di Sabbia: interposizione di sabbia tra fuoco ed il vaso contenente la materia da trattare. Fuoco Segreto: spirito universale chiuso in seno alle tenebre metalliche, scintilla di vita chiusa in tutto ciò che è allo stato naturale primitivo. Giove: simbolo dello stagno. Leone: solo, simbolo del Fisso dello Zolfo. Alato, il Volatile, il Mercurio. Il leone rappresenta anche il Minerale, Vetriolo Verde, da cui si estrae l'olio di vetriolo (acido solforico). Il leone opposto a tre altri animali, simbolizza la Terra. È anche il simbolo della Crisopea. Leonessa: il Volatile, il Mercurio. Liquazione: l'Uovo Filosofico. Liquefazione: o deliquescenza, risoluzione naturale dei sali in acqua per un'esposizione in luogo umido. Luna: il Volatile, il Mercurio, l'Oro dei Saggi. Lupo: il simbolo dell'antimonio. Luto: strato fatto di materie, spesso ed untuoso, destinato ad otturare le giunte che legano diversi vasi tra loro. Marmorizzare: triturazione di materie sul marmo con l'aiuto di un pestello. Si dice anche porfirizzare. Marte: il ferro, la sfumatura arancione dell'Opera. Matraccio: vaso di terra, rotondo, ovale o appiattito, munito di un lungo collo. Vi si mette a cuocere a fuoco lento la materia preparata. Matrimonio: unione dello Zolfo e del Mercurio, del Fisso e del Volatile. Il prete che officia rappresenta il Sale, mezzo d'unione tra i due. Mercurio: uno dei Principi occulti costitutivi della Materia. Non ha nulla in comune con il corpo volgare di questo nome. È anche simbolo dell'Argento preparato per l'Uovo finale. Mestruo: acque minerali e vegetali di proprietà dissolventi. Corrosivo. Montagna: fornello dei Filosofi, sommità dell'Uovo Filosofico. Mortificazione: alterazione della materia per triturazione o per addizione d'un elemento attivo. Nero: simbolizzato anche dal corvo, immagine della putrefazione. Nettuno: l'acqua. Nozze: vedi matrimonio. Oro dei Saggi: Zolfo filosofico. Palazzo: entrata nel Palazzo chiuso: scoperta dell'argento capace d'operare la riduzione del Fisso, della "reincrudation" in una forma analoga a quella della sua primitiva sostanza. Designa anche l'accesso all'Oro Vivo, Oro dei Saggi o Oro filosofico, se si tratta dell'accesso al Palazzo chiuso del Re. Designa al contrario l'Argento Vivo, l'Argento dei Saggi o Mercurio filosofico, se si tratta dell'entrata nel Palazzo chiuso della Regina. Pallone: vaso di vetro ampio e rotondo destinato a ricevere i prodotti della distillazione. Pellicano: cocurbita chiusa munita di due anse incavate, colleganti la testa al ventre. Si chiama anche circolatorio in ragione della sua funzione.
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Pioggia: simbolo del colore Bianco nell'Opera o albificazione. È anche l'immagine della condensazione in corso di realizzazione. Prete: sposando un uomo e una donna, un Re o una Regina, simbolizza il Principio Sale. Prima Materia: Materia Prima dell'Opera Ermetica. Proiezione: azione di trasmettere un minerale in fusione all'attivo di una polvere detergente e trasmutatoria. Quadrato: simbolo dei quattro elementi. Ragazzo: vestito con abito regale o semplicemente incoronato, simboleggia la Pietra Filosofale, altre volte l'Opera al rosso. Re e Regina: vedi uomo e donna. Rebis: un risultato dell'amalgama dell'Oro dei Saggi, materia doppia, ad un tempo umida e secca, avendo ricevuto dalla Natura e dall'Arte una doppia proprietà occulta, esattamente equilibrata. Recipiente: designa qui un pallone di vetro. Residuo: ciò che resta in un vaso dopo la distillazione. Sinonimo di feci, di terra morta, terra dannata, caput mortuus. Rettificazione: ultima distillazione per ottenere uno spirito metallico estremamente puro. Si ottiene al fuoco assai vivo. Riverberazione: esaltazione dell'energia interna dello spirito metallico per l'azione del fuoco violento sulla materia che contiene questo spirito. Seccamento totale. Rosa: designa il colore rosso, stadio ultimo dell'Opera. Una rosa bianca ed una rosa rossa, unione del Fisso con il Volatile. La rosa è l'emblema dell'Arte Ermetica tutta intera. Rosso: stadio ultimo della Grande Opera, simbolizza il Fuoco. Rubificazione: azione di distruggere lo Zolfo combustibile e d'ottenere lo Zolfo incombustibile. Principio di Aurificazione in seno al minerale. Rubino Magico: agente energetico d'una sottigliezza ignea, rivestito del colore o delle molteplici proprietà del Fuoco. Anche chiamato olio di Cristo, olio di Cristallo: è allora simbolizzato dalla Lucertola Araldica o alla Salamandra che vive nel fuoco e se ne pasce. Salamandra: simbolo del Fuoco, qualche volta significa il colore rosso dell'ultimo stadio dell'Opera od anche il colore bianco che la precede. Rubino Magico. Sale: chiamato anche Arsenico, uno dei quattro principi misteriosi che compongono i corpi. Non ha nulla in comune con il sale volgare. È l'unione tra lo Zolfo ed il Mercurio nei metalli, ne deriva come d'altronde, dall'azione reciproca dello spirito e dell'anima, o dell'anima e del doppio psichico, si costituisce il corpo degli uomini. Il Sale può essere paragonato al "totale" nell'addizione dei due fattori. Saturno: designa il piombo; egualmente il colore nero dell'Opera allo stadio di putrefazione, sinonimo di corvo. Il tempo delle prove sul piano fisico. Scheletro: putrefazione, il colore nero dell'Opera , sinonimo di corvo. Secco. Una delle quattro qua-lità elementari della Natura. Sepolcro: Uovo Filosofico. Serpente: stessi significati del dragone. Tre serpenti designano i tre Principi, Sale, Zolfo, Mercurio. Due serpenti sul Caduceo, Zolfo e Mercurio dei Saggi, serpente alato il volatile, senza ali il Fisso. Serpente crocifisso, designa la fissazione del Volatile. Sfera: designa l'Unità della Materia. Sole: talvolta indica l'oro ordinario preparato per l'Opera, talaltra designa lo Zolfo dei Saggi. Spada: simbolo del Fuoco. Spartizione: operazione consistente nel separare l'argento dall'oro per mezzo del salnitro. È un affinaggio. Storta: vaso di vetro, rotondo con il becco rivolto verso il basso che serve a distillare la materia nel corso dell'Opera. Stratificazione: sovrapposizione, per piani alterni, di diverse materie sottoposte ad un fuoco violento in un crogiolo chiuso. L'amalgama si opera allora per fusione, ma la sovrapposizione non è lasciata al caso, essa deve essere razionale e scientifica. Sublimazione: violenta o lenta. Quella lenta è la migliore. La materia è rinchiusa in un vaso a collo lungo, su fuoco lento, in modo che le parti sottili (pure) si separino dalle parti grossolane (impure), sa-lendo dal fondo del vaso verso l'alto. Terra: uno dei quattro Elementi degli Antichi. Non ha nulla a che vedere con il suolo che calpestiamo. Triangolo: simbolo di tre Principi misteriosi costitutivi dei metalli, Sale, Zolfo e Mercurio. Uccello: che s'innalza nel cielo, volatilizzazione, ascensione, sublimazione. Che punta verso il suolo, precipitazione o condensazione. Le due immagini riunite nella stessa figura, la distillazione. Uccelli opposti ad animali terrestri, indicano l'Aria o il Volatile. Umido: una delle quattro qualità elementari della Natura. Uomo o Donna: Zolfo e Mercurio. Nudi designano l'oro e l'argento impuri. Le loro Nozze, congiunzione dello Zolfo e del Mercurio. Chiusi in un sepolcro, questi due principi uniti nell'Uovo filosofale. Venere: designa il rame. Volatilizzazione: azione di trasformare un solido in gas o in calore. Separazione degli Elementi Volatili da quelli Fissi. Vulcano: simbolo del fuoco ordinario. Zolfo: uno dei Principi occulti, costitutivi della Materia. Non ha nulla in comune con il corpo volgare di questo nome. È inoltre il simbolo dell'Oro, preparato per l'Opera finale. La terminologia simbolica appena trascorsa e quella che seguirà, "impiegano parole ed espressioni che non hanno rapporti diretti con i loro equivalenti della lingua profana". È auspicabile allora che il ricercatore apprenda prima della lettura definitiva ad interpretare i reali significati del testo. È dunque indispensabile definire ciò che si intende in certe parole essenziali, che sono i nomi degli elementi costitutivi della Materia Prima e della sua evoluzione verso lo stadio ultimo, l'Oro, simbolo della perfezione nel seno della Vita Metallica
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L’incanto dell’opera di Placido Scandurra La natura, i personaggi, gli oggetti dipinti da Placido Scandurra stabiliscono tra di loro, ed ognuno per conto suo, una rete di profuse corrispondenze. Questo vale per l’opera intera, senza considerazione di data o di evoluzione tecnica. Apparentemente pacificati, come venuti, a forza d’economia ad un’identità provvisoria, falsamente perenne, sono ricchi di postulazioni cosmogoniche. Ogni frammento porta in sé, dietro i sintomi del suo statuto, una coscienza orfana. Al pittore è assegnato di scoprire il velo, sempre ricadendo sul mistero di una funzione perduta. Se si potesse dare a questa ricerca una figura tutelare, sarebbe quella di Giano, il dio bifronte, maestro degli inizi e dei passaggi. Già, dal 1973, nella tela intitolata, Marco sul puff rosso, vaga il dio. Il ragazzo, mezzo assorbito in un cuscino/matrice, indica, invece, dal movimento congiunto del braccio destro e della mano sinistra, uno spazio da vivere. Nostalgici e ribelli, corpo e sguardo sono sospesi in un precario equilibrio tra quello che magari fu e quello che forse sarà. Il tema dell’inizio e del passaggio rivela ricorrenti simmetrie nei Bagnanti (1998). I personaggi in piedi nel mare o sulla spiaggia, seduti, sdraiati o immersi nell’acqua, tentano diverse posture come se cerchassero l’introvabile posto giusto. Quasi spogliati, offerti agli elementi fondatori, ridotti alla loro parte animale (lo segnala anche la presenza di un cane), stanno come sognando di un mondo una volta familiare. Della modernità fuggente non si richiamano. Il vapore fumoso che scivola nel lontano orizzonte segue una via sbagliata, le loro solitudini sono chiuse al dialogo. Però sono uniti dal mistero che li divide, notevolmente, dalla diafana armonia che li circonda. I cani randagi che figurano sulla tela dipinta nello stesso anno, come i bagnanti, sono alla ricerca erratica di un territorio perduto. Sono vicini agli uomini per avere da loro imparato il giogo del collare e i rumori delle catene. Certo, come i bagnanti dai loro vestiti, si sono anch’essi liberati da qualche vano accessorio, ma la loro memoria vibra ancora di antichi colori. Davanti all’impossibilità di restituire il tono, sono condannati a salmodiare, con urli muti, il rammarico di un’età rovinata. Affamati di luna piena, mendicano un magro quartiere di luce, purtroppo minacciato dalle premesse dell’alba. Nel Ritratto della famiglia (1972) come nella Natura morta con melograno (1995), i legami sottili che uniscono due soggetti opposti rendono conto della profonda coerenza di questa impresa pittorica. Le persone e le cose appartengono evidentemente a due mondi diversi. Resta, all’interno del primo quadro, come nel secondo, che esse sono pari perché né gli uomini né gli oggetti stabiliscono un insieme omogeneo. Tutti sono protagonisti; ognuno si chiude nel proprio enigma: figlio, padre e madre, senza dubbio, compongono una famiglia. Tutti gli indizi della composizione ne sembrano portare la testimonianza. Però, nella tensione della posa, priva-
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ti dall’uso delle loro mani, cioè dei loro strumenti di sopravvivenza e di solidarietà, le loro preoccupazioni diventano meditazione. Lo spazio orizzontale, quello che li univa, cede a quello verticale della discesa in sé. Ma il gatto vicino, emblematico della loro memoria, suggerisce l’idea di una possibile unità. Nello stesso modo, sono trattati gli elementi della natura morta. Le relazioni tra di loro traboccano d’ingannevoli evidenze. La caffettiera è inadatta alla dimensione del fornello. I fiori, prigionieri nel vaso inchinano il loro mazzo dolente verso l’antico humus inaccessibile. Solo il melograno, per ora ridotto allo stato di trottola sonnambulica, sembra in attesa di uno slancio per fecondare, dai suoi semi, un altro inizio di anziane novità. A queste cose pensavo ieri sul pendio del Gianicolo. La collina ieratica dedicata a Giano, aveva accolto, senza che ne sembrasse profanata, i rumori del secolo. Sulle rovine assenti del tempio saliva, filtrato, il concerto della città bassa. Come mosso da un soffio secolare, il passo dei moderni pellegrini ritrovava una cadenza dimenticata. Di rado, l’ascesa veniva interrotta dal mormorio di qualche sorgente. Più su, un lembo d’ombra cadeva sul frugale tesoro di un cestino. Bastò allora che, davanti a questi fermenti confusi, le palpebre si fermassero per ritrovare una genesi dell’innocenza. Parlo di quella che, nell’alchimia dell’olio e del lino, incanta l’opera di Placido Scandurra.
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La ceramica fra magia, alchimia e raziocinio GIULIANA GARDELLI
1- Antefatti “Fatto tutto questo con il nome di Iddio pigliasi un pugno di paglia, con il segno della croce accendasi il fuoco..” 1. Con queste parole il Piccolpasso a metà circa del secolo sedicesimo insegnava ad accendere la fornace, da cui, era nella speranza, splendidi sarebbero usciti quei fittili che la mano sapiente dell’artefice aveva creato, manipolando a lungo la semplice creta. Nel gesto cinquecentesco trascorreva una storia lunga quanto l’umanità, passando per tutti i continenti, raccogliendo tutte le credenze, le quali, pur nella diversità di vita e di pensiero dei vari popoli, avevano in comune la consapevolezza che divina è la scintilla della creazione. Non aveva forse Dio plasmato l’uomo a sua immagine, mediante la terra? I versetti della Genesi stigmatizzavano quanto le genti “primitive” da secoli realizzavano. Figurette antropomorfe o zoomorfe lasciate semplicemente ad indurire alla vampa del sole furono, per le antiche civiltà, la creazione più semplice, ed immediata: ma non era duratura. Allora l’uomo s’ingegnò e, attraverso infiniti esperimenti, scoprì la possibilità di rendere eterno il suo lavoro, mediante il fuoco, incanalandolo in sempre più perfette fornaci. Difficile stabilire dove avvenne la prima “cottura” in forno riducente od ossidante, perché troppo parziali sono stati fino ad ora gli studi e le scoperte. Poco investigate sono state le culture di regioni lontane dal ritmo della “storia scritta”, come le Americhe precolombiane, l’Oceania ed anche tante regioni periferiche dell’Eurasia. Tuttavia un dato appare in comune: la piccola statuaria modellata con la semplice terra reca in sé sempre un valore magico; racchiude i timori, le paure, le speranze, ma concretizza anche il concetto di bene e di male insito nell’animo umano. Se ancora oggi in certe culture la statuetta antropomorfa è usata in riti di magia “nera”, è perché in essa persiste la scintilla della creazione e tutto le è concesso. Non possiamo definire ceramica nel senso comune del termine i primi tentativi di raggrumare l’argilla con cottura casalinga a fuoco lambente, o solo ad esposizione solare, ma certamente le piccolissime statuette preceramiche, a struttura zoomorfa o antropomorfa con attributi maschili e femminili, sono le vere icone del pensiero mistico-magico che ci giungono dalla preistoria, e saranno poi sostituite dalla più duratura pietra o dal metallo2 (fig.1a-c).
fig. 1a-c: Statuette zoomorfe in argilla plasmate a mano e cotte al sole o a fuoco lambente (preceramica), in funzione apotropaica, da Piobbico (PU). Paleolitico superiore (Piobbico, sala delle Ceramiche).
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Esorcizzare la paura e vincere sulla furia distruttrice della natura, superare l’annullamento della morte per rigenerarsi e rendersi in tal modo padroni della vita stessa era il compito affidato alle pratiche sciamaniche rivelate dalle statuette che qui per la prima volta esponiamo e commentiamo. Si tratta di manufatti provenienti dal Nicaragua, territorio della Mesoamerica pochissimo studiato, che partecipa della cultura detta del “Gran Nicoja”. Abbiamo scelto cinque figurette zooantropomorfe, un cilindretto inciso per pittura del corpo, un vasetto ariballico con anse a testa di giaguaro, il tutto collocabile in un ampio spazio temporale, dal II-I sec. a.C al XV d.C. (tav.1a-g). L’immagine più
antica è quella di Tlaloc (tav.1a), dio dell’acqua dai tratti demoniaci; delle divinità che compongono l’universo panteistico nicaraguense in relazione agli elementi terrestri (acqua, aria, terra, fuoco) Tlaloc è senz’altro il più temuto. Il simulacro con la sua immagine, foggiato a mano come tutta la ceramica mesoaericana, è stato cotto a bassa temperatura in forno elementare, come rivela lo scuro dell’argilla interna appena ricoperto da una superficie rossastra che evidenzia i tratti del viso, molto forti, quasi mostruosi. Nel prosieguo del tempo una sia pure impercettibile evoluzione che giunse fino all’arrivo di Colombo e forse anche un poco oltre, rese la statuaria meno aspra, spesso colorata a fasce bicrome bianco-rosso (tav.1b), ma sempre con forti tratti incisivi per vincere la forza negativa della natura. Osserviamo la figura del cosiddetto “mostro della terra” in posizione eretta e seduta (tav.1-cd), ed ancora quella dello “Jorobado” (tav.1e), il distruttore, e comprendiamo il bisogno dell’uomo di dominare il ritmo incessante della vita e della morte. Per ottenere questo, occorreva che i riti propiziatori fossero diretti dallo sciamano, figura mitica, che sapeva possedere il bene ed il male, che operava dall’interno ed era in grado di mutare la materia e gli eventi. Gli serviva forse il cilindretto inciso, per dipingersi sulla pelle i magici temi (tav.1f): il “serpente” che striscia sulla terra, simbolo della rinascita della vita dopo la morte, il “labirinto” che nasconde ai profani le pratiche occulte, chiare invece agli eletti, infine per due volte, stilizzatissima, la figura di “uomo dalla testa di coyote”, o “alter ego”, capace di mescolare, trasformare, trasmutare, trasfigurare il visibile e l’invisibile3. Ed ancora forse gli serviva il piccolo ariballos a protomi di “giaguaro”, in funzione di portaveleno o portaunguenti (tav.1g). A questo piccolo vasetto possiamo accostare un albarellino realizzato lontanissimo nello spazio, ma non nel tempo; ci giunge infatti dall’ambito quattrocentesco laziale (tav.2). Ovviamente in quest’ultimo la tecnologia è assai più avanzata rispetto al “fratello” mesoamericano; lo dimostrano vari fattori: perfezione del tornio, trasmutazione di metalli informi in colori per la pittura su maiolica, cottura ad alte temperature; eppure riteniamo che l’uso del vasetto laziale non sia stato molto diverso da quello del contenitore miniaturistico nicaraguense. Se volessimo ancora più addentarci nel rischioso confronto religiosomagico-iconografico relativo alle credenze di popoli diversi fra loro, lontani nel tempo e nello spazio, troveremmo sorprese incredibili, a dimostrazione che il processo della vita organizzata non è soggetto a regole uguali ovunque, ma che l’evoluzione possiede ritmi talora più accelerati e talora più lenti; eppure sempre e ovunque è sotteso il denominatore comune: l’uomo. Non ci meravigliamo dunque se lo “Jorobado” mesoamericano del IV secolo d.C. ha somiglianze con il Ptah-Pateco fenicio del III secolo a.C, né che amuleti mesopotamici risentano d’antiche divinità egizie o di coeva cultura fenicia4. Piace qui, prima di passare ad esaminare la maiolica rinascimentale nei suoi riflessi magico-alchemici, osservare il fascino evocativo d’antichi riti, esorcizzanti intime paure, ma anche depositari di speranze positive, insite in due collane, l’una in pasta vitrea, l’altra in mescolanza di pasta vitrea e di bronzo (tavv. 3,4). Per quanto siano il risultato di un assemblaggio di elementi provenienti da diversi oggetti, ed anche di epoche diverse, si collocano entrambe nel rituale apotropaico siriano - fenicio che ruota attorno al Mare Mediterraneo, grande crogiolo dove da sempre si sono incontrate e scontrate le civiltà, mescolando, confondendo, componendo o uniformando le carte della storia.
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2- Maiolica rinascimentale “al nero” “costoro se(m)pre astrolla(n)do van/ perdendo il tempo e mai il vero non sanno” “Mai non do rustare di fare.1563. Le due scritte sono in evidente contrasto fra loro. Eppure sono state vergate su due maioliche di fattura veneziana pressoché contemporanee; la prima fig. 2: Piatto con Astrologo; nel cartiglio la scritta: costoro se(m)pre astrolla(n)do van/ perdendo il tempo e mai il vero non sanno. Venezia, Baldantonio da Lamoli, detto “Il Solingo durantino”, nella bottega di Mastro Domenico, sec. XVI, metà. (Herzog Anton Ulrich Museum Braunschweig; da Lessmann 1979, n. 78).
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si trova ora nel Museo di Brauschweig5 (fig. 2), la seconda di collezione privata possiamo ammirarla dal vero qui in mostra (tav.5a-b). E’ datata al 1563, a metà dunque del secolo sedicesimo, quando il Medioevo era già alle spalle e il Rinascimento cercava di condurre su vie razionali la visione filosofica del mondo. E’ evidente che nella credenza popolare i primi tentativi di razionalizzare il percorso della vita, di conoscere i ritmi vitali del corpo umano, di eseguire anatomie, di cercare le alchimie cosmiche di che si compone l’universo, erano da molti giudicati astrusi perditempo. “Van astrologando e perdono il tempo”, dice l’uno, osservando il filosofo-astronomo (considerato alla stregua di vacuo stregone) che, seduto su un masso entro paesaggio, tiene in mano la sfera armillare; non “fermarti mai di fare” dice con assennatezza l’altro. Analizziamo questa seconda ceramica che si rivela di grande fascino ed interesse. Nell’astrattezza di un paesaggio ideale dove i monti sfumano nell’azzurro cupo e le case stanno raggruppate quasi in bilico su un colle, un solo personaggio domina la scena: un vecchio seduto, che trattiene il mantello mosso da un vento vorticoso. Volge lo sguardo all’indietro, forse ad osservare quanto già realizzato. La mano regge un compasso aperto che traccia la distanza fra le stelle su una sfera appoggiata al ginocchio. In alto, nel cielo, appena si nota un sole oscuro, in stato di “nerezza”, la cui ombra si proietta sul lembo d’acqua fra le due rocce in filamenti scuri e scomposti. Dunque l’ordine “non fermarti mai”, è indirizzato all’uomo senza età dai capelli biondi ma dalla barba bianca, che si identifica nel filosofo, nel demiurgo, nell’alchimista, quasi un dio laico che misura la creazione6. Il compasso, strumento della divina geometria, ma anche simbolo di verità e ragione, aiuta l’uomo a dominare gli istinti e a raggiungere l’intelligibile, ma nel contempo questa ricerca gli risulta difficile, fa ripiegare l’animo su se stesso, allontana dalla vita reale; gli procura infine uno stato di malinconia, di “nerezza” appunto. La particolare impaginazione dell’istoriato, la tavolozza dei colori, la bella ed inusuale ghirlanda nel verso, la data 1563 conducono ad atelier di Venezia, probabilmente a quella di Mastro Domenico, dove ancora persistono, specie nell’incisiva ghirlanda, gli stilemi del suocero, Giacomo da Pesaro, alla cui morte, avvenuta nel 1546, Domenico ereditò la bottega, con i suoi segreti alchemici nella composizione dei colori, i suoi spolveri, i suoi disegni7. Il rapporto di Venezia con Dürer è quasi d’obbligo nella bottega di Domenico (lo vediamo in altre opere), ed influenze dureriane non sono estranee in questa maiolica, che per certi aspetti richiama la notissima “Melancolia” 8. Restiamo sempre in ambito veneziano, ma arretriamo d’alcuni decenni,
esattamente al 1549, data iscritta in una lapide ai piedi della “Luna” in forma di fanciulla nell’altro piatto istoriato (tav.6a-b). Qui, una figura femminile seduta entro paesaggio porta sul capo la luna falcata e tiene in mano un martello ed una livella. In alto al centro il sole a volto umano osserva il tutto fra nuvole che dal dorato sfumano nel nero; in basso entro riquadro appoggiato su masso la data 1549. In alto un tendaggio sollevato e trattenuto ai lati con nodi si apre sulla scena, come in una rappresentazione teatrale. Viene spontaneo il ricordo della “Diana-Luna” di Correggio nella camera della Badessa a Parma, dove per altro si stendeva, come straordinario tappeto musivo, uno splendido pavimento in maiolica, uno dei primi e più singolari pianciti ceramicati realizzati nel tardo ‘400 in Italia, dove non mancano riflessi esoterici e legami con i tarocchi9. Nella maiolica veneziana, si va oltre: la “donnaluna” tiene nelle mani strumenti pertinenti al lavoro dell’architetto. Ella siede su prato erboso con cespuglio rigoglioso, e le cime blu svettano lontane sotto il cielo striato. La tavolozza ricca di colori ha un disegno nitido, e tutto il segno è armonico e perfetto. Un’analisi approfondita dell’istoriato rivela anche qui ascendenze dureriane: la fanciulla seduta ricorda la “Melanconia I” del 1514, così come i simboli del martello e della livella. Eppure avvertiamo qualcosa di diverso. La simbologia è più chiara, più aperta, in un certo senso più eclatante; se non avessimo la data, 1549, diremmo di essere davanti al perfetto manifesto della “Massoneria”. Ma in quel torno di tempo la corporazione non era ancora nata, o almeno non era stata codificata; solo nel 1598 avrebbe ricevuto in Scozia gli Statuti ufficiali da W. Schaw. Tuttavia osserviamo che, se martello e livella divennero simboli massonici, non così fu della luna. Come dunque interpretare il bell’istoriato? Torniamo all’alchimia, alla cabala, al processo di trasformazione della materia, al laboratorio, dove molti sono gli strumenti necessari. Per inciso ricordiamo anche i crogioli, di cui in mostra si ammirano due splendidi esemplari bronzei (tavv.11,12), coevi alla nostra maiolica, dove Sole e Luna, luce e tenebre dominano il mondo, qui rappresentato dal paesaggio. Gli strumenti sono il mezzo per la trasformazione della materia: la terra è il grande laboratorio dove continuamente tramite la morte (notte= luna) e la vita (giorno=sole), incessantemente si attua il ritmo alchemico dell’universo. Nel verso della bella maiolica foglie lanceolate s’intersecano come in una corolla fiorita; in cavetto appare un segno crociato a bracci uguali (croce teutonica?) (tav. 6b). A chi e a quale atelier dobbiamo attribuire quest’intrigante istoriato? Venezia è senza dubbio la patria, ma è la data, 1549, e la croce, che possono fornire elementi per un’ipotesi. La croce si trova in un piatto firmato da Maestro Ludovico10, ma diverso è il suo stile né a lui possiamo con certezza assegnare dipinti istoriati. Saremmo tentati di considerare Giacomo da Pesaro, ma sappiamo che egli morì nel 1546. Forse dobbiamo, come nel piatto del Brauschweig, vedere una prova del Solingo Durantino, alias Baldantonio da Lamoli, alias Maestro Mazo? Presente a Venezia già dal 1548, attuò questa maiolica, pezzo di straordinaria bravura, forse come sua prima prova ? Ci sembra infatti che il piatto del Brauschweig, per altro non datato, sia leggermente più tardo, per una maggiore maturità artistica. A questo punto una domanda s’impone: perché Venezia? Perché, nella rarissima casistica di maioliche rinascimentali riconducibili al pensiero magico-alchemico la città lagunare si pone al primo posto? Vi era una particolare committenza in grado di fornire al pittore il disegno da riprodurre su
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ceramiche elitarie? Era forse il Solingo stesso un uomo dedito alle pratiche alchemiche, del resto non lontane dall’opera del figulo, alchimista lui stesso, nella calcinazione dei minerali in fornelli da riverbero per la composizione dei colori, e nella sempre incerta trasformazione della molle creta in dura ceramica al fuoco della fornace, dove la vampa di cottura diveniva il fato imperscrutabile ed imprevedibile ? Scendiamo lungo la penisola, e, lasciando per ultimo la Romagna, osserviamo una bella brocca a beccuccio versatore, realizzata nei primi decenni del secolo sedicesimo nella cittadina umbra di Deruta, famosa allora come oggi, per la ceramica (tav.7). Serviva per contenere giulebbe, vale a dire sciroppo, in questo caso, come avverte la scritta, ottenuto con aceto zuccherato. In perfetta e bilanciata forma, la brocca reca sul frontale una vivace decorazione spartita in due parti dal nastro iscritto. In alto, due cerbiatti sono accosciati ai lati di una pianta dalle foglie seghettate che tanto assomiglia all’elleboro nero, “elleborus niger adulterinus hortensis”, come, nello stesso torno di tempo, venne disegnato e descritto da Leonardo Fuchs nel suo mirabile libro edito a Basilea nel 154211. La pianta, oggi nota come “stella di Natale”, è velenosa, e la scelta vorrà pure indicare qualcosa, dato che nulla ha a che vedere con il giulebbe acetato. I significati simbolici del cervo sono svariati, ma sempre in positivo come nella simbologia biblica (salmo XLI.1), e nell’iconografia cristiana (cervo =Cristo); qui accanto a pianta velenosa, essi vengono a significare il bene che vigila ed isola il male12. In basso, entro tondo, uno scudetto araldico a “testa di cavallo”presenta un ghepardo rampante che tiene con le zampe anteriori una squadra. Animale chiamato in vari modi, ricorda anche la “lonza” dantesca dal pel maculato. La squadra che innalza è sicuramente un simbolo massonico, ma anche qui, come nel caso del piatto veneziano (tav.6) siamo agli albori della corporazione, anzi alquanto prima. Anche questo andrà valutato nella genesi massonica, perché le origini vanno cercate nelle corporazioni medievali dei maestri architetti, itineranti, come furono in Italia i “Maestri comacini”, già menzionati dall’Editto di Rotari del 643, la cui eredità passò poi ai “Maestri Campionesi”. Viene in mente la bella figura di Lanfranco rappresentato nelle miniature della Relatio (sec.XIII) accanto ai suoi operai che con gli strumenti del mestiere costruiscono la cattedrale di Modena13. E del resto non è Dio il grande costruttore dell’Universo? Cogliamo forse nel vero, nel considerare la brocca non solo come strumento indispensabile di una farmacopea dove si creano farmaci utili alla salute, ma anche proprietà di un uomo “alchemico” in positivo, facente parte di una corporazione. Per ultimo abbiamo lasciata la Romagna rinascimentale, terra di grandi conflitti, dove i signori, come tramanda Dante, erano sempre in guerra, ma anche terra di grande fermento culturale, crogiolo di esperimenti focalizzati nella manipolazione della terra, sia nei centri di potere signorile (Imola, Rimini, Ravenna,Faenza, Forlì), come nelle località satelliti. Per il nostro assunto abbiamo trovato due maioliche, vicinissime nel tempo e nello spazio, ma lontanissime nello spirito che le anima. L’una, una ciotola quasi monocroma dipinta con estremo rigore e perfezione razionale (tav.8), l’altra, un grande piatto, dalla complessa ed ermetica iconografia, che ancora risente di un non lontano Medioevo fantastico (tav.9a-b). La ciotola, di fattura faentina attorno al 1480-90, è dipinta su maiolica, in cromia bianco-azzurro con qualche tocco di verde solo nel cavetto. Presenta una decorazione a forma di fiore: lungo la parete concava nove petali lance-
olati con decori di fantasia sono inframmezzati da nove vasetti triangolari da cui esce un mazzo di tre fioretti; in cavetto, entro cerchio a decoro stellare, appare l’immagine della “Luna raggiata con falce”. Interessante è notare la perfezione razionale del decoro. Attorno alla luna dal volto femminile con espressione melanconica, stanno dodici raggi, le cui punte indicano dodici tondi bianchi (stelle?), ubicate al vertice di dodici rombi. Come interpretare questo “unicum” della produzione faentina? La predominanza cromatica bianco-blu ricorda la coeva porcellana orientale che giungeva nella Romagna tramite i porti di Ravenna e Rimini; ma i tocchi verde scuro giocano al centro rivelando la luna in “nerezza” melanconica14. Il numero dodici è riferito ai mesi dell’anno? alle ore della notte? o, come a metà del Seicento scriverà Athanasius Kirker nel suo Obeliscus Pamphilius, indicano le divinità che presiedono al ritmo produttivo della terra? (fig.3)15. Abbiamo qui un intrigante e fig. 3: La Luna e le dee pagane come emanazioni delle forze lunari (A.Kircher, Obeliscus Pamphilius, Roma 1650).
straordinario connubio: da un lato il fascino dell’Oriente, dall’altro il razionalismo ermetico dell’Occidente, il tutto ancora nel Quattrocento, agli albori dell’Umanesimo: non è cosa da poco, anzi da meditare. Il piatto ha tutt’altro rigore (tav.9a-b). Nella larga tesa, sul blu scuro di fondo, si svolge una decorazione giallo-arancio con velature bianche, che solo marginalmente attiene alla primitiva “grottesca”, e dove elementi militari e cornucopie sono frammisti a fiaccole, cirri e fiori propri della miniatura. Anzi vi vediamo un ricordo, non è chiaro quanto consapevole, di certe xilografie della “Hypnerotomachia Poliphili” di Fabrizio Colonna, la cui prima edizione apparve a Venezia nel 149916. Segue una larga fascia bianca su cui sono vergati in blu segni risalenti a varie antiche scritture. Si notano lettere che attingono all’alfabeto isiaco, eolico, etrusco, altre di fantasia, in una commistione assolutamente casuale, che purtuttavia è volutamente ermetica, non decifrabile da tutti, legata all’occulto del pensiero più recondito, accessibile a pochi eletti. Essa prelude ed anticipa la figurazione centrale: un “Drago cavalcato da un putto alato”, che volge indietro lo sguardo, mentre la bestia incede verso un padiglione rotondo, quasi nascosto, sulla destra. Il drago sotto varie sembianze fa parte del più antico bestiario immaginifico che ebbe massima espressione nel Medioevo, quando, secondo tradizione, serviva da cavalcatura alle streghe per gli incontri sabbatici. Rappresentazione allegorica delle pulsazioni negative dell’animo che impediscono l’elevazione spirituale, il drago è qui dominato dal fanciullo alato, che rappresenta la ragione in grado di indirizzare gli istinti bestiali verso il padiglione, dove lavora l’uomo pensante. Il laboratorio alchemico è rappresentato in forma rotonda, perché il cerchio mistico allude alla centralità del cosmo, sede perfetta dell’illuminazione filosofica17. Volutamente simbolico, il messaggio che ci viene dalla maiolica invita alla meditazione. Certamente al figulo pittore è giunto un disegno studiato a tavolino da un umanista, da un filosofo, legato ad una delle tante signorie rinascimentali; pensiamo alla vivacità culturale delle corti padane, dei Malatesti, degli Este o dei Bentivoglio, in quella zona così ricca di umori, com’è stato il territorio costiero della Romagna, e a più largo raggio la fascia sudorientale della Padania18. In quest’area dobbiamo ricercare la bottega che ha realizzato, su commissione, una così intrigante ceramica19. Il verso con tondi crociati
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(meloni, simbolo cinese della fertilità?) fra grafismi d’oscura lettura (geroglifici?) trova somiglianze con frammenti dal sottosuolo di Rimini, del tardo Quattrocento; tuttavia dati i continui rapporti fra le piccole corti della Romagna, non si può escludere Ravenna, città di notevole produzione ceramica, ancora poco studiata20. 3- Il Seicento La maiolica secentesca visse di vita stentata. La situazione italiana politica e sociale era disastrosa, complicata da epidemie terribili, come la famigerata peste manzoniana, da scarsità di cibo per una piccola glaciazione, dalle ruberie della soldataglia per le continue guerre europee. Non vi erano soldi per procurarsi le materie prime, i costosi metalli da trasformare nel fornello a riverbero in colori squillanti, né più giungevano ai figuli ricche commissioni dalle corti signorili, che tanto avevano sostenuto quest’arte. Si lavorava in pura sussistenza21. Solamente Roma, capitale di un vasto stato e soprattutto sede pontificia, godeva di discreta prosperità. Quasi tutte le famiglie nobiliari, abbandonate le antiche città sparse per l’Italia, avevano un palazzo, una sede nell’Urbe. Di più: giungevano a Roma in cerca di lavoro e di fortuna gli artigiani e le maestranze che un tempo avevano recato lustro ad altre terre, lasciando pressoché inerti le antiche fornaci. Fu un vero e proprio esodo che coinvolse il Nord come il Sud. Dall’incontro di sì diverse esperienze artistiche si creò un nuovo stile, tutto romano, non privo di grazia22. A fabbrica romana attribuiamo l’ultima ceramica, un albarello dalla parca cromia basata sul giallo e sul verde con pochi tocchi d’azzurro su un fondo bianco spento, quasi grigio23 (Tav.10a-b). La figurazione si sviluppa lungo tutta la parete pseudocilindrica e si divide in due parti che s’incontrano nei fianchi. Nel frontale, partendo dall’alto troviamo un fiore; al di sotto due stelle sovrastano ai lati una fascia ad andamento concavo con la scritta: Ell.BENEDITE.LAXATI, che incornicia una clessidra entro una struttura tenuta sollevata sulla fiamma vivace da due grandi ali. Ai lati, sotto le stelle, a destra e a sinistra, due falci di luna sono rivolte verso la fiamma. Nel postergale, due lunghi steli fogliati evidenziano un mascherone dalla cui bocca sgorga un lungo rivolo d’acqua, che termina su una roccia dove è iscritta la data: 1672/KAL./IAN , 1 Gennaio 1672. Come si nota, assai complessa è la figurazione, certamente creata a tavolino e consegnata al pittore da realizzare. Il fiore e gli steli fogliati appartengono all’elleboro, pianta già analizzata nella brocca derutese (tav.7) ma qui rappresentata più realisticamente (fig.4). La clessidra alata indica il tempo che passa; dato che è sopra la fiamma fig. 4: Elleborus niger adulterinus hortensis (L. Fuchs, De historia stirpium, Basilea 1542; ed. anastatica).
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va interpretata come il lungo periodo che il chimico, nella preparazione delle pozioni, deve pazientemente trascorrere al fuoco, l’ignis noster, come pacatamente lo chiama il medico-filosofo Zenone, protagonista tribolato dell’Opera al nero, giunto ormai al finire della vita24. L’alchimista deve anche stare attento al ritmo della luna. E’ la luna, più che il sole, che ha guidato per generazioni (e lo fa forse anche oggi) gli agricoltori nella cura delle coltivazioni, ed alla luna deve affidarsi l’uomo alchemico, medico, farmacista, filosofo nelle preparazioni segrete. L’elleboro sta ad indicare la possibilità di curare anche
con piante velenose, se ben dosate con l’acqua della fonte e trasformate alla vampa del fuoco. A metà del Seicento ormai l’alchimia da magica stava diventando scienza; il Museo Kirkeriano a Roma era una realtà da mezzo secolo. Libri d’anatomia sempre più perfetti già circolavano fra i dotti, ma la dizione cinquecentesca di Fuchs era ancora valida: l’elleboro serve per curare, fra gli altri mali, anche quelli relativi ai “melancholicis”, le persone in stato di “nerezza”.
NOTE 1) C. Piccolpasso, L’arte della ceramica secondo Cipriano Piccolpasso, ed. a cura di G. Bartolomei,
Rimini 1988, p. 69. 2) Statuette plasmate a mano e cotte al sole con valore magico apotropaico sono state trovate dalla sot-
toscritta nel Palazzo Brancaleoni a Piobbico (PU) e si trovano esposte nella Sala delle ceramiche; cfr. G. Gardelli, Vengono dalle Marche le più antiche terrecotte italiane?, www.gospark.it/read/article141.asp. 3) Interessanti per comprendere la psicologia magica delle popolazioni nicaraguensi sono le grandi
statue in pietra in figura umana ma con il capo nascosto o sormontato da testa di animale, come il giaguaro o il coyote, nell’isola di Zapatera nel Pacifico; cfr. R.Furletti- J. Matillo Vila, Piedras Vivas, Managua 1977; H. Hildeberto Maria, Estas piedras hablan, León 1965. Estremamente interessanti sono anche i graffiti del territorio di Matagalpa, che rivelano aspetti di vita sociale delle popolazioni prima di Colombo; cfr. Gardelli, Nicaragua: land of vulcanoes. Testimony of Prehistory,
Atti “XIII
International Congress of Prehistoric and Protohistoric Sciences” Forlì-Italia- 8-14 settembre 1996, 6 Workshops-T. I, Forlì 1998, pp. 349-359. 4) Cfr.Aa.Vv.,I Fenici, (a cura di S. Moscati), Milano 1992, passim. 5) Cfr. J. Lessmann, Herzog Anton Ulrich-Museum Braunschweig. Italianische majolika, Braunschweig
1979, n.78; l’autrice assegna il piatto a fabbrica di Faenza, al pittore detto “delle Amazzoni“, (ripreso anche da C. Ravanelli Giudotti 1996, pag. 352), ma in realtà la ceramica, in base ai più recenti studi, appare di fattura veneziana attorno alla metà del ‘500. Il pittore va con tutta probabilità identificato in Baldantonio di Paolo da Lamoli detto il Solingo Durantino, operante dal 1548 al 1555 a Venezia nella bottega già di Giacomo da Pesaro, passata poi al genero Domenico di Betti, più noto come Mastro Domenico. Inoltre Il Solingo (in seguito anche poeta per la corte dei Della Rovere) potrebbe identificarsi con il pittore chiamato Mazo, dall’indicazione di un mese (Maggio) segnato in una maiolica. Cfr. Gardelli, ITALIKA. Maiolica Italiana del Rinascimento. Saggi e Studi, Faenza 1999, n.12. 6) Si veda la bell’immagine di Dio architetto che misura il mondo con il compasso in una Bibbia mora-
lizzata del 1220, in Astrologia, magia, alchimia, “Dizionari dell’arte”, a cura di S. Zuffi, Milano 2005, p. 265. 7) Per notizie su Giacomo e la continuità della bottega con Mastro Domenico, cfr. Gardelli, Italika…,
cit. Capitolo “Venezia”. 8) Interessante è il confronto con un piatto sicuramente di mastro Domenico direttamente ispirato all’in-
cisione Apocalisse di Dürer, dove in alto un “vecchio” seduto richiama la figura del nostro; ibidem n. 19. 9) Cfr. Gardelli, Maiolica per L'architettura. Pavimenti e rivestimenti rinascimentali di Urbino e del suo
territorio, Accademia Raffaello- Urbino, Urbino 1993, XIX - Parma.Il Monastero di San Paolo. 10) Cfr. A. Alverà Bortolotto, Storia della ceramica a Venezia dagli albori alla fine della Repubblica,
Firenze 1981, Tav. LII.
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11) Cfr. L. Fuchs, De historia stirpium, Basilea 1542, pp.271-6. Una straordinaria edizione anastatica è
stata curata dall’Aboca Museum di Sansepolcro (AR). Ringrazio il comm. Mercati per avermi fatto dono di una copia. 12) Sull’iconografia del cervo si veda in particolare, G. Cairo, Dizionario ragionato dei simboli, Milano,
s. d (ed. Forni 2001) alla voce. 13) Cfr. Aa.Vv., Lanfranco e Wilighelmo. Il duomo di Modena, Modena 1984, pp.164, 759. 14) Si veda nel bel saggio di M. Calvesi, Arte e Alchimia (Art Dossiern.4), il capitolo Malinconia e notte,
in particolare a p. 26 la riproduzione della miniatura dal trattato “Aurora consurgens” del XIV-XV secolo, dove lo scudetto con la luna raggiata ricorda la nostra. 15) Si veda il capitolo Macrocosmo in. A. Roob, Il Museo Ermetico. Alchimia & Mistica, Milano 2003. 16) Si è consultata la rara edizione originale della Biblioteca Estense a Modena. Si veda in particolare
la pagina 128. 17) Per il bestiario medievale, cfr. J. Baltrusaitis, Medioevo Fantastico, Milano 1982, passim; per il labo-
ratorio alchemico, cfr.: Astrologia Magia…, cit. s.v. 18) Si veda il saggio, Gardelli, Rapporti culturali da Bologna alla Romagna. I riflessi nell’arte della
maiolica, “Arte Viva. Fimantiquari” a. IX n. 25/26, 2001, pp. 47 - 61. 19) La maiolica ha una lunga vita bibliografica, iniziando dal Falke (1912) che l’aveva attribuita a
Casteldurante; recentemente T. Wilson (1996) la colloca solo dubitativamente alle Marche; nel 2004 è stata esposta a Pesaro alla mostra “I Della Rovere” con scheda in catalogo a firma C.Fiocco-G.Gherardi e attribuzione ancora a Casteldurante, anche se le autrici avvertono che “…l’attribuzione a Casteldurante è più tradizionale che verificata…”. 20) Per Rimini, cfr. Gardelli, 5 secoli di maiolica a Rimini, Ferrara 1982; per Ravenna, eadem,
Ceramiche del Medioevo e del Rinascimento, Ferrara 1986, passim; P. Novara - A. Piccini, Due secoli di maiolica a Ravenna, “Arte Viva Fimantiquari”, supplemento al n. 21-22, a.VIII (2000). Ringrazio il dr. Alberto Piccini per i consigli datimi. 21) Perfino Urbino risentì della terribile crisi dopo la devoluzione del Ducato roveresco allo Stato pon-
tificio. Si vedano gli atti del Consiglio dei Quaranta, dove è palpabile la preoccupazione per la sorte delle arti un tempo fiorenti, in Gardelli, Francesco Antonio Saverio Grue Letterato Poeta e Pittore 16861746, Teramo 2004, Capitolo Primo. 22) Si veda Gardelli, Italika…, cit., al capitolo Roma. 23) L’albarello è stato esposto alla mostra di Teramo del 2004 fra le ceramiche di Castelli d’Abruzzo,
con scheda molto approssimativa e con errori di lettura nella scritta e senza indicazione della data (ma attribuita al Settecento) a firma di C.Fiocco-G.Gherardi. Riteniamo invece per la cromia generale, e per quanto qui esposto nella comprensione iconografica che sia produzione laziale. 24) M. Yourcenar, L’opera al nero, ed. consultata, Milano ( Feltrinelli) 2004, p. 265.
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Tavole
tav.1a-g statuette, un cilindretto, un vasetto. Ceramica da nera a rossastra eseguita a mano, cotta a basso fuoco; in alcune tracce di solo ingobbio bianco, in altre pittura in bicromia rosso-bianco. Le statue rappresentano divinità del Pantheon del Nicaragua: Tlaloc, il Mostro della terra, lo Jorobado. Nel cilindretto sono incisi: il serpente, il labirinto, due figure umane stilizzate con alter ego. Il vasetto ha le anse a testa di giaguaro. H. da cm. 6,5 a cm. 10. Collezione privata. Provenienza: Nicaragua. Bibliografia: inediti. Nicaragua, cultura del “Gran Nicoja”, secc. II-I a.C – XV d.C.
tav. 2
Piccolo albarello in maiolica policroma, ad uso di “portaveleno”. Decorazione: fascia a “Petali correnti fra monticelli” entro cerchi; in alto e in basso fascia puntinata. H. cm. 7. Collezione privata. Bibliografia: inedito. AREA LAZIALE (Roma o Viterbo), sec. XV, metà e terzo quarto.
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tav. 3.
Collana assemblata con: n.24 vaghi in pasta vitrea di varia forma e colore, n.2 medagliette in bronzo con figurette umane; n. 2 medagliette in bronzo con figurette di animali; n.1 piastra centrale in bronzo con “Gioco di fanciulli”; n.1 fibula in bronzo; n.1 pendente a volto di idolo legato con catenella ad una piastra con ai lati volto in steatite e anforetta in pasta vitrea. Provenienza: Libano - Siria. Collezione privata. Esposta alla mostra, “Antichi popoli d’Oriente”, Pennabilli (PU), Luglio 2005. Bibliografia: inedita. Epoca fenicia.: secc.VI-II a.C.
tav. 4.
Collana in pasta vitrea assemblata da: n.30 vaghi di varia forma e colore; n. 4 medagliette; n. 1 pendente a volto umano. Provenienza: Libano - Siria. Collezione privata. Esposta alla mostra, “Antichi popoli d’Oriente”, Pennabilli (PU), Luglio 2005. Bibliografia: inedita. Epoca fenicia.: secc.IV-II a.C.
tav. 5 a-b Piatto istoriato dipinto in policromia su maiolica. Recto: “Entro un paesaggio con sole “nero” il Demiurgo seduto indica con il compasso l’universo stellato in forma di sfera appoggiata al ginocchio”. Verso: in tesa festone fitomorfo; in cavetto la scritta: “mai non do rustare di fare <1563>”. Diam. cm.21,5; h. cm.3. Collezione privata. Provenienza: Asta Rubinacci 12/12/2000, lotto n.222. VENEZIA, Mastro Domenico, 1563.
tav. 6 a-b Piatto istoriato dipinto in policromia su maiolica. Recto: immagine scenica aperta in alto da un drappo trattenuto da nodi con “Figura femminile seduta entro paesaggio avente luna sul capo; tiene in mano un martello ed una livella”; in alto al centro “Sole a volto umano fra nuvole”; in basso entro riquadro appoggiato su masso la data “1549”. Verso: in parete “Corona di foglie lanceolate intrecciate”; nel cavetto “Croce” a quattro bracci uguali. Diam. cm. 19,7. Collezione privata. Provenienza: Asta Semenzato 19/12/2002, lotto n.133. VENEZIA, Baldantonio da Lamoli, detto “Il Solingo durantino” nella bottega di 157 Mastro Domenico, 1549.
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tav. 7.
Brocca a beccuccio versatore dipinta in policromia su maiolica. Frontale: “Festone robbiano” che racchiude in alto due “Cerbiatti accosciati” ai lati di una pianta medicinale (Elleboro) e fra volute; al di sotto la scritta farmaceutica “IULEB. DE ACETATO STATIC.C.”; al di sotto entro tondo e su scudetto araldico: “Leone che innalza una squadra” su “Sfera” (il mondo?). Ai lati: “Nastri”. H. cm.24,5. Collezione privata. Bibliografia: Magnani 2002, n. 68. DERUTA, sec. XVI, primi decenni.
tav. 8.
Ciotola dipinta in tricromia bianco-azzurro-verde su maiolica. Recto: decorazione a forma complessiva di “Fiore”; in cavetto entro struttura spezzettata in dodici punte con dodici stelle “Luna raggiata a volto umano con falce”; in parete nove petali lanceolati con decori di fantasia inframmezzati da nove mazzetti con tre fioretti. Verso: maiolicato a epigrafo. Diam. cm. 16,5; h. cm. 3,6. Collezione privata. Bibliografia: inedita. FAENZA, sec. XV-ultimi decenni.
tav. 9 a-b. Grande piatto dipinto in policromia su maiolica. Recto: al centro “Putto cavalcante un drago verso un edificio a padiglione” e all’intorno scritta alchemicoermetica a gruppi di lettere; tesa a “Trofei e cornucopie”. Verso: simbolo del “Melone” ripetuto entro sei riquadri separati da linee sinuose e lettere o segni simbolici. Diam. cm. 43. Collezione privata. Provenienza: Asta Sotheby’s 1990, n.113. Bibliografia: Falke 1912, n.217; Wilson 1996, n.139; Fiocco-Gherardi 2004, XII.8. AREA ROMAGNOLA (Ravenna o Rimini), secc. XV-XVI.
tav. 10 a-b. Albarello dipinto in tricromia su maiolica. Frontale: in alto al centro “Fiore” (di Elleboro) e in entrambi i lati una “Stella”; al di sotto un nastro a banda in semicerchio con la scritta “ELL.BENEDITE.LAXATI”; nel semicerchio “Clessidra entro struttura aperta tenuta sollevata da due grandi ali al di sopra di un fuoco con alte fiamme avente ai due lati falce lunare con la parte concava verso la fiamma”. Postergale: entro due “Rami di elleboro, mascherone demoniaco da cui sgorga un lungo getto d’acqua che termina su pietra con la scritta 1672 KAL. IAN”. H. cm. 17,5. Collezione: Aboca Museum (Borgo San Sepolcro). Bibliografia: Fiocco-Gherardi 2004, n. 113. ROMA, 1 Gennaio 1672.
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Metalli per l’alchimia GIULIANA GARDELLI
Per la manipolazione della materia, vari furono gli strumenti di cui si servirono fin dall’antichità gli alchimisti-speziali-medici (ed anche filosofi): in primis le bilance di vario tipo per l’esatta proporzione d’ogni elemento, poi i mortai (in metallo, in marmo, in legno), dove triturare erbe e pietre, spesso ridotte in poltiglia. Piace documentare un bellissimo esemplare bronzeo, di fattura italiana, datato 1483 e decorato con straordinari archi trilobati su colonnine, con scudetto araldico ed una lunga scritta in latino medievale (fig. 5)1. fig. 5 Mortaio in bronzo, decorato con archi trilobati, stemma araldico e scritta: + SERVITIO. GULE. PER. PAULUS. CAPITIS. MORTARIOLUM. DEDIT.; in basso fra colonnine la data: + M. CC CC LX XX III. Italia, 1483. (Ubicazione sconosciuta. Da Dirven-Montagut 1989, n.3)
Molti erano i contenitori di varia forma. Nella sezione precedente si sono esaminati brocche ed albarelli in ceramica (tavv. 2,7,10), ma non mancarono fin dal Medioevo anche scatole di legno, o in cartapesta per materiali solidi, ma non troppo pesanti, come i trocisci; per i liquidi erano utili bottiglie in vetro di svariata forma. Alla distillazione erano demandate le storte e gli alambicchi in vetro soffiato, materiali fragilissimi, che molti dipinti ed incisioni ben documentano2. Talora, nella mescolanza e trasformazione degli elementi, occorreva servirsi della vampa del fuoco; ecco quindi necessari i crogioli dove versare metalli incandescenti. In questa piccola sezione dedicata ai metalli se ne espongono due bellissimi in bronzo con manico in legno del Cinquecento, di probabile fattura italiana, e certamente europea (tav.11,12). Testimoniano la presenza nel laboratorio alchemico della fornace dove gli antichi con la vampa del fuoco cercavano le “congiunzioni” chimiche, soprattutto per la cottura della pietra filosofale. Accanto, in riproduzione fotografica, si può ammirare una straordinaria bilancina a stadera in ferro, che s’innalza su una curiosa tartaruga in legno intagliato (fig. 6)3. Nel retro ha il cassettino per i pesi e sulle zampe sono ricavate altre due testuggini più piccole.
fig. 6 Stadera in ferro, su tartaruga in legno intagliato; sulle zampe altre due testuggini più piccole; nel retro cassettino per i pesi. Italia, sec. XVI-XVII. (Milano, Museo Bagatti Valsecchi, inv.n.307; III Sala dell’Affresco).
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L’animale fin dall’antichità fu presente nella mitologia delle origini presso vari popoli, spesso connessa con il culto dei morti, come suggerisce il nome stesso, relativo al Tartaro, più esattamente “abitatrice del Tartaro”, laggiù, nel profondo dell’Universo. Nei papiri magici il nome “tartaruga” era epiteto di Ecate - Selene, con aspetti sinistri; fu poi identificata dai Romani come Luna – Diana. Con valore positivo, i Greci la ricordavano perché aveva dato ad Apollo il guscio per creare la lira. Per gli indiani, essa rappresentava invece il supporto del mondo, sostegno del monte Mandara, abitato dagli Dei; fu anche incarnazione di Visnù. Per la mitologia cinese delle origini essa rappresentava la “Dea Madre”. Presso molte popolazioni essa fu legata al mito esoterico della creazione. Per
giungere rapidamente ad epoca moderna, l’America è spesso raffigurata seduta su di lei. La scelta della testuggine per reggere la stadera, misura degli elementi necessari al processo alchemico, appare dunque non casuale, ma profondamente meditata e con risvolti esoterici. L’utilizzo di forme animali con aspetti di fantasia è documentato in special modo nel Medioevo, ma non mancano esempi nel Rinascimento e poi, in più larga misura, nel Barocco4. Non meraviglia quindi di trovare in questa sezione dedicata a strumenti inerenti in qualche modo all’alchimia un animale fantastico, il cui uso possiamo qui ipotizzare con verosimiglianza (tav.13). Si tratta di un uccello lungo quasi mezzo metro. Ha il corpo di anatra realizzato in legno intagliato; le ali di pipistrello, anch’esse in ferro, sono aperte ed in posizione di volo; le zampe invece, sempre in ferro, appartengono ad un rapace; dello stesso materiale metallico è il muso, che si avvicina a quello del formichiere. A metà corpo in alto ed in basso è attaccato un anello di sospensione. Attribuibile a manifattura italiana (e certamente europea) fra ‘500 e ‘600, quale poteva esserne l’utilizzo? Gli anelli di sospensione paiono escludere l’uso di una stadera come la precedente tartaruga. Con maggiore probabilità, esso era attaccato mediante detti anelli ad un’insegna da spezieria, dove, sostenuto da tralci metallici, poteva dondolare, e forse picchiare contro qualche elemento, come pare indicare lo schiacciamento della parte finale del becco, secondo un uso che dal Seicento è continuato fino agli inizi del secolo scorso5.
NOTE 1) Il mortaio ha la seguente iscrizione nel sott’orlo esterno:
+ SERVITIO. GULE. PER. PAULUS. CAPITIS. MORTARIOLUM. DEDIT.; in basso la data fra le colonnine: + M. CC CC LX XX III. La parola “mortariolum” in latino classico indicava un mortaio per incenso. Non è chiaro se il riferimento qui è lo stesso o se indica genericamente la funzione dell’oggetto come mortaio. Cfr.: J.Dirven-R.Montagut, Pharmaceutica, Paris 1989, n.3. 2) Si cita la nota immagine dell’Alchimista al lavoro nel suo laboratorio, che Giovanni Stradano dipinse su commissione di Francesco I de’ Medici per lo Studiolo in Palazzo Vecchio nel 1570. Francesco I, come molti nobili del suo tempo, amava l’alchimia ed era anche dedito a pratiche esoteriche. 3) La stadera si trova a Milano nel Museo Bagatti Valsecchi, esposta nella III Sala dell’Affresco. Ringraziamo la direzione del Museo per la gentile collaborazione ed in particolare la dr. Starleen Meyer, alla quale dobbiamo la preziosa segnalazione dell’opera. Cfr.: M. Scalini, Museo Bagatti Valsecchi, Milano 2004, vol.2, p.670, “799 Stadera”. 4) Segnaliamo fra altre curiosità una piccola scultura in ferro rappresentante un volatile, di fattura francese del sec. XVI, passata ad un’asta Semenzato, Venezia 19 Dicembre 2004, lotto 14. 5) Si vedano per confronto alcune insegne di farmacia nel Catalogo d’asta Céramiques Objets de Curiosità, Drouot-Richelier, Paris 21-22 Ottobre 2001, lotti nn. 452-457.
N.B. Per le foto: tavv. 10, 11, 12 da Aboca Museum; tavv. 5, 6, 7, 9 dai rispettivi proprietari fig.6, da Museo Bagatti Valsecchi. Tutte le altre foto sono di Augusto Selvatici.
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tav. 11. Crogiolo su tre piedi detto “dell’alchimista” in bronzo con manico in legno (posteriore). H. cm. 8,4. Collezione: Aboca Museum ( Sansepolcro - AR). Provenienza: Asta Drout-Richelier, Céramiques- Objets de curiosité, Paris 21-22 Ottobre 2001, lotto n. 104. Europa, sec. XVI.
tav. 12. Crogiolo su tre piedi detto “dell’alchimista” in bronzo con manico in legno (posteriore). H. cm. 9,5. Collezione: Aboca Museum ( Sansepolcro - AR). Bibliografia: inedito. Europa, sec. XVI.
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tav. 13. Uccello fantastico - “insegna di spezieria” (?). Corpo di anatra in legno intagliato, ali di pipistrello in ferro, zampe di rapace in ferro e becco a formichiere in ferro. Lungh. mx. cm.49; h. cm. 21/23, largh. mx. cm.11. Collezione privata. Bibliografia: inedito. Europa (Italia), secc. XVI-XVII.
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EXEMPLA Opus Niger versus Rubedo Claudio Crescentini
Inseguendo lo sviluppo del pensiero filosofico occidentale contemporaneo, da Hegel e Husserl a quella che, a malincuore, riconosciamo come “l’età post-moderna”, sembra che vada a consumarsi il sogno della ragione. In Hegel ad esempio abbiamo l’estraneazione dell’Idea, il farsi natura dell’Idea, l’in sé che diventa il per sé; mentre nel caso di Husserl il sogno della ragione diviene utopia di una scienza rigorosa, della filosofia come scienza rigorosa che però, soprattutto con i suoi allievi, finisce per dividersi in due tendenze fenomenologiche, quella metafisica e quella metodologica. Tutti i concetti “assoluti”, dapprima ritenuti termini reali di possibile conquista, finiranno a loro volta per diventare idee regolative e, di fatto, irraggiungibili. Insomma entrerà sempre più in crisi il sogno utopico della ragione, in modo che, svanirà ancor più velocemente, anche il modello della razionalità classica – da intendere come “struttura apriorica” – dell’ “ordine ideale assoluto”. In questo modo, anche grazie al concomitante sviluppo della psicologia, nel Novecento si finirà per allontanarci dalla razionalità e dall’idea di armonia, in modo da spingerci verso i sentieri di quel movimento epocale che va sotto il nome di “nichilismo”, un fenomeno complesso che designa, com’è noto, la distruzione o decostruzione e, insieme, la trasfigurazione dei valori. Il nichilismo finisce infatti, nel tempo, per essere l’anima profonda della modernità, la sua base “nera” per cercare di raggiungere, semmai ce ne fosse la possibilità, la rossa vetta, dove i termine “nero” e “rosso” vengono direttamente dedotti, per il vivo tramite di Jung, dall’alchimia, dalla mitica possibilità di trasmutazione del piombo in oro. Il tema dell’opera al nero diviene così, per estrema sintesi culturale, il tema della nostra vita stessa, sia come uomini che come umanità. Tema storico, filosofico, esistenziale e perciò psicologico, psicanalitico e linguistico, in modo che il simbolo dell’ “inizio” dell’opera alchemica, l’opera al nero appunto, diviene emergenza concettuale dello stesso particolare stato esistenziale dell’uomo contemporaneo: quello melancolico. L’associazione e la complementarietà dei temi è ovviamente innegabile e continua anche nell’arte, in particolare con l’associazione alla “figura in nero” che ha anche però, a livello filosofico, una più lunga trattazione, già partendo dal testo pseudo-aristotelico dei Problemata. Dal nostro punto di vista, e mediante i presenti exempla contemporanei, abbiamo invece cercato di porre in rilievo i diversi volti legati al tema, da L’Opera al nero appunto della Yourcenar, alla congeniale e rituale iconografia della melancolia, rivissuta e riproposta, sul piano visivo, attraverso diverse/divergenti posizioni stilistiche che, a loro volta, abbiamo cercato di analizzare, seppur nell’economia dello spazio dato, ad un virtuale connubio con quanto scriveva la stessa Marguerite nei suoi appunti sul volume citato e che nel presente catalogo vengono per la prima volta pubblicati in italiano. “L’anima, la mente, il corpo.Trilogia ammirevole, certo, e si pensa subito, con quel lungo fremito che lasciano dietro di sé le frasi dei poeti” e per noi le immagini, i segni degli artisti. In questo senso il percorso rimane frammentario, anche per la nostra – voluta – volontà progettuale, dove però precisa rimane trilogia della scrittrice d’origine belga.
L’anima La riapropriazione di un personaggio finto seppur verosimile, da parte della Yourcenar, ci porta a ragionare circa l’elaborazione strutturale che Arnaldo Pomodoro fa di una personalità reale seppur, ormai, idealizzata: Cagliostro. Nel 1997 l’artista realizza infatti una suggestiva installazione dedicata appunto a Cagliostro, anzi al Fantasma di Cagliostro, posta all’esterno della Rocca di S. Leo (PU), così come all’inter166
no di quella minima cella che per un periodo ha contenuto il corpo, ma non la mente libera, del Conte. Con una voluttà quasi barocca, con tratto però strutturale spiccatamente contemporaneo, l’artista mette in scena proprio la realtà della libertà della mente di Cagliostro, mago, alchimista, scienziato, cultore delle lettere esoteriche. Pomodoro così attiva e visualizza la mente e l’anima libera di Cagliostro nello spazio stesso della sua reclusione fisica, segnando il tempo della distanza attraverso il contenuto della forma. Il nero, del buio della stanza, dell’alchimia e dei tempi in cui visse Cagliostro, diventa invece il segno cromatico distintivo dell’operazione-installazione-concept dei Paracelso Project, gruppo di intellettuali internazionali, nato e formatosi sulla scia della passione per la figura di Paracelso, hanno fin dall’inizio del loro connubio (2000), voluto identificarsi con le ricerche esoteriche e il riscontro alchemico del “grande medico tedesco”. Le loro installazioni infatti, oltre ad essere concretamente visive, sono anche concettuali e psicologiche, dove l’ambiente intorno viene selezionato attentamente finendo per fare parte attiva dell’opera stessa. Restando sul piano dell’operazione ambientale, ci sembra molto interessante il ritrovamento di un punto focale connettivo fra i Paracelso Project e le installazioni di Ottmar Hörl. Se il gruppo predilige invadere mentalmente uno spazio ambientale, al contrario l’artista tedesco sembra voler, per così dire, concettualizzare lo spazio della mente in funzione ambientale. Pensiamo ad esempio alle forme rosse Standardgraph 1164 Ellipsensatz e a quella gigante verde di Mr Quick, oppure ai nanetti del Fliegender Wechsel che ci portano direttamente all’invasione spaziale – 7000 Dürer-Hansen – della lepre appunto düreriana. L’ambiente diventa vita mediante la rielaborazione di un’arte immortale che linguisticamente usa – Hörl – così come già usava – Dürer – i canoni interpretativi dell’alchimia artistica.
La mente Contraria, perciò non complementare, la presenza di Alessandro Romano, per il quale il ritrovamento dell’arte dal passato, dopo tanto “concettualismo”, diventa modo di esprimersi verso più alti intenti mnemonici. Questo grazie anche ad una non comune abilità costruttiva degna, ad esempio, di un artista rinascimentale o comunque classico. Le opere di Romano rievocano, più che l’esoterismo e la trasposizione dell’alchimia sul piano artistico, proprio la trasmutazione, sempre per usare una terminologia ad hoc, della secolarità della scultura come incipit di un nuovo rinnovamento che guarda comunque al passato ed al Museo. Sulla scia perciò di molti artisti della fine anni Settanta - inizio Ottanta e come grande padre: Giorgio de Chirico. Esoterismo, metafisica, enigma e melancolia sono del resto state pane quotidiano per de Chirico, fin dall’inizio della sua carriera così come risulta anche dal suo primo autoritratto dotato di una perfetta epigrafe esplicativa: Et quid amabo nisi quod aenigma est? In quest’opera forte è il carico della melancolia e perciò della sua – iniziale – opera al nero, un peso spesso raffigurato, nell’iconografia tradizionale e nelle innumerevoli rappresentazioni poetiche e letterarie di questa peculiarissima stimmung – per dirla con Nietzsche – nella figura china, il capo sostenuto dalla mano, a mezza strada tra meditazione e abbattimento. Grave il peso appunto della melancolia, con la sua forza di elemento negativo e di dolore che però presenta anche e non a caso in Kierkegaard, la potenza di una divinità superiore e, con Jung, il territorio del nostro passato archetipale. Inizio soprattutto, ma anche pressione di questo verso il presente, con quella dose di potenza – superpotenza – che spinge verso il futuro, così come ben rappresenta Filippo Centenari, con la visionarietà mediale che gli è solita, mediante quel GO/STAY che riporta alla mente proprio l’opera di Dürer amata anche da Hörl tanto da riproporne il particolare prismatico dell’originale incisione rinascimentale. Ma se Hörl non fa citazione ma concetto visivo estrapolato da questa, l’intento di Centenari è sembra invece quello di attivare la subcoscienza dell’uomo moderno mediante la riproposizioni in panni – leggi colori – di un recente passato “fisico”. In questo modo sembra rifarsi apertamente alla teoria melancolico-depressiva di Binswanger, secondo la quale ci si muove, o si resta, giocando con il titolo di Centenari, solo mediante “la destrutturazione temporale dell’avvenimento fondamentale depressivo, cioè da un turbamento del divenire della personalità”. 167
Il corpo Si tratta di quello stesso “movimento” inconscio ed emotivo che ha spinto Lorenzo Gigotti, dalla fine degli anni Cinquanta in poi, a sperimentare nuove possibilità stilistiche e linguistiche che soddisfacessero soprattutto il proprio impulso emotivo – ma anche depressivo – verso la lucerubedo. Nelle sue nuove decostruzioni pittoriche l’artista infatti, soprattutto all’inizio degli anni Ottanta, mette in rilievo l’essenza stessa del suo nuovo linguaggio elaborando quadri-tavoli magici, quadri-sogno, quadri-incantesimo fino ad approdare al Sole nero, catartico titolo di un suo preziosissimo lavoro ma anche ricomposizione strutturale del già citato mondo archetipale junghiano. Spaziando dall’idea del sublime all’idea della morte, dalla nostalgia al dolore della mente Gigotti sembra – forse inconsciamente – ricercare quel motivo portante della semiologia avanzata degli anni Ottanta che ha in Julia Kristeva il suo punto di forza e di ostentazione culturale. Il sole nero, fra depressione e melanconia concettuale, icona della melancolia düreriana, è anche evidente segno alchemico preso in prestito, da Gigotti, dai dipinti degli anni Settanta dell’amico di lungo data, in quel periodo già scomparso, Girogio de Chirico, il quale però deriva la “nuova” icona, da sue precedenti opere degli anni Trenta: le illustrazione per i Calligrammes di Apollinaire. Commissionate probabilmente da Jean Paulhan, segretario dal 1930 de “La Nouvelle Revue Française”, vengono pubblicate, proprio su questa rivista, fra il gennaio e il luglio dello stesso anno. Tema centrale il sole nero appunto, collegato, quasi in un lungo cordone ombelicale, con un sole bianco esterno oppure ad una luna nera. Dentro e fuori, bianco e nero, il tutto resta unito seppur distinto con de Chirico, dove il riferimento alchemico del sol niger diventa ancor più suadente. Ma il sole nero è proprio l’opera al nero, quella dello Zènon yourcenariano così come quella di Paracelso, tanto per citare due esempi a noi strettamente confacenti e che ci portano direttamente alle operazioni artistiche, da porre in decisa antitesi, di Francesco Narduzzi e di Franco Berdini. Il primo in particolare sembra voler, da sempre, sperimentare la realtà magica della natura, in un percorso che lo avvicina, a volte, proprio alle teorie medico-naturalistiche di Paracelso, rivissute però con una coscienza evolutiva che, lo ripetiamo, risulta assolutamente naturale. Il costante uso che fa di pietre non trattate, delle cortecce d’albero, oppure delle rocce lasciate nel loro habitat iniziale, fanno di Narduzzi uno sperimentatore della materia che molto lo avvicina all’alchimia. Berdini invece è un vero e proprio negromante, alchimista, concettualista, costruttore di un nuovo modo di pensare l’arte, fin dalla metà degli anni Sessanta, che lo ha portato a essenzializzare sempre più la sua vasta cultura esoterica, in rapporti di forza e geometrie astrali, come nel caso della serie denominata appunto Opera al nero. Ma ancor più confacenti al nostro discorso sono i ritratti alchemico-astrali realizzati da Berdini ed esposti, per la prima volta e con grande successo, alla XLII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Leonardo e Bethoween prima di tutto, mediante i quali Berdini ha reinventato il modo di fare arte in piena congerie anacronista e che lo porterà ad esempio, a lavorare a tutto campo per un’arte che sia affrancata dalla produzione d’arte in sé e per sé, ma che cerchi di affiancarsi e dedicarsi a molte altre esigenze culturali, così come ben rappresentano i suoi indimenticabili – ed imperdibili – volumi, Magia e astrologia nel cenacolo di Leonardo (1982), con introduzione di G.C. Argan, e La Gioconda chi è (1989), veri e propri percorsi iniziatici della mente, dal nero alla ricerca disperata della rubedo. Sulla scia dell’ “incontro comparativo”, fin qui messo in scena, si attesta l’ulteriore possibilità di interpretazione multi-linguistica che attiviamo mediante l’operatività di Mariano Filippetta e le sue diversità ottiche. Stiamo parlando, per intenderci, del suo modo, poetico e svagato, di accostarsi agli elementi, il mare, il cielo e soprattutto il sole, da toccare, come si esprime in un titolo l’artista stesso, seppur in altro modo; e “altro” è appunto il modo di creare di Filippetta. “Altro” rispetto al contesto dato, dove appunto segno, figura – corpo – e Idea si rivengono a costituire in un unico visionario viaggio verso l’alto, oltre il nero perciò, ancora in cerca di luce. 168
Franco Berdini (Roma 1941) Studia all’Istituto d’Arte di Roma, diplomandosi in architettura (1961). Nel 1966 espone alla Madison Park di New York e rimane negli USA per un anno. Dal 1970 insegna incisione e attualmente è titolare di questa cattedra all’Accademia di Roma. In questo stesso anno Lorenza Trucchi presenta l’artista alla Galleria Studio 42 di Bologna. Nel 1974 una serie di opere in perspex trasparente e nero lucido, realizzate sul tema delle alchimie incise e dipinte in nero, già analizzate da Emilio Villa all’inizio degli anni Settanta, vengono presentate alla Galleria il Cortile di Bologna. Dopo anni di studi e ricerche, Berdini pubblica Magia e Astrologia nel Cenacolo di Leonardo, con la prefazione di G.C. Argan (Edibice Editalia 1982). Sempre nel 1982 realizza delle sculture ritratto in perspex trasparente denominate Astrolografie, vengono esposte in una personale di grande successo alla Galleria Editalia con un illuminante testo di E. Villa. Ne1 1988 è invitato, con una sala personale, alla XLII Biennale di Venezia. In questo stesso anno la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma invita l’artista a Il Cairo a partecipare alla Biennale del Mediterraneo dove vince il primo premio per la scultura. Nel 1989 pubblica, con la prefazione di Franco Cardini, il volume La Gioconda chi e. Nel 1991 nella Galleria Anna D’Ascanio di Roma presenta la mostra Irrgarten, labirinti in marmo di grande fascino intellettuale. Nel 1992 Giulio Carlo Argan presenta l’artista a Lione con una serie di libri realizzati con le pagine di pietra; nello stesso anno l’artista firma le scene per “I.T.I.”, un anno di trasmissioni televisive per Telemontecarlo condotte da Mino D’Amato, in collaborazione con Vittorio Storaro. Dal 1991 al 2005 realizza in Italia, come opere pubbliche, oltre 15 pannelli d’arte di grandi dimensioni. Nel 1994 i suoi libri e pagine di pietra rappresentano l’Italia al Palaexpo di Ginevra. All’attività artistica Berdini ha sempre affiancato una ricerca di semiologia gastronomica che lo ha portato a curare con C. Crescentini, A. Antonaros, I. Corelli la serie di trasmissioni A tavola con l’arte, per RaiSat Gambero Rosso Channel. Dal settembre 2005 per la rivista “Arte e Dossier” cura la rubrica Il Pranzo di Babette, un percorso artistico e cuilturale dall’atelier alla cucina.
Filippo Centenari (Cremona) L’artista inizia come designer per numerosi siti internet, continuando però a lavorare costantemente con la pittura, la stampa digitale, le installazioni, musica elettronica e il video, alla ricerca di una sintesi mediale dei mezzi espressivi. Ha curato anche alcune mostre fra le quali: Cosensation di Simone Nervi e Paolo Pastore (Cremona 2001); ln/out of colors, di Marco Anzani (Cremona 2002); Città di Massimo Antonelli (Cremona 2003). Nel 2002 ha realizzato Operaperta in collaborazione con Marco Nereo Rotelli. Nel 2003, in occasione del Premio per la Pace a Ferdinanda Pivano, partecipa alla collettiva Pace a Amore presso la Fortezza del mare dell’lsola della Palmaria. Nel 2004 partecipa all’importante festival Radiance Et Resonance / Signals of time Dashanzi Art Festival of Bejing, di Pechino. ln questo stesso anno partecipa alla XI Biennale di Arte Sacra presso il Museo Fondazione Stauros di San Gabriele (Teramo). Nel 2005 Centenari viene insignito del XIX Premio lntemazionale di Pittura, Scultura e Arte Elettronica Guglielmo Marconi.
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Mariano Filippetta (Nato nel 1964). MOSTRE PERSONALI 1989
“Primo Vere” Galleria dei Banchi Nuovi, Roma
2003
“L’amore, l’amore soltanto” Galleria L’Attico, Samassi
MOSTRE COLLETTIVE 1992
“Imprimatur” Artisti internazionali inediti in mostra a cura di Achille Bonito Oliva, Milano
1993
“Ritorno al mare” Omaggio a Pino Pascali Galleria l’Attico, Polignano a Mare
1994
“Buddha” a cura di Francesca Pietracci, Castello Ducale, Sessa Aurunca
1995
“Magazzino» Galleria L’Attico, Roma
1997
“Derivando Deviando” Chiostro di San Francesco, Alatri
2004
“MailArt” Università degli Studi Salerno
2005
“Collettiva” Galleria Marchetti, Roma “Primaverile Argam” Galleria Marchetti Roma
Francesco Narduzzi (Monte Romano, Viterbo 1937) Autodidatta, inizia a dipingere alla fine degli anni Sessanta, utilizzando materiali naturali. A partire da1 1973 elabora un alfabeto iconico, legato alla simbologia della natura, che caratterizza i suoi lavori. Utilizzando tale alfabeto traccia frasi su tavole di legno, terracotta, tela di lino e canapa. Nel 1979 conosce Sarenco e inizia la frequentazione dei poeti visivi. Negli anni Novanta realizza i primi libri d’artista, alcune copie dei quali sono conservate a Parigi presso il Centre Georges Pompidou, la Biblioteque Nazionale, il Museo Pecci di Prato, la collezione Caroline Corre. Dal 1998 progetta e lavora al Grande libro aperto all’aperto, un’installazione ambientale con iscrizioni rupestri realizzate sia in Italia che in Piccardia. Nel 1996 realizza la prima iscrizione rupestre a Blera, in provincia di Viterbo. Lavora a Monte Romano, dove vive alternando periodi di soggiomo a Parigi. Nel 2003 al Castello Savelli di Palombara Sabina si tiene una sua importante antologica.
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Alessandro Romano Scultore Artista di prestigio internazionale, educato nella bottega artigiana secondo la gloriosa tradizione italiana, dopo un esordio in pittura, ha espresso nella scultura il suo talento figurativo, con risultati di straordinaria forza plastica e dinamica. Nel suo lavoro l’ispirazione mitologica e quella religiosa si coniugano con le inquietudini della modernità, dando vita a una forma classica e insieme nuova, impressionante per movimento e misura. Sue opere figurano nelle più importanti collezioni pubbliche e private, in Europa e negli Stati Uniti. tra le sue creazioni si ricorda lo Scudo di Achille, la portentosa opera in bronzo policromo che si riferisce al celebre mito dell’Iliade, acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma per il Palazzo del Quirinale. Ed inoltre: Amor Sacro e Amor Profano ad Anversa; Resurrezione, dedicata a Falcone e Borsellino, a Caltanissetta; Nascita, Vita e Morte, a Rodi; Sirena, a Matera; Icaro, a Piombino; Medusa, la straordinaria testa del celebre personaggio di metri tre e cinquanta a Montegallo; Mercurio, nella Città Giudiziaria di Roma; Portale della SS. Trinità, a Piano di Sorrento. Nella prestigiosa collana “I Testi della Coscienza” di ART’È ha illustrato le “CONFESSIONI” di S. Agostino, commentate dal prof. Vincenzo Cappelletti. Il 20 ottobre 2004, è stata collocata, nella nicchia centrale dell’abside della Patriarcale Basilica di S. Pietro in Vaticano, dietro la Gloria del Bernini, la monumentale scultura in marmo bianco di Carrara realizzata dal Maestro, alta circa sei metri, dedicata a Santa Teresa di Jornet Ibars. L’opera, è stata benedetta dal Santo Padre Giovanni Paolo II. Ora è impegnato a scolpire tre grandi opere in marmo bianco di Carrara, alte circa sei metri che, come la precedente, dovranno essere collocate nelle nicchie della Patriarcale Basilica di San Pietro. Sono dedicate a tre straordinari personaggi, che hanno fondato, ognuno un rispettivo ordine o congregazione per l’assistenza a poveri, ai vecchi, agli abbandonati e diseredati dalla vita, si tratta di: Santa Genoveffa Torres Morales, San Giuseppe Manyanet e Don Orione. Le collocazioni sono previste scaglionate tra la primavera del 2006 e l’autunno del 2007.
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“Alterius non sit, qui suus esse potest” CARLA GUIDI
Scrive settimanalmente su “Telesport” di arte, teatro e letteratura, sul “Foglio del Paese delle donne” e collabora alla rivista “Lazio ieri e oggi”. Recentemente ha pubblicato per le Edizioni Associate “Operazione Balena - Unternehmen Walfisch” (dalle memorie autobiogafiche di Sisto Quaranta, deportato civile tra le 947 vittime del rastrellamento nazista del 17 aprile 1944 nel quartiere romano del Quadraro patrocinato dal X Municipio e “COME LE BESTIE” Monologhi teatrali - Onyx Edizioni - presentato a Perugia in giugno, nell’ambito della 14° Edizione di “Lune di primavera 2004”, manifestazione multiculturale promossa dal Comitato Internazionale 8 marzo, in collaborazione con la Regione Umbria, Comune e Provincia di Perugia, Centro per le pari opportunità. Appena pubblicato - “Un ragazzo chiamato Anzio” sulle vicende dello sbarco del 1944 e sulla costruzione del Cimitero di guerra di Nettuno - Onyx Edizioni presentano il 25 aprile 2005 dall’Assessorato alla Provincia di Roma e del Comune di Anzio.
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(PARACELSO)
L’quilibrio dell’IO-penso misura delle cose tra la terra e il cielo radici e rami del grande albero degli esseri narranti, nella Storia negato dal disequilibrio dei rapporti tra vincitori e vinti nella notte della Ragione, corvi e colombe chiusi nella stessa gabbia... “Ineptissima vainitas” eletta a sistema... La malignità del Potere brucia l’Opera umana e la carne dei dissenzienti sull’altare della menzogna senza Trasmutazione! Ma dalle ceneri degli eretici dalle fosse dei sacrificati di tutte le guerre, dalle teorie delle vergini senza nome dipinte nelle cattedrali col volto meravigliato e vesti d’oro, riprodotte madri inconsapevoli dal pensiero dimenticato, dal chiacchiericcio assordante dei cortigiani e dal silenzio carico d’odio degli offesi, nella “diade infinita” incommensurabile del Paradosso, tra Natura e Cultura tra maschile e femminile, tra scienza ed etica, tra pietà e cura - il y a qui parle Marguerite del Viaggio coraggioso e sublime “obscurum per obscurius ignotum per ignotius”. CARLA GUIDI 2005
L’OPERA AL NERO: IMMAGINI DELLA PITTURA
GIOVANNA BONASEGALE
Dedico questo scritto alla cara memoria, sempre presente, di Maura Piccialuti. Insieme con lei ho letto le opere della Yourcenar. La vita di Zenone – personaggio immaginario ma non troppo – che ci consegna Marguerite Yourcenar è irrequieta, incalzante, in costante fuga all’interno di due colpevoli prigioni, nelle quali non si stanca di frugare, di rovistare: il mondo e il corpo. Trascorrono in lui inquietudini, turbamenti, alterazioni, rovelli, che abitano il lacerante pensiero filosofico e scientifico rinascimentale e scivolano fino a coinvolgere ogni altra presenza del romanzo. Uomini, animali, elementi di natura, perfino gli oggetti sono complici del tormento conoscitivo di Zenone, che lo conduce a indagare sull’origine delle cose e, insieme, lo minaccia, lo incarcera in un sistema di attese e di presagi. Il desiderio di libertà, diventato suprema malinconia, lo insegue mentre si fanno sempre più imprudenti e azzardati i tentativi di affermare, di dimostrare anche a se stesso, le proprie intuizioni. Fino a intravedere nell’evanescenza forzosa dei propri progetti l’unica concretezza possibile: rendersi libero, attraverso il suicidio, dalla prigione del mondo e dalla morte alla quale è stato condannato. Libertà e morte sono dunque le due protagoniste del romanzo accanto a Zenone, molto più vicine tra loro di quanto la nostra contemporanea coscienza europea sappia immaginare. Per descrivere l’ambiente nel quale Zenone si muove, Marguerite Yourcenar ha guardato la pittura rinascimentale da Leonardo a Bosch, da Dürer a Rubens, da Ruysdael a Hobbema, da Rembrandt a Vermeer, dove non è difficile imbattersi in quella salda unione tra scienza e pittura, che pure trapela, impercettibile e mai ostentata, in alcuni episodi del romanzo. A una nuova teoria della visione condussero gli studi di ottica rinascimentale, che si traspose sì nei dipinti, ma più ancora in una rinnovata visione delle cose, degli oggetti, dello stesso uomo e della natura. Incontriamo con frequenza specchi, immagini riflesse, analisi minuziose dell’anatomia umana e, soprattutto, del mondo degli animali, dagli insetti agli uccelli. Gli esperimenti alchemici invadono anch’essi il campo della pittura e il confine tra medicina, magia e pittura diventa sempre più sottile. I trattati sulle arti figurative sono intrisi di sapere scientifico e gli artisti vengono spesso esortati a consultare gli “anatomici”, a conoscere nel dettaglio il corpo umano per poterlo riprodurre nelle loro opere. Quando, ovviamente, non erano essi stessi a diventare clandestinamente sezionatori di cadaveri. Il mondo che incontriamo, seguendo la vita di Zenone, è descritto dalla Yourcenar in maniera altrettanto minuziosa, quasi si trattasse di accompagnarci, attraverso il suo stesso modo di vedere, a percepire gli stati d’animo e le emozioni del protagonista. Tutto mutuato da una cultura scientifica agli albori, ma che ancora oggi ci infonde inconsapevoli suggestioni e interrogativi. I venti specchietti convessi nei quali Zenone vede riflessa e distorta venti volte la propria immagine e soprattutto la lente nella quale – sbigottito, poi quasi spaventato e infine appagato – vede ingrandito il proprio occhio che guarda, quante volte li abbiamo incontrati, prima ancora che si diffondessero le teorie di Keplero, in dipinti fiamminghi? La mano sicura o la figura fiera del pittore che si raddoppiano sulla superficie
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di un vetro; il volto che appare appena deformato sulla concavità di una teiera d’argento; l’estrema, superba ambiguità del quadro nel quadro o la sorprendente capacità di qualsiasi rifrazione di luce nel consegnarci oggetti altri, destrutturati rispetto alla conoscenza che ci consente di dare un nome alle cose, quasi irriconoscibili eppure reali: queste stesse sono le visioni nelle quali Zenone si perde. E non gli vale appellarsi alla purezza, perché si accorge subito che la purezza alchemica, quella che nomina i colori e le materie, è anch’essa visione di sogno: raggiunge lo spirito, ma è altrettanto sconosciuta al corpo. Le fisionomie degli attori del romanzo – uomini e donne, grandi borghesi, alto clero, così come la rimbombante folla dei più umili – i loro abiti, la descrizione degli interni sono sì tratte da documentazione d’archivio, dalle fonti, ma la stessa Yourcenar, nella nota finale, definisce ritratti le descrizioni dei personaggi e non può sfuggire la contiguità dei vari dettagli, a volte addirittura dei tratti somatici, con la grande ritrattistica dell’epoca, da Albrecht Dürer a Lorenzo Lotto, ma soprattutto con gli eloquenti esiti espressivi di Hans Holbein il Giovane. Il mondo dei contadini, quello del popolo “minuto” – se ancora in pieno rinascimento si può definire con questo aggettivo una classe sociale a metà tra piccola borghesia, artigiani e salariati – è descritto così come potrebbe uscire da una serie di quadri di Hieronymus Bosch o di Pietro Brueghel, il Vecchio: intriso di non ingenua sensualità, preoccupato della sopravvivenza quotidiana, impaurito e propenso alla delazione. Il romanzo è popolato di elementi naturali: distese di terra, visioni marine o fluviali, foreste, alberi, orizzonti intrisi di nuvole, bagliori di tramonti o di albe. Ma soprattutto è popolato di morte: per tumulti, esecuzioni, vendette, risse, malattie, epidemie, guerre, saccheggi. Questi due temi, natura e morte, hanno indubbiamente un’iconografia complessa, che – a mio parere – oscilla tra i grandi paesaggisti nordici del Cinquecento e del Seicento e la voce forse più intricante del simbolismo europeo: quella di Arnold Böcklin.
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La morte assume nel romanzo gli aspetti più diversi e in ogni modo domina la nostra immaginazione, perfino la memoria. Su questo grande tema sentiamo vicina la presenza di Böcklin, tanto più vicina se ricordiamo che nel 1928 – nel periodo in cui già elaborava L’opera al nero – la Yourcenar ha dedicato un bellissimo saggio al dipinto L’isola dei morti. L’ultimo dipinto di Böcklin, eseguito nel 1900, s’intitola Melancholia. Una figura femminile, raccolta in lunghi eleganti pepli, contempla dalla riva spoglia di un piccolo corso d’acqua i tronchi d’albero che vi si riflettono e le grandi foglie morte, trattenute in superficie dalle acque. Tra la donna e la natura che la circonda si percepiscono una totale compenetrazione e il silenzio assoluto dell’assenza del mondo terreno, trascendente e immateriale come l’approdo sconosciuto e inesorabile che accoglierà il “naufragio” di ognuno di noi. La Melancholia, che prende per mano Zenone fin da adolescente, parimenti veglia sul silenzio di sé che il medico-filosofo s’impone per tutta la vita. Nel decennio ultimo del XIX secolo Böcklin compose una serie di opere dedicate alla morte, orrenda per violenze di guerra o per la peste. L’Europa della fine dell’Ottocento non era poi così diversa per guerre e morti, per mescolan-
ze di culture e di odii da quella del Cinquecento. Marguerite Yourcenar conosceva bene queste opere e certamente aveva notato come le due calamità, peste e guerra, per Böcklin fossero non così tanto disgiunte, rappresentando l’ineluttabilità di un destino al quale l’uomo non può che piegarsi. Come in L’opera al nero si inchina di fronte alla peste che guadagna l’Europa viaggiando “senza fretta, al suono delle campane, come un’imperatrice” e va infondendo “un elemento d’insolente uguaglianza nell’esistenza di tutti”. I boschi cedui, gli alberi piegati dal vento, sopra i quali il cielo si aggroviglia di nuvole striate, la nebbia che avvolge le vele di navi in attesa in porti rumorosi, i profili di villaggi di pietra, che si confondono con le pietre lasciate dalle acque di un fiumiciattolo in secca, le pianure intricate di erbe selvatiche, sembra di vederli, i quadri di Jakob van Ruysdael, seguendo i sentieri di Zenone. Quella stessa atmosfera di natura fosca, tenebrosa, piena di misteri, nella quale il protagonista di L’opera al nero sembra muoversi per tutta la vita, abbiamo già incontrato nelle tele del pittore olandese. Ma accanto a questa natura più descrivibile, testimoniata dalla prosa decisa della Yourcenar, ce n’è un’altra, appena accennata, vagamente evocata. E’ la natura in cui si immerge il mito, dove si muovono Apollo, le ninfe, i fauni, le Sibille, gli idoli dei riti pagani, che l’uomo può contemplare, ma dai quali sembra essere escluso: vi regna una bellezza altrimenti negata e a volte vi s’incontrano figure orrorose, spettrali, demoni. Qui sembrano avere dimora i giovani, a causa dei quali Zenone sarà riconosciuto e condannato, intrappolati da uno spirito dionisiaco, quasi allucinogeno, al quale non riescono a sottrarsi e che tuttavia – al contrario di quello che avrebbe auspicato Nietzsche – non si sarebbe dimostrato salvifico. Così come non li salva la loro bellezza. E’ in questa natura tribolata, che incontriamo ancora gli echi di Böcklin, il pittore nato a Basilea che ama il silenzio dell’Italia e i suoi paesaggi incontaminati, specchio dell’anima, che parlano allo spirito prima che agli occhi. La spiritualità visionaria di questo artista moderno, che a sua volta più volte ha attinto dai fiamminghi del Cinquecento, permea l’iconografia della seconda parte del romanzo, dal momento in cui Zenone comincia a percepire il pericolo fino alla decisione di non sottrarsi. La pittura di Böcklin, del resto, ben si confronta con l’ambiente in cui si muove Zenone: figlio di un mercante di stoffe fu all’inizio attratto da quella miscela di colore e di materia, che andava incontrando nei laboratori di tintura di Basilea. Cominciò egli stesso a preparare i colori, ai quali dava la massima importanza all’interno del dipinto, tanto che la sua pittura fu subito indicata dai contemporanei come quella di un colorista. I suoi miscugli di colore e materia sono celebri e il suo interesse per l’alchimia nasce proprio in virtù di questa ricerca cromatica aspirante alla purezza. Il suicidio di Zenone assimila finalmente il nostro protagonista alla natura, della quale ha cercato di carpire i segreti; la sua esistenza in fuga finisce nella visione del nero che si disfa e che insieme raccoglie in sé gli altri colori puri secondo le leggi alchemiche: verde, rosso porpora, bianco. Un ricongiungimento ai princìpi originari, quegli stessi che invoca Böcklin nelle sue rappresentazioni più mature, quando ci indica la natura come punto fermo di sopravvivenza rispetto all’uomo e anche alla storia. 179