Dossier: Striscia Di Gaza

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STRISCIA DI GAZA operazione militare israeliana “Piombo Fuso” 27 dicembre 2008 - 18 gennaio 2009

NON C’E PACE SENZA GIUSTIZIA

Numero totale dei morti: Morti tra i civili : Morti tra i bambini : Morti tra le donne: Totale feriti: Bambini feriti: Donne ferite:

1.335 894 400 111 5.000 1.133 735

(fonte: dr. Barghouti e PCHR, Palestinian Centre Human Rights)

Dire la verità è denunciare l’Occupazione israeliana Il recente massacro di Gaza ha riportato alla luce il lungo, sanguinoso conflitto israelo-palestinese e la tragedia del popolo palestinese costretto a vivere in una condizione di assoluta precarietà, di continua minaccia e di costante insicurezza a causa della pesante occupazione israeliana. I media hanno mostrato le macerie della distruzione portata a Gaza dall’operazione militare “Piombo fuso”: un paesaggio desolato, sconvolto dalle bombe che cadevano dal cielo, seguendo la bianca scia del fosforo, un luogo sfigurato dove la vita si fermava con l’avanzare dei carri armati; un cumulo di detriti e di cenere tra cui correvano donne, bambini, uomini sconvolti dalla paura, bruciando come torce; molte persone immobili, a terra, coi corpi feriti e mutilati, a fianco di fratelli, madri, padri, figli, mariti, mogli, morti. Ma le parole dell’informazione sembravano voler smorzare la crudezza delle immagini, precisando che Israele stava reagendo agli attacchi di Hamas, stava cioè difendendo la sua popolazione dal lancio continuo di missili Kassam sulle sue città al confine con Gaza. Ancora una volta la smisurata forza distruttiva di Israele passava in secondo piano e l’attacco militare risuonava come espressione del suo diritto a difendersi da un nemico insidioso

che colpisce la

popolazione civile, secondo la logica dl terrorismo. Chi ha osato lasciar parlare le immagini della devastazione e del dolore, è stato accusato di irresponsabilità, di dare un’informazione che fomentava l’odio e offuscava la capacità di ragionare “freddamente” sulle cose. Insomma, bisogna sì informare, ma senza dire che il conflitto israelo-palestinese è il conflitto tra un paese occupante (Israele) e una popolazione occupata (i palestinesi), costretta a subire contini furti di terra, a vivere accerchiata dai coloni che distruggono i campi dei contadini e spesso compiono incursioni devastanti nei villaggi palestinesi, una popolazione assediata dai checkpoint dove file interminabili di donne, di uomini, di bambini, di vecchi aspettano, ore e ore sotto il sole cocente o al freddo, di passare per poter andare a lavorare i loro poveri campi inariditi dalla mancanza di acqua, la cui distribuzione è controllata da Israele , per poter andare a scuola, per potersi recare all’ospedale a ricevere le cure di cui hanno bisogno, per poter andare a trovare un parente. Non si dice che Israele combatte per mantenere lo “status quo” della colonizzazione dellaCisgiordania, che ha frantumato il territorio palestinese , rendendo di fatto impossibile quella continuità necessaria per poter costituire un vero Stato che, altrimenti, non potrà essere altro che un insieme di bantustan isolati, cui il Grande Israele, dispiegato ormai sul 90% dell’antica Palestina, concederà al massimo un’autonomia amministrativa. Non si dice che Israele, tra il 1948 e il 1967, si è preso più del 78% della terra e continua a occupare la parte restante con nuovi insediamenti e l’ampliamento delle colonie esistenti. Non si dice che lo stato di Israele nasce e sviluppa la sua politica di egemonia all’interno di una triplice negazione: •

la negazione dell’esistenza di una comunità araba sulla terra della Palestina storica; il Sionismo infatti perseguiva l’obiettivo di dare una patria agli ebrei della diaspora nella Terra Promessa ai loro padri, partendo da questa premessa: “una terra senza popolo (la Palestina) per un popolo (gli ebrei) senza terra”, come se l’unica comunità degna di essere chiamata popolo fosse quella ebraica dispersa nel mondo;



la negazione dell’identità culturale del popolo palestinese: i palestinesi non sono riconosciuti

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come un popolo con una sua cultura e una sua storia, ma trattati genericamente come arabi e quindi destinati a vivere nei paesi arabi, in particolare in Giordania, che per molti sarebbe la patria naturale dei palestinesi; •

negazione dell’umanità dei palestinesi: per molti israeliani, i palestinesi non sarebbero esseri umani, ma belve sanguinarie, terroristi, che non hanno alcun rispetto per la vita, nem meno per la loro, visto che trasformano i loro corpi in bombe; perfino le donne palestinesi non sa rebbero madri normali perché non soffrirebbero per la morte dei loro figli, li lasciano andare a mo rire e poi piangono i loro martiri.

E’ questa tremenda negazione che permette a Israele di non riconoscere ai palestinesi quei diritti umani e politici che ha preteso per il popolo ebreo. E’ questa tremenda negazione che ha permesso a Israele di svuotare di senso ogni negoziato di pace. Negoziare la pace infatti non significa fare qualche concessione ai palestinesi, come ad esempio lo smantellamento di qualche colonia per poi costruirne altre in un’ altra area della Cisgiordania, continuare cioè a mantenere l’occupazione e nello stesso tempo pretendere dai palestinesi un totale asservimento alle logiche israeliane; significa bensì ripristinare subito il diritto e la legalità e ciò esige: -

la fine dell’occupazione, cioè il ritiro completo dai territori della Cisgiordania,

-

il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi, diritto che per Israele vale solo per gli ebrei.

In questo dossier abbiamo voluto dare spazio a voci diverse, voci che chiedono una pace nella giustizia, l’unica vera pace che abbia la possibilità di durare; voci che respingono la perversa logica della simmetria che pone sullo stesso piano soggetti imparagonabili; voci che parlano apertamente dell’occupazione, dell’ asimmetria tra un “occupante”, responsabile di infiniti soprusi, che dispone di una forza militare smisurata e di un “occupato” che resiste per cercare di spezzare le catene della sua oppressione. “La mia comunità è cosciente dei risultati violenti dell’occupazione e della povertà e della disperazione che ne derivano” – dice Yvonne, una “donna in nero” israeliana che si oppone alla politica di sopraffazione del suo governo, segnando così la sua differenza, la differenza di chi riconosce il dolore e l’enorme sofferenza della vittima di oggi, il popolo palestinese. Di fronte alla mistificazione che trasforma la resistenza palestinese in terrorismo, Jeff Halper, membro del Comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi, ha il coraggio di dire che il problema fondamentale è l’occupazione e il terrorismo di Stato israeliano, precisando che “il terrorismo palestinese è un sintomo dell’oppressione” e che, senza un orizzonte politico in cui si riconosce il diritto dei Palestinesi, la resistenza violenta non avrà mai fine. Di fronte al ritornello sulla sicurezza, che presenta Israele come il paese minacciato e a rischio di scomparsa, l’israeliano Uri Avnery, fondatore del blocco per la pace “Gush Shalom”, non esita a dire che è Israele l’artefice della sua insicurezza e a precisare che “l’atto scellerato di chi lancia missili non può essere paragonato alla pianificata aggressione di massa verso la popolazione palestinese”. E poi la voce dei “refusenik”, militari dell’esercito israeliano che si rifiutano di prestare servizio nei Territori occupati. E ancora la voce di Nour, una ragazzina di Gaza che ci fa vedere il vero volto della guerra in questa sua domanda piena di paura: ”Morirò anch’io?” E lo sgomento di Raed, un palestinese di Nablus, di fronte al silenzio dell’Europa e del mondo, che richiama l’antica saggezza di un proverbio arabo, ricordando a Israele che “se semini sangue, non cresceranno le rose”. E tante altre voci diverse che denunciano la menzogna e tracciano anche un vero percorso di pace, basato sulla fine dell’occupazione.

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Abbiamo voluto completare questo dossier con una serie di dati e di mappe che, con l’asciuttezza dei numeri e l’evidenza delle immagini, permettono di comprendere che cosa significa vivere sotto occupazione. Come Donne in Nero , è un nostro preciso dovere camminare a fianco di chi cerca una pace nella giustizia . In questo momento di grande dolore per le migliaia di morti, per i bambini uccisi , per i molti feriti costretti a portare nei loro corpi i segni della devastazione, per i padri e le madri che hanno perso i figli, per i figli che sono rimasti orfani, per la devastazione che ha distrutto case, scuole, ospedali, noi, Donne in Nero di Milano, ripetiamo con forza le parole delle nostre sorelle israeliane, fondatrici della rete delle Donne in Nero, che, nel 1988 , sono scese in piazza a Gerusalemme, per dire: STOP ALL’OCCUPAZIONE L’OCCUPAZIONE UCCIDE TUTTI, israeliani e palestinesi NON VOGLIAMO ESSERE NEMICI DUE POPOLI, DUE STATI. Denunciando la violenza dell’esistente e la politica dei loro governi, hanno anche additato il cammino verso il futuro che sarà possibile solo quando, nella restaurazione della giustizia e del diritto, due popoli, palestinese e israeliano, cesseranno di essere nemici e potranno vivere insieme, l’uno accanto all’altro, nel reciproco rispetto e in pace.

marzo 2009

DONNE IN NERO – MILANO -

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DONNE IN NERO, UNA RETE INTERNAZIONALE DI DONNE CONTRO LA GUERRA “Tra uccidere e morire esiste una terza via: vivere” [Christa Wolf] Il movimento delle Donne in Nero, nato in Israele nel 1988, è presente ormai in diversi paesi del mondo e si caratterizza attraverso una forte opposizione alla guerra e al militarismo. In tutte le situazioni di conflitto che coinvolgono i propri governi, le Donne in Nero rifiutano la folle logica delle armi e del nazionalismo, scegliendo di parlare in prima persona, di rinunciare al ruolo di passività tradizionalmente loro imposto, assumendo una responsabilità individuale di resistenza alla guerra e a tutto ciò che essa comporta in termini di distruzione, odio, esclusione. Al linguaggio violento dell’ideologia e della propaganda militarista, le Donne in Nero oppongono una forma di comunicazione silenziosa, espressa attraverso il loro corpo, vestito di nero, “esposto” sulle strade e sulle piazze. Il nero, colore del lutto e della perdita, ma anche simbolo della vita che germoglia nel cuore oscuro della terra e cresce nel buio del ventre materno, viene consapevolmente assunto come strumento per denunciare il prevalere di una cultura di morte e per accendere una speranza di futuro. Le Donne in Nero RIFIUTANO

la logica della guerra, del militarismo e del nazionalismo,

SCELGONO

di parlare in prima persona,

ASSUMONO

la responsabilità individuale di resistenza alla guerra e al carico di odio e di distruzione che essa porta con sé,

DICHIARANO

nella compostezza e nell’intensità del linguaggio del silenzio, la loro radicale estraneità ai clamori della propaganda di un paese in armi,

ESPONGONO

i loro corpi agli sguardi degli altri per testimoniare la concretezza e l’irriducibilità del loro NO deciso al militarismo e alla violenza,

VESTONO

il nero come consapevole strumento di denuncia del prevalere di una cultura di morte, ma anche come simbolo della vita che nasce nel cuore buio della terra,

MANIFESTANO

perché ogni guerra non venga rimossa o dimenticata, perché le prospettive di pace non restino fragili ed incerte e milioni di donne e uomini, che abitano le diverse aree geografiche del mondo, non siano sconfitti/e nelle loro speranze di vita.

Donne in Nero - Milano - per contatti e informazioni: e-mail: [email protected] www.donneinnero.it www.womeninblack.org   5

“La perdita di terra palestinese dal 1946 al 2007” legenda: in bianco la proprietà ebraica (e dopo il 1948 controllata dallo Stato d’Israele); in verde le zone palestinesi. Dal 2000 a oggi vi sono state altre espansioni delle colonie israeliane in Cisgiordania e un peggioramento delle possibilità di collegare le varie “enclave” palestinesi della zona, a fronte della sola restituzione delle colonie di Gaza (piccola zona bianca a sud-ovest di Gaza nella mappa del 2007). 1948 Partizione ONU La creazione dello Stato d’Israele nel 1948 ha significato l’esilio forzato per oltre 700 mila palestinesi. 1967 Territori occupati Nel 1967, altri 500.000 palestinesi hanno subito l’esilio forzato 2007 Bantustan palestinesi Dal 1967, Israele ha costruito più di 200 insediamenti nei territori palestinesi. La terra rimasta ai palestinesi non ha né continuità territoriale né confini internazionali.

GAZA: NON C’E’ PACE SENZA GIUSTIZIA

Presidio: Martedì, Mercoledì, Giovedì 3/4/5 febbraio 2009 - ore 18-19 - Milano, Piazza Cordusio/Via Mercanti

Da 61 anni Israele occupa illegalmente i Territori palestinesi, in spregio di tutte le risoluzioni dell’Onu, “privando tre milioni e mezzo di persone dei diritti alla libertà di movimento, al lavoro, alla salute e all’educazione” (Amnesty International, Sopravvivere sotto assedio. Violazione dei diritti umani dei palestinesi nei Territori Occupati, Ega 2006)

*Quale tregua?

Il furore dell’attacco militare israeliano a Gaza è sospeso, ma la minaccia del ricorso alla violenza armata permane. A pochi giorni dal “cessate il fuoco”, il ritiro è solo apparente e parziale; Israele continua di fatto ad occupare Gaza: i suoi aerei controllano lo spazio, le sue navi pattugliano la costa, truppe di terra occupano una zona all’interno della Striscia, i valichi d’ingresso rimangono chiusi dall’esercito che continua a negare il passaggio perfino degli aiuti umanitari. La tregua è già stata violata in diverse occasioni dall’esercito israeliano e altri abitanti di Gaza sono stati uccisi o feriti. Questa ennesima prova di forza si lascia alle spalle un cumulo di macerie, migliaia di case distrutte, intere zone desertificate dall’opera dei tank e soprattutto 1335 morti, in maggioranza civili inermi, inclusi 400 bambini innocenti, oltre a più di 5000 feriti gravi. Dietro la freddezza dei numeri e la desolazione dei cumuli di detriti, c’ è il dolore immenso di una popolazione vittima di una feroce punizione collettiva, la disperazione delle madri e dei padri che hanno perso i figli, il trauma devastante di bambini che hanno visto morire i loro genitori, crollare le loro case, l’orrore di chi ha visto bruciare i corpi di amici e parenti, lo sgomento di chi si ritrova con un corpo ferito, la rabbia di chi si sente colpito ingiustamente. Di questo dolore immenso non si parla e tutto si giustifica in nome della sicurezza di Israele e del suo diritto a difendersi.

*L’asimmetria politica tra uno Stato occupante e un popolo occupato

Si pretende che i palestinesi, un popolo senza Stato, diviso dal Muro, costretto a vivere in isole sigillate, accerchiate dai coloni israeliani, separate dai chekpoint militari, assicurino la sicurezza di Israele, prendendo le distanze da Hamas, mentre si lascia agire indiscriminatamente Israele, ignorando l’asimmetria politica tra occupanti e occupati, dimenticando di dire che da 61 anni il popolo palestinese è l’oppresso e lo Stato israeliano l’oppressore. Non si dice che Israele occupa la Cisgiordania e continua ad insediare coloni all’interno dei territori   6

palestinesi, violando le risoluzioni dell’Onu e la Convenzione di Ginevra; non si dice che ai palestinesi resta solo il 22% della Palestina storica (la risoluzione 181 dell’Onu aveva loro assegnato il 42%), una piccola porzione di territorio senza alcuna continuità perché interrotto dalle colonie, dai presidi militari, dal muro, dalle autostrade percorribili solo dagli ebrei. Non si dice che questa situazione sul terreno, creata appositamente dall’occupazione israeliana, rende impossibile la costituzione di un vero Stato palestinese con una continuità territoriale e confini precisi. Non si dice che la Striscia di Gaza, dopo lo smantellamento delle colonie, è stata trasformata in una prigione a cielo aperto, assediata dall’esercito israeliano, dove sono rinchiusi un milione e mezzo di persone, ridotte alla fame, costrette a vivere senza acqua, senza elettricità, senza medicine, senza possibilità di uscire per curarsi, studiare, sfuggire agli attacchi militari. E’ questo irresponsabile silenzio la grande menzogna che oscura la vera questione palestinese, menzogna che alimenta la falsa coscienza di chi si sente autorizzato a trasformare tutti i palestinesi, che non accettano il diktat israeliano, in nemici, disumanizzandoli come potenziali terroristi da fermare con qualsiasi mezzo.

*Non c’ è pace senza giustizia

Alla manifestazione di Tel Aviv contro l’attacco militare a Gaza, uomini e donne di pace israeliani hanno sfilato, pronunciando queste parole: “Vuoi fermare Hamas? Porta a Gaza la speranza, non la guerra”. Con questa ennesima prova di forza, che ha scatenato una violenza smisurata, Israele non solo non porta la speranza, ma non protegge nemmeno la sua popolazione, si limita bensì ad aggredire il popolo palestinese, a uccidere i suoi bambini, le sue donne, i civili inermi, e, così facendo, distrugge se stesso, perché non c’è pace né sicurezza, senza il rispetto dell’altro, senza giustizia. E la giustizia vuole che Israele riconosca al popolo palestinese quel diritto a vivere in sicurezza che pretende per sé. Ciò comporta: • la fine dell’occupazione e lo smantellamento delle colonie in Cisgiordania • la fine dell’assedio imposto a Gaza con l’apertura di tutti i valichi per poter rispondere adeguatamente ai bisogni basilari della popolazione e iniziare la ricostruzione. Ma la giustizia vuole anche che, dopo il massacro di Gaza: • si istituisca una commissione indipendente per accertare gli eventuali crimini di guerra e contro l’umanità commessi da Israele in seguito all’uso di armi non convenzionali • si porti il Governo israeliano e l’establishment militare davanti ad un tribunale internazionale che si pronuncerà sulle loro responsabilità. Giustizia significa anche che: • cessi ogni cooperazione militare con Israele da parte della Comunità internazionale. A tutti coloro che si accontentano di una tregua senza la contemporanea riapertura di una prospettiva politica che persegua la risoluzione del conflitto israelo-palestinese nel rispetto della giustizia, ricordiamo che, se Hamas ha vinto, legittimamente, le elezioni nel 2006, è perché “i palestinesi hanno voluto punire lo scacco politico di Fatah che, pretendendo di negoziare con Israele, non ha ottenuto nulla” (J.M. Muller, portavoce nazionale del Mouvement pour une alternative non-violente) . Non va dimenticato infatti che in tutti questi anni, grazie anche alla politica guerrafondaia di Bush e all’afasia dell’Europa, non ci sono stati reali negoziati di pace. Insieme alle nostre sorelle israeliane e palestinesi, noi Donne in Nero, guardiamo a un futuro di pace con giustizia , facendo nostre le parole di Hanan Ashrawi, parlamentare palestinese, che dice che “La pace è una parola che va riempita di contenuti”, mentre invita il suo popolo a percorrere la via della resistenza non violenta. Ora, il primo contenuto della pace è quello che garantisce ad ogni popolo il diritto di vivere con dignità, libero dalla paura, dalla miseria, dalla guerra. Donne in Nero, Milano (per informazioni: [email protected])

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I bambini di Rafah di Samih Al-Qasim (poeta palestinese, nato nel 1939, vive a Rama, in Galilea) A colui che scava nella ferita di milioni la sua strada A colui che sul carro armato schiaccia le rose del giardino A colui che di notte sfonda le finestre delle case A colui che incendia l’orto, l’ospedale e il museo e poi canta sull’incendio. A colui che scrive con il suo passo il lamento di madri orfane di figli, vigne spezzate. A colui che condanna a morte la rondine della gioia A colui che dall’aereo spazza via i sogni della giovinezza A colui che frantuma l‘arcobaleno, stanotte i bambini dalle radici tronche, stanotte i bambini di Rafah proclamano: noi non abbiamo tessuto coperte da una treccia di capelli noi non abbiamo sputato sul viso della vittima (dopo averle estratto i denti d’oro) Perché ci strappi la dolcezza e ci dai bombe? E perché rendi orfani i figli degli arabi? Mille volte grazie. Il dolore con noi ha raggiunto l’età virile e dobbiamo combattere. Il sole sul pugnale di un conquistatore era nudo corpo profanato e prodigava silenzio sul rancore delle preghiere, intorno facce stravolte. Urla il soldato della leggenda: “Non parlerete? Bene! Coprifuoco tra un’ora” E dalla voce di Alâ’uddîn esplode la nascita dei guastatori bambini: io ho buttato una pietra sulla jeep io ho distribuito volantini io ho dato il segnale io ho ricamato lo stemma portando la sedia da un quartiere...a una casa...a un muro io ho radunato i bambini

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e abbiamo giurato sulla migrazione dei profughi di combattere finché brillerà nella nostra strada il pugnale di un conquistatore. (Alâ’uddîn non aveva ancora dieci anni) (traduzione di Lucy Ladikoff)

da: Samih Al-Qasim, Versi in Galilea, a cura di W. Dahmash, Edizioni Q, Roma 2008

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VOCI PALESTINESI 1. “Morirò anch’ io?” Lettera di NOUR KHARMA , ragazza 14enne che vive a Gaza Oggi, sono 2 settimane che dura quest’orribile guerra. Sabato scorso è stato il giorno peggiore. Quando mi sono svegliata il mattino, uno dei miei amici ha chiamato. La sua voce mi è sembrata strana quando gli ho detto: “Come stai?” Ha risposto: “Sto bene, ma hai sentito altri amici?” Avevo paura e gli ho domandato: “Cosa è successo?” . Mi ha detto che Christine era morta. Ancora non lo posso credere. Ho buttato il telefono per terra e ho cominciato a piangere. Ho chiamato altri amici per essere sicura e tutti piangevano. Christine è stata la mia amica da quasi 4 anni. Andavamo insieme a scuola e alla YMCA. Mi sento triste. Ho paura. Sono preoccupata. Lei è stata come una sorella. Sento un grande dolore per lei e per la sua famiglia. I suoi genitori hanno fatto del loro meglio, ma non è bastato e il risultato è stata la morte. Cosa succederà, se i miei genitori non mi potessero proteggere e non potessero darmi il sostegno di cui ho bisogno? Morirò anch’io? Il mio futuro è stato distrutto. Un razzo israeliano ha colpito la mia scuola qualche giorno fa e la scuola è stata totalmente distrutta. Non riesco a capire perché bombardano luoghi religiosi e di istruzione, come moschee, scuole e università. Ad ogni esplosione sentiamo la nostra casa che trema e potrebbe essere distrutta – e la gente che ha già perso la sua casa? Sto piangendo la perdita di un’amica – e la gente che ha perso 5 o anche più parenti? La depressione e la paura riempiono le nostre anime e circondano le nostre case. Che succederà ora? La cosa che voglio è che questa guerra finisca e che il popolo palestinese possa vivere come altri popoli e i bambini palestinesi possano godere la loro infanzia come altri bambini del mondo. Aiutateci perché siamo tutti esseri umani.

Potete mandare messaggi a: [email protected]

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2. LE PROSSIME GENERAZIONI DI OPPRESSI Lettera aperta alle coscienze del mondo, da parte di un palestinese di Nablus di Raed Debie Sono le 17 in Palestina e Gaza, è l’undicesimo giorno di pesanti bombardamenti.Le notizie dalla striscia mostrano che il numero dei morti è di 640 - dei quali 210 bambini e più di 100 donne- mentre il numero dei feriti sfiora i 3000, la maggior parte donne, bambini e anziani. Il principale visitatore a Gaza è la morte e le foto che arrivano dalla striscia ci ricordano le immagini di Londra durante la seconda guerra mondiale. La striscia di Gaza vive in una profonda oscurità, tanto quanto la coscienza del mondo intero sembra immersa in un coma profondo: non mi sono sorpreso rispetto alla posizione Usa a sostegno dei crimini israeliani contro le nostre donne e i nostri bambini. Le armi che uccidono i nostri bambini sono di fabbricazione americana, come lo sono i tank che radono al suolo le nostre città. Tutte armi costruite grazie agli aiuti americani a Israele. E gli Usa sono anche il più grande avvocato della causa d’Israele all’interno del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Stati Uniti e Israele condividono inoltre lo stesso amore per il controllo e gli spargimenti di sangue attraverso l’occupazione di altre nazioni. Gli Usa occupano l’Iraq e l’Afghanistan, come Israele occupa la Palestina, le fattorie di Sheeba nel sud del Libano e le alture del Golan in Siria. Di conseguenza, le dichiarazioni americane, che giustificano il massacro di Gaza come un atto di autodifesa di Israele, non sorprendono affatto i Palestinesi. Quello che ci colpisce sono le parole dell’Unione Europea, del rappresentante di turno della Repubblica Ceca, secondo cui Israele ha il diritto all’autodifesa. Penso che questa posizione negativa e inumana rimarrà una macchia sulla politica internazionale europea e avrà un effetto negativo sulla credibilità dell’U.E. come partner nel Quartetto* promotore di un processo di pace mai iniziato. Inoltre, rimarrà nella nostra mente l’immagine di un’ Europa inerte di fronte all’ ignoranza, al sottosviluppo, all’oppressione e al dominio che regnano in molte aree del mondo. Affermo questo perché mi sarei aspettato che l’Europa, che ha vissuto un passato di sanguinosi conflitti, si schierasse dalla parte di coloro che lottano per la libertà, dignità e indipendenza, come il popolo palestinese sotto occupazione israeliana da più di 60 anni. Credo che sia un diritto dei residenti israeliani del sud di Israele vivere in pace e senza la minaccia continua dei razzi che minacciano quotidianamente la loro vita. Ma credo anche che l’uccisione di donne e bambini nella Striscia di Gaza non fermerà il lancio di quei razzi. Ogni volta ci occupiamo della superficie e dimentichiamo la sostanza della questione. Anche nel caso dell’aggressione alla Striscia di Gaza, la comunità internazionale si sofferma sulla superficie, ignorando l’essenza della questione. E l’essenza è che c’è un popolo che vive sotto occupazione da più di mezzo secolo, che merita di vivere in pace e sicurezza come il resto delle persone nel mondo. Ha il diritto di svilupparsi e sognare un futuro sicuro per le prossime generazioni. L’essenza, ancora, è che le violenze dell’occupazione sono le maggiori istigatrici di violenza, perché l’occupazione è la peggiore tra le forme di terrorismo. Di conseguenza, ogni giudizio sull’aggressione alla Striscia di Gaza, che non tiene conto dell’occupazione, è scorretto; la fine dell’occupazione israeliana e la costituzione di uno stato palestinese indipendente, che viva pacificamente accanto a Israele, rappresenta l’unica soluzione al conflitto.

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Il massacro nella striscia di Gaza non ha fermato il lancio di razzi verso Israele, anzi, i razzi palestinesi, durante l’aggressione, hanno raggiunto località più lontane. La domanda che vorrei porre alla coscienza del “mondo libero” è questa: cosa direte di fronte al sangue e alle lacrime delle donne e dei bambini nella Striscia? Cosa vi aspettate da bambini che crescono sotto i missili e i bombardamenti israeliani? Cosa vi aspettate da bambini come Dalal Abu Aishy, a cui un razzo israeliano ha rubato tutta la famiglia? Cosa farebbero gli europei se la loro terra fosse sotto occupazione, aspetterebbero o resisterebbero? Quando gli Israeliani occuparono il sud del Libano, nel 1982, e assediarono Beirut, tutta la società palestinese supportava Fatah *. Oggi, nel 2009, la scena è la stessa, ma le vittime e il luogo sono cambiati. Qualsiasi sondaggio renderà manifesto l’odio verso Israele nel mondo arabo e mostrerà anche la dimensione del consenso verso Hamas *. Questa è la più grande minaccia che Israele si trova a fronteggiare: l’estremismo delle prossime generazioni di oppressi. C’è un proverbio arabo che dice “se semini sangue non cresceranno rose”. Penso che Israele capisca molto bene questo proverbio perché “seminare” missili non porterà sicurezza e la “coltivazione” di barriere non produrrà pace. La comunità internazionale dovrebbe tornare a guardare alla sostanza e comprendere la storia dei bambini della Palestina, quando in futuro diventeranno adulti e praticheranno il loro diritto di resistenza all’occupazione della loro terra. I palestinesi vinceranno e questa aggressione non garantirà la sicurezza di Israele: solo una giusta pace e un ritorno ai diritti umani porteranno sicurezza e stabilità.

08/01/2009 www.peacereporter.net

* Usa, Russia, Unione Europea e Onu (Quartetto) sostennero la Road Map nel 2002, un percorso di pace che avrebbe dovuto portare a un assetto definitivo di Israele e Palestina, ma che non ebbe alcun seguito. * al-Fatah: Movimento di Liberazione della Palestina, è l’organizzazione politica di ispirazione socialdemocratica e laica, fondata da Arafat nel 1959. * Hamas: Movimento di Resistenza Islamico, è un’organizzazione di ispirazione religiosa islamica, di carattere politico e paramilitare, fondata nel 1987. Nel 2006 ha vinto le elezioni politiche nei Territori palestinesi occupati da Israele.

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3. LA MORALE DEI CACCIA BOMBARDIERI Lettera da Ramallah di Mustafa Bargouti

ex ministro dell’informazione del Governo di Unità nazionale palestinese, parlamentare palestinese, leader del partito Mubadara (L’Iniziativa), Segretario Generale di ‘Palestinian National Initiative’ E leggerò domani, sui vostri giornali, che a Gaza è finita la tregua. Non era un assedio dunque, ma una forma di pace, quel campo di concentramento falciato dalla fame e dalla sete. E da cosa dipende la differenza tra la pace e la guerra? Dalla ragioneria dei morti? E i bambini consumati dalla malnutrizione, a quale conto si addebitano? Muore di guerra o di pace, chi muore perché manca l’elettricità in sala operatoria? Si chiama pace quando mancano i missili - ma come si chiama, quando manca tutto il resto? E leggerò sui vostri giornali, domani, che tutto questo è solo un attacco preventivo, solo legittimo, inviolabile diritto di autodifesa. La quarta potenza militare al mondo, i suoi muscoli nucleari contro razzi di latta, e cartapesta e disperazione. E mi sarà precisato naturalmente, che no, questo non è un attacco contro i civili - e d’altra parte, ma come potrebbe mai esserlo, se tre uomini che chiacchierano di Palestina, qui all’angolo della strada, sono per le leggi israeliane un nucleo di resistenza, e dunque un gruppo illegale, una forza combattente? - se nei documenti ufficiali siamo marchiati come entità nemica e, senza più il minimo argine etico, il cancro di Israele? Se l’obiettivo è sradicare Hamas - tutto questo rafforza Hamas. Arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l’esercizio della democrazia - ma quale altra opzione rimane? Non lasciate che vi esploda addosso improvvisa. Non è il fondamentalismo a essere bombardato in questo momento, ma tutto quello che qui si oppone al fondamentalismo. Tutto quello che a questa ferocia indistinta non restituisce gratuito un odio uguale e contrario, ma una parola scalza di dialogo, la lucidità di ragionare, il coraggio di disertare - non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altra Palestina, terza e diversa, mentre schiva missili stretta tra la complicità di Fatah e la miopia di Hamas. Stava per assassinarmi per autodifesa, ho dovuto assassinarlo per autodifesa - la racconteranno così, un giorno i sopravvissuti. E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente - e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro? E soprattutto - perché mai dovrebbero averlo, se la Road Map è solo l’ennesima arma di distrazione di massa per l’opinione pubblica internazionale? Quattro pagine in cui a noi per esempio, si chiede di fermare gli attacchi terroristici, e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come - testuale - gli attacchi contro i civili. Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto, è un crimine di guerra non una questione di cortesia. E se Annapolis* è un processo di pace, mentre l’unica mappa che procede qui sono intanto le terre confiscate, gli ulivi spianati, le case demolite, gli insediamenti allargati - perché allora non è processo di pace la proposta saudita? La fine dell’occupazione, in cambio del riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi. Possiamo avere se non altro un segno di reazione? Qualcuno, lì, per caso ascolta, dall’altro lato del Muro?

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Ma sto qui a raccontarvi vento. Perché leggerò solo un rigo domani, sui vostri giornali e solo domani, poi leggerò solo, ancora, l’indifferenza. Ed è solo questo che sento, mentre gli F16 sorvolano la mia solitudine, verso centinaia di danni collaterali che io conosco nome a nome, vita a vita - solo una vertigine di infinito abbandono e smarrimento. Europei, americani e anche gli arabi - perché dove è finita la sovranità egiziana, al varco di Rafah, la morale egiziana, al sigillo di Rafah? - siamo semplicemente soli. Sfilate qui, delegazione dopo delegazione - e parlando, avrebbe detto Garcia Lorca, le parole restano nell’aria, come sugheri sull’acqua. Offrite aiuti umanitari, ma non siamo mendicanti, vogliamo dignità, libertà, frontiere aperte, non chiediamo favori, rivendichiamo diritti. E invece arrivate, indignati e partecipi, domandate cosa potete fare per noi. Una scuola? Una clinica forse? Delle borse di studio? E tentiamo ogni volta di convincervi - no, non la generosa solidarietà, insegnava Bobbio, solo la severa giustizia - sanzioni, sanzioni contro Israele. Ma rispondete - e neutrali ogni volta, e dunque partecipi dello squilibrio, partigiani dei vincitori - no, sarebbe antisemita. Ma chi è più antisemita, chi ha viziato Israele passo a passo per sessant’anni, fino a sfigurarlo nel paese più pericoloso al mondo per gli ebrei, o chi lo avverte che un Muro marca un ghetto da entrambi i lati? Rileggere Hannah Arendt è forse antisemita, oggi che siamo noi palestinesi la sua schiuma della terra, è antisemita tornare a illuminare le sue pagine sul potere e la violenza, sull’ultima razza soggetta al colonialismo britannico, che sarebbero stati infine gli inglesi stessi? No, non è antisemitismo, ma l’esatto opposto, sostenere i tanti israeliani che tentano di scampare a una nakbah (catastrofe) chiamata sionismo. Perché non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altro Israele, terzo e diverso, mentre schiva il pensiero unico stretto tra la complicità della sinistra e la miopia della destra. So quello che leggerò, domani, sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid - e genocidio. Perché non importa che le politiche israeliane, tecnicamente, calzino oppure no al millimetro le definizioni delicatamente cesellate dal diritto internazionale, il suo aristocratico formalismo, la sua pretesa oggettività non sono che l’ennesimo collateralismo, qui, che asseconda e moltiplica la forza dei vincitori. La benzina di questi aerei è la vostra neutralità, è il vostro silenzio, il suono di queste esplosioni. Qualcuno si sentì berlinese, davanti a un altro Muro. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?

pubblicata da “il Manifesto” il 31.12.2008

* DA ANNAPOLIS, E’ PASSATO UN ANNO di Mustafa Barghouti* - Ma’an News, 27 novembre 2008

Annapolis ha portato la pace? Da Annapolis, gli attacchi israeliani sono triplicati, l’ampliamento delle colonie in Cisgiordania è aumentato di 20 volte (a Gerusalemme, di 38); i posti di blocco sono passati da 521 a 699, e continua la costruzione del Muro. Non vi sono stati negoziati.

La conferenza di Annapolis è stata inutile; l’anno trascorso lo dimostra. La conferenza di Annapolis è stata un negoziato a senso unico; gli sforzi sono stati solo sul lato palestinese. Gli israeliani non hanno negoziato: hanno imposto le loro realtà sul terreno. A un anno da Annapolis, i “fatti sul terreno” sono questi:

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dall’inizio dei colloqui, in Palestina sono stati compiuti 3.063 attacchi: 1.700 in Cisgiordania, 1.363 a Gaza;



sono stati uccisi 543 palestinesi: 65 in Cisgiordania, 478 a Gaza., 71 erano minorenni;



sono stati feriti 2.362 palestinesi: 1.125 in Cisgiordania, 1.237 a Gaza; 138 dei feriti sono minorenni.



sono stati liberati 770 prigionieri palestinesi; Israele, nel frattempo, ne ha incarcerati altri 4.945. Di questi, 4.351 provengono dalla Cisgiordania, 574 da Gaza, e 351 sono minorenni. Si stima che vi siano, attualmente, 10.500 palestinesi nelle carceri israeliane.

Gaza Dall’inizio dell’assedio a Gaza, nel 2006, sono morti più di 260 pazienti: gli ospedali hanno finito il materiale, ed è vietato il trattamento fuori dalla Striscia. Per il blocco, a Gaza sono già esauriti 160 tipi di farmaci; stanno per terminare le scorte di altri 130, mentre almeno 90 strumenti, fra cui 31 apparecchi per la dialisi, sono fuori uso. Gaza è ora chiusa da 23 giorni consecutivi; nel nord dell’area vi è pericolo imminente di allagamenti fognari. Se non si prendono provvedimenti al più presto, si verificherà un’enorme crisi sanitaria.

Aumentano gli ostacoli agli spostamenti Dall’inizio dei colloqui di Annapolis, i posti di blocco sono passati da 521 a 699. Almeno 30 persone, fra le quali alcuni bambini, sono morte a un posto di blocco, in Cisgiordania o a Gaza. Il 74% delle strade principali, in Cisgiordania, sono o controllate da posti di blocco, o totalmente chiuse. Nel settembre 2008, il numero medio di posti di blocco volanti, posti a caso in Cisgiordania nel corso di una settimana, è stato pari a 89. È aumentata l’attività delle colonie Sono attualmente in costruzione 2.600 abitazioni per coloni; di queste, il 55%, sul lato est del Muro. Nel 2008, i bandi edilizi nelle colonie sono incrementati del 550%. Oggi vi sono 121 colonie e 102 avamposti israeliani in Cisgiordania, in cui risiedono 462.000 coloni. Le colonie sono costruite su meno dello 1,5% del territorio palestinese, ma, per l’ampia infrastruttura, ne occupano più del 40%. In agosto, il governo israeliano ha autorizzato in via preliminare la nuova colonia illegale di Maskiot, nella Valle del Giordano. A Gerusalemme sono attualmente in corso espulsioni dalle case. La famiglia Al Kurd, vissuta nella propria casa a Sheikh Jarrah per 50 anni, è stata cacciata violentemente dall’esercito israeliano il 9 novembre. Sono sopravvissuti per due settimane in una tenda senz’acqua, senza riscaldamento e senza elettricità. Lo scorso fine settimana, Abu Kamal, padre di 5 figli, è deceduto. Soffriva di diabete, e le sue condizioni di salute erano peggiorate, per essere stato espulso dalla propria casa. Permane la politica israeliana di apartheid La quantità di acqua per il consumo palestinese è pari a 132 milioni di metri cubi; per gli israeliani, di 800

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milioni di metri cubi. Il consumo di acqua da parte dei palestinesi è di 60 litri pro capite al dì (la quantità raccomandata dall’OMS è di 100 litri/dì); gli israeliani ne utilizzano 220 litri/dì. I palestinesi pagano 5 shekel per unità di acqua e 13 per unità di elettricità; gli israeliani rispettivamente 2,4 e 6,3 shekel. Continua la costruzione del Muro Del Muro sono stati costruiti 409 km (il 57%); 66 km (il 9%) sono in via di costruzione. Quando sarà completato, sarà lungo in totale 723 km, il doppio della Linea Verde. Il 14% del Muro sarà sulla Linea Verde, lo 86% all’interno della Cisgiordania. Ai palestinesi è necessario essere uniti Israele cerca di venderci un Paese senza una capitale, infiltrato da colonie, con la più grande prigione a cielo aperto – Gaza – a cui sono inflitti quotidianamente crimini di guerra, e in cui i profughi non hanno diritto di tornare. Se non facciamo attenzione al crescere del divario fra Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, e accettiamo le differenze fra queste zone, Israele – e solo Israele – avrà raggiunto i propri scopi. Il Piano palestinese di azione deve comprendere: 1. La fine degli attuali negoziati, e la sospensione, da parte di Israele, di tutte le attività delle colonie 2. L’istituzione di una leadership palestinese unitaria 3. La fine immediate dei conflitti interni fra palestinesi 4. Il ritorno all’iniziativa di pace araba (ritiro di Israele entro i confini del 1967, soluzione del problema dei profughi, riconoscimento di Israele da parte di tutti i paesi arabi) e la convocazione di una conferenza di pace internazionale. Che terminino i conflitti e le segregazioni: dobbiamo tornare ad essere uniti, in ogni senso del termine! Altrimenti, Israele otterrà lo scopo di trasformare l’Autorità Palestinese in un suo corpo di polizia, e nel governo di bantustan. * Segretario Generale di “Palestinian National Iniziative” testo inglese: vedere http://www.maannews.net/en/index.php?opr=ShowDetails Traduzione: Paola Canarutto

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APPELLO - Call for action Mustafa Barghouthi Segretario Generale di ‘Palestinian National Initiative’ - PNI 24 gennaio 2009 A pochi giorni dal cessate il fuoco unilaterale proclamato da Hamas ed Israele, la popolazione di Gaza si sta accorgendo del livello di distruzione che ha colpito le loro case e le loro vite. 1335 abitanti di Gaza sono stati uccisi; in maggioranza civili, inclusi 400 bambini innocenti, mentre 5000 sono i feriti gravi. Oggi chiediamo ai nostri amici, colleghi, e a tutti coloro che hanno a cuore valori quali la libertà e il rispetto dei diritti umani, di agire con decisione per raggiungere i seguenti obbiettivi: 1) Porre fine all’occupazione Israeliana sia a Gaza che in Cisgiordania. Il Governo Israeliano afferma di aver ritirato il suo esercito da Gaza. Ma si tratta di una bugia. Israele occupa a tutt’oggi la Striscia, i suoi aerei controllano lo spazio aereo e le sue navi pattugliano la costa. Le stesse truppe di terra occupano una zona all’interno del territorio di Gaza, e i valichi di ingresso sono ancora chiusi dall’esercito che non ne consente l’apertura nemmeno per il passaggio degli aiuti umanitari. L’esercito israeliano ha già violato il cessate il fuoco in numerose occasioni. Solo ieri una nave militare ha colpito 5 pescatori palestinesi che si trovavano a pescare sulla spiaggia, da quando è stato dichiarato il cessate il fuoco, un consistente numero di abitanti di Gaza sono stati uccisi o feriti. 2) Rimuovere l’assedio inumano imposto a Gaza, aprendo tutti i valichi, incluso quello di Rafah. Se i valichi rimangono chiusi sarà impossibile rispondere anche soltanto alle più basilari esigenze umanitarie, per non parlare della ricostruzione delle 25000 abitazioni danneggiate nei bombardamenti e della riparazione delle infrastrutture. I cancelli della ‘Prigione di Gaza’, che ospita 1milione e mezzo di persone devono essere aperti se esiste il minimo rispetto e volontà di alleviare la sofferenza dei suoi abitanti. 3) Creare una commissione indipendente per investigare gli eventuali crimini di Guerra e contro l’Umanità commessi da Israele, incluso l’uso di armi non convenzionali. 4) Portare il Governo Israeliano e l’establishment militare davanti ad un tribunale di guerra. Benché Israele abbia dimostrato in passato di avere scarso rispetto per il Diritto Internazionale, altri paesi suoi alleati non dovrebbero dimenticare le loro responsabilità di fronte alle corti criminali internazionali. Questo significa agire contro i responsabili delle politiche israeliane che cerchino di recarsi all’estero, avviando procedimenti penali contro questi ultimi per i gravi atti da loro compiuti a Gaza . 5) Cessare immediatamente ogni forma di cooperazione militare con Israele, includendo l’immediata cancellazione di qualsiasi operazione di import/export militare che veda coinvolto

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Israele. Dovrebbe essere immediatamente chiarito agli alleati politici ed economici dello Stato di Israele che la loro assistenza viene utilizzata per sostenere l’oppressione del popolo Palestinese in contrasto con il diritto internazionale e gli stessi diritti umani. Se il supporto da parte dei partner stranieri proseguirà, crediamo che Israele non avrà alcuna ragione per porre fine ai suoi comportamenti criminali. 6) Immediata sospensione dei rapporti privilegiati con Israele, incluso il potenziamento delle sue relazioni con l’Unione Europea. Né i Palestinesi né gli Europei possono riportare in vita i 1335 uomini, donne e bambini uccisi. Né è possibile riparare totalmente i danni provocati all’economia di Gaza. Ma insieme possiamo prevenire futuri crimini di guerra e fermare la follia militarista di Israele. Ancora più importante è che possiamo ridare fiducia nell’umanità ad una popolazione, quella palestinese, che negli ultimi anni è stata abituata alla perpetrazione degli abusi e dei più orribili delitti, mentre il mondo rimaneva passivamente a guardare. A nome della Palestinian National Initiative E del Palestinian National Committee to Support Gaza Dr. Mustafa Barghouthi Segretario Generale Per ulteriori informazioni contattare il Dr. Mustafa Barghouthi Secretary General PNI [email protected] <mailto:[email protected]> [Traduzione a cura di Giulio Di Blasi]

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4. CHE COSA HA FATTO ISRAELE ? * di Edward W. Said (1935-2003 – palestinese, nato a Gerusalemme e cresciuto a Il Cairo, critico letterario, è stato uno degli intelletuali più in vista negli Stati Uniti, professore di Letteratura comparata alla Columbia University di New York) Articolo scritto nell’aprile 2002, dopo il massacro compiuto da Israele a Jenin (Cisgiordania), tragicamente attuale nella descrizione della violenza e dell’impunità di Israele.

Nonostante i tentativi di Israele di limitare la copertura mediatica della sua invasione devastante delle città e dei campi profughi palestinesi in Cisgiordania, informazioni e immagini sono ugualmente circolate. Centinaia di testimonianze dirette, verbali e visive, sono state diffuse via Internet, ma sono comparse anche nelle tV arabe ed europee, mentre non sono state diffuse dai media americani principali, che le hanno bloccate o hanno fatto come se non esistessero. Questa è una dimostrazione impressionante dello stato reale (lo stesso che in passato) della campagna di Israele: il controllo irreversibile del suolo e della società palestinesi. La versione ufficiale (sostanzialmente confermata dagli Stati Uniti e da quasi tutti gli opinionisti del paese) è che Israele si è difeso, reagendo agli attentati suicidi che compromettono la sua sicurezza e minacciano la sua stessa esistenza. Questa linea è assurta a verità assoluta, non temperata né da ciò che Israele ha fatto né da quello che ha davvero subìto. “Smantellare la rete terroristica”, “distruggere l’infrastruttura del terrore, “attaccare i covi dei terroristi” (si noti il carattere disumanizzante di queste frasi): simili slogan sono stati ripetuti così spesso che hanno conferito a Israele il diritto di fare ciò che vuole, ovvero, in sostanza, di distruggere la vita civile palestinese, causando tutti i danni, le distruzioni gratuite, le morti, le umiliazioni, praticando tutti i vandalismi ed esercitando tutta la violenza tecnologica insensata e schiacciante di cui è capace. Nessun altro Stato sulla faccia della terra avrebbe potuto fare altrettanto con un’approvazione e un sostegno simili a quelli che l’America ha garantito a Israele. Nessun paese è mai stato più intransigente e distruttivo e più dimentico della sua stessa realtà. Vi sono segni però che queste giustificazioni sorprendenti, per non dire grottesche (“la lotta per l’esistenza” di Israele) vengono lentamente erose dalla dura realtà delle devastazioni quasi inimmaginabili provocate dallo stato ebraico e dal suo primo ministro assassino Ariel Sharon. Prendiamo per esempio un articolo di Serge Schmemann (che non si può certo definire un propagandista palestinese) apparso l’ 11 aprile sulla prima pagina del New York Times, intitolato “Gli attacchi riducono in cenere e lamiere contorte i piani palestinesi”: “Non c’è modo di misurare l’entità reale dei danni inflitti alle città e agli altri centri – Ramallah, Betlemme, Tulkarem, Qalqilya, Nabllus e Jenin – finché rimangono strettamente sotto assedio, con pattuglie e cecchini che sparano per le strade. Si può dire però con certezza che l’infrastruttura della vita stessa, nonché di qualsiasi futuro stato palestinese – le strade, le scuole, i pali della luce, le condutture dell’acqua, le linee telefoniche – ne esce devastata”. Quale calcolo inumano ha spinto l’esercito ad assediare per più di una settimana, con cinquanta carri armati, duecentocinquanta lanci di missili al giorno e decine di incursioni degli F-16, il campo profughi di Jenin, un chilometro quadrato di tuguri con quindicimila abitanti e una manciata di uomini armati di fucili automatici, ma senza alcun tipo di difesa, senza leader, senza missili, senza carri armati, senza nulla, presentando l’impresa come una risposta alla violenza terroristica e alle minacce per la sopravvivenza di Israele? I civili palestinesi, uomini, donne, bambini, si possono dunque uccidere e attaccare a migliaia senza che nessuno

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provi compassione o parli in loro difesa, come fossero ratti o scarafaggi? E che dire del sequestro di migliaia di uomini palestinesi prelevati dai soldati israeliani e di cui non si ha notizia? Dello stato di miseria di tante persone comuni rimaste senza tetto, che cercano di sopravvivere tra le rovine create dai bulldozer israeliani in tutta la Cisgiordania? Di un assedio che va avanti da mesi, del taglio dell’elettricità e dell’acqua a tutti i centri palestinesi, dei lunghi giorni di coprifuoco totale, della penuria di alimenti e farmaci, dei feiriti lasciati morire dissanguati, degli attacchi sistematici alle ambulanze e ai soccorritori, denunciati con indignazione anche da un uomo dai toni blandi come Kofi Annan? Queste azioni non finiranno facilmente nel dimenticatoio. Gli amici di Israele devono chiedergli in che modo la sua politica suicida possa mai garantirgli pace, accettazione, sicurezza. Grazie alla trasformazione mostruosa di un intero popolo in un’accozzaglia di “militanti” e “terroristi” per opera dell’apparato propagandistico più imponente e temuto del mondo, non solo i militari di Israele, ma anche le legioni dei suoi scrittori e paladini hanno potuto cancellare una storia terribile di sofferenze e soprusi allo scopo di distruggere impunemente l’esistenza civile del popolo palestinese. Sono così scomparsi dalla memoria pubblica la distruzione della società palestinese nel 1948 e la creazione di una popolazione di profughi; la conquista della Cisgiordania e di Gaza e la loro occupazione militare a partire dal 1967; l’invasione del 1982, con i suoi 17.500 morti libanesi e palestinesi e i massacri di Sabra e Chatila; l’assalto incessante alle scuole palestinesi, ai campi profughi, agli ospedali e a ogni tipo di struttura civile. Che utilità può avere contro il terrorismo la distruzione della sede e la rimozione degli archivi del Ministero dell’Istruzione, del comune di Ramallah, dell’Ufficio centrale di statistica, di istituti che si occupano di diritti civili, sanità, sviluppo economico, di ospedali, di stazioni radiofoniche e televisive? Non è forse chiaro che Sharon mira non solo a “spezzare” i palestinesi, ma proprio a tentare di eliminarli in quanto popolo dotato di istituzioni nazionali? In una simile situazione di disparità e di potenza asimmetrica sembra folle continuare a chiedere ai palestinesi – che non hanno esercito, aerei, carri armati, né alcun tipo di difesa e nemmeno una leadership efficiente – di “rinunciare” alla violenza, mentre non si impongono limitazioni analoghe alle azioni di Israele. Perfino la questione degli attentati suicidi, a cui sono sempre stato contrario, non può essere esaminata con criteri velatamente razzisti che attribuiscono alle vite israeliane un valore maggiore che alle vite palestinesi, assai più numerose, perdute, mutilate, storpiate e accorciate a causa dell’annosa occupazione militare israeliana e della barbarie sistematica praticata da Sharon contro i palestinesi dall’iinizio della sua carriera, negli anni cinquanta, fino a ora. A mio parere non è concepibile una pace che non affronti la vera questione, cioè il rifiuto di Israele di accettare l’esistenza sovrana di un popolo palestinese cui spettano diritti su quella che Sharon e la maggior parte dei suoi seguaci vedono solo ed esclusivamente come la terra del Grande Israele, ovvero la Cisgiordania e Gaza. Un profilo di Sharon apparso il 6-7 aprile 2002 sul Financial Times si concludeva con una citazione molto illuminante dalla sua autobiografia, introdotta dalla rivista con la frase: “Ha scritto con orgoglio della convinzione dei suoi genitori che ebrei e arabi potessero vivere fianco a fianco”. Ed ecco il passo del libro di Sharon: “Ma non avevano alcun dubbio che quella terra spettasse di diritto soltanto a loro. E nessuno li avrebbe scacciati di lì, con il terrore o con altri mezzi. Quando la terra ti appartiene materialmente...allora hai tu il potere, non solo concretamente, ma anche dal punto di vista spirituale”. Nel 1988 l’OLP fece una concessione, ammettendo la possibilità di una divisione della Palestina storica in due stati. Questa posizione è stata ribadita più volte, anche nei documenti di Oslo.

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Ma solo i palestinesi hanno riconosciuto esplicitamente l’idea della divisione: Israele non lo ha mai fatto. Ecco perché ora ci sono più di 170 colonie sul suolo palestinese, perché esiste una rete stradale di oltre 450 chilometri che le collega tra loro e impedisce totalmente i movimenti ai palestinesi (secondo il Comitato israeliano contro la demolizione delle case di Jeff Halper, questa rete costa tre miliardi di dollari ed è stata finanziata dagli Stati Uniti); mai concesso ai palestinesi una sovranità reale e, naturalmente, perché gli insediamenti sono aumentati ogni anno. Una semplice occhiata a una carta recente dei territori rivela quello che Israele ha continuato a fare durante il processo di pace e ne mostra anche le conseguenze: la discontinuità geografica e la contrazione della vita palestinese. In realtà, insomma, Israele considera lo stato e il popolo ebraici come gli unici proprietari della terra di Israele nella sua totalità: leggi sul diritto di proprietà del paese lo sanciscono, ma in Cisgiordania e a Gaza la rete di insediamenti e di strade da una parte e l’assenza di concessioni ai palestinesi in materia di diritto sovrano sulla terra dall’altra assolvono questa funzione. Quello che lascia esterrefatti è che nessuna figura pubblica – americana, palestinese, araba, delle Nazioni Unite, europea – abbia mai chiesto ufficialmente a Israele di rispondere su questo punto, peraltro sempre implicito nei vari documenti, procedimenti e accordi di Oslo. Ed è naturalmente per questo motivo che dopo quasi dieci anni di “negoziati di pace” Israele ha ancora il controllo della Giordania e di Gaza. Oggi queste terre sono saldamente nelle mani di oltre mille carri armati e migliaia di soldati israeliani, ma il principio di base è lo stesso. Nessun leader israeliano (certo non Sharon né i suoi sostenitori di Eretz Israel –Grande Israele – che formano la maggioranza del suo governo) ha riconosciuto ufficialmente che i territori occupati sono occupati, o tanto meno ammesso che i palestinesi potrebbero in teoria avere diritti sovrani, ovvero fare a meno del controllo israeliano sui confini, sull’acqua, sull’aria e sulla sicurezza in quello che agli occhi della maggior parte del mondo è territorio palestinese. Perciò parlare di uno stato palestinese – per quanto sia di moda – sarà sempre illusorio, a meno che il governo israeliano non riconosca ufficialmente le questioni della proprietà della terra e della sovranità. Finora ciò non è accaduto e mi pare difficile che avvenga in un futuro prossimo. Bisogna ricordare che Israele è oggi l’unico stato al mondo che non ha mai avuto confini dichiarati a livello internazionale; l’unico stato che non appartiene ai propri cittadini, ma all’intero popolo ebraico; l’unico stato in cui più del 90% della terra è riservato all’uso esclusivo del popolo ebraico. Il fatto che sia anche l’unico stato al mondo che non ha mai riconosciuto le norme principali del diritto internazionale (come ha osservato di recente Richard Falk) è un’indicazione della profondità e della difficoltà strutturale della negatività assoluta che i palestinesi hanno dovuto affrontare. Ecco perché mi sono mostrato scettico verso le discussioni e gli incontri sulla pace, una parola molto bella che però allo stato attuale significa solo che i palestinesi devono smettere di opporre resistenza al controllo di Israele sulla loro terra. Uno dei tanti difetti della pessima leadership di Arafat (per non parlare dei leader arabi, in generale ancora più deplorevoli) sta proprio nel fatto che nei dieci anni di negoziati di Oslo lui non ha mai richiamato l’attenzione sulla proprietà della terra, imponendo a Israele l’onere di dichiararsi disponibile a rinunciare ai diritti sul suolo palestinese, né ha mai chiesto che Israele affrontasse almeno una parte della sua responsabilità per le sofferenze del popolo da lui guidato. Ora temo che Arafat cerchi semplicemente di salvare se stesso ancora una volta, mentre in realtà abbiamo bisogno di osservatori internazionali che ci proteggano e di nuove elezioni, in modo da assicurare un futuro politico reale al popolo palestinese. Il problema d fondo che Israele e il suo popolo devono affrontare è questo: il paese è disposto sul piano giuridico ad assumere i diritti e gli obblighi che valgono per tutti gli altri e a promettere di rinunciare alle

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impossibili rivendicazioni di proprietà per cui Sharon, i suoi genitori e i suoi soldati hanno combattuto sin dal primo giorno? Nel 1948 i palestinesi persero il 78% della Palestina e nel 1967 persero il restante 22%, entrambe le volte a favore di Israele. Ora la comunità internazionale deve imporre a Israele l’obbligo di accettare il principio della divisione reale – e non fittizia – e quello della limitazione delle pretese extraterritoriali ingiustificabili, che avanza su assurde basi bibliche appoggiandosi a leggi che finora gli hanno permesso di calpestare un altro popolo. Perché questo tipo di fondamentalismo viene tollerato senza contestazione? Fino a questo momento sentiamo dire soltanto che i palestinesi devono rinunciare alla violenza e condannare il terrorismo. A Israele dunque non si domanda mai nulla di essenziale? Può continuare sempre allo stesso modo senza preoccuparsi di alcuna conseguenza? Questa è la vera questione della sua esistenza: potrà essere uno stato come un altro o dovrà rimanere sempre al di sopra dei vincoli e dei doveri che valgono oggi per tutti gli altri stati del Mondo? Le prove che ha dato di sé fino a oggi non sono rassicuranti.

(* in: E.W.Said, La pace possibile, pag. 2001-2006, ed. Il Saggiatore, Milano 2005)

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VOCI ISRAELIANE CONTRO L’OCCUPAZIONE 1. MARCIA DEI FOLLI - LA SCHIZOFRENIA DI ISRAELE TRA LE MACERIE DELLA STRISCIA di Uri Avnery (giornalista israeliano, fondatore del movimento “Gush Shalom – Blocco della Pace” – zoccolo duro del pacifismo israeliano). Prima di demonizzarlo e bombardarlo a Gaza, Hamas è stato appoggiato da Tel Aviv, per contrastare l’Olp*. E con i raid di oggi, lo Stato ebraico non farà altro che rafforzare il movimento islamico

Appena dopo la mezzanotte, l’emittente araba di Al Jazeera stava trasmettendo le notizie degli eventi di Gaza. Improvvisamente la telecamera ha inquadrato in alto, verso il cielo scuro. Lo schermo era nero fondo, non si riusciva a distinguere niente. Ma c’era un suono che si poteva sentire: il rumore degli aerei da guerra, uno spaventoso, terrificante boato. Era impossibile non pensare alle decine di migliaia di bambini di Gaza che stavano sentendo, nello stesso momento, quel suono, paralizzati dalla paura, in attesa delle bombe dal cielo. «Israele deve difendersi dai razzi che stanno terrorizzando le nostre città del sud», ha spiegato il portavoce israeliano. «I palestinesi devono rispondere alle uccisioni dei loro combattenti nella Striscia di Gaza», ha dichiarato il portavoce di Hamas. Per essere esatti, nessun cessate il fuoco è stato interrotto, perché nessun cessate il fuoco era mai iniziato. Il requisito principale di ogni cessate il fuoco nella Striscia di Gaza deve essere l’apertura dei passaggi. Non ci può essere vita a Gaza senza un flusso costante di rifornimenti. Ma le frontiere non sono state aperte, se non poche ore ogni tanto. Bloccare un milione e mezzo di esseri umani per via di terra, mare e aria è un atto di guerra, esattamente come il lancio delle bombe o dei razzi. Paralizza la vita nella Striscia di Gaza: elimina gran parte delle fonti che creano occupazione, porta centinaia di migliaia al limite della morte di fame, blocca il funzionamento della maggior parte degli ospedali, distrugge la distribuzione di elettricità e d’acqua. Coloro che hanno deciso di chiudere i passaggi - sotto qualsivoglia pretesto - sapevano che non ci sarebbe stato nessun reale cessate il fuoco in queste condizioni. Questo è il fatto principale. Poi ci sono state piccole provocazioni volte deliberatamente a suscitare la reazione di Hamas. Dopo diversi mesi durante i quali i razzi Qassam a malapena si sono visti, un’unità dell’esercito è stata inviata nella Striscia «per distruggere un tunnel che arrivava vicino alla recinzione della frontiera». Da un punto di vista puramente strategico, avrebbe avuto più senso tendere un’imboscata sul nostro lato della frontiera. Ma lo scopo era quello di trovare un pretesto per metter fine al cessate il fuoco, in una maniera che consentisse di addossare la colpa ai palestinesi. E così è stato, dopo diverse piccole azioni del genere, nelle quali alcuni guerriglieri di Hamas sono stati uccisi, Hamas ha risposto con un massiccio lancio di missili, ed ecco, il cessate il fuoco è giunto alla fine. Tutti hanno incolpato Hamas. Qual è lo scopo? Tzipi Livni lo ha annunciato apertamente: rovesciare il governo di Hamas a Gaza. I Qassam sono serviti solo come pretesto. Rovesciare il governo di Hamas? Suona quasi come un capitolo estratto dalla «Marcia dei folli». Dopo tutto non è un segreto che fu il governo israeliano a supportare Hamas, all’inizio. Una volta interrogai su questo l’allora capo dello Shin-Bet, Yakakov Peri, che rispose enigmaticamente: «Non lo abbiamo creato noi, ma non abbiamo impedito la sua creazione.»

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Per anni le autorità d’occupazione promossero il movimento islamico nei territori occupati. Ogni altra iniziativa politica era rigorosamente soppressa, ma la loro attività nelle moschee era permessa. Il calcolo era semplice e ingenuo: al tempo l’Olp era considerato il nemico principale, Yasser Arafat il satana. Il movimento islamico predicava contro l’Olp e Arafat ed era perciò visto come un alleato. Abu Mazen, un «pollo spennato» Con l’esplodere della prima Intifada nel 1987, il movimento islamico si rinominò ufficialmente Hamas (l’acronimo arabo di «movimento islamico di resistenza») e si unì alla lotta. Anche allora lo Shin-bet non mosse un dito contro di loro per quasi un anno, mentre i membri del Fatah erano imprigionati o uccisi in gran numero. Solo dopo un anno lo sceicco Ahmed Yassin e i suoi colleghi furono arrestati. Da allora la ruota ha girato. Hamas è il satana odierno e l’Olp è considerato da molti in Israele quasi una branca del movimento sionista. La conclusione logica per un governo di Israele interessato alla pace sarebbe stata quella di fare ampie concessioni alla leadership di Fatah: la fine dell’occupazione, la firma di un trattato di pace, la fondazione dello stato di Palestina, il ritiro entro i confini del 1967, una soluzione ragionevole al problema dei rifugiati, il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi. Questo avrebbe sicuramente arrestato l’ascesa di Hamas. Ma la logica ha una scarsa influenza sulla politica. Niente del genere è accaduto. Al contrario, dopo l’uccisione di Arafat, Abu Mazen, che ha preso il suo posto, è stato definito da Ariel Sharon un «pollo spennato». Ad Abu Mazen non è stato concesso il minimo margine di operatività politica. I negoziati, sotto gli auspici americani, sono diventati una barzelletta. Il più autentico leader di Fatah, Marwan Barghouti, è stato mandato in carcere a vita. Al posto di un massiccio rilascio di prigionieri, ci sono stati «segnali» meschini e offensivi. Abu Mazen è stato umiliato sistematicamente, Fatah ha assunto l’aspetto di una conchiglia vuota, e Hamas ha ottenuto una risonante vittoria alle elezioni palestinesi - le elezioni più democratiche mai tenute nel mondo arabo. Israele ha boicottato il governo eletto. Nella successiva battaglia interna, Hamas ha assunto il controllo della Striscia di Gaza. E ora, dopo tutto ciò, il governo di Israele ha deciso di «rovesciare il governo di Hamas a Gaza». Il nome ufficiale dell’azione bellica è «piombo fuso», due parole tratte da una canzone infantile su un giocattolo di Hanukkah. Sarebbe stato più appropriato chiamarla «guerra delle elezioni». Anche nel passato le azioni militari sono state intraprese durante campagne elettorali. Menachen Begin bombardò il reattore nucleare iracheno durante la campagna del 1981. Quando Shimon Peres affermò che si trattava di una trovata elettorale, Begin alzò la voce al comizio seguente: «Ebrei, davvero credete che io potrei mandare i nostri figli coraggiosi alla morte, o, peggio ancora, ad esser fatti prigionieri da degli animali, solo per vincere le elezioni?». Begin vinse. Ma Peres non è Begin. Quando, durante la campagna del 1996, ordinò l’invasione del Libano, tutti erano convinti che si trattasse di una trovata elettorale. La guerra fu un fallimento, Peres perse le elezioni e Netanyahu salì al potere. Barak e Tzipi Livni stanno ora ricorrendo allo stesso vecchio trucco. Secondo i sondaggi, la prevista vittoria di Barak gli ha fatto guadagnare 5 seggi della Knesset. Circa 80 morti palestinesi per ogni seggio. Ma è difficile camminare sui cadaveri. Il successo potrebbe evaporare in un istante, se la guerra cominciasse a essere considerata un fallimento dall’opinione pubblica israeliana. Per esempio, se i missili continuano a colpire Beersheba, o se l’attacco di terra porta a un pesante numero di vittime tra gli israeliani.

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Un esperimento scientifico Il momento è stato scelto con cura anche da un altro punto di vista. L’attacco è cominciato due giorni dopo Natale, quando i leader americani e europei sono in vacanza. Il calcolo: anche se qualcuno volesse provare a fermare la guerra, nessuno rinuncerebbe alle vacanze. Il che ha garantito diversi giorni senza alcuna pressione esterna. Un’altra ragione che rende il momento appropriato: sono gli ultimi giorni della permanenza di Bush alla Casa bianca. Ci si aspettava che questo idiota assetato di sangue appoggiasse entusiasticamente l’attacco, come in effetti ha fatto. Barack Obama non ha ancora iniziato il suo incarico, e ha quindi un pretesto per rimanere in silenzio: «C’è un solo presidente». Questo silenzio non fa presagire nulla di buono per il mandato di Obama. La linea fondamentale è stata: non bisogna ripetere gli errori della seconda guerra del Libano. Questo è stato ripetuto incessantemente in ogni notiziario e talk show. Ma ciò non toglie che la guerra di Gaza sia una replica pressoché identica della seconda guerra del Libano. Il concetto strategico è lo stesso: terrorizzare la popolazione civile attraverso attacchi aerei costanti, seminando morte e distruzione. I piloti non corrono alcun pericolo, in quanto i palestinesi non hanno una contraerea. Il calcolo: se tutte le infrastrutture che consentono la vita nella Striscia sono letteralmente distrutte, e si arriva quindi alla totale anarchia, la popolazione si solleverà e rovescerà il regime di Hamas. Abu Mazen rientrerà poi a Gaza al seguito dei carri armati israeliani. In Libano questo calcolo non ha funzionato. La popolazione bombardata, cristiani inclusi, si è radunata attorno a Hezbollah e Nashrallah è diventato l’eroe del mondo arabo. Qualcosa di simile accadrà probabilmente anche questa volta. I generali sono esperti nell’usare le armi e nel muovere le truppe, non nella psicologia di massa. Qualche tempo fa scrissi che il blocco di Gaza può essere inteso come un esperimento scientifico, mirato a scoprire quanto si può affamare una popolazione prima che scoppi. Questo esperimento è stato portato avanti con il generoso aiuto dell’Europa e degli Stati Uniti. Finora non è riuscito. Hamas è diventato più forte e la gettata dei Qassam più lunga. La presente guerra è una continuazione dell’esperimento con altri mezzi. Potrebbe essere che l’esercito «non abbia alternativa» se non riconquistare la Striscia, perché non c’è altro modo per fermare i Qassam, se non quello contrario alla politica del governo - di arrivare a un accordo con Hamas. Quando partirà la missione di terra, tutto dipenderà dalla motivazione e dalla capacità dei combattenti di Hamas rispetto ai soldati israeliani. Nessuno può prevedere quanto accadrà. Giorno dopo giorno, notte dopo notte, Al Jazeera trasmette immagini atroci: brandelli di corpi mutilati, parenti in lacrime in cerca dei loro cari tra le dozzine di cadaveri, una donna che solleva la sua bambina da sotto le macerie, dottori senza mezzi che cercano di salvare le vite dei feriti. In milioni stanno vedendo queste immagini terribili, giorno dopo giorno. Queste immagini saranno impresse nella loro mente per sempre. Un’ intera generazione coltiva l’odio. Questo è un prezzo terribile, che saremo costretti a pagare ancora a lungo dopo che gli altri effetti della guerra saranno stati dimenticati in Israele. Ma c’è un’altra cosa che si sta imprimendo nelle menti di questi milioni: l’immagine dei corrotti e passivi regimi arabi. Visto dagli arabi, un fatto s’impone su tutti gli altri: il muro della vergogna. Per il milione e mezzo di arabi a Gaza, che stanno soffrendo così terribilmente, l’unica apertura al mondo che non sia dominata da Israele è il confine con l’Egitto. Solo da lì può arrivare il cibo che consente la vita, da lì arrivano i medicinali che salvano i feriti. Al culmine dell’orrore questo confine resta chiuso. L’esercito egiziano ha bloccato l’unica via d’accesso per cibo e medicinali, mentre i chirurghi operano senza anestetici. Per il mondo arabo, da un capo all’altro, hanno fatto eco le parole di Hassan Nashrallah: «I leader

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egiziani sono complici in questo crimine, stanno collaborando con il «nemico sionista» che cerca di rompere il popolo palestinese». Si può assumere che non intendesse solo Mubarak, ma anche tutti gli altri leader, dal re saudita al presidente dell’Anp. Se si guarda alle manifestazioni in tutto il mondo arabo, se si ascoltano gli slogan, se ne deduce l’impressione che i loro leader sono visti da molti come patetici nel migliore dei casi, come meschini collaborazionisti nel peggiore. Questo avrà conseguenze storiche. Un’intera generazione di leader arabi, una generazione imbevuta dell’ideologia nazionalista secolare araba - i successori di Nasser, di Hafez al-Assad e Yasser Arafatsarà messa fuori scena. In campo arabo, l’unica alternativa percorribile è l’ideologia del fondamentalismo islamico. Questa guerra è un presagio infelice: Israele sta perdendo l’occasione storica di fare la pace con il nazionalismo arabo secolare. Domani potrebbe essere davanti a un mondo arabo uniformemente fondamentalista, un Hamas mille volte più grande. traduzione di Nicola Vincenzoni pubblicato da “Il Manifesto” il 04.01.09 * OLP: Organizzazione per la Liberazione della Palestina, fondata nel 1964; suo obiettivo era la liberazione della Palestina attraverso la lotta armata. Nel 1988 ha adottato ufficialmente la soluzione dei due Stati, con Israele e Palestina che vivono in pace l’uno a fianco dell’altro e con Gerusalemme Est come capitale dello Stato di Palestina. Yasser Arafat è stato il presidente del Comitato Esecutivo dell’OLP dal 1969 al 2004, anno della sua morte. L’ OLP è riconosciuta dall’Onu come rappresentante del popolo palestinese.

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2. Israele è l’occupante. Il resto è menzogna Intervista a Michel Warschawski (esponente di spicco della sinistra radicale israeliana, presidente del Centro di informazione alternativa di Gerusalemme)

di Christian Elia Subito dopo l’attacco di terra del 3 gennaio scorso, parlando dell’operazione Piombo Fuso, André Glucksmann ha scritto che non c’è proporzione possibile nella lotta tra palestinesi e israeliani, condannando quanti avevano definito sproporzionata la reazione israeliana al lancio dei razzi dalla Striscia. Secondo Glucksmann, la sproporzione esiste solo perché i palestinesi hanno armi primitive. Si tratta, per l’intellettuale francese, comunque di legittima difesa. Ma qual è, nella società israeliana attuale, il concetto di legittima difesa? W. : Larga parte dell’opinione pubblica israeliana ed europea ritiene questa operazione una legittima difesa. Per me questo è un vero non-sense. Un grave errore, prima di tutto, ma in fondo un nonsense. Israele occupa Gaza e la Cisgiordania da 42 anni. Questo è un fatto. Ogni azione contro questa occupazione è un’iniziativa di autodifesa, non il contrario. Il resto è una voluta manipolazione, che riesce bene, però, al punto che a volte sembra di parlare di un problema di sei mesi, un anno o due anni fa. Non si può invece prescindere dalla continuità di questa occupazione. Quello che accade da un anno a questa parte è l’assedio totale e disumano di Gaza. Un territorio e un popolo allo stremo, che sopravvive solo grazie ai famosi tunnel dall’Egitto e agli aiuti umanitari della comunità internazionale. Di quale dannata autodifesa parla Israele? L’esercito israeliano affama, aggredisce e riduce allo stremo una popolazione di un milione e mezzo di persone. Solo piccoli settori della società israeliana reagiscono a tutto questo, chiamando le cose con il loro nome: Israele è l’aggressore e Israele è l’occupante. Il resto è menzogna e il signor Glucksmann è un vero esperto in mistificazioni strumentali, capace di chiamare notte il giorno e viceversa. Mistificazioni delle quali sono vittime anche gli stessi cittadini di Sderot e delle altre città israeliane sotto il tiro dei razzi dalla Striscia. Vengono usati, in modo davvero cinico, dal governo israeliano. Le vittime, che ci sono state in questi giorni, non possono essere comparate con quello che accade a Gaza. Non per il numero, perché ogni vita ha valore. Ma perché il governo d’Israele si sta assumendo una responsabilità enorme nel rendersi colpevole di questo attacco indiscriminato contro i civili a Gaza. L’atto scellerato di chi lancia i razzi non può essere paragonato alla pianificata aggressione di massa verso la popolazione palestinese nella Striscia. I cittadini di Sderot come i coloni, utili solo quando servono politicamente? W. : Assolutamente sì. Quelle città, per il governo, sono niente di più di una ‘periferia’. Questo rapporto tra centro e periferia è un elemento centrale nella storia di questo Paese, ma è un elemento spesso misconosciuto. La classe media discendente degli ebrei dell’Europa centrale, che è la vera classe dirigente del Paese, vive a Tel Aviv, ad Haifa o altrove. Nel nord, nel sud e nei Territori Occupati si è dato vita, all’epoca della nascita d’Israele e anche dopo, a una vera e propria colonizzazione. I coloni

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e gli immigrati non di ceto elevato sono stati utilizzati come scudi umani, da frapporre tra la vita degli israeliani agiati e i palestinesi. I cittadini israeliani della ‘periferia’ pagano il prezzo della politica del centro, diventando bersagli della rabbia degli arabi. Ma entrambi sono vittime degli interessi di Tel Aviv. Quanto hanno pesato sul governo, nella scelta di iniziare questo attacco, le prossime elezioni in Israele in febbraio? W. : Nella decisione di commettere questo crimine le elezioni hanno avuto una parte determinante. Dopo il fallimento della campagna del Libano del 2006, la competizione tra i principali leader politici israeliani per le prossime elezioni è tutta basata sulla retorica della violenza nei confronti dei palestinesi. Tzipi Livni, Barak, Olmert e Netanyahu si combattono sul campo della capacità di aggressione verso i palestinesi. Tutti sono concentrati sulla possibilità di dimostrare di poter essere più brutali del loro avversario. L’attacco a Gaza è una parte fondamentale della campagna elettorale. L’aspetto più inquietante, però, è che questo atteggiamento viene premiato dall’opinione pubblica israeliana. Barak, ministro della Difesa e architetto

di questo attacco, si vanta di aver recuperato cinque punti percentuali dall’inizio dell’operazione Piombo Fuso. Questo significa, ed è orribile, accettare una proporzionalità tra il numero delle vittime palestinesi e il successo elettorale. Dov’è finita la sinistra in Israele? Il partito Meretz, nelle prime ore dell’attacco, ha chiesto la fine dei bombardamenti, ma ha tenuto a precisare che ritiene questa comunque un’operazione di legittima difesa. W. : La sinistra israeliana si muove ormai in un vecchio scenario. Ogni volta che c’è stata una grande operazione militare, nella storia di Israele, è stata pronta a sostenere le decisioni del governo. In modo automatico, come il cane di Pavlov. Sempre. E’ accaduto durante la prima e la seconda campagna in Libano, è accaduto durante le operazioni a Gaza e in Cisgiordania. La sinistra istituzionale in Israele ha sempre accettato il pensiero unico dell’autodifesa del Paese. Salvo poi essere pronta a condannare i massacri, ma sempre a cose fatte, quando era ormai troppo tardi. Non sono affatto stupito della posizione di Meretz, perché è sempre la stessa. Patetica e prevedibile. Quando, anche questa volta, siamo scesi in piazza per manifestare contro questa aggressione, i militanti e alcuni dirigenti del Meretz erano al nostro fianco, ma sempre a titolo personale. Che contraddizione è mai questa? Un comportamento che ha messo in crisi tutta la sinistra, non a caso Meretz è in crisi profonda, come lo stesso movimento pacifista Peace Now, ormai un fantasma. La mancanza di fermezza e di chiarezza nei confronti delle decisioni dei governi israeliani hanno finito per precipitare la sinistra israeliana in una crisi profonda. Adesso la sinistra in questo Paese è una minoranza insignificante per le decisioni che contano. Cosa pensa delle manifestazioni dei giorni scorsi della minoranza degli arabi-israeliani? All’inizio della Seconda Intifada, nel 2000, uno degli elementi nuovi rispetto al passato fu proprio il coinvolgimento della minoranza araba della società israeliana nella lotta dei palestinesi. Una tensione forte all’interno della società israeliana. Crede che si ripeterà quella mobilitazione, anche se tra gli arabi-israeliani Hamas non gode certo di estimatori? W. : Il problema non è, in questo momento, nei rapporti tra Hamas e gli arabi-israeliani. I civili sentono l’aggressione a Gaza contro altri civili come un’offesa all’umanità. Questa non è una guerra tra Israele

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e Hamas, ma un’aggressione dell’esercito israeliano alla popolazione civile di Gaza. Quando bombardi il centro di una delle città con la più alta densità abitativa al mondo, commetti un crimine, non combatti una guerra. E questo è quello che sentono gli arabi-israeliani. Sono rimasto colpito dal numero delle loro manifestazioni in questi giorni, dall’intensità delle loro proteste. Il livello delle mobilitazioni contro questa aggressione è molto alto, almeno se paragonato a quello di altre occasioni. Ho la sensazione che questa operazione lascerà profonde ferite nella società israeliana, e non solo, con conseguenze gravi e imprevedibili al momento. Anche altrove, per esempio in Europa, la gente è indignata. Rispetto al passato non sembrano reggere le scuse ‘strategiche’. Non c’è un obiettivo da raggiungere, non c’è una battaglia da vincere. Questo è solo un brutale e inutile massacro... L’ennesimo atto di una sciagurata tragedia. Il conflitto israelo-palestinese, rispetto ad altri, si è sempre caratterizzato per il contributo dato al dibattito da intellettuali come lei. Due grandi figure, in questo senso, come il poeta Mahmoud Darwish e Edward Said, sono scomparse. Vede, tra i palestinesi e gli israeliani, delle nuove voci che possano contribuire all’abbandono della violenza? W. : No, non ne vedo. La crisi dell’impegno tra gli intellettuali non riguarda certo solo Israele e Palestina. E’ un fenomeno mondiale, molto grave. Eccezion fatta per i tre scrittori israeliani Yehoshua, Oz e Grossman (che voi italiani amate molto), diventati a loro volta ripetitori del pensiero unico, non ci sono personaggi di alto profilo nella cultura, “voci contro” che possano contribuire a rendere la violenza uno strumento superato. In questo periodo storico mancano le grandi voci della coscienza, le voci della morale. Non ci sono in giro Jean-Paul Sartre e Bertrand Russel. Non ci sono veri intellettuali, ma abbondano le vestali ‘culturali’ dell’interesse nazionale. Sia in Israele che in Palestina ci sono giovani intellettuali molto in gamba, ma non hanno lo spessore e la profondità di certe voci del passato. Come dicevo, però, questo non accade solo in Israele o nel mondo arabo. Accade ovunque, anche in Occidente. C’è una crisi di coscienza generale nelle società e la cultura è espressione di quelle stesse società. C’è un gran silenzio attorno a tutti noi. 07/01/2009 www.peacereporter.net

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3. Un grido per fermare lo spargimento di sangue di Yvonne Deutsch, Donna in Nero israeliana Care tutte, ho visto stamattina delle immagini di quel che veniva detto «il campo di concentramento di Gaza». Questo orrore, questa crudeltà viene fatta in nome mio, una donna israeliana ebrea che vive a Gerusalemme Ovest. I crimini contro l’umanità commessi a Gaza sono fatti in nome mio, una femminista, una pacifista. Questi massacri sono fatti in nome di quelli che amo. Questa sofferenza è causata in nome della mia comunità. Questi crimini contro i bambini palestinesi e gli abitanti di Gaza sono fatti in mio nome.

Mi vergogno. Sto male. Piango. Provo rabbia. Mi sento impotente. Faccio parte di una comunità militante. La mia comunità è attiva tutti i giorni per fermare lo spargimento di sangue. La mia comunità è attiva contro l’occupazione da molti anni. La mia comunità è attiva per una soluzione giusta nel conflitto israelo-palestinese La mia comunità è solidale con il popolo palestinese La mia comunità riconosce che il popolo palestinese aspira a vivere in pace La mia comunità è cosciente dei risultati violenti dell’occupazione e della povertà e della disperazione che ne derivano. La mia comunità è attiva contro il razzismo La mia comunità è attiva contro la povertà e per la giustizia sociale in Israele La mia comunità crea collaborazioni economiche ed ecologiche di base, con Palestinesi dei Territori occupati dal 1967 La mia comunità è ebrea - palestinese La mia comunità è vecchia e giovane La mia comunità è attiva per i diritti umani dei Palestinesi La mia comunità è attiva per i loro diritti economici, sociali e politici La mia comunità riconosce che la nostra sicurezza e il nostro benessere sono legati al benessere dei Palestinesi e alla loro sicurezza e prosperità

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La mia comunità è attiva contro la violenza e la guerra. La mia comunità rifiuta di partecipare alla guerra e all’occupazione La mia comunità è attiva per la giustizia, la prosperità, una coscienza ecologica e la pace La mia comunità fa parte di una rete politica globale di femministe per la pace che collega la guerra e la violenza contro le donne in quanto alla base del patriarcato. La mia comunità è attiva per fermare lo spargimento di sangue e la crudeltà a servizio di superpotenze che combinano capitalismo militarismo e strutture nazionaliste La mia comunità è costituita da numerosi circoli militanti e di conoscenza, vicini e lontani La mia comunità è ricca di colori e diversità La mia comunità è composta di donne, uomini e multi-genere La mia comunità è etero, lesbica, gay, bi e trans-genre e queer La mia comunità è locale La mia comunità è globale La mia comunità è un grande movimento pacifista mondiale di donne femministe Io sono una Donna in Nero in Israele Il governo israeliano sta commettendo dei crimini contro l’umanità a Gaza Mi vergogno. Provo rabbia. Mi sento impotente. Noi non abbiamo fermato il male, Continuiamo a manifestare nelle strade, a fare appelli a chi decide, a diffondere informazioni, a firmare petizioni, a inviare aiuti umanitari, a fare azioni dirette Le nostre voci non sono ascoltate Le nostre voci chiare e forti sono messe a tacere Le nostre voci non raggiungono le nostre sorelle e i nostri fratelli in Palestina Le nostre voci non bloccano le armi e la distruzione Noi continueremo ad agire e a sperare. Continueremo ad attraversare i muri, le frontiere e i ghetti imposti dal patriarcato, Continueremo ad ascoltare il grido di Gaza

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Continueremo ad ascoltare il grido della Cisgiordania Ascolteremo anche il grido delle donne e dei bambini in Congo, in Nord Uganda, in Sud-Sudan, in Colombia e altrove Tutta questa sofferenza è collegata e fa parte della stessa cultura politica patriarcale Noi diciamo ad alta voce NON IN NOSTRO NOME Noi rifiutiamo di essere nemici Anche nel sud d’Israele dove soffrono per i razzi, ci sono voci per la pace Noi continueremo ad opporci alla guerra e al militarismo Continueremo a creare una cultura di nonviolenza, di giustizia e di pace Continueremo a servire l’umanità Che possiamo apprendere e insegnare che uno è tutto Che possiamo trovare una trasformazione, una giustizia e una guarigione Che possiamo vivere tutti in pace Che possiamo vivere tutti nella gioia.

gennaio 2009

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4. “Io artigliere ho usato fosforo bianco” di Simcha Leventhal

Ho servito come artigliere nella divisione M109 dell’esercito israeliano dal 2000 al 2003 e sono stato addestrato a utilizzare le armi che Israele sta usando a Gaza. So per certo che le morti di civili palestinesi non sono una sfortunata disgrazia ma una conseguenza calcolata. Le bombe che l’esercito israeliano ha usato a Gaza uccidono chiunque si trovi in un raggio di 50 metri dall’esplosione e feriscono con ogni probabilità chiunque si trovi a 200 metri. Consapevoli dell’impatto di queste armi, le gerarchie militari impediscono il loro uso, anche in combattimento, a meno di 350 metri di distanza dai propri soldati (250 metri, se questi soldati si trovano in veicoli corazzati). Testimonianze e fotografie da Gaza non lasciano spazio a dubbi: l’esercito israeliano ha usato in questa operazione bombe al fosforo bianco, che facevano parte dell’arsenale quando anch’ io servivo nell’esercito. Il diritto internazionale proibisce il loro uso in aree urbane densamente popolate a causa delle violente bruciature che provocano: la bomba esplode alcune decine di metri prima di toccare il suolo, in modo da aumentarne gli effetti, e manda 116 schegge infiammate di fosforo in un’area di più di 250 metri. Durante il nostro addestramento, i comandanti ci hanno detto di non chiamare queste armi «fosforo bianco», ma «fumo esplosivo» perché il diritto internazionale ne vietava l’uso. Dall’inizio dell’incursione, ho guardato le notizie con rabbia e sgomento. Sono sconvolto dal fatto che soldati del mio paese sparino artiglieria pesante su una città densamente popolata e che usino munizioni al fosforo bianco. Forse i nostri grandi scrittori non sanno come funzionano queste armi, ma sicuramente lo sanno le nostre gerarchie militari. 1300 palestinesi sono morti dall’inizio dell’attacco e più di 5000 sono rimasti feriti. Secondo le stime più ottimiste, più della metà dei palestinesi uccisi erano civili presi tra il fuoco incrociato, e centinaia di loro erano bambini. I nostri dirigenti, consapevoli delle conseguenze della strategia di guerra da loro adottata, sostengono cinicamente che ognuna di quelle morti è stata un disgraziato incidente. Voglio essere chiaro: non c’è stato alcun incidente. Coloro che decidono di usare artiglieria pesante e fosforo bianco in una delle aree urbane più densamente popolate del mondo sanno perfettamente, come anch’ io sapevo, che molte persone innocenti sono destinate a morire. Poiché conoscevano in anticipo i prevedibili risultati della loro strategia di guerra, le morti civili a Gaza di questo mese non possono essere definite, onestamente, un disgraziato incidente. Questo mese, ho assistito all’ulteriore erosione della statura morale del mio esercito e della mia società. Una condotta morale richiede che non solo si annunci la propria volontà di non colpire i civili, ma che si adotti una strategia di combattimento conseguente. Usare artiglieria pesante e fosforo bianco in un’area urbana densamente popolata e sostenere poi che i civili sono stati uccisi per errore è oltraggioso e immorale.

Simcha Leventhal è un veterano dei corpi di artiglieria dell’esercito israeliano e membro fondatore di Breaking the Silence . pubblicato da “Il Manifesto” - 22.01.2009

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5. Una ricontestualizzazione del conflitto israelo-palestinese Lo schema israeliano

Uno schema fondato su pace e Diritti umani

* La terra di Israele appartiene esclusivamente al popolo ebraico.

* Sono due i popoli che abitano la regione israelo - palestinese, ciascuno dei quali ha diritto all’autodeterminazione

* Dal momento che Israele è la vittima che lotta per la propria sopravvivenza, è esonerata da ogni responsabilità per le proprie azioni

* Israele è una superpotenza regionale che va ritenuta responsabile delle proprie azioni.

* “Entrambe le parti” devono cessare le ostilità.

* Non c’è simmetria tra le due parti.

* Le politiche israeliane sono fondate sulla preoccupazione per la propria sicurezza.

* Israele persegue un’attività politica di espansione nei Territori occupati, fondata sugli insediamenti e sul controllo

* Gli arabi non vogliono la pace.

* I palestinesi riconoscono la sovranità di Israele sul 78% del paese; il mondo arabo ha offerto a Israele l’integrazione regionale

* Il problema fondamentale è il terrorismo arabo, che va fermato prima che possano essere avviate le trattative politiche.

* I problemi fondamentali sono l’Occupazione e il Terrorismo di Stato israeliano. Il terrorismo palestinese è un sintomo dell’oppressione: senza un “orizzonte politico” la resistenza violenta non avrà mai fine

* I palestinesi sono i nostri nemici.

* Le società civili israeliana e palestinese lavorano a stretto contatto per perseguire una pace giusta. Ci rifiutiamo di essere nemici.

* Israele è disposta a concedere uno Stato ai palestinesi su porzioni dei Territori occupati.

* Lo Stato palestinese deve essere vitale e veramente sovrano e non un semplice bantustan.

* Gli Stati (governo israeliano/autorità palestinese) hanno il monopolio sulle negoziazioni e sulla definizione delle condizioni di pace.

* Solo gli Stati possono negoziare, ma la società civile gioca un ruolo chiave nel monitoraggio del processo , per assicurarsi che gli Stati si conformino ai diritti umani, alle leggi internazionali, alla giustizia per una pace sostenibile.

* Israele ha diritto ad utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione, militari e politici, per conseguire condizioni che rispondano ai suoi interessi.

* Solo una soluzione fondata sui diritti umani può assicurare una soluzione win-win.

* L’unica risposta all’antisemitismo è uno Stato di Israele militarmente forte, schierato al fianco degli Stati Uniti

* Solo il rispetto dei diritti umani, l’integrazione regionale e una campagna internazionale contro il razzismo può risolvere efficacemente la questione dell’ antisemitismo e rispondere alle esigenze relative alla sicurezza di Israele.

* Il trattamento che Israele riserva ai palestinesi è una questione interna. La comunità internazionale dovrebbe starne fuori.

* Nell’epoca dei diritti umani, il trattamento riservato da Israele ai palestinesi dovrebbe preoccupare ciascuno di noi.

Jeff Halper, Ostacoli alla pace, Una città, Imola 2009 – tab. 1. pag. 27 (Jeff Halper è membro del Comitato israeliano contro la demolizione delle case – Icahd -)

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VOCI DI EBREI/E DELLA DIASPORA 1. ASCOLTA, ASCOLTA ISRAELE! di Stefano Sarfati Nahmad (ebreo italiano del movimento “Ebrei contro l’occupazione”) Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame. A distanza di una generazione in nome di ciò che hai subito, hai fatto lo stesso ad altri: li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi* e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera. Ascolta Israele! Io non rinnego la mia storia, la storia della mia famiglia, che è passata dalla Shoah. Però rinnego te, lo Stato di Israele, perché hai creduto di poter far valere il credito della Shoah per liberarti del popolo palestinese e occupare la sua terra. Ma non è così che vanno le cose, non è così la vita. Il popolo di Israele deve vivere di vita propria e non vivere della morte altrui. Ascolta Israele! Io non rinnego la mia storia, la storia della mia famiglia che è passata dalla Shoah, ma io oggi sono palestinese. Io sto dalla parte del popolo palestinese e della sua eroica resistenza. Io sto con l’eroica resistenza delle donne palestinesi che hanno continuato fare bambine e bambini palestinesi nei campi profughi, nei villaggi tagliati a metà dai muri che tu hai costruito, nei villaggi a cui hai sradicato gli ulivi, rubato la terra. Sto con le migliaia di palestinesi chiusi nelle tue prigioni per aver fatto resistenza al tuo piano di annessione. Ascolta Israele! Non ci sarà Israele senza Palestina ma potrà esserci Palestina senza Israele, perché il tuo credito, ormai completamente prosciugato dalla tua folle e suicida politica, non era nei confronti del popolo palestinese che contro di te non aveva alzato un dito, ma era nei confronti del popolo tedesco, italiano, polacco, francese, ungherese e in generale europeo; ed è colpevole la sua inazione. Asolta Israele, ascolta questi nomi: Deir Yassin, Tel al-Zaatar, Sabra e Chatila, Gaza. Sono alcuni nomi, iscritti nella Storia, che verranno fuori ogni qualvolta si vedrà alla voce: Israele. (*dato aggiornato: 1335 morti palestinesi, di cui 400 bambini) pubblicato da “Il Manifesto, il 09.01.2009

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2. ALLA MIA FAMIGLIA ISRAELIANA Lettera di Rina Nissim - ebrea - Donna in Nero - che vive in Svizzera

Devastata, inorridita dalla guerra di Gaza e dal fatto che il 90% degli israeliani e la mia stessa famiglia ancora la sostengano, vi scrivo queste righe. 1200 vittime palestinesi fino ad oggi, bambini, donne, migliaia di feriti e dalla parte israeliana: 10 militari e 3 civili uccisi. Si rendono i nostri figli criminali di guerra, mandandoli a combattere contro Hamas in mezzo alla popolazione civile, in un gigantesco campo profughi da cui non si può fuggire. Certo, anche gli uomini di Hamas sono dei criminali di guerra che si nascondono tra la popolazione civile. Ma credere che si possa così fermare finalmente i lanci di razzi o distruggere Hamas è un mito. Io non credo che si possa risolvere questo conflitto con la violenza. Al contrario, si fabbrica piuttosto una generazione che odia ancora di più, l’odio di tutti i nostri vicini e dunque rischio ancora più grande di conflitto e bombe su Israele. Anche se si indebolisce Hamas, si radicalizzano tutti gli altri. Per me, Israele corre verso la sua rovina, ostinandosi nel sogno del Grande Israele e del paese solo per gli ebrei. Gli arabi saranno sempre più numerosi ed il conflitto ci porterà un giorno alla nostra fine. Si è voluto che i palestinesi eleggessero i loro dirigenti e quando lo hanno fatto, si è detto loro a Gaza: “ah no, non avete fatto la scelta giusta” e si è rifiutato di riconoscere Hamas. La maggior parte dei loro deputati sono in prigione e i palestinesi di Gaza sono sotto assedio totale da 2 anni, chiusi, affamati, senza elettricità, umiliati; non resta loro che fare azioni disperate come questi razzi imprecisi. E in Cisgiordania, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e quelli prima di lui, dal ‘95, hanno fatto la scelta di riconoscere Israele ed aprire negoziati; cos’ hanno ottenuto? NIENTE, nessun vantaggio se non di gestire dei fondi come un direttore di ONG in una situazione senza speranza, cosicché sono completamente screditati presso il loro popolo. Tutti i governi israeliani hanno colonizzato, conquistato con la violenza, sottratto l’acqua e reso la vita impossibile ai palestinesi. Con il muro, sedicente difensivo, è impossibile lavorare, curarsi, circolare. I contadini sono separati dai loro campi, gli scolari dalle loro scuole. Ma qual è il progetto? Chiuderli in qualche bantustan o riserve come gli indiani d’America? Per questo bisognerà ancora ucciderne molti e sarà un vero genocidio, di cui già ci si accusa. Israele dice di volere la pace, ma senza dare niente in cambio. Vengo anche a sapere che i partiti arabi israeliani sono stati vietati e non potranno partecipare alle elezioni perché hanno denunciato questa guerra. E’ scoraggiante, è dunque questo a cui Israele aspira, un paese solo per gli ebrei, e che fare degli altri? Trasferirli nei bantustan? MI VERGOGNO! Vergogna, perché non conosco altri futuri plausibili per rendere i popoli felici e pacifici, che vivere liberi in un paese laico dove tutti e tutte abbiano uguali diritti. L’iniziativa di Ginevra (2003) e il progetto di due stati in pace, che vivono fianco a fianco, è diventato sempre più impossibile a causa della colonizzazione israeliana. A Gaza ci sono profughi del ‘48, profughi del ‘67 e i loro figli, negli stessi campi che accoglievano profughi ebrei, tra cui la mia famiglia, in fuga dal nazismo. Non riusciamo a comprendere cosa significano i diritti della persona, il diritto internazionale e le convenzioni di Ginevra? Non voglio restare in silenzio, per questo sono in strada tutte le settimane e anche più spesso da quando si è scatenata questa guerra, non solo per la pace e la fine delle ostilità, ma per la fine dell’occupazione, per un vero negoziato nel quale siano coinvolte le donne, perché Israele riconosca la sua parte di

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responsabilità nel dramma del ‘48, perché la Svizzera (il mio paese) cessi ogni collaborazione con Israele. Dobbiamo fare più pressione e chiamare al boicottaggio, le sanzioni, il disinvestimento di Israele! Quanto agli europei, che ne hanno abbastanza del fatto che Israele distrugga tutto quello che costruiscono per rendere la vita dei palestinesi un po’ più vivibile, scuole, ospedali, centrali elettriche… dovrebbero perdere la pazienza e fare più pressione su Israele. Obama save us! Chi sarà abbastanza forte da fare pressione su Israele per obbligarlo a fare la pace, se non ci impegniamo tutti? La pace è l’unico rimedio all’estremismo. Ginevra, 18.01.2009

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Capire la catastrofe di Gaza di Richard Falk - 13/01/2009 (Saggista, storico, di origini ebraiche, è Relatore ufficiale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Palestinesi e per questo inviato in Israele per indagare sulla violazione dei diritti umani nella guerra di Gaza – arrivato il 14 dicembre scorso all’aeroporto di Tel Aviv è stato espulso dalle autorità israeliane)

Per 18 mesi l’intera popolazione di un milione e mezzo di persone di Gaza aveva sperimentato un blocco punitivo imposto da Israele, e una serie di sfide che erano state traumatizzanti per la normalità della vita quotidiana. Un barlume di speranza era emerso circa sei mesi fa, quando una tregua concordata con l’Egitto aveva prodotto un effettivo cessate-il-fuoco che aveva ridotto a zero le vittime israeliane, nonostante i periodici lanci alla frontiera di razzi fatti in casa che cadevano senza danni sul territorio israeliano circostante, e che provocavano indubbiamente insicurezza nella città di confine di Sderot. Durante il cessate-il-fuoco, la leadership di Hamas a Gaza ha ripetutamente offerto di prolungare la tregua, propondendo anche un periodo di dieci anni e affermando la propria disponibilità a una soluzione politica basata sull’accettazione dei confini israeliani del 1967. Israele ha ignorato queste iniziative diplomatiche e non ha tenuto fede alla propria parte di impegni previsti dal cessate-il-fuoco, che prevedevano alcuni allentamenti del blocco, che aveva imposto a Gaza l’ingresso con il contagocce del cibo, delle medicine, e del carburante. Israele aveva anche impedito i permessi di uscita agli studenti con borse di studio all’estero, nonché ai giornalisti di Gaza e a rispettati rappresentanti di organizzazioni non governative. Nello stesso tempo aveva reso l’ingresso ai giornalisti sempre più difficile, e io stesso sono stato espulso da Israele un paio di settimane fa, quando ho cercato di entrare per eseguire, per conto delle Nazioni Unite, il mio lavoro di monitoraggio del rispetto dei diritti umani nella Palestina occupata, e cioè in Cisgiordania, nella zona est di Gerusalemme, e a Gaza. Chiaramente, prima della crisi attuale, Israele ha impiegato la propria autorità per impedire agli osservatori credibili di fornire resoconti esatti e veritieri della spaventosa situazione umanitaria, di cui erano già stati documentati gli effetti nefasti sulla salute fisica e mentale della popolazione di Gaza, in particolare la denutrizione tra i bambini e l’assenza di strutture di trattamento per coloro che soffrono di una serie di malattie. Gli attacchi israeliani sono stati diretti contro una società già in gravi condizioni dopo un blocco mantenuto nei 18 mesi precedenti. E sempre in relazione al conflitto di fondo, alcuni fatti in relazione con quest’ultima crisi sono oscuri e controversi, sebbene l’opinione pubblica americana, in particolare, riceva il 99% delle proprie informazioni filtrato da lenti mediatiche estremamente filo-israeliane. Ad Hamas viene imputata la rottura della tregua, a causa della sua presunta indisponibilità a rinnovarla, e per il presunto aumento degli attacchi con i razzi. Ma la realtà è più sfumata. Non c’è stato nessun vero lancio di razzi da Gaza durante il cessateil-fuoco, fino a quando, lo scorso 4 Novembre, Israele non ha lanciato un attacco diretto contro presunti militanti palestinesi, attacco che ha ucciso numerose persone. E’ stato a questo punto che il lancio di razzi da Gaza è stato intensificato. Inoltre è stata Hamas che ha chiesto in numerosi incontri pubblici di prolungare la tregua, e le sue richieste non sono mai state prese in considerazione – né da un punto di vista formale né, tanto meno, sostanziale – dalla burocrazia israeliana. Oltre a ciò, attribuire tutti i razzi a Hamas non è parimenti credibile. A Gaza operano una varietà di gruppi militari indipendenti e

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alcuni, come la Brigata dei Martiri di al-Aqsa sostenuta da Fatah, sono anti-Hamas, e possono aver lanciato missili per provocare o per giustificare una rappresaglia israeliana. E’ risaputo che quando Fatah, sostenuta dagli Stati Uniti, controllava la struttura di governo di Gaza, non è riuscita a fermare gli attacchi con i razzi, nonostante gli sforzi al riguardo. Ciò che questo retroterra suggerisce decisamente è che Israele ha intrapreso i propri attacchi devastanti, iniziati il 27 Dicembre scorso, non semplicemente per fermare i razzi, o per rappresaglia, ma anche per una serie di ragioni sottaciute. Era evidente da diverse settimane, prima degli attacchi israeliani, che i leader politici e militari israeliani stavano preparando l’opinione pubblica a operazioni militari su vasta scala contro Hamas. La tempistica degli attacchi sembrava suggerita da una serie di considerazioni: soprattutto dall’interesse dei contendenti politici - il Ministro della Difesa Ehud Barak e il Ministro degli Esteri Tzipi Livni - a dimostrare la propria durezza prima delle elezioni nazionali fissate per Febbraio, ma ora probabilmente rinviate fino alla fine delle operazioni militari. Queste dimostrazioni di forza sono state una caratteristica delle passate campagne elettorali israeliane e, soprattutto in questa occasione, il governo in carica è stato efficacemente sfidato, per i propri presunti fallimenti nel difendere la sicurezza, da un politico notoriamente militarista come Benjamin Netanyahu. A rafforzare queste motivazioni elettorali c’è stata la malcelata pressione da parte dei capi militari israeliani per cogliere l’opportunità, con Gaza, di cancellare i ricordi del proprio fallimento contro Hezbollah nella devastante guerra del Libano del 2006, che aveva macchiato la reputazione di Israele quale potenza militare, e che aveva portato ad una vasta condanna internazionale di Israele per i pesanti bombardamenti degli indifesi villaggi del Libano, per l’uso sproporzionato della forza, e per l’utilizzo estensivo di bombe a grappolo contro zone densamente popolate. Alcuni rispettati commentatori israeliani di orientamento conservatore vanno oltre. Ad esempio, l’eminente storico Benny Morris, scrivendo sul New York Times pochi giorni fa, ha messo in relazione la campagna di Gaza con una più profonda serie di premonizioni all’interno di Israele, che egli paragona al fosco stato d’animo dell’opinione pubblica che precedette la guerra del 1967, quando Israele si sentiva profondamente minacciata dalle manovre degli arabi presso i propri confini. Morris rimarca che nonostante la recente prosperità israeliana degli ultimi anni, e la relativa sicurezza, diversi fattori hanno spinto Israele ad agire sfacciatamente a Gaza: la percezione del continuo rifiuto del mondo arabo ad accettare l’esistenza di Israele come una realtà irrevocabile; le minacce incendiarie espresse da Mahmoud Ahmadinejad, insieme alla presunta iniziativa dell’Iran di acquistare armi nucleari, la memoria declinante dell’Olocausto unita alla crescente simpatia in Occidente per i guai dei palestinesi, e la radicalizzazione dei movimenti politici ai confini di Israele sotto forma di Hezbollah e di Hamas. In effetti, Morris sostiene che Israele sta cercando, con l’annientamento di Hamas a Gaza, di mandare a tutta la regione il più vasto messaggio che essa non si fermerà davanti a niente pur di difendere le proprie rivendicazioni di sovranità e di sicurezza. Sono due le conclusioni che emergono: la popolazione di Gaza viene punita duramente per ragioni molto diverse dai razzi e dalle preoccupazioni riguardanti la sicurezza dei confini, ma a quanto pare per migliorare le prospettive elettorali dei leader in carica, che stanno rischiando la sconfitta, e per avvertire gli altri attori della regione che Israele userà una forza devastante ogni volta che saranno in gioco i propri interessi.

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Che una tale catastrofe umanitaria possa accadere con interferenze esterne ai minimi termini mostra anche la debolezza del diritto internazionale e delle Nazioni Unite, come pure le priorità geopolitiche degli attori che contano. Il sostegno passivo del governo degli Stati Uniti verso tutto quello che Israele fa è ancora una volta il fattore cruciale, come fu nel 2006 quando lanciò la propria guerra di aggressione contro il Libano. Quello che è meno evidente è che i principali vicini arabi, l’Egitto, la Giordania, e l’Arabia Saudita, con la loro ostilità estrema verso Hamas, che viene vista come se fosse sostenuta dall’Iran, il loro principale rivale della regione, erano anch’essi desiderosi di assistere mentre Gaza veniva attaccata così brutalmente, addirittura con qualche diplomatico arabo che ha dato la colpa degli attacchi alla mancanza di unità dei palestinesi e al rifiuto di Hamas di accettare la leadership di Mahmoud Abbas, il Presidente dell’Autorità Palestinese. La popolazione di Gaza è vittima della geopolitica più disumana, che ha prodotto quella che lo stesso Israele chiama una “guerra totale” contro una società essenzialmente indifesa, che manca di qualsiasi risorsa militare ed è completamente vulnerabile agli attacchi israeliani lanciati dai bombardieri F-16 e dagli elicotteri Apache. Questo significa anche che la violazione flagrante del diritto internazionale umanitario, per come è stato fissato dalla Convenzione di Ginevra, viene tranquillamente ignorata, mentre il massacro continua e i corpi si accumulano. Questo significa anche che le Nazioni Unite si sono rivelate ancora una volta impotenti quando i suoi membri principali la privano della volontà politica di proteggere un popolo sottoposto all’uso illegale della forza su vasta scala. Infine, questo significa che la gente può urlare e marciare in tutto il mondo, ma le uccisioni proseguiranno come se niente fosse. Il quadro che giorno dopo giorno viene dipinto a Gaza supplica per un rinnovato impegno in favore del diritto internazionale e dell’autorità della Carta delle Nazioni Unite, a cominciare da qui, negli Stati Uniti, con una nuova leadership che ha promesso un cambiamento ai propri cittadini, incluso un approccio meno militaristico alla leadership diplomatica.

Traduzione di Andrea Carancini - http://www.ariannaeditrice.it/

Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.huffingtonpost.com/richard-falk/understanding-the-gaza-ca_b_154777.html

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PIÙ’ LA MENZOGNA È GRANDE… di Dominique Vidal (storico, saggista e giornalista di “Le Monde Diplomatique”, di cui è stato caporedattore aggiunto fino al 2006, e responsabile delle sue edizioni estere; specialista della questione arabo-israeliana)

Sotto molti aspetti, l’offensiva contro Gaza ricorda la guerra del Libano dell’estate 2006, da cui i dirigenti israeliani hanno visibilmente tratto alcune lezioni. Non lezioni strategiche, perché allora avrebbero dovuto finalmente prendere quelle famose “decisioni dolorose”- in realtà applicare semplicemente il diritto internazionale - che potrebbero fondare una pace duratura con i loro vicini. In compenso, hanno evitato di riprodurre gli stessi errori in campo militare, ma anche in materia di comunicazioni. Alla rigorosa chiusura all’interno, affinché la proibizione dell’accesso alla striscia di Gaza risparmiasse ai telespettatori le immagini del territorio martirizzato, si è aggiunta una propaganda su tutti i fronti all’esterno. “Per influenzare i media è stata creata,con un certo successo, una nuova direzione dell’informazionerivela il settimanale britannico The Observer. E quando l’attacco è cominciato (…) una marea di diplomatici, gruppi di pressione, blog e altri sostenitori di Israele hanno cominciato a martellare una serie di messaggi preparati con cura (1)” Factotum di tutto il meccanismo, l’ex ambasciatore alle Nazioni Unite, Dan Gillerman, conferma : “Non avevo mai visto(…) il ministero degli esteri , quello della difesa, l’ufficio del primo ministro, la polizia e l’esercito lavorare con tanto coordinamento ed efficienza” •

Autodifesa. E’ la parola chiave. Nessuno stato, ripetono i sostenitori di Israele, accetterebbe

senza reagire che la sua popolazione viva- dall’autunno 2002, quando Israele era presente a Gazanel terrore di razzi stranieri. Indiscutibilmente ogni governo, di fronte a tale situazione, reagirebbe, ma come? Scatenando una guerra ancora più cruenta o negoziando per porre fine ai combattimenti? Da sessantun anni, Tel Aviv entra in guerra affermando di “ non avere scelta”- in ebraico ein brera. Si tratta, più che mai, di una contro-verità: i palestinesi non hanno forse riconosciuto il loro vicino e occupante dal 1988 e il mondo arabo non gli ha teso la mano dal 2002, offrendo a Israele una normalizzazione completa in cambio del suo ritiro dai territori occupati? Senza dimenticare che, se gli israeliani hanno diritto all’autodifesa, lo stesso vale per i palestinesi… •

Rottura. Ma, continuano a ripetere i portavoce di Tel Aviv, diplomatici e giornalistici, è Hamas

che ha rotto la tregua - dimenticando che, come ha riconosciuto Ehoud Barak, “Piombo fuso” era in preparazione già da sei mesi. Nessuno nega che, fino alla fine di ottobre, i combattenti islamisti avevano smesso di sparare - lo stesso ministero israeliano degli affari esteri lo riconosce sul suo sito. I lanci, tuttavia, sono ripresi a novembre. E a ragion veduta: dettaglio spesso “dimenticato” il 4 novembre 2008 l’esercito israeliano ha condotto un’operazione che è costata la vita a sei combattenti di Hamas. Il quale ha risposto…Altro punto difficilmente ricordato: il cessate il fuoco doveva procedere di pari passo con la fine del blocco della striscia di Gaza e l’apertura delle sue frontiere, cosa che Israele non ha mai accettato. Peggio: negli ultimi mesi l’embargo è diventato pressoché totale, al punto che, ancor prima dell’offensiva, i quattro quinti della popolazione dipendevano direttamente dall’aiuto alimentare dell’Onu. Con l’offensiva israeliana, anche l’acqua, il gasolio, l’elettricità e gli alimenti di base sono diventati merce rara. •

Blocco. Di fatto, bisognerebbe risalire fino a gennaio 2006, quando cioè le elezioni legislative,

tenute su richiesta del quartetto per il Medioriente e controllate da più di novecento osservatori, danno la

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maggioranza ad Hamas. Logica avrebbe voluto che Tel Aviv ne prendesse atto e considerasse il nuovo primo ministro come un interlocutore. Al contrario, non solo boicotterà il governo, ma otterrà dagli Stati Uniti prima, dall’Unione europea poi che facciano altrettanto, invocando il rifiuto di Hamas di riconoscere Israele. E il blocco non cesserà neppure quando il governo di unione nazionale Hamas-Fatah, formato in marzo 2007, si darà come programma la creazione di uno stato palestinese nei territori occupati nel 1967- proposta che il movimento islamista ha rinnovato più volte (2). •

Sproporzione. Sul sito del ministero israeliano degli affari esteri, Ben Dror Yemini scrive: “Alcuni

dei peggiori detrattori di Israele hanno scritto che per ogni morto israeliano si contano un centinaio di palestinesi uccisi. Si dice che una mezza verità sia peggiore di una menzogna. Ma in questo caso non è nemmeno una mezza verità: è un inganno. Infatti, mesi e anni di lanci di razzi su una popolazione civile non può essere una questione di conteggio delle perdite”. In mancanza di un minimo di compassione, questo Andrè Glucksmann (3) israeliano potrebbe perlomeno riconoscere le seguenti cifre: in tre anni, dal ritiro d’Israele dalla striscia di Gaza allo scoppio di questa guerra, i Qassam hanno ucciso undici israeliani, mentre l’esercito israeliano faceva millesettecento morti. Più le milletrecento vittime di “Piombo fuso”; gli israeliani, dal canto loro, ne hanno avute tredici. Come scrive lo storico israeliano Avi Shlaim, “l’ingiunzione biblica occhio per occhio è già abbastanza selvaggia. Ma la folle offensiva di Israele contro Gaza sembra obbedire alla logica dell’occhio per ciglio” (4). Bernard-Henry Levy, per fortuna, ci rassicura: Gaza non è “rasa” ma “suonata” (5)… •

Equilibrio. Preoccupati di rispettare uno scrupoloso equilibrio nella copertura del conflitto, e

forse anche di non irritare l’Eliseo, la maggior parte dei canali francesi ha alternato le immagini di civili israeliani che fuggivano nei ricoveri di Sderot a quelle che di civili palestinesi sotto il fuoco dei F16 e dei carri armati. Attaccare i civili costituisce, è vero, l’essenza stessa del terrorismo, o quanto meno una violazione specifica delle convenzioni di Ginevra. Ma si possono mettere sullo stesso piano, da una parte alcune case danneggiate da razzi artigianali, dall’altra scuole distrutte, ospedali bombardati, riserve alimentari ridotte in cenere da bombe e obici tra i più moderni?... •

Civili. Cosciente dell’emozione suscitata da simili orrori, la portavoce dell’ambasciata israeliana

in Francia, Nina Ben Ami, dirà: “ Hamas prende di mira i civili, noi facciamo di tutto per risparmiarli” (6). Una tesi che ha del surreale. La striscia di Gaza costituisce uno dei territori più densamente popolati del mondo: un milione e mezzo di persone su 370 kmq. Bisogna non averci mai messo piede per pensare che i combattenti potessero essere altrove, invece che tra i civili. E sostenere che le bombe sarebbero in grado di separare il grano dal loglio ha l’aria di un macabro scherzo: i due terzi delle vittime non sono combattenti; un terzo non raggiunge i 18 anni. E si capisce: aerei e carri armati hanno mirato, come si è visto, a luoghi pubblici e abitazioni. Ben Ami introduce una circostanza attenuante, “lanciamo volantini per avvisare dei bombardamenti e invitare gli abitanti a fuggire”. Ma dove? Nessuno può lasciare il territorio, né via terra, né via mare. Peraltro, se Israele avesse voluto veramente proteggere la popolazione presa in trappola, avrebbe dovuto almeno facilitare il lavoro della Croce rossa: invece, come afferma Antoine Grand, il responsabile a Gaza, “abbiamo enormi difficoltà ad ottenere rapidamente il via libera dagli israeliani per intervenire dopo un bombardamento. Spesso attendiamo da sei a dodici ore, il che aggrava una situazione umanitaria già catastrofica” (7). Più grave ancora: un esercito rispettoso del diritto di guerra avrebbe utilizzato, come ormai è stato accertato, bombe al fosforo? (8) Questa guerra, scrive lo storico israeliano Zeev Sternhell, è la “più violenta e la più brutale della nostra storia” (9). •

Odio. La ministra israeliana degli affari esteri, Tzipi Livni, si è prevedibilmente commossa, non

senza cinismo, del crescente “odio contro Israele”. Ma chi l’ha seminato? Come stupirsi del fatto che lo spettacolo dei corpi dilaniati di donne, vecchi e bambini provochi sdegno contro i dirigenti israeliani,

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o anche, visto il sostegno ampiamente maggioritario da loro offerto alle operazioni, contro gli israeliani presi in blocco? E, pur senza approvare questa deriva -fondata sul principio della responsabilità collettiva, che non fu applicato neanche ai tedeschi- come non comprendere ciò che lo causa? Uri Avnery, il primo di tutti i pacifisti israeliani, lo valuta con chiarezza: “ Ciò che resterà marchiato a fuoco nella coscienza del mondo, è l’immagine di Israele, mostro sanguinario, pronto a commettere crimini di guerra in ogni momento e incapace di obbedire a qualsivoglia obbligo morale. Ecco una cosa che, nel lungo periodo, avrà conseguenze gravi sul nostro futuro, la nostra immagine nel mondo, le possibilità di ottenere pace e serenità. Questa guerra, in fin dei conti, è un crimine anche contro gli israeliani, contro lo stato di Israele” (10) •

Comunitarismo. L’angoscia davanti all’orrore ricade, oltre che sugli israeliani, anche sugli

ebrei. Niente, naturalmente, giustifica un tale slittamento: i francesi di confessione o di cultura ebraica non hanno maggiori responsabilità per i crimini commessi da Tsahal, di quanta ne abbiano i francesi di religione o di appartenenza musulmana in quelli commessi da al Qaeda. E, d’altra parte, chi può essere ridotto a una sola dimensione, religiosa o culturale, della sua identità? E però, bisognerebbe che i responsabili detti “comunitari” non alimentassero essi stessi il comunitarismo. Sorprendente contraddizione quella del presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (Crief), Richard Prasquier, che chiede di “ non importare il conflitto in Francia” mentre dichiara la sua “incondizionata solidarietà” (11) con Israele, dopo aver affermato che “il 95% della comunità ebraica di Francia è d’accordo con la politica di Israele e con quello che sta facendo il suo esercito” (12) •

Antisemitismo. Gli avvenimenti di Gaza sono stati pretesto per un certo numero di atti antisemiti

in Francia. Ora, mentre è vero che si sono verificate gravi violenze contro le sinagoghe o persone identificate come ebree, pure, la lista dei fatti evocati comprende anche insulti e graffiti, altrettanto inaccettabili, ma evidentemente meno gravi. L’esperienza della seconda Intifada dovrebbe incitare i media alla vigilanza e… alla prudenza: il riaccendersi della violenza antiebraica negli anni 2001, 2002 e 2003, a torto attribuita a giovani immigrati (13), fu presto accompagnata da un’ondata antiaraba e antimusulmana; entrambe poi rientrate grazie alle misure prese dalle autorità e anche per merito della mobilità antirazzista. Al contrario di quanto si crede, le manifestazioni di solidarietà che esprimono la ricerca di una pace giusta, non solo non incitano nessuno all’odio razziale, ma permettono a tutti di esprimere un’emozione che, altrimenti, potrebbe spingere questo o quello ad azioni irresponsabili. •

Pace. E’ in suo nome che Israele dichiara di agire: colpendo severamente Hamas, faciliterebbe

la pace con i “moderati”. L’analisi non è convincente. Anche se l’operazione “Piombo fuso” indebolisse militarmente il movimento islamista, lo rafforzerà però sul piano politico, in Palestina, ma anche nella regione. Come lo Hezbollah nel 2006, anche i militanti di Hamas, in virtù della loro resistenza, saranno certamente innalzati al rango di eroi del mondo arabo-musulmano. D’altra parte, se Ehoud Olmert e i suoi ministri, la Livni come Barak, volevano sinceramente negoziare con l’Autorità palestinese, perché non hanno mantenuto le promesse fatte a Annapolis, nel novembre 2007? Che si sappia, i check point non sono stati tolti, la colonizzazione non è stata bloccata, le esecuzioni mirate non sono state sospese… Un Hamas rafforzato, un’Autorità palestinese screditata: questo risultato della guerra di Gaza era forse l’obiettivo degli strateghi israeliani. Allo scopo di impedire, ancora una volta, la nascita dello stato palestinese, se non di renderla definitivamente impossibile.

(1)

The Observer, Londra, 4 gennaio 2009

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(2) (3) (4) (5) (6) (7) (8) (9) (10) (11) (12) (13)

Cfr. l’intervista concessa a fine dicembre da Khaled Mechaal http:/mondediplo.net/2008-12-22 Vedere “Gaza, une risposte excessive?” Le Monde 6 gennaio 2009 Cfr. Avi Shlaim “How Israel brought Gaza to the brink of humanitarian catastrophe” The Guardian, Londra, 7 gennaio 2009 Le Journal du dimanche, 18 gennaio 2009. Secondo la British Broadicasting Corporation (BBC), quattromila immobili sono stati distrutti e ventimila gravemente danneggiati Durante un dibattito su France 2, il 12 gennaio 2009 alle 22 h 30 Liberation, Parigi, 6 gennaio 2009 Cfr. The Times, Londra 8 gennaio 2009. Secondo gli specialisti il fosforo bianco è un agente tossico che può provocare ustioni sulla pelle e danneggiare fegato, cuore e reni. Anche se non è proibito da una convenzione internazionale, il protocollo III della Convenzione del 1980 sulle armi convenzionali proibisce il suo uso contro le popolazioni civili o contro forze militari che stazionano tra la popolazione civile. Haaretz, Tel Aviv, 18 gennaio 2009 htpp:/zope.gush-shalom.org/home/en/channels/avnery/1231625457/ Nella trasmissione “Parlons net” su France Info, il 16 gennaio 2009 Le figaro, Parigi 5 gennaio 2009. Prasquier è ritornato poi sull’indicazione del 95% parlando su France Info della “grande maggioranza degli ebrei in Francia” Secondo gli ultimi rapporti della Commissione nazionale consultativa dei diritti dell’uomo, i due terzi degli atti di violenza antiebraica non sono imputabili a francesi di origine nordafricana o africana

pubblicato da “Le monde diplomatique “, febbraio 2009

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TLAXCALA - www.tlaxcala.es/campagnes.asp?lg=it&ref_campagne= The Translators Network for Linguistic Diversity

CAMPAGNE Israele deve essere giudicato dalla Corte Penale Internazionale Petizione universale

Circa 300 tra ONG e associazioni chiederanno al Procuratore della Corte Penale Internazionale di aprire un’inchiesta sui crimini di guerra commessi da Israele a Gaza. Il vostro sostegno è indispensabile. Firmate e fate circolare questa «petizione universale». È urgente. Al Procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) Il diritto è il segno distintivo della civiltà umana. Ogni progresso dell’umanità è coinciso con il consolidamento del diritto. La sfida che ci pone l’aggressione di Israele contro Gaza consiste nell’affermare, in mezzo a tanta sofferenza, che alla violenza deve rispondere la giustizia. Crimini di guerra? Solo i tribunali possono condannare. Ma tutti noi dobbiamo recare testimonianza, perché un essere umano esiste solo in relazione agli altri. Le circostanze danno tutta la sua dimensione all’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1949, «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». La protezione dei popoli, e non quella degli Stati, è la ragion d’essere della Corte Penale Internazionale. Un popolo senza Stato è il più minacciato di tutti, e davanti alla Storia si trova sotto la protezione delle istanze internazionali. Il popolo più vulnerabile deve essere il più protetto. Uccidendo i civili palestinesi, i carri armati israeliani fanno sanguinare l’umanità. Ci siamo battuti perché il potere del Procuratore generale fosse al servizio di tutte le vittime, e questa competenza deve permettere che tutto il mondo riceva un messaggio di speranza, quello della costruzione di un diritto internazionale basato sui diritti delle persone. E insieme, un giorno, potremo rendere omaggio al popolo palestinese per il contributo che ha dato alla difesa delle libertà umane.

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LE PRINCIPALI QUESTIONI DEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE



RIFUGIATI



INSEDIAMENTI E COLONIE



RESTRIZIONI DI MOVIMENTO: IL MURO E I CHECKPOINT



GERUSALEMME



I PRIGIONIERI PALESTINESI



I BAMBINI PRIGIONIERI



POVERTA’



ACQUA

LE CONSEGUENZE DELL’OCCUPAZIONE SULLA VITA DEL POPOLO PALESTINESE

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Aspettami! di Samih Al-Qasim (poeta palestinese, nato nel 1939, vive a Rama, in Galilea) Il coltello è alla gola, terra, ma io ti dico: aspettami! Le mani dietro la schiena legate, le corde, terra, sono sequestrate ma io canto, per te, mia ferita, per te canto: “io non ti ho tradita e tu non tradirmi, io non ti ho venduta, e tu non vendere me”. Terra di tristi salmi, di volti perduti, terra di radici cariche di rancore, terra di tempeste di fulmini, di notti fredde terra di giardini rubati, di mani tese, terra di villaggi in rovina, di sangue, di lacrime, devo io sostenerti o sarai tu, terra tradita, che mi sosterrai? Terra di antiche menzogne, di visioni e di profeti, sarò io il tuo segreto o sarai tu il mio, terra ingannata? Terra delle lacerazioni nell’esilio, nei massacri, nei rifugi, terra delle valigie e degli aeroporti stranieri e dei porti, terra della collera, delle fiamme, a te lacrimanti baciano le mani a milioni i profughi. Terra dell’umiliazione del dolore dell’orgoglio: ho creduto nell’amore che dona e che nel dono si annulla. Perciò ti dico aspettami. Il coltello è puntato alla mia gola ma tu aspettami! (traduzione dall’arabo di Wasim Damash), da: Samih Al-Qasim, Versi in Galilea, a cura di W. Dahmash, Edizioni Q, Roma 2008

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Dichiarazione di rifiuto del soldato Omri Evron (appartiene al movimento dei “RefuseniK”, militari israeliani che si rifiutano di prestare servizio nei Territori Palestinesi occupati da Israele) Tel Aviv 12 Ottobre 2006

Io, Omri Evron, rifiuto di servire nell’esercito perché intendo restare fedele ai principi morali in cui credo. Il mio rifiuto di arruolarmi è un atto di protesta contro l’occupazione militare protratta del popolo palestinese, un’ occupazione che approfondisce e fortifica l’odio e il terrore fra i popoli. Mi oppongo alla partecipazione alla guerra crudele per il controllo dei territori occupati, una guerra condotta per proteggere le colonie israeliane e per mantenere l’ideologia della “Grande Israele”. Rifiuto di servire un’ideologia che non riconosce il diritto di tutte le nazioni all’indipendenza e alla coesistenza pacifica. Non sono preparato a contribuire in alcun modo all’oppressione sistematica di una popolazione civile e alla privazione dei suoi diritti, così come essa viene effettuata dal regime dell’apartheid e dalle truppe israeliane nei territori occupati. Sono sdegnato per l’incarcerazione di milioni di persone dietro muri e checkpoint, e per la fame che ne consegue. Mi rifiuto di arruolarmi perché non credo che la violenza sia una soluzione e che la guerra porti la pace. Mi rifiuto di servire le industrie degli armamenti, le aziende globali, gli avidi appaltatori, i predicatori di razzismo e i cinici leader la cui attività è volta all’incremento della sofferenza e che privano le persone dei loro diritti umani basilari. Il mio rifiuto serva a portare l’attenzione sul fatto che non tutti sono pronti a farsi indottrinare e cooptare per cause nazionaliste e razziste. Con questo atto voglio esprimere la mia solidarietà con tutti i prigionieri per la libertà in tutto il mondo. Mi rifiuto di credere alle bugie diffuse allo scopo di indurre divisioni e antagonismi fra i lavoratori delle due parti così che essi non possano allearsi nella lotta per i loro diritti. Vorrei che il mio rifiuto fosse un messaggio di pace e di solidarietà e un appello a coloro che uccidono e sono pronti a farsi uccidere per interessi che non sono i loro, a deporre le armi e a unirsi nella lotta per un mondo più giusto. Sebbene sia conscio che questo atto costituisce una violazione delle leggi israeliane, mi sento obbligato a mantenere i miei valori democratici, umanistici ed egualitari. Il governo militare su milioni di Palestinesi non è democratico. È mio dovere oppormi a qualunque legge che renda possibile privare altri dei loro diritti e della libertà, o trattarli con tale violenza da negare la loro fondamentale umanità. Rifiuto di uccidere! Rifiuto di opprimere! Rifiuto di occupare! Dichiaro la mia lealtà alla pace e rifiuto di servire la guerra e l’occupazione! Omri Evron - Military ID 6153157 - Military Mail 02507, IDF

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LA QUESTIONE DEI RIFUGIATI RIFUGIATI PALESTINESI - DATI GIUGNO 2007

Aree e Paesi

Rifugiati registrati

Rifugiati registrati nei campi profughi

Cisgiordania Striscia di Gaza Libano Siria Giordania

734.861 1.030.638 111.005 446.925 1.880.740

187.916 481.180 217.441 120.383 330.468

Totale

4.504.169

1.337.388

Fonte:Limes n° 5/2007

Secondo l’UNRWA (Unite Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near Est), “i rifugiati palestinesi sono persone, il cui normale luogo di residenza era palestinese tra il giugno 1946 e il maggio 1948, che hanno perso le loro abitazioni e i loro mezzi di sussistenza come risultato della Guerra arabo-israeliana del 1948.” Lo status di profughi palestinesi è diverso da quello di tutti gli altri profughi del mondo, infatti il loro status è “ereditario”, dato che Israele impedisce agli originari profughi e ai loro figli il ritorno.

Approssimativamente i tre quarti della popolazione palestinese sono profughi. Da più di 60 anni i rifugiati e i profughi palestinesi rimangono in esilio forzato. Secondo le leggi internazionali, tutti i rifugiati e i profughi hanno diritto a ritornare nelle proprie case e a recuperare le loro proprietà: la risoluzione 194* dell’Assemblea Generale e la risoluzione 237* del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riaffermano i diritti dei rifugiati e dei profughi al ritorno. *risoluzione 194 (11 dicembre 1948), art.11: i rifugiati che lo desiderano devono poter “rientrare nelle loro case il prima possibile e vivere in pace con i loro vicini”, gli altri devono essere risarciti dei loro beni “a titolo di compensazione”.. *risoluzione 237 (14 giugno 1967): Il Consiglio di Sicurezza chiede a Israele di garantire “la protezione, il benessere e la sicurezza degli abitanti delle zone in cui hanno luogo operazioni militari” e di facilitare il ritorno dei rifugiati.

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TERRITORI OCCUPATI: COLONIE E AVAMPOSTI ISRAELIANI IN CISGIORDANIA (dati aggiornati al Novembre 2008 – Fonte: Peace Now, movimento pacifista israeliano)

Nel luglio 2004 la Corte Internazionale d Giustizia ha definito “occupati da Israele” i territori palestinesi conquistati (compresa Gerusalemme Est) a seguito della Guerra dei Sei giorni del 1967.

• 121 colonie (o insediamenti) e 102 avamposti israeliani costruiti illegalmente,

secondo le leggi internazionali (IV Convenzione di Ginevra*) sulla terra palestinese



occupata da Israele nel 1967. • 462.000 coloni ebrei:



191.000 attorno a Gerusalemme



271.400 in Cisgiordania • Crescita delle colonie:



Secondo la Road Map del 2003, poi confermata dalla Conferenza di Annapolis del 2007:



“Israele congela anche tutta l’attività degli insediamenti, secondo il rapporto Mitchell”.



In realtà la costruzione degli insediamenti è aumentata del 30% in Cisgiordania e del



38% attorno a Gerusalemme.

Le colonie sono costruite su meno dello 1,5% del territorio palestinese, ma, a causa dell’ampia infrastruttura (massiccia rete stradale percorribile solo dai coloni) e delle restrizioni, cui sono sottoposti i Palestinesi, gli insediamenti occupano più del 40% della Cisgiordania. La “IV Convenzione di Ginevra per la Protezione delle Persone Civili in tempo di guerra” del 1949 è il fondamento del diritto umanitario internazionale, il quale assicura una protezione minima ai civili durante le guerre o le occupazioni militari. La Convenzione proibisce: • la costruzione di insediamenti su un territorio occupato (art. 49) • l’annessone unilaterale di un territorio (art. 47) • l’omicidio intenzionale di civili (art. 146 e 147), • le pene collettive (art. 33) • la tortura (art. 31-32, 146-147) • la distruzione di proprietà senza valide ragioni militari (art. 53, 146-147). La Convenzione richiede la responsabilità giuridica per coloro che commettono crimini di guerra (definiti come “gravi violazioni” ed elencati nell’art. 147). La Convenzione tiene pienamente in conto le necessità militari, ma non può essere violata per “ragioni di sicurezza.” IV Convenzione di Ginevra, Art. 49, par. 6: “La potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato”.

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• Nel luglio 2004 la Corte Internazionale d Giustizia ha definito occupati da Israele i

territori palestinesi conquistati (compresa Gerusalemme Est) a seguito della Guerra dei



Sei giorni del 1967.

Peace Now, Promemoria per gli Usa: Le colonie aumentano di M. Giorgio

L’inviato di Barak Obama, George Mitchell, è giunto in Medio Oriente per “ascoltare”. Farebbe meglio anche a leggere ciò che pubblicano i giornali israeliani e le associazioni pacifiste. Il quotidiano Haaretz ha rivelato che il ministero della difesa ha nascosto una serie di importanti informazioni relative a vaste costruzioni coloniche nella Cisgiordania occupata, per timore che ciò danneggiasse le relazioni internazionali del paese. Mitchell, in un suo rapporto stilato otto anni fa, aveva criticato le colonie israeliane in Cisgiordania. In un altro rapporto del gruppo Peace Now, diffuso in concomitanza con la missione di George Mitchell, emerge che le costruzioni e gli avamposti costruiti dai coloni in Cisgiordania sono aumentati in modo considerevole nel 2008 rispetto agli altri anni. L’anno scorso i coloni hanno costruito 1.257 strutture, con un aumento del 57% rispetto alle 800 strutture dell’anno precedente. Sono cresciuti in particolare gli avamposti, che il governo israeliano si era impegnato a smantellare (ma non lo ha mai fatto), dove sono stati costruiti 261 edifici contro i 98 del 2007. Le continue costruzioni negli insediamenti colonici sono uno dei principali ostacoli al raggiungimento di un accordo israelo-palestinese. Il negoziatore palestinese Saeb Erekat ha definito gli insediamenti un “virus” che mina le possibilità di pace e preme sull’amministrazione Obama affinché imponga ad Israele di fermare l’allargamento dell’occupazione.

pubblicato da “ Il Manifesto”, 29.01.2009

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CHECKPOINT NEI TERRITORI PALESTINESI OCCUPATI DA ISRAELE E RESTRIZIONI DI MOVIMENTO PER I PALESTINESI

Il Checkpoint è una barriera controllata dall’esercito israeliano e/o dalla Polizia di Frontiera.

Tipologia dei checkpoint: • •

checkpoint parziali: un checkpoint stabile che è in funzione periodicamente cancelli stradali: un cancello di metallo, spesso controllato dall’esercito israeliano, usato per controllare i movimenti lungo le strade



blocchi stradali: una serie di blocchi di cemento di 1 metro utilizzati per impedire l’accesso ai veicoli



ammassi di terra: un ammasso di macerie, sporcizia e/o rocce usate per ostacolare l’accesso dei veicoli

• • • •

fossati: un fossato per impedire ai veicoli di attraversare Barriere stradali: barriere dislocate lungo le principali strade che impediscono la circolazione muri di terra: un muro continuo o un ammasso di terra per restringere l’accesso mobili o casuali: a causa della loro imprevedibilità e della difficoltà a capire dove sono dislocati, questi checkpoint di solito rappresentano per i Palestinesi un problema maggiore rispetto a quelli regolari conosciuti



veri e propri “terminal” corredati di Metal detector, dove si è costretti a passare in fila indiana e a sottoporsi a ogni tipo di controllo. Checkpoint a Hebron

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IL MURO Caratteristiche

Nel giugno del 2002 il governo di Israele ha deciso di costruire una barriera per separare Israele e Cisgiordania, con lo scopo di impedire l’ingresso incontrollato dei Palestinesi in Israele.

La lunghezza stabilita è di 723 Km, attraverso 10 degli 11 distretti della Cisgiordania, annettendo circa il 50% dei Territori Palestinesi.

• Una barriera di cemento alta 8 metri •

Torrette di guardia

• Filo spinato e/o recinzione elettrica • “Zona cuscinetto”: fossati, strade, filo spinato, telecamere e strade speciali di sabbia per rilevare le impronte dei piedi. In questa zona Israele demolisce le case dei Palestinesi per “ragioni di sicurezza”.

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GERUSALEMME •

1947- Piano di Ripartizione delle Nazioni Unite: Gerusalemme viene dichiarata un “corpus separatum” e viene messa sotto uno speciale regime internazionale controllato dalle Nazioni Unite.



Guerra del 1948: Israele si espande fino all’85% della città (soprattutto la parte ovest), mentre l’esercito giordano mantiene l’11% (soprattutto la parte est); il restante 4% è considerato “terra di nessuno”.



64.000-80.000 Palestinesi sono costretti a lasciare le proprie case a Gerusalemme ovest e in 40 villaggi attorno alla città, i quali vengono distrutti dalle forze israeliane per impedire agli abitanti di farvi ritorno. Secondo la legge israeliana di “Assenza di Proprietà” del 1950, proprietà, case e terreni dei Palestinesi che se ne sono andati (in verità, costretti ad andare via), vengono considerati “abbandonati” dai precedenti abitanti e trasferiti allo Stato di Israele.



Guerra del 1967: Israele annette il restante 15% di Gerusalemme, compresa la “Città Vecchia”, con lo scopo di costruire una maggioranza ebrea nella città, espellendo la popolazione palestinese.



1980: il governo israeliano annette ufficialmente Gerusalemme Est. Oggi, per spostarsi dalla Cisgiordania a Gerusalemme Est e viceversa, occorrono speciali permessi rilasciati dall’autorità israeliana, i quali però sono difficili se non impossibili da ottenere per la maggior parte dei Palestinesi.



Secondo uno studio del 2006, il 62% dei Palestinesi di Gerusalemme Est vive in povertà, se paragonato al 23% delle famiglie ebree di Gerusalemme Est.



Nei primi tre anni dell’occupazione, Israele ha confiscato 18,27 Kmq. di terre dei Palestinesi.



Nel 1991 le terre confiscate sono diventate 23,4 Kmq. Nel 2007, il Muro risultava essere costruito sulla terra appartenente, per il 19,2%, alle famiglie palestinesi di Gerusalemme.



Dal 1967 alla fine del 2006, Israele ha revocato il diritti di residenza a circa 8.269 Palestinesi di Gerusalemme.

(http://www.uniriot.org/downloads/FreePalestine.ppt)

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UN ESEMPIO CONCRETO DI INSEDIAMENTO A GERUSALEMME EST

IN DIECI ANNI IL BOSCO DI ABU GHNEIM VIENE TRASFORMATO NELL’INSEDIAMENTO DI HAR HOMA

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CONSEGUENZE DELL’OCCUPAZIONE SULLA VITA DEI PALESTINESI 1. DEMOLIZIONE DELLE CASE PALESTINESI 1967 - 2006: 19.000 case demolite nei Territori Palestinesi Occupati 2000 - 2007:

2000 - 2004:

1.600 costruzioni demolite nell’Area C (area della Cisgiordania

sotto il controllo israeliano), 3.000 case a rischio di demolizione

4.000 case demolite nella Striscia di Gaza.

La IV Convenzione di Ginevra afferma che alle Potenze Occupanti è proibito distruggere le proprietà degli abitanti del territorio occupato: “ Qualsiasi distruzione perpetrata dalla Potenza occupante di proprietà immobiliari o personali per privarne la persona...è proibita”. La maggior parte della demolizione delle case viene perpetrata per ragioni “amministrative” e in genere perché la casa era stata costruita senza permesso. In ogni caso, per i Palestinesi che vivono sotto occupazione, è praticamente impossibile ottenere dei permessi per costruire sulla loro terra.

2.

EFFETTI SULL’ECONOMIA



difficoltà a raggiungere i campi, a coltivare la terra, a produrre e a commerciare le merci



danni alle coltivazioni e al settore agricolo in una delle zone più fertili della Cisgiordania



devastazione degli uliveti e aggressioni dei coloni durante la stagione della raccolta delle olive



difficoltà a trasportare merci



difficoltà a raggiungere il posto di lavoro.

3. EFFETTI SULL’ISTRUZIONE •

gli studenti non possono frequentare regolarmente le lezioni a causa della chiusura dei checkpoint o delle file interminabili che vi si formano.

4. EFFETTI SULLA SANITA’ •

accesso negato o estremamente limitato alle cure mediche a causa della burocrazia, delle lunghe attese e dei molti checkpoint che si incontrano anche sulle brevi distanze.

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5. EFFETTI SULLA VITA QUOTIDIANA •

violenze e aggressioni continue da parte dei militari e dei coloni israeliani



frammentazione della terra a causa della costruzione delle bypass road riservate ai coloni e conseguente estrema difficoltà di movimento per i palestinesi



estrema difficoltà a mantenere relazioni regolari con parenti ed amici perché, per percorrere anche brevi distanze, spesso bisogna stare in ballo giornate intere, quando non si è respinti senza ragione.

AUMENTO DELLA POVERTA’ L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Aiuti Umanitari (OCHA) considera l’occupazione e le restrizioni di movimento imposte da Israele come “la principale causa di povertà e di crisi umanitaria nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza”.

Palestina - Economia di Guerra: - 41% PIL rispetto al 1999 (ultima statistica disponibile prima della seconda Intifada) - 49% PIL pro capite (dato 2004) + 40% Aumento medio della disoccupazione (nella Striscia di Gaza si aggira attorno al 60%, nel 1999 era al 12%) Il 60% della popolazione palestinese vive sotto la soglia di povertà (due dollari pro capite al giorno); il 75% della popolazione nella Striscia di Gaza. Prima dell’inizio della seconda Intifada (2000), tale valore era del 20% . (W. Bank, Palestinian Monitor) Con la sospensione degli aiuti alla Palestina nel 2006, in seguita al vittoria elettorale di Hamas, il numero delle persone che vive in forte povertà è triplicato. L’economia della Palestina è stata distrutta dalla guerra del 1967 e dalla conseguente occupazione, uno dei colpi più duri è stata la separazione di Gerusalemme dalla Cisgiordania che ha portato la Palestina alla dipendenza coloniale dalla potenza occupante e dagli aiuti internazionali. A causa dell’embargo del 2006, la maggior parte degli abitanti di Gaza non ha accesso agli alimenti di base e più dell’80% delle famiglie di Gaza fa affidamento sugli aiuti umanitari per sopravvivere, aiuti che spesso vengono bloccati da Israele.

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PRIGIONIERI PALESTINESI



I prigionieri vengono detenuti in circa 30 centri di detenzione che si trovano all’interno dei confini di Israele del 1967.



Il numero dei detenuti varia a seconda della fonte. Secondo la Croce Rossa Internazionale si parla di 10.500 prigionieri (ottobre 2008).



Su 9.493 detenuti: 750 sono prigionieri amministrativi*, 349 hanno 18 anni o anche meno 75 sono donne.

Israele tiene prigionieri anche 47 parlamentari palestinesi. •

Durante l’occupazione militare della Palestina da parte di Israele, a partire dal 1967, più di 700.000 Palestinesi sono stati imprigionati illegalmente.



Circa il 20% di tutta la popolazione palestinese e il 40% della popolazione totale maschile nei Territori Occupati è stata in prigione.

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* Detenzione amministrativa: è una detenzione senza accuse o processo, autorizzata da un ordine amministrativo più che da un decreto del giudice. L’utilizzo da parte di Israele degli ordini amministrativi è una chiara violazione delle leggi internazionali: i prigionieri palestinesi possono essere detenuti all’infinito e non è permesso loro né di vedere le prove della loro colpevolezza, né di conoscere il motivo della detenzione. Un detenuto amministrativo palestinese è rimasto in prigione per più di 8 anni senza essere stato accusato di alcun crimine. Nel 2007 Israele aveva, ogni mese, circa 830 detenuti amministrativi, cifra che era 100 volte più alta della percentuale mensile del 2006.

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I DETENUTI BAMBINI

Secondo i regolamenti militari di Israele, un ragazzo sopra i 16 anni può essere considerato adulto. Tuttavia, ragazzini di 12 anni sono stati accusati e giudicati dalla Corte militare israeliana. Ragazzini tra i 12 e i 14 anni possono essere processati per dei reati e detenuti fino a 6 mesi. Dopo i 14 anni, i ragazzi palestinesi sono trattati come adulti. Non esistono tribunali dei minori e spesso i ragazzi vengono detenuti insieme agli adulti. Si ritiene che, tra il settembre 2000 e l’agosto 2008, circa 6.700 ragazzi palestinesi siano stati arrestati e detenuti nelle prigioni di Israele.

(Fonte: http://www.uniriot.org/downloads/FreePalestine.ppt)

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IL PROBLEMA DELL’ACQUA

La riserva media di acqua per la comunità palestinese nei Territori Occupati è di circa 63 litri per persona al giorno in Cisogiordania, contro i 140 litri al giorno in Israele. Le riserve di acqua per persona superano i 100 litri al giorno, che è la quantità minima raccomandata dall’Organizzazione della Sanità, solo per il 16% (100 su 708) delle comunità palestinesi. Solo il 69% delle comunità palestinesi è collegato alla rete delle acque. Le altre comunità non sono raggiunte dalle tubature dell’acqua. Solo il 7% dell’acqua disponibile nella Striscia di Gaza rispetta gli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il prezzo dell’acqua fornita da serbatoi privati è aumentato in 290 comunità della Palestina, in 205 di queste il prezzo è aumentato fino al 150% in più e nelle altre 85 fino al 200%. Israele utilizza il 37% dell’acqua che proviene dall’Acquedotto Orientale (soprattutto per gli insediamenti) che si trova in Cisgiordania; il 95% dell’acqua dell’Acquedotto Occidentale e circa il 70% dell’acqua dell’Acquedotto Settentrionale. I Palestinesi non hanno assolutamente accesso al bacino idrico del Giordano. Israele impedisce ai Palestinesi di accedere alle risorse idriche legalmente, tecnicamente e fisicamente.

(fonte: http://uniriot.org/downloads/FreePalestine.ppt)

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CRONOLOGIA ISRAELE–PALESTINA dal 1897 al 2009

1897. Thomas Herzl fonda in Svizzera (Congresso di Basilea) il movimento sionista con l’obiettivo di creare in Palestina uno Stato ebraico. 1916. Trattato di Sykes-Picot. Accordo tra Gran Bretagna e Francia: la Siria e il Libano diventano francesi, la Giordania e l’Iraq inglesi; la Palestina dovrebbe avere uno status internazionale. 1917.”Dichiarazione di Balfour” Il 2 novembre, il governo inglese si dichiara favorevole alla “fondazione di una Madre Patria Ebraica in Palestina”. I palestinesi denunciano “la Dichiarazione della vergogna”. Al momento della Dichiarazione di Balfour, la popolazione totale della Palestina è di 700.000 persone circa: 574.000 musulmani, 74.000 cristiani e 56.000 ebrei. 1921. Commissione d’Inchiesta Haycraft Nominata dal governo inglese in seguito ai disordini arabi nel maggio 1921 ritiene gli arabi responsabili dello scoppio della violenza ma individua la causa negli impegni pro-sionisti britannici. 1922. Mandato per la Palestina La Gran Bretagna assume l’amministrazione della Palestina e conferma il sostegno agli interessi sionisti. Il mandato è stabilito dalla Lega delle Nazioni per “i popoli non ancora in grado di auto -governarsi”. 1936. Rivolta araba contro il mandato inglese. 1937. Il governo inglese propone la divisione del territorio con la creazione a nord-ovest di uno Stato ebraico, l’unione della parte maggiore del paese alla Cisgiordania e una zona comprendente Gerusalemme e Jaffa sotto dominio britannico. Il piano viene rifiutato dai Sionisti e dagli arabi. Nuova sollevazione della popolazione araba, viene deportata la maggior parte dei leader politici. 1939. Il governo inglese dichiara di voler la convivenza pacifica tra ebrei e arabi e di non voler creare uno Stato ebraico contro il volere della popolazione araba. 1942-1945 Olocausto. Il Terzo Reich organizza la deportazione di massa e l’eliminazione della popolazione di fede ebraica, è la soluzione finale, che causa la morte di oltre sei milioni di ebrei. 1947. Una Commissione speciale delle Nazioni Unite propone di dividere la Palestina in uno Stato ebraico e uno arabo, mentre alla città di Gerusalemme dovrebbe essere concesso uno status internazionale. La risoluzione viene approvata: votano a favore Urss, Usa e Francia, ma gli Stati arabi votano contro; la Gran Bretagna, la Cina e altri si astengono. Il 29 settembre 1947, viene posto fine al mandato inglese e decisa la spartizione della Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico. 1948. Nasce il 14 maggio 1948 lo stato di Israele. Lo Stato d’Israele viene riconosciuto da Stati Uniti e Urss, seguiti dagli altri paesi. Tra arabi e israeliani è guerra. Migliaia di palestinesi vengono espulsi dalla loro terra. La Lega araba (Siria, Iraq, Egitto e Giordania) invade il nuovo stato il giorno stesso della sua nascita ma viene sconfitta. Viene fondata la Forza di Difesa d’Israele (IDF), che incorpora tutte le organizzazioni di difesa; nasce l’esercito di Israele (“Zhaal”). Il primo censimento conta una popolazione di 872.700 persone: 716.700 ebrei e 156.000 non-ebrei. Si assiste all’immigrazione di massa dall’Europa nel dopoguerra: cominciano ad arrivare ebrei anche dai paesi arabi. Negli anni 1948-52, arrivano 687.000 ebrei in Israele che raddoppia la sua popolazione ebraica. 1949. Israele: si svolgono le prime elezioni (25 gennaio); David Ben-Gurion viene eletto Primo Ministro, alla testa di un governo di coalizione. La prima Knesset (Parlamento) si riunisce a Gerusalemme. Chaim Weizmann viene eletto Presidente di Israele dalla Knesset. Lo stato di Israele viene accettato dalle Nazioni Unite come 59° membro. Gerusalemme, divisa tra Israele e

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Giordania, è dichiarata capitale. La Città Vecchia a Gerusalemme est passa sotto il controllo della Giordania, le parti occidentali e meridionali della città vengono controllate da Israele. 1950. La Legge del Ritorno Accorda agli ebrei la possibilità di trasferirsi in Israele e diventare cittadini israeliani. La Gran Bretagna riconosce lo Stato di Israele. In Egitto un colpo di Stato rovescia la monarchia e porta al potere il colonnello Gamal Abdel Nasser che invita i popoli arabi a unirsi per liberarsi dal dominio delle potenze occidentali. 1956 Seconda guerra arabo-israeliana. Nasser, il leader egiziano, nazionalizza il canale di Suez (che fin dalla sua apertura, nel 1896, apparteneva a una compagnia anglo-francese) e proibisce il transito delle navi israeliane. Francia e Inghilterra si accordano con Israele per punire l’Egitto e occupare il Canale. Successo militare delle truppe israeliane. Ma l’Urss minaccia il ricorso alle armi atomiche. Arriva la condanna dell’Onu e degli Usa, che costringono Francia, Inghilterra e Israele al ritiro. 1959 Yasser Arafat e Abu Jihad (Khalil al Wazir) fondano, Al Fatah, un movimento di guerriglia per la liberazione della Palestina da Israele. 1964. Olp Nasce L’Organizzazione di Liberazione della Palestina. 1967 Terza guerra arabo-israeliana. Il leader egiziano Nasser dichiara di voler chiudere il Canale di Suez alle navi che riforniscono Israele. Si intensificano le manovre militari arabe ai confini del paese. Israele reagisce con una guerra lampo, passata alla storia come “guerra dei sei giorni”. Le forze israeliane, comandate dal generale Moshe Dayan conquistano le alture del Golan al confine siriano, il settore arabo di Gerusalemme, il porto di Gaza e la penisola del Sinai. Gerusalemme viene ufficialmente riunificata sotto il controllo israeliano. 1968. L’Olp in un documento nega l’esistenza di Israele. Si intensificano gli attacchi terroristici dei palestinesi: dirottamento di un aereo del El Al da Roma ad Algeri. 1969. Golda Meir confermata Primo Ministro. Arafat diventa presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. 1971. Si crea il timore che l’Olp possa prendere il controllo della Giordania. L’esercito giordano scaccia l’Olp fuori dal Paese con un’azione violenta e sanguinosa. L’Olp si trasferisce in Libano. 1972. I terroristi di Settembre Nero entrano negli alloggi degli atleti a Monaco di Baviera dove sono in corso i Giochi Olimpici. Diciassette morti: undici tra gli atleti israeliani. 1973. Quarta guerra arabo-israeliana nota come “Guerra del Kippur”perchè iniziata nel giorno di digiuno più solenne dell’anno ebraico (il 6 ottobre). Egitto e Siria lanciano un attacco a sorpresa per riconquistare i territori perduti nella guerra precedente; l’attacco viene respinto con gravissime perdite umane e vengono ripristinati i confini del 1967. Interviene l’Onu che con la Risoluzione 338* chiede una sistemazione del conflitto Arabo-Israeliano sulla base della Risoluzione 242* del 1967. Il 22 ottobre cessano le ostilità in previsione di futuri negoziati che avrebbero affrontato i problemi del ritiro degli israeliani da tutti i territori occupati e della definitiva sistemazione dei profughi palestinesi. Nel mese di dicembre muore David Ben Gurion, considerato il padre dello Stato di Israele. 1974. 14 ottobre: L’ O.L.P. è invitato all’ONU come legittimo rappresentante del popolo palestinese. 13 novembre: Arafat parla alla tribuna dell’ONU. 1976. 30 marzo: i palestinesi di Israele organizzano la “Giornata della Terra”, la polizia israeliana reprime duramente e uccide 6 manifestanti. 1979. Accordi di Camp David. Egitto e Israele firmano alla Casa Bianca il trattato di pace dopo un lungo percorso avviato dal presidente Usa Jimmy Carter a Camp David nel 1978. Sadat e Begin riceveranno il premio Nobel per la pace.

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Il trattato mette formalmente fine allo stato di guerra tra i due Paesi. In cambio del riconoscimento egiziano del diritto all’esistenza di Israele, gli israeliani restituiscono all’Egitto la penisola del Sinai. I due Paesi stabiliscono formali relazioni diplomatiche. 1982. Libano Gli israeliani attaccano l’Olp a Beirut e nel Libano del Sud, come rappresaglia per gli attacchi sferrati per molti anni attraverso la frontiera dai guerriglieri. L’esercito israeliano invade il Libano e circonda Beirut, 16 settembre: Sabra e Chatila. Nella notte, miliziani falangisti (forze libanesi di destra in prevalenza cristiano-maronite) penetrano nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila e per 40 ore compiono massacri e violenze indescrivibili. Varie fonti, anche israeliane, parlano di 3.000/4.000 morti e scomparsi. Tutto avviene sotto la supervisione israeliana che illumina i campi a giorno e blocca tutte le vie d’accesso ai campi, sia per chi vuole scappare che per chi vuole entrare per scoprire cosa sta avvenendo. In Libano gli israeliani saccheggiano il Centro di ricerche palestinese, esportando o distruggendo 25.000 volumi e manoscritti, al fine di annientare non solo l’ OLP, ma qualsiasi segno dell’identità e della storia del popolo palestinese. A Tel Aviv 400.000 persone manifesteranno il loro sdegno per quello che l’esercito israeliano sta facendo in Libano. Il 28 settembre il governo Begin, che in principio nega ogni responsabilità israeliana nella strage di Sabra e Chatila, è costretto ad accettare la costituzione di una commissione d’inchiesta. 1983. 8 febbraio: la Commissione di inchiesta su Sabra e Chatila ammette le responsabilità israeliane, del Ministro della Difesa Sharon, del Comandante di Stato Maggiore Eytan e dello stesso Begin. Sharon verrà costretto a dimettersi, sotto la pressione dell’opinione pubblica israeliana, da Ministro della Difesa, ma manterrà un ruolo nel governo di Begin. 1987. l’Intifada I palestinesi che vivono a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme si rivoltano contro gli israeliani, è l’ “intifada”, la “rivolta”. L’Intifada rappresenta l’episdio di lotta palestinese più importante dalla rivolta del 1936/39. Il costo in vite sarà altissimo per i palestinesi: 700 morti e decine di miglia di feriti solo nei primi due anni e oltre 14.000 detenuti. Arafat proclama l’Olp come il governo in esilio di uno “Stato di Palestina”. 1988. L’Olp riconosce il diritto di Israele all’esistenza, ma le trattative di pace inizieranno nel 1991 1991. Si apre a Madrid, alla fine della guerra del Golfo, una conferenza di pace all’insegna di “pace in cambio di territori” ma destinata a fallire. L’Olp ne è formalmente esclusa, anche se propri uomini formano la metà della delegazione giordana. 1992, Oslo Trattative segrete tra Arafat e Peres spianano la strada agli accordi. 1993. La stretta di mano Shimon Peres e Yasser Arafat, accettano una “Dichiarazione di principi” (Oslo I) e un reciproco riconoscimento che prevede l’autogoverno palestinese ma tutti i veri nodi (colonie, liberazione dei detenuti politici palestinesi, gestione delle risorse d’acqua, confini del futuro Stato palestinese) vengono rinviati a colloqui “definitivi”, di cui non viene mai fissata la data. Il trattato fu sigillato sul prato della Casa Bianca il 13 settembre del 1993, con la storica stretta di mano tra Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. 1994. Due nuove sessioni di accordi (Parigi e Il Cairo), per trovare dei modi di applicazione della dichiarazione di principi del 1993. Il 5 maggio, al Cairo, viene firmato un primo accordo per l’autonomia di Gaza e Gerico. Il 13 maggio l’esercito israeliano lascia Gerico, quattro giorni dopo abbandona la striscia di Gaza. Israele e Giordania firmano la pace. A luglio Arafat entra a Gaza e fa prestare giuramento ai membri dell’Autorità palestinese che assume il controllo della politica nei campi dell’Istruzione, della Cultura, della Sicurezza sociale, del Turismo, della Salute e del Fisco. Rabin, Arafat e il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres ricevono il premio Nobel per la pace. 1995. Rabin assassinato A settembre Rabin e Peres firmano gli accordi, chiamati “Oslo II” per allargare le aree dell’autonomia palestinese.Tali accordi prevedono la divisione della Cisgiordania in tre zone: zona A, pari al 17,1% , sotto il pieno controllo civile e militare dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ; zona B, pari al 23%, sotto il controllo civile dell’ANP e il controllo militare congiunto di palestinesi e israeliani; zona C, pari al 59%, sotto il totale controllo israeliano . Non si attenua il clima di violenza degli elementi

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più radicali delle due parti. In novembre Rabin, primo ministro israeliano, assassinato da uno studente israeliano di Legge con collegamenti a gruppi estremisti di destra. 1996. Nelle prime elezioni della storia palestinese Yasser Arafat è eletto a stragrande maggioranza presidente. In Israele, nel frattempo, il leader del partito di destra Likud, Benjamin Netanyahy, sconfigge Shimon Peres. Nonostante gli impegni di Netanyahu e di Arafat per arrivare a un trattato definivo di pace, il governo israeliano consente la ripresa delle costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati. 1998. Gli accordi di Wye Mills Netanyahu e Arafat sottoscrivono un accordo a Wye Mills, in Maryland, con la mediazione del presidente americano Bill Clinton. L’accordo prevede lo scambio “terra contro pace”. Prevedeva la repressione dei gruppi terroristici, il ritiro parziale dell’esercito israeliano, il trasferimento del 14,2 % della Cisgiordania sotto il controllo palestinese, corridoi di libero passaggio tra Gaza e la Cisgiordania, la liberazione di 750 detenuti palestinesi e la costruzione di un aeroporto palestinese a Gaza. 1999. La vittoria di Barak Ehud Barak, vince con largo margine contro Netanyahu. A settembre Barak e Arafat firmano un accordo per attuare gli accordi di Wye Mills, Israele libera 200 detenuti palestinesi e comincia a passare il controllo di una parte della Cisgiordania ai palestinesi. I nuovi accordi di Sharm el Sheik “ridefiniscono” il calendario di Wye Mills, giungendo alla conclusione che il ridispiegamento ( e non il ritiro dell’esercito israeliano) dovrà avvenire non oltre il 13 settembre 2000. Questa data, come le altre stabilite, non sarà rispettata, e provoca frustrazioni dopo l’entusiasmo seguito alle intese raggiunte a Oslo. 2000.La seconda Intifada Per quindici giorni, nel mese di luglio, Barak e Arafat trattano a Camp David, residenza di montagna del presidente degli Stati Uniti. L’Olp ha fissato per il 13 settembre la proclamazione della nascita dello Stato palestinese (che poi verrà rinviata). Le trattative e la mediazione di Bill Clinton non portano all’accordo. E’ il fallimento di “Camp David II”. Le parti non sono disposte a cedere su punti ritenuti fondamentali: status di Gerusalemme e il rientro dei rifugiati palestinesi. A settembre Clinton tenta nuovamente di avvicinare le posizioni dei due leader. Il 28 settembre Ariel Sharon, all’epoca leader dell’opposizione al governo del socialdemocratico Ehud Barak, entra nella Spianata delle Moschee. Sharon sottolinea così il fallimento di Barak, che nel luglio non è riuscito a imporre ad Arafat la resa incondizionata. La reazione palestinese è immediata, la repressione anche. Si parla di “seconda Intifada”. A fine settembre i palestinesi a Gaza e nella Cisgiordania cominciano ad attaccare le forze militari israeliane con pietre e armi da fuoco. Moltissimi i morti, in larga maggioranza palestinesi, ma anche numerosi israeliani e arabi israeliani. Il linciaggio di due soldati israeliani a Ramallah provoca la reazione militare di Israele che bombarda alcune città palestinesi. Arafat, dopo il rifiuto opposto a Camp David, è costretto a cavalcare la rivolta. 2001 - L’inchiesta della Commissione dei diritti dell’uomo dell’Onu prevede il dispiegamento urgente di osservatori internazionali, veto degli Stati Uniti . George W. Bush chiede ad Arafat di far cessare la violenza in Medio Oriente per rendere possibile il dialogo con Israele. Gli Stati Uniti mettono in guardia Israele contro la tentazione di dare un carattere permanente alle incursioni militari nelle zone sotto il controllo palestinese, Colin Powell, il segretario di Stato americano, chiede ad Arafat di “fare tutto quello che può” per arrestare la violenza. Sharon afferma a Mosca che il leader palestinese costituisce “il principale ostacolo alla pace” e che i negoziati sono in questo momento impossibili. Dopo gli attentati a New York e Washington, Sharon afferma che Israele ha il suo Bin Laden nella persona di Arafat. 2002. Il 12 marzo 2002, il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva la Risoluzione 1397, in cui per la prima volta si parla esplicitamente di “una regione in cui due stati, Israele e Palestina, vivano fianco a fianco, all’interno di frontiere riconosciute e sicure”. La risoluzione chiede la fine immediata delle violenze e del terrorismo, la cooperazione fra le due parti per l’applicazione dei piani di pace “Tenet” e “Mitchell” ed esprime sostegno agli sforzi del Segretario generale e a chi cerca di aiutare le parti ad arrestare le violenze e a far ripartire il dialogo.

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Il Consiglio di sicurezza dell’Onu il 30 marzo approva la Risoluzione 1402 per il ritiro delle truppe israeliane dalle città palestinesi. 29 marzo: inizia l’ “operazione muro difensivo”; l’esercito israeliano invade Ramallah e circonda la Muqata, il quartier generale di Arafat, che rimane prigioniero. Comincia la rioccupazione militare delle città palestinesi. Strage a Jenin sulla quale non viene fatta nessuna chiarezza. 16 giugno: Israele comincia la costruzione del muro di separazione tra i territori dello stato israeliano e i territori palestinesi, che dovrebbe impedire ai kamikaze palestinesi di entrare in Israele. Questo progetto, più volte condannato dall’Onu e dall’Unione Europea, dovrebbe correre sulla linea dei confini dettati dai trattati del 1967, in realtà si infiltra nei territori palestinesi, erodendo altra terra. Dicembre: il Quartetto (Europa, USA, Russia, ONU) elabora la cosiddetta Road Map, un percorso che dovrebbe portare a un assetto definitivo di Israele e Palestina. Anche questo percorso non decollerà mai. 2003 - 19 marzo: Arafat, sotto pressioni internazionali, propone di nominare Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen) primo ministro. Novembre: Accordi di Ginevra. Elaborazione di una proposta di pace da parte di un gruppo di intellettuali israeliani e palestinesi per una risoluzione pacifica del conflitto, nel tentativo di dimostrare che un accordo equo è possibile. 2004 - 11 novembre: morte di Arafat a Parigi 2005 - 9 gennaio: elezioni presidenziali palestinesi. Abu Mazen viene eletto con il 62,5% dei voti. 8 febbraio: summit Abu Mazen-Sharon a Sharm el-Sheik dove si proclama la fine delle violenze tra israeliani e palestinesi. La costruzione del muro di separazione continua. 22 agosto: si conclude lo smantellamento delle colonie nella Striscia di Gaza, deciso unilateralmente da Sharon. L’esercito di Tel Aviv sgombera con la forza i coloni israeliani e lascia l’amministrazione del territorio ai palestinesi. Questa operazione apre una ferita non rimarginabile tanto da portare alla scissione del LIkud. La destra israeliana perde la sua guida storica, Ariel Sharon, che , assieme a Simon Peres e a molti transfughi del Likud e dei laburisti, fonda il partito Kadima (Avanti). I sondaggi danno per sicuro vincitore alle prossime elezioni politiche israeliane Ariel Sharon che invece esce di scena perché colpito da ictus. 2006 - 25 gennaio: elezioni politiche in Palestina, svolte democraticamente secondo gli osservatori internazionali. Schiacciante vittoria di Hamas, il partito islamico, che ottiene 76 seggi su 132. Ismail Haniyyeh è primo ministro. L’impegno nel sociale di Hamas ha sconfitto la corruzione di Fatah. Il governo di Hamas ha vita breve, dato che viene boicottato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti che sospendono gli aiuti economici ai palestinesi. A sua volta Israele smette di versare il ricavato delle tasse import-export che raccoglie a nome dei Palestinesi. Israele sostiene Abu Mazen, sia apertamente che sottobanco, fornendo armi alle forze di Fatah e liberandone i prigionieri, mentre all’opposto i deputati eletti di Hamas vengono arrestati. 28 marzo: elezioni in Israele. Vittoria sotto tono del nuovo partito Kadima, Olmert è primo ministro. Estate: riprendono le incursioni e i bombardamenti su Gaza. La situazione economica della popolazione palestinese è disperata. Giugno: Hamas cattura, al confine con la Striscia, il caporale Gilad Shalit. Israele rifiuta di barattarne la liberazione con quella di tutti i ragazzi e le donne palestinesi detenuti, come proposto da Hamas. 12 luglio: guerra in Libano. Hezbollah cattura due soldati israeliani che stavano perlustrando in territorio libanese. Israele inizia l’offensiva militare, bombardando il sud del Libano e la città di Beirut. 11 agosto. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni UNite vota all’unanimità la Risoluzione 1701 per l’immediata cessazione delle ostilità. Il conflitto cessa il 12 agosto. 2007: 8 febbraio: Mecca. Con la mediazione del sovrano saudita Abdallah, Hamas e Fatah raggiungono un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale. Giugno: la crisi inter-palestinese continua però ad aggravarsi fino a sfociare in scontri aperti che culminano con la conquista della Striscia di Gaza da parte di Hamas, mentre in Cisgiordania Fatah accusa il partito islamico di aver fatto un colpo di Stato. Abu Mazen costituisce un governo di emergenza, guidato da Salam Fayyad, e ritira le sue truppe da Gaza che rimane sotto il controllo completo di Hamas. Nei mesi successivi Israele dichiara Gaza “entità nemica” e stringe la Striscia sotto un durissimo embargo, impedendo l’apertura dei valichi, compreso quello di Rafah al confine con l’Egitto. Novembre: Conferenza di Annapolis (Maryland). Israele e l’ Autorità Palestinese di Abu Mazen e del premier Salam Fayyad iniziano colloqui di pace con la supervisione degli Usa. Le trattative però procedono con estrema difficoltà per l’indisponibilità di Israele a discutere i temi chiave del conflitto: lo status della Palestina, di Gerusalemme e quello dei profughi. Non solo, Israele prosegue imperterrito la costruzione e l’ampliamento delle colonie in Cisgiordania allo scopo di creare situazioni di fatto sul terreno che così non potranno essere coinvolte nella trattativa. Le proteste in questo senso della

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Segretario di Stato Usa, Condoleeza Rice, rimangono inascoltate, mentre le concessioni israeliane a Abu Mazen si limitano alla liberazione di alcuni detenuti con pene in scadenza e di militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, a condizione che rinuncino alla lotta armata. I colloqui di Annapolis, che promettevano di portare alla nascita di uno Stato palestinese entro la fine del 2008, non avranno alcun seguito. Il premier israeliano Holmert è coinvolto in guai giudiziari per corruzione, la ministra degli Esteri Tzipi Lvni prende il controllo di Kadima e la scadenza dei colloqui di Annapolis diventa impossibile da rispettare, tutto slitterà al 2009, dopo le elezioni in Israele e la fine del mandato di Abu Mazen. 2008: Gennaio: il durissimo embargo su Gaza spinge Hamas a distruggere tratti della barriera di confine per consentire alla popolazione di entrare in massa in Egitto per procurarsi generi di prima necessità. 19 giugno: Israele e Hamas siglano una tregua di sei mesi. Il lancio di razzi verso il sud del territorio israeliano cesserà in cambio della riapertura dei valichi della Striscia di Gaza. E’ una tregua interrotta da diversi raid israeliani attuati per compiere omicidi mirati di miliziani e da sporadici lanci di razzi da parte di milizie non direttamente legate ad Hamas. Nel frattempo i confini della Striscia vengono aperti solo di rado e la popolazione di Gaza continua ad impoverirsi, sfiorando in più periodi un’autentica crisi umanitaria. Novembre/dicembre: corpi speciali israeliani compiono piccoli attacchi dentro la Striscia, provocando la reazione di Hamas che, allo scadere della tregua, il 18 dicembre, riprende il lancio di razzi, lasciando intendere la disponibilità a concordare una nuova tregua se Israele aprirà i valichi e permetterà agli aiuti umanitari di entrare. 27 Dicembre. Israele lancia a sorpresa l’offensiva “Piombo Fuso”. La Striscia di Gaza viene bombardata per cinque giorni continuativi e successivamente viene invasa dall’esercito israeliano. 2009: 18 Gennaio. Israele dichiara una tregua unilaterale.Nei 20 giorni di bombardamenti e incursioni a Gaza sono morte 1335 persone e ci sono stati più di 5000 feriti.

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Risoluzione Onu 242 : Il Consiglio di sicurezza condanna l’acquisizione di territorio tramite la guerra e chiede “il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati”, afferma l’ “inviolabilità territoriale e l’indipendenza politica” di ciascuno stato della regione. Risoluzione Onu 338 : Il Consiglio di sicurezza chiede l’immediato cessate il fuoco ad entrambe le parti in conflitto e stabilisce che,” immediatamente e contemporaneamente al cessate il fuoco, avranno inizio i negoziati fra le parti interessate sotto gli auspici appropriati, volti a stabilire una pace equa e duratura in Medio Oriente”. Risoluzione Onu 1397: Il Consiglio di sicurezza chiede la “cessazione immediata di tutti gli atti di violenza, ivi compresi gli atti di terrore e qualsiasi tipo di provocazione, incitamento e distruzione” e reclama una cooperazione tra israeliani e palestinesi in vista della ripresa dei negoziati. Risoluzione Onu 1402: Dopo l’ulteriore e totale occupazione della Cisgiordania, il Consiglio di sicurezza chiede un “immediato cessate il fuoco e il ritiro delle truppe israeliane dalle cittàpalestinesi”.

______________________________________________________________________________ VITTIME • • •

Le guerre tra Israele e i Paesi arabi confinanti (1948-1973) hanno causato la morte di 100.000 persone. La prima Intifada (1987-1992) ha causato la morte di 2.000 persone in massima parte palestinesi. Dall’inizio della seconda Intifada (28 settembre 2000) al 18 febbraio 2009 hanno perso la vita 6.650 palestinesi e 1.096 israeliani, altre vittime 79.

(Fonti: www.peacereporter.net e Internazionale n.783/200

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Bibliografia Letteratura palestinese * Ainbinder Odelia, Rifa’i Amal, Vogliamo vivere qui tutt’e due, Milano, Tea, 2003 * Al-Khatib Yusuf, Ritornerà con l’estate, ( 1977), in Isabella Camera d’Afflitto( a cura), Narratori arabi del Novecento, Milano, Bompiani,1994 * Amery Suad, Sharon e mia suocera, Milano, Feltrinelli, 2003 * Amery Suad, Se questa è vita, Milano, Feltrinelli, 2005 * Azzam Samira, Ancora un anno, e Destino, in Isabella Camera d’Afflitto (a cura), Narratori arabi del Novecento, Milano, Bompiani,1994 * Azzam Samira, Zagharid, in “ Linea d’ombra”,1991 * Azzam Samira, Palestinese! e altri racconti, a cura di Wassim Damash, Roma, Q ,2003 * Bannurah Gamal, Intifada, Racconti, “Bollettariolibri”, 1992 * Blasone Pino, Di Francesco Tommaso (a cura), La terra più amata. Voci della letteratura palestinese, introduzione di Luce d’Eramo, Roma, Il Manifesto, 1988, edizione aggiornata, 2002 * Camera d’Afflitto Isabella ( a cura), Narratori arabi del Novecento, Milano, Bompiani, 1994 * Camera d’Afflitto Isabella, Letteratura araba contemporanea: dalla nahdah a oggi, Roma, Carocci, 1998 * Chedid Andrée, La casa senza radici, Milano, E/O, 2002 * Colombo Valentina (a cura), Antologia di scrittrici arabe contemporanee, Milano, Oscar Mondadori, 2005 * Dahmash Wassim (a cura ), Palestina fiabe, Roma, Il Manifesto, 1990 ( 2002 ) * Darwish Mahmud, Una memoria per l’oblio, Roma, Jouvence, 1987 * Darwish Mahmud, Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine?, a cura di Lucy Ladikoff, Genova, Editrice San Marco dei Giustiniani, 2001. Testo arabo a fronte * Fathi Makbul (a cura), Fadwa Tuqan attraverso le sue poesie, Roma, Centro Culturale Arabo, 1982 * Genet Jean, Palestinesi, Roma, Stampa Alternativa, 2002 * Ghazy Randa, Sognando Palestina, Milano, Fabbri, 2002 * Giabra Ibrahim Giabra, La nave, Roma, Jouvence, 1994 * Giabra Ibrahim Giabra, I pozzi di Betlemme, postfazione di Wassim Damash * Habibi Emil, La porta di Mandelbaum, in Camera d’Afflitto Isabella (a cura), Narratori arabi del Novecento, Milano, Bompiani, 1994 * Habibi Emil, Il Pessottimista, Un arabo d’Israele, Milano, Bompiani, 2002 * Itab Hassan, La tana della iena, Roma, Sensibili alle foglie, 1991 * Jebreal Ruba, La strada dei fiori di Miral, Milano, Rizzoli, 2004 * Kanafani Ghassan, Ritorno ad Haifa. La madre di Saad, Salerno-Roma, Ripostes, 1990; Roma, Edizioni del Lavoro, 1995 * Kanafani Ghassan, Uomini sotto il sole, Palermo, Sellerio, 1991

  81

* Kanafani Ghassan, Se tu fossi un cavallo, Roma, Jouvence, 1994 * Kanafani Ghassan, La terra delle arance tristi ( 1963), e Solo dieci metri ( 1965), in Camera d’Afflitto Isabella ( a cura), Narratori arabi del Novecento, Milano ,Bompiani , 1994 * Kanafani G.,Habibi E. ,Bsisu M., Palestina. Dimensione teatro, Salerno-Roma, Ripostes, 1984 * Kanafani G., Habibi E., Fayyadt T., Palestina. Tre racconti, Salerno- Roma Ripostes, 1984 * Khalifa Sahar, La svergognata. Diario di una donna palestinese, Firenze, Giunti, 1989 * Khalifa Sahar, La porta della piazza, Roma, Jouvence, 1994 * Kalifa Sahar, Terra di fichi d’india, Roma, Jouvence, 1996 * Kashua Sayed, Arabi danzanti, Parma, Guanda , 2003 * Kashua Sayed, E fu mattina, Parma, Guanda, 2005 * Khoury Elias, La porta del sole, Einaudi 2004 * Mu’in Bsisu, Poesie sui vetri della finestra, Roma, Stampa ITER, 1982 * Munif Abd Al-Rahman, Gli alberi e l’assassinio di Marzuq, Nuoro, Ilisso, 2004 * Nasrallah Ibrahim, Dentro la notte. Diario palestinese, traduzione e postfazione di Wasim Dahmash, Nuoro, Ilisso, 2004 * Palestina. Poesia, Palermo Lapalma, 1992, presentazione di B. Scarcia Amoretti * Poesia dell’Islam, a cura di Gianroberto Scarcia, Palermo, Sellerio, 2004 * Sa’dallah Wannus, I giorni ebbri, Roma, Edizioni Q, 2006 * Salman Natur, Memoria, Roma, Edizioni Q, 2008 * Samih Al-Qasim, Versi in Galilea, Roma, edizioni Q, 2006 * Salem Salwa, Con il vento nei capelli, Firenze, Giunti, 1994 * Shammas Anton, Arabeschi, Milano, Mondadori, 1990 * Souss Ibrahim, Lettera ad un amico ebreo, Milano, Tranchida, 1990 * Souss Ibrahim, Le rose dell’ombra, Milano, Tranchida, 1991 * Souss Ibrahim, Lontano da Gerusalemme, Tranchida, Milano,1994 * Souss Ibrahim, Le rondini di Gerusaleme, Milano, Tranchida , 2002 * Tawfiq Fayyad, Sestina dei sei giorni, in Palestina. Tre racconti, Salerno-Roma, Ripostes, 1984 * Tawfiq Fayyad, I casi della vita, in Palestina. Dimensione teatro, Salerno- Roma Ripostes, 1985 * Tawfiq Fayyad, Selim lo scemo, Salerno-Roma Ripostes, 1990 * Tawfiq Fayyad, Peccati dimenticati, Venezia, Marsilio, 1997 * Tawfiq Younis (a cura), Lo specchio degli occhi. Le donne arabe si raccontano, Torino Ananke, 1998 * Yakhlif Yahya, Il sogno, ( 1974), in Camera d’Afflitto Isabella( a cura), Narratori arabi del Novecento, Milano, Bompiani,1994

  82

INDICE Dire la verità è denunciare l’occupazione israeliana Donne in Nero, una rete internazionale di donne contro la guerra Gaza: non c’è pace senza giustizia La guerra di Gaza (mappa)

2

Samih Al-Qasim, I bambini di Rafah (poesia)

9

5 6 8

Voci palestinesi: 11

1. Morirò anch’io? – lettera di Nour Kharma 2. Le prossime generazioni di oppressi – lettera aperta da Nablus - di Raed Debie

12

3. La morale dei cacciabombardieri – lettera da Ramallah - di Mustafa Bargouti

14

Appello – Call for action - di Mustafa Bargouti

18

4. Che cosa ha fatto Israele? - di Eduard W. Said

20

Voci israeliane contro l’occupazione: 1. Marcia dei folli - di Uri Avnery 2. Israele è l’occupante. Il resto è menzogna – intervista a Michel Warschawski

24

3. Un grido per fermare lo spargimento di sangue – di Yvonne Deutsch

31

4. Io, artigliere, ho usato il fosforo bianco – di Simcha Leventhal

34

5. Una ricontestualizzazione del conflitto israelo-palestinese – di Jeff Halper

35

28

Voci di ebrei/e della diaspora: 1. Ascolta, ascolta Israele! – di Stefano Sarfati Nahmad

36

2. Alla mia famiglia israeliana – lettera di Rina Nissim

37

Capire la catastrofe di Gaza – di Richard Falk Più la menzogna è grande... – di Dominique Vidal

39

Petizione universale

46

42

  83

Le principali questioni del conflitto israelo-palestinese La perdita di terra palestinese dal 1946 al 2007 (mappa)

47

Piano di spartizione della Palestina del 1947 e Spopolamento dei villaggi

49

48

palestinesi nel 1948 e nel 1967 (mappe) Aspettami! – poesia di Samith Al-Qasam Dichiarazione di rifiuto del soldato Omri Evron Cisgiordania e Gaza. Accordi di Oslo e successivi sviluppi: 1993-2000 (mappa)

50

Land in dispute (mappa cronologica) La questione dei rifugiati Palestinian Refugees – Area of UNRWA Operations (mappa) Territori occupati: colonie e avamposti israeliani in Cisgiordania

53

Settlements Established and Evacuated 1967-2008 (mappa) Checkpoint nei territori palestinesi occupati

58

Mappa percorso israeliano/percorso palestinese

60

Avanzi di Palestina nella morsa di Israele (mappa)

61

Il muro

62

Il muro della separazione (mappa)

63

Il muro: immagine Gerusalemme

64

Israeli ring road around occupied East Jerusalem (mappa) Esempio di insediamento a Gerusalemme Est Conseguenze dell’occupazione sulla vita dei Palestinesi

66

Prigionieri palestinesi

70

I detenuti bambini Il problema dell’acqua Water Sources (mappa) Cronologia Israele-Palestina

71

Bibliografia essenziale Bibliografia Letteratura palestinese

80

51 52

54 55 56

59

65

67 68

72 73 74

81

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