Dispense Corso Biennale Aromaterapia e Massaggio Dispensa 1
Definizioni Storia Aromaterapia e CAM
Definizioni: olii essenziali
Non esistono definizioni legalmente vincolanti di OE, nè definizioni univocamente accettate, oggettive, di cosa costituisca un OE per utilizzo terapeutico. Questa mancanza di standard risulta problematica per il consumatore, sia primario sia secondario (terapeuta e semplice acquirente), perché non permette una facile distinzione tra materiali prodotti secondo standard terapeutici e materiali prodotti secondo standard di profumeria o altro. La mancanza di una definizione legale deriva in parte dalla difficoltà di dare una definizione stringente di OE. Ovvero, esistono varie possibili definizioni di olio essenziale, ma nessuna sembra essere perfettamente adeguata: alcune si basano su una descrizione di tipo chimico, altre li descrivono dal punto di vista botanico, altre ancora si basano su descrizioni del processo industriale. Mi pare istruttivo partire dalla definizione che sembrerebbe più esatta, ovvero quella che parte dalla descrizione chimica degli OE. Un OE è una complessa mistura di composti organici profumati estratta dalle piante aromatiche, caratterizzata chimicamente dalla classe dei terpeni (classe assente solo in rari casi, come nell’olio di mandorla amara), ma che comprende anche altri gruppi di composti, in particolare i derivati del percorso dell’acido shichimico come fenoli ed eteri fenolici, ed altri gruppi minori come i composti azotati, quelli contenenti zolfo, ecc. I terpeni normalmente presenti negli olii essenziali sono mono e sesquiterpeni, anche se raramente si possono riscontrare anche dei diterpeni. Insieme ai terpeni troviamo i loro derivati, come esteri, alcoli, aldeidi, chetoni, acetati, ecc. Il problema della definizione di tipo puramente chimico è che in realtà essa non è una definizione ma solo una descrizione di una miscela complessa, nella quale le relative percentuali di composti non sono fisse ma molto mobili, e dipendenti sia da fattori relativi alla pianta (botanici, pedoclimatici) sia relativi alla processazione (tempo di raccolta, essicazione, estrazione). Mentre per gruppi chimici perfettamente identificati (alcaloidi, tannini, ecc.) la descrizione chimica completa può coincidere con la definizione, questo non succedere per gli olii essenziali. Potremmo allora tentare la definizione di tipo botanico, ovvero definire gli olii essenziali come un prodotto odoroso del metabolismo della pianta, dipendente dalle caratteristiche della specie e dell’individuo, con specifiche funzioni metaboliche e di relazione ecologica (attrazione, difesa, ecc.) e sempre in cambiamento, mai definito nella sua composizione chimica in maniera fissa. Questa definizione ci avvicina alla complessità del prodotto che trattiamo, ma anche essa non è sufficiente. Infatti l’olio essenziale come prodotto non corrisponde perfettamente al contenuto in molecole odorose (l’essenza) della pianta aromatica; gli OE non contengono ad esempio le molecole odorose eccessivamente pesanti, che non possono essere estratte con la distillazione, o quelle eccessivamente leggere, che si possono perdere per evaporazione durante la distillazione, o quelle idrosolubili, che si solubilizzano nell’idrolato, o quelle che non sono in forma libera (ad esempio i terpenoidi in forma glicosidica), ecc. Ovvero, come specificato più sopra, la composizione dell’olio essenziale come prodotto finale, dipende anche da parametri di tipo industriale (come è stata effettuata l’estrazione).
Sembra quindi che una definizione di tipo procedurale sia la migliore, poiché tiene conto della variabilità intrinseca della essenza della pianta, evita il problema di una definizione chimica stringente, e tiene in conto del ruolo selettivo delle stesse procedure estrattive. L’olio essenziale può essere allora definito come un estratto fitochimico selettivo che non seleziona un prodotto puro, chimicamente definito, con formula caratteristica, bensì una miscela di prodotti isolati in proporzioni molto variabili che condividono un simile comportamento fisico nelle condizioni date, cioè che sono (nel caso di OE da distillazione in corrente di vapore) volatili nelle condizioni normali, o per lo meno con una pressione di vapore significativa sotto ai 150oC, e che sono contemporaneamente insolubili/poco solubili in acqua. Nel caso degli OE ottenuti per spremitura delle scorze degli agrumi, essi saranno caratterizzati solo dalla loro liposolubilità. E’ quindi l’operazione di estrazione, il filtro posto nella trasformazione, a definire l’olio essenziale. Un buon esempio è proprio la buccia d’arancia: a seconda che io la distilli o la sprema, ottengo sempre una “essenza” di buccia di arancia, sempre un metabolita della pianta, ma con grosse differenze di tipo chimico. Ma quali saranno allora le procedure di produzione accettabili per definire un olio esseniale? Ricercando nelle definizioni ufficiali troviamo prima di tutto gli standard ISO e AFNOR (NF T 75-006 ottobre 1987), secondo i quali un OE è: "un prodotto ottenuto a partire da una materia prima vegetale, sia per distillazione con vapore, sia con dei processi meccanici a partire dall'epicarpo dei Citrus, sia per distillazione a secco. L'olio essenziale è poi separato dalla fase acquosa per mezzo di processi fisici" Molti autori e aromaterapeuti sono in fondamentale disaccordo con l'inclusione della distillazione a secco tra le metodiche permesse per la produzione di OE. Gli olii ottenuti con questo metodo contengono livelli molto elevati d’artefatti (fenoli, benzo-pireni, catrami) originati dalla distruzione termica dei tessuti vegetali. Quest’inclusione non sembra essere quindi nello spirito di cosa idealmente rappresentano gli OE per gli utenti finali: principi aromatici isolati provenienti dal metabolismo secondario delle piante ed immagazzinati in strutture specializzate, isolati dalla massa vegetale con minime alterazioni causate dall'intervento umano (vedi capitolo strutture secretorie). La definizione adottata dal Geneva Congress for the Suppression of Fraud (Congresso di Ginevra per la soppressione delle frodi) pur essendo più generica, sembrerebbe più vicina alle nostre esigenze: "Gli olii essenziali sono il prodotto esclusivo dell'estrazione dei principi aromatici contenuti nelle sostanze d’origine vegetale delle quali portano il nome" Implicita in questa definizione è l'esclusione di prodotti che contengano molecole che non fossero già parte della frazione aromatica contenuta nella pianta. D'altro canto questa definizione non specifica i processi attraverso i quali è legittimo ottenere OE (per distinguerli da, ad esempio, assolute), ed esclude in realtà artefatti della distillazione che sono sempre presenti negli OE. Altre due definizioni che provengono dal mondo dell'aromaterapia ci danno qualche indicazione in più. Secondo Balacs & Tisserand (1995, p.7): "Gli olii essenziali sono i composti organici e volatili del materiale vegetale aromatico che contribuiscono al sapore e all’odore,…estratti per distillazione o per spremitura a
freddo….Un olio essenziale non dovrebbe avere nessuno dei suoi componenti rimosso ne alcuna sostanza aggiunta " E secondo l'ATC (Aromatherapy Trade Council) (ATC (996a): "Un olio essenziale è un composto aromatico e volatile usualmente estratto per distillazione o spremitura da una specie botanica singola. Una volta che il processo principale di distillazione o spremitura sia stato completato niente dovrebbe essere aggiunto" Alla luce di queste definizioni e delle manchevolezze di quelle già viste sopra, una definizione più stringente potrebbe essere la seguente. Un OE è: “un prodotto volatile della estrazione tramite distillazione in corrente di vapore, idrodistillazione o idrodiffusione di materiale vegetale aromatico, o un prodotto della spremitura dell'epicarpo dei frutti del genere Citrus, sempre proveniente da una singola specie botanica, senza alcuna sostanza aggiunta e senza alcuna componente rimossa 1. In pratica poi, certi "OE" vengono anche prodotti con la distillazione di oleoresine e assolute”. Un OE non è: “un materiale estratto con solventi (i solventi includono biossido di carbonio, benzene, toluene, acetone, etanolo, esano ecc.), un prodotto della distillazione molecolare o un prodotto ottenuto tramite distillazione secca o distruttiva”. Il termine OE non può essere perciò applicato agli estratti tramite CO2 supercritica. Sfortunatamente alcuni prodotti in commercio sono stati chiamati OE quando in realtà sono tutt'altro, come resine, assolute, resinoidi, ecc.
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Questo limite, che dovrebbe servire ad evitare le manipolazioni degli OE, è troppo rigido, poiché nella realtà vi sono sempre delle piccole pratiche di modificazione dell’OE post-produzione che non sempre sono classificabili come adulterazioni (la dementolizzazione delle mente, alcuni processi di purificazione per eliminare odori empireumatici, l’eliminazione di una percentuale di aldeidi in alcuni OE di eucalipto, ecc.)
Cenni storici sull'aromaterapia Alla domanda “quando è nata l’aromaterapia” è difficile rispondere senza prima chiarire di cosa si stia parlando. Se cioè stiamo parlando della storia dell’aromaterapia, della storia degli olii essenziali (OE) o della storia delle piante aromatiche. L'utilizzo degli OE a scopo terapeutico ha una storia relativamente breve. E’ improbabile che la distillazione in corrente di vapore fosse disponibile prima di 1000 anni fa, e certamente gli OE non vennero apprezzati come prodotti interessanti se non dolo il 13 secolo. Addirittura, il termine aromaterapia (aromatherapie) è un termine moderno, creato negli anni venti dal chimico francese Gatefossé, ed era limitato all'uso antinfettivo - antibatterico degli OE, a livello locale per le ferite di guerra ed a livello sistemico per infezioni più generalizzate. L'uso degli OE nel massaggio, e l'approccio “psicologico” che spesso lo caratterizza, sono uno sviluppo degli anni '70, particolarmente in voga nei paesi anglosassoni ed esportato negli ultimi anni (per cui l’aromaterapia é sempre intesa, in Inghilterra, come una terapia di massaggio, mentre in Francia é intesa come una branca della fitoterapia). Il voler applicare questo termine e questi utilizzi "a posteriori" alla medicina antica è anacronistico, per cui sembra inappropriato parlare dell’aromaterapia come di una pratica antica, ed il legarla alle origini della medicina. Se la storia della aromaterapia è relativamente breve, la storia dell’utilizzo delle piante aromatiche è invece molto antica. L’utilizzo delle piante medicinali in varie forme rappresenta, insieme alla medicina magico-spirituale e alla dietetica, uno dei primi metodi terapeutici di cui troviamo menzione negli scritti antichi o nell’antica iconografia. Dato che è probabile che molte delle piante medicinali siano state utilizzate nel passato proprio per la caratteristica di emanare un forte aroma, è giustificato ed utile parlare di quest’utilizzo. Le informazioni che abbiamo sulle piante aromatiche sono sicuramente rilevanti per lo studio degli OE, ma è altrettanto importante operare dei distinguo: l’utilizzo di piante aromatiche non può essere paragonato all’utilizzo d’OE; molte delle proprietà delle piante in questione risiedono, infatti, nelle porzioni non aromatiche o nel fitocomplesso. Non dimentichiamoci che gli OE rappresentano una porzione limitata del profilo chimico di una pianta aromatica, e che al contrario di quanto spesso viene divulgato, essi non rappresentano l’essenza della pianta. Inoltre, quand’anche fosse possibile legare le pratiche contemporanee ad una scienza antica, è necessario intendersi sul significato di tale legame. In parte questo problema è quello della definizione di “scienza” in senso lato, ovvero di cosa dobbiamo intendere quando parliamo di scienza antica/tradizionale. A seconda di come rispondiamo a questa domanda, e in genere alla domanda su cosa sia la scienza, sarà molto diverso il ruolo che potremo dare ai concetti della medicina antica. Se diciamo, con atteggiamento presentista, che scienza antica è tutto ciò, ogni idea, scoperta o metodo che ha preceduto la scienza moderna ed è sopravvissuto in essa, ci basiamo in realtà su analogie che spesso si rivelano meno solide e meno pertinenti quanto più le guardiamo da vicino, perché dimentichiamo che il trovare delle anticipazioni (il processare delle urine degli antichi medici cinesi come prefigurazione del lavoro del moderno biochimico sugli ormoni steroidei) non è un mero atto di riconoscimento passivo, ma piuttosto un caso di costruzione attiva di analogie, interessanti e significative se va bene, de-
boli se va male. E si badi bene che questa riduzione è presente sia in campo biomedico, che crede così di poter riconoscere delle “invarianti scientifiche” nel passato, e di rigettare tutto il resto come “falso”, sia nel campo delle CAM, che la utilizzano per rivestire la conoscenza passata del camice scientifico, magari dicendo: “lo avevano capito secoli fà”. Se invece definiamo la scienza antica come tutto il pensiero astratto e sistematico, (dove per astratto intendiamo non solo il definire concetti su un piano più generale di quello delle esperienze sensuali concrete, ma anche il ricercare oggettive forze guidanti il cambiamento della natura all’interno della natura stessa piuttosto che, come fanno religione e la magia, cercare spiegazioni in termini di emozioni o di volontà consapevole), allora la nostra esplorazione della scienza antica prende la forma di una ricostruzione di quali idee, e di quale tipo, si sono sviluppate, come sono collegate, come è cambiata la loro corrispondenza con la realtà e quali delle loro possibili conseguenze sono in effetti emerse nel corso del tempo. Una ricostruzione di questo tipo è quindi più interessata al processo attraverso il quale si è giunti ad un risultato finale piuttosto che al risultato stesso, o meglio, pretende di caratterizzare tale risultato con il processo che gli ha dato forma, per evitare confronti per analogia piuttosto che per omologia. E questa modalità rifiuta esplicitamente una tendenza antimoderna spesso presente nelle CAM, ovvero lo studio della tradizione come rifugiarsi in un passato idealizzato e cristallizzato, come nostalgia dell’età dell’oro vista come fonte “originaria” di un significato perso dalla modernità, un significato da ritrovarsi ripercorrendo la storia all’indietro “per trovare laggiù, in scrigni ben serrati, di cui solo alcuni detengono le chiavi, quei tesori illuminanti il senso della nostra storia e della nostra vita”. Ma “essere più vicini alla fonte non significa custodire qualcosa di ”originario”, ma essere semplicemente all’inizio di un processo: la storia, che si compie facendosi, e non abolendola dissetandosi alla fonte. (..) Solo il rifiuto del mondo che viviamo può far ritenere che il mondo antico ... disponga di segni più veri. Ma rifiuto e nostalgia sono i moti dell’anima di chi disabita il mondo che per sorte si trova ad abitare, non sono certo criteri di giudizio, nè tantomeno sentieri di verità” (Galimberti 1999).
La preistoria degli olii essenziali Per scoprire quale ruolo possano gli olii essenziali avere ricoperto nella medicina umana dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, a quando le Angiosperme fecero la loro comparsa nel mondo e portarono ad una rivoluzione chimica. L’avvento di questo gruppo di piante portò alla produzione di una panoplia di composti chimici di difesa che le piante utilizzavano in mancanza di strategie di attacco e difesa dinamiche proprie degli animali. Nella continua rincorsa di risposte e controrisposte palleggiate tra piante e predatori, le Angiosperme furono “costrette” ad adottare difese più sofisticate, e circa 60 milioni di anni fa, con le prime angiosperme legnose, vediamo la nascita dei primi oli essenziali, caratterizzati da fenoli e derivati; in seguito il passaggio alle erbacee porta ad uno spostamento dal percorso dell’acido shichimico a quello dell’acido mevalonico, più duttile e con maggiori potenzialità di diversificazione. Gli oli essenziali si arricchiscono quindi in composti terpenici, meno tossici per la pianta, e nascono i lattoni mono e sesquiterpenici.
Il modello coevolutivo I nostri antenati, secondo l’ipotesi antropologica attualmente più accreditata, erano onnivori-foliovori, nel senso che avevano una decisa preferenza, certamente ispirata dalla necessità, per le piante ed in particolare per le foglie. E’ molto probabile che l’uomo preferisse sempre cibo denso in energia e povero di composti tossici (carne, tuberi, frutta) piuttosto che foglie; d’altro canto tuberi e frutti non sono disponibili tutto l'anno e sono più difficili da scovare, mentre le foglie sono più facilmente sfruttabili perché sono sempre presenti su tutto il territorio antropizzato, ed è probabile che siano sempre stati parte della dieta, oltre ad essere un “salvavita” in caso d'emergenza. Questa forzata “convivenza alimentare” con le piante ci ha costretti a confrontare molteplici messaggi chimici (spesso difensivi e quindi tossici) ai quali è stato necessario fornire delle risposte, cioè adattarsi, in qualche modo co-evolversi con essi e con le piante che li contenevano. La tesi qui sostenuta è che l’adattamento ha fatto sì che le proprietà che rendevano le piante tossiche o non commestibili (limitando le possibilità di alimentazione dell’uomo) siano le stesse che le hanno rese attive a livello farmacologico (rappresentando quindi un fattore di promozione della salute). La nostra specie, nell'adattarsi alle tossine delle piante, le ha portate ad essere una parte essenziale della nostra ecologia interna, le ha “introiettate” facendo sì che non ci danneggiassero (o almeno non ai livelli ai quali le ingeriamo) ma anzi che potessero esserci utili. Quindi è ipotizzabile che il nostro organismo possieda già, inscritta nella sua biologia, la storia dell’incontro con gli olii essenziali, che quindi sia sensibilizzato ad avvertire la loro presenza e sia almeno parzialmente adattato alla loro tossicità. Sembra cioè biologicamente logico che le piante aromatiche possiedano una elevata “salienza percettiva” Ed infatti è arduo pensare ad una classe di piante che abbia accompagnato l’uomo da più tempo, che abbia segnato la sua storia in maniera più profonda, diversificata, affascinante, al contempo influenzando l’espressione dell’universo sensuale e spirituale. In tutte le culture umane le piante aromatiche hanno goduto di uno status particolarmente importante, probabilmente, ed originariamente, come è stato precedentemente spiegato, proprio per le loro caratteristiche organolettiche, per la loro “salienza percettiva”, che ne ha certamente favorito la individuazione, l’evidenziazione rispetto allo sfondo. Sembrano quindi costituirsi come agenti importanti a scopo medicinale, alimentare e sacro, come nodo/snodo importante tra un percorso coevolutivo ed uno di costruzione culturale, mediato dai sensi chimici (chemiopercezione). Per questo sono diventate nel corso della storia umana protagoniste della gastronomia, della medicina, della ritualità religiosa, magica e civile. Un esempio di questa salienza ce lo dà la storia dello zenzero. Intorno al 4.000 a.C., un gruppo di coloni “austronesiani” partirono dall’odierna Taiwan e dalla costa sudorientale della Cina migrando verso sud est, iniziando una espansione (la cd. espansione austronesiana) che nei millenni sarebbe arrivata molto lontana, raggiungendo inizialmente le Filippine, l’Indonesia, il Borneo, e poi ad est la Polinesia e l’isola di Pasqua, e ad ovest il Madagascar (ma senza toccare l’Australia e conquistando solo a metà la Nuova Guinea), coprendo un’area di 8.000 km da nord a sud e di 10.500 km da est a ovest. Questa è un’area di grande omogeneità linguistica, poiché “praticamente tutte le lingue parlate [nell’area] dall’Atayal di Taiwan al Maori della Nuova Zelanda, dal Malga-
tronesian family tells us a great ad deal about scio del language Madagascar al Rapanui delle isole di Pasqua, appartengono una singola famiglia and linguistica che i linguisti chiamanoas ora austronesiano, la famiglia linguistica forse più eoples boatbuilding, well as about Aboriginal
ated gus of ibly ages ean ean Ausuted ning t to
cult are Ausby arly sian the wayngs may an-
patages ononly and sses wan, all ean sely om donic, m— dies trout it ber
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vasta al mondo e la più parlata prima dell’espansione europea, e che deriva dal cd. protoaustronesiano, il linguaggio ancestrale e ora scomparso che si parlava nell’odierna Taiwan.
Figure 1 The geographical span of Austronesian languages. This language family encompasses all languages Pacific islands from Sumatra in thediwest to Easter Island in thecieast, except Questospoken flussoon di all popoli ci interessa perché gli studi linguistica e di botanica hanno da-for the Papuan languages of evidenze New Guinea and a few adjacent islands. They are also spoken in Madagascar to una delle prime non solo dell’utilizzo, ma dell’importanza associata dalle co2 andmunità in mainland Malaysia. thearomatica, work discussed here, itforse turns la outprima that of the tenche subgroups of umane ad unaFrom pianta una spezia, spezia l’uomo abbia usato:languages, il rizoma dello zenzero (Zingiber officinale Roscoe Austronesian nine are confined to Taiwan (red circle), and- Zingiberaceae). that all Austronesian languages outside belong todal thepunto tenthdi subgroup (green),èwhich Polynesian languages (darksuCiò Taiwan che sappiamo vista botanico che laincludes flora dell’Indocina e della costa dorientale della Cina comprende varie specie alla(Redrawn famiglia delle Zingiberagreen; only a few of the hundreds of Polynesian islandsappartenenti are shown here). from ref. 1.) ceae: galanga, zedoraia, zerumbet, ecc. Tra tutte queste lo zenzero è l’unico che abbia perso la capacità di propagarsi per via sessualelong (si propaga via vegetativa, il nesian expansion correlates well with archaepause, per between the firstdividendo colonization rizoma e reimpiantadolo). E’ cioè una cultivar, condizione questa indice di una domesticaological evidence. Studies of pots, tools and of a bridgehead in Polynesia and the subzione umana molto precoce, una condizione comune per le piante alimentari ma molto rabones have that all farming in the sequent expansion throughout Polynesia. ra per unashown pianta aromatica.
Pacific outside New Guinea stems from the Both of these linguistically deduced long La linguistica ci dice che in molti dei linguaggi austronesiani il termine per lo zenzero può colonization Taiwan by south austronesiano Chinese pauses are confirmed by archaeological essere fattoofrisalire al linguaggio delle Filippine, e ritroviamo lo zenzero (eevifarmers by around 4300 BC dence. From seemsdall’espansione that there was a , followed their storia) la canna da zucchero, ma questa èby un’altra in tutte le this isole ittoccate (from about to 3300 expansion through the Philippines and 1,000-year austronesiana, nonostante la flora dei differenti territori siagap molto diversa e lo4300 zenzero nonBC) potessetoessere nativothe in tutti. Questo, secondobetween Dalby, indica che gli austronesianioffurono Indonesia Polynesia, Malay peninsula farmers’ colonization Taiwan 1,3 sempre in contatto con lo zenzero e che se lo portarono con se durante i loro viaggi, and Madagascar . Of course, pots do not and their subsequent colonization proof the pagandolo in tutti i territori che toccarono. Ciò è particolarmente sorprendente se pensiatalk, and it can be impossible to guess the Philippines, and a further 1,000-year gap mo che sulle imbarcazioni usate nelle ondate migratorie non c’era certamente spazio per (from quindi aboutconsiderata 1200 to 200 languages by theutili. pot-makers. in essere ) between oggetti spoken inutili o poco Lo zenzeroBut doveva unaBC pianta fonda-the the mentale Pacific, identifying thecoloni, potmakers is easy, con Lapita of west Polynesia and the per la vita dei se la portarono se ecolonization la propagarono ad ogni spostamen1–4 because colonization of east Polynesia . to. all Polynesian islands were uninhabitedIl until theper arrival of people makingpoi so-con poche Blust suggests thatlingue theseeuropee: two longingepauses termine lo zenzero lo ritroviamo variazioni nelle called pots gember began at(olandese), around 1200 were due to the(esperanto), time required develop BC, (inglese), faerLapita (danese), ginger zingibro harilikto ingver leaps (tedesco), in boat technology. Crossing and(estone), there is inkivaari no archaeological evidence(francese), for twoingver (finnico), gingerbre Zingiber (latino), jenji-the 4 bre (spagnolo), ecc. I termini derivano, secondo la maggior parte degli autori, da una unica arrivals of other peoples after them . Because 375-km seas separating Taiwan from the e antica radice Tamil: ingiver, che arriva a greciPhilippines e romani tramite i commercianti arabi, e dabetwould have required much all traditional languages throughout Polyneli passa all’Europa continentale. Alcuni autori hanno pensato che derivasse dal termine sia are Austronesian, those first potters must ter boats than crossing the mere 140-km strait between mainland China and Taiwan. have spoken Austronesian languages. Especially for those of us interested in The ship-building revolution that brought boats, the details of Austronesian languages the Philippines and Indonesia within reach prove as instructive as this main pattern. The may have involved the invention of outrigger
sanscrito singavera = simile ai corni per la forma del rizoma di zenzero (Purseglove et al 1982) ma è improbabile perché quando il commercio della spezia dalla costa del Malabar iniziò il sanscrito non era molto comune, ed è più probabile che venissero usati termini locali in Tamil. Secondo Mahindru il termine è pre-Draviniano e si trova con poche variazioni in 20 lingue diverse dalla Cina all’Oceania all’Inghilterra.
Resine ed incensi. L’incenso e l’imbalsamazione sono tra le prime pratiche umane nelle quali le piante aromatiche e resinose giocano un ruolo fondamentale. L’incenso come metodologia appare in varie forme: legna secca, erbe aromatiche, paste, polveri, e addirittura liquidi od olii. In realtà nell’antichità una chiara demarcazione tra incensi e profumi non è possibile. Qualunque siano le origini dell’uso dell’incenso, gli odori aromatici (incensi e profumi) hanno fortemente attirato e fascinato gli uomini e sono stati considerati fondamentali per le relazioni sociali, per i riti religiosi e mistici. Molte società hanno difatti teorizzato che il bruciare legni aromatici fosse la dimostrazione ideale di apprezzamento per i loro dei. La liberazione del fumo di incenso era una fonte di profumo: questa parola viene infatti dal latino per fumum, "attraverso il fumo”. La stessa parola incenso viene dal latino che significa “ciò che viene acceso”. Fenici, babilonesi, sumeri ed assiri facevano uso di incenso e lo valutavano moltissimo (i fenici chiamavano il loro dio più importante Baah Hamman, ovvero il Signore dell’altare profumato), ma non è chiaro se si trattasse di Commiphora/Boswellia o di altre resine locali. Le prime testimonianze scritte, in particolare la mitologia sumera, menziona varie volte l’utilizzo di incenso e resine in genere, usualmente a scopo sacro, propiziatorio o di offerta. Nel testo “Lugalbanda nella grotta delle montagne” (c.1.8.2.1) per l’arrivo di Lugabanda vengono preparati, insieme alle altre provviste (cibi e bevande in abbondanza per il banchetto) “resina di incenso, resine, resine aromatiche, resina di ligidba e resina di prima classe” e nel testo “A šir-namursaĝa to Ninsiana for Iddin-Dagan” (Iddin-Dagan A): c.2.5.3.1 si parla di offerte di incenso come “foresta di cedri aromatici” e di offerte di incenso di ginepro Ne “La costruzione del tempio di Ninĝirsu” (Gudea, cylinders A and B): c.2.1.7, si fa riferimento all’utilizzo, da parte di Nindub, il sacerdote, del fumo dell’incenso per purificare il tempio il giorno dell’arrivo del vero dio, mentre nello scritto “La casa del pesce”: c.5.9.1 si descrive la preparazione rituale della casa per l’accoglienza con cibo, birra, farina rituale, bruciatori di incenso ed aromi come di “una foresta di cedri aromatici” Nell’Egitto antico documenti che risalgono al 4500 AC parlano dell’uso di cortecce aromatiche e resine, di olii profumati, vini aromatici e aceti, ma il primo dato certo sull’uso di bruciare piante aromatiche e resinose viene dal bruciatore da incenso Qustul del 3.400 AC. Papiri risalenti al 2800 AC (regno di Khufu) riportano usi magici/medicinali di piante - sostanze aromatiche mescolate, in rapporti precisi, dai rappresentanti del clero e alchimisti, per produrre profumi o pozioni medicinali. Il legno di cedro, i semi di carvi, e le radici d’Angelica erano contusi e macerati in olio o vino, o bruciati come incensi. Il materiale vegetale era immerso nell’olio, messo in una pezza di lino e strizzato per estrarre gli oli essenziali. Origano, ginepro, mandorla amara, coriandolo e calamo aromatico erano usati di
frequente. Ai nostri occhi vi è in questi documenti egizi poca distinzione tra l’utilizzo medicinale, magico e cosmetico/estetico degli estratti. I rimedi erano utilizzati nel massaggio, nelle inalazioni e come fomente. I dolori muscolari erano trattati con unguenti contenenti incenso e cannella; per le malattie della pelle (forse herpes) gli unguenti utilizzati contenevano mirra, coriandolo e miele. Certamente intorno al 3.000 AC molte sostanze aromatiche venivano utilizzate per il rito dell’imbalsamazione – una volta che il corpo era stato essiccato immergendolo nella sabbia del deserto, veniva unto con legno di cedro, ginepro, cannella, chiodi di garofano e noce moscata, ma soprattutto con la resina di mirra. I profumi erano spesso considerati come afrodisiaci e legati al concepimento, alla nascita e alla rinascita in un'altra vita; questo spiega l’offerta degli olii preziosi ai morti. Secondo Hoots inizia in questo periodo anche il commercio su scala significativa dell’incenso, proprio perché grandi erano le quantità necessarie per i riti (alcune iscrizioni nel 2500 AC parlano di 80.000 misure di mirra), mentre in Egitto non era possibile coltivare la Commiphora. Groom (1981) sposta invece molto più in avanti la nascita del mercato delle spezie e degli incensi, almeno al 1500 AC, quando, secondo un’iscrizione al tempio della Regina Hathepshut vicino Tebe, che testimonia il trasporto per conto della Regina di 31 alberi di incenso (Boswellia), dalla terra di Punt (un’area che dovrebbe coincidere all’incirca con la costa somala e la costa araba subito di fronte) all'Egitto. Vasi ritrovati nella tomba di Tutankhamen (1350 AC, aperta nel 1922 DC) contenevano ancora tracce d’incenso e mirra e altre piante aromatiche. Secondo i documenti, in Egitto l’uso religioso dei materiali aromatici era ben strutturato: al mattino venivano bruciate delle resine, a mezzogiorno della mirra, e al tramonto la miscela detta Kyphi (preparazione particolarmente famosa che conteneva 16 ingredienti tra i quali troviamo incenso, mirra, menta piperita, cannella, citronella e uva passa), utilizzata dai sacerdoti per motivi spirituali, come mezzo per “trasportare” il dono dell'uomo verso gli dei, come mezzo per allontanare gli spiriti ecc. Il Kyphi non aveva solo utilizzi religiosi, serviva anche per facilitare il sonno, alleviare le ansie, aumentare i sogni, eliminare la tristezza, trattare l’asma ed agire come un antidoto generico. Quando questo succede, comunque, è già da tempo (forse dal 2000 AC) che gli Arabi monopolizzano il mercato, per il momento ridotto e locale, di Boswellia e Commiphora, mercato che vedrà una prima forte accelerazione grazie alla introduzione del cammello, domesticato nel 2000 AC ma divenuto importante mezzo di trasporto solo intorno al 1000. Questo animale velocizzerà enormemente il trasporto via terra, e permetterà di raggiungere le aree del Mediterraneo più lontane, in tempi più brevi e con carichi molto maggiori, e permette quindi l’incontro tra domanda ed offerta in maniera più efficace. La domanda era dominata da greci e in seguito romani, che utilizzavano ampiamente gli incensi per offrire doni ed offerte agli dei, per nutrirli con l’unico cibi che l’uomo poteva offrirgli (cfr. lo stesso utilizzo di incenso come cibo per gli dei in America tra i Maya) E’ proprio in questo periodo che il mercato diventa economicamente molto importante per le terre Arabe, per raggiungere l’apice intorno al 750-500AC, creando la ricchezza delle terre arabe (Arabia felix) principalmente intorno al mercato di Commiphora e Boswellia. Si hanno di questo periodo testimonianze dell’uso delle spezie per unguenti ed incensi in Palestina.
E così l’aumentare dell’importanza commerciale delle resine delle due piante porta allo stabilirsi di tratte commerciali via terra sempre più stabili, all’aumentare in numero e frequenza delle carovane e quindi al crescere di agglomerati urbani intorno alle stazioni di scambio e di riposo per le stesse. Con l’aumentare dei traffici, altri merci si aggiunsero agli incensi, spezie e seta proveniente dall’India e altre merci preziose dalle coste africane, e merci di ritorno da Grecia, Etruria e più tardi Roma, favorendo la nascita delle prime cittàstato dell’area, la più famosa delle quali è probabilmente, della quale si narra che nel 992 AC la sua Regina di Sheba portasse delle spezie in dono a Re Salomone, e che soprattutto raggiunse una tale ricchezza da poter costruire delle dighe per migliorare l’irrigazione delle sue terre e creare i giardini e gli orti di Marib, così famosi da essere ritenuti il Giardino dell’Eden. La maggior via di commercio era quella che partiva dalle regioni di Dhofar e dall’isola di Socotra, da dove le navi cariche di merci partivano per arrivare al porto di Qana. Da qui esse passavano per Narib, da dove potevano prendere la via del Mar Rosso, raggiungendo la Mecca, e dopo 2000 km arrivare in Palestina, a Petra e ai porti di Gaza o di Alessandria d’Egitto, da dove le merci potevano arrivare in Grecia in Italia o in Spagna. Altrimenti da Narib potevano piegare verso il Golfo Persiano, passare per Gherra, poi Teradon. Da qui le navi risalivano la corrente fino alla città di Bassora da dove si poteva proseguire fino alla città di Bagdad oppure scendere e viaggiare via terra verso Siria ed Egitto. L’importanza che queste resine raggiunsero in Palestina è testimoniata dalla frequenza con la quale Commiphora e Boswellia sono citate nel Vecchio e nuovo testamento (22 citazioni). Il Vecchio testamento parla di unguenti medicamentosi a base di mirra, cannella, cassia, calamo aromatico, ecc. Lo spiganardo (Nardostachys jatamansi) fu usato per ungere il capo di Gesù. L’isola greca di Chios era la fonte di aromi (aromata) che i Greci apprezzavano sommamente, come l’essudato gommoresinoso detto mastice (o mastic) da Pistacia lentiscus e della trementina (Pinus spp), che diventò un prodotto di importazione; il mastice veniva anche usato come una specie di gomma da masticare, e da questo uso viene il verbo masticare. Ma le fragranze più importanti ed apprezzate erano l’incenso vero (Boswellia carterii) e la mirra (Commiphora molmol). Le fonti greche circa l’utilizzo di queste fragranze sono poche e frammentarie. Erodoto, intorno al 500 aC, parla per primo dell’utilizzo e del commercio dell’incenso di provenienza araba, e di come quella terra sia tutta pervasa dal profumo “meravigliosamente dolce” delle sue resine aromatiche. E Teofrasto, due secoli più tardi, parla della della spedizione navale di Alessandro il Grande e di come essa avesse portato per la prima volta alla raccolta della resina dell’albero di incenso. Sono le fonti romane, in particolare con Plinio il Vecchio che dominano la letteratura. Intorno al primo secolo AC, è Plinio che raccoglie la maggior messe di dati sull’argomento. L’incenso veniva usato come antidoto per la debolezza causata dal gran caldo. La sua introduzione nei riti religiosi è testimoniata da molti autori classici . Erodoto parla del suo utilizzo da parte degli Assiro-Babilonesi. Entrò in maniera importante nella liturgia ebraica, soprattutto durante le offerte eucaristiche di olio, frutta e vino (Leviticus, vi, 15).
Se ne fa menzione nel Vecchio Testamento (Num., vii, 14; Deut., xxxiii, 10, ecc.). Per aumentarne la fragranza ed ottenere un fumo più denso venivano aggiunte sostanze diverse. Solitamente venivano aggiunti 4 elementi, ma si poteva arrivare anche a 13 elementi, ed il compito di mescolarli nelle debite proporzioni era assegnato a particolari famiglie (Cant., iii, 6). Con la trasmissione del pensiero e della cultura greche nel bacino del Mediterraneo Orientale, si trasmette anche l’uso e il fascino dell’incenso. I greci offrivano l’incenso ai propri dei con la speranza di ottenere favori personali, e si trovano riferimenti alle essenze profumate in tutta la letteratura mitologica. Nella più tarda era Ellenica gli stessi filosofi che avevano trovato la ‘musica delle sfere’ nei cieli la trovarono nello studio dell’arte della profumeria. Nel momento in cui la cultura romana si trovò ad assorbire quella del mondo antico, le varie tradizioni dell’incenso erano ormai fortemente radicate. I mercanti ‘trafficavano’ e facevano le proprie fortune con incenso e profumi lungo la via Appia e sulle vie marittime percorse dalle galere romane. Il traffico interessava soprattutto Tyro, Constantinopoli e Alessandria, ed i mercanti trasportavano soprattutto cannella, Boswellia, e sandalo. All'apice della loro importanza, gli incensi erano per il mondo romano uno dei 5 materiali più pregiati: ambra, incenso, seta, pepe nero, mirra (controlla). Commiphora e Boswellia le due specie vegetali E in Oriente? In Asia, intorno al 1700 a.C. le leggende vediche di Shiva citano le resine, e nello stesso periodo inizia l’utilizzo medicinale delle resine (nel 300 aC si hanno le prime prove dell’utilizzo della resina di Cannabis a scopo analgesico in medicina Cinese, e intorno al 200 aC la Cina importa i chiodi di garofano dalle Molucche). I primi testi indiani a parlare dell’uso dell’incenso sono i testi Athar-va Veda e Rig Veda, i testi vedici alla base della tradizione religiosa indiana, e che tratta l’argomento senza separare l’aspetto religioso e magico da quello terapeutico. Secondo la tradizione vedica l’uomo può assorbire qualsiasi cosa se in forma minuscola; durante la cerimonia Havan (cerimonia del fuoco) l’atmosfera viene purificata grazie proprio al rilascio di minuscole particelle aromatiche del legno bruciato insieme a varie piante medicinali. I bastoncini d’incenso sono una versione del fuoco dell’Havan, fanno parte del rituale Hindu dell’offerta agli dei ed aiutano a mantenere il devoto in uno stato mentale calmo e rilassato. Anche la Cina conosce l’uso delle sostanze aromatiche, citate nei primi testi terapeutici conosciuti (come il Canone dell’Imperatore Giallo e la Materia Medica di Shen Nung). Il termine hsiang veniva usato per significare profumo, incenso ed aroma, e veniva classificato in sei tipi. Furono i cinesi a scoprire il muschio (ricavato dalle ghiandole sottotesticolari di un mammifero simile ai cervidi – ora vietato per motivi etici e di salvaguardia della specie) che rimase un oggetto di grande consumo per tutto il medioevo e fino al 1800.
Le spezie Il ruolo delle aromatiche è particolarmente evidente e rilevante per la cultura europea se ci si concentra su un loro sottoinsieme, sull’oggetto, complesso e mutevole, che va sotto il nome di spezie, una categoria merceologica e dell’immaginario che ha segnato la storia medica, economica, gastronomica, sensuale, religiosa dall’Antichità fino all’epoca moderna. E che anche quando, come al giorno d’oggi, ha perso il primato economico e culturale, rimane presente sottotraccia. Per quanto difficile da immaginare al giorno d’oggi, quando acquistare pepe nero o chiodi di garofano al supermercato è un atto normale, banale, le spezie ed il loro mercato hanno costituito una forza di trasformazione culturale ed economica enorme per Europa ed Asia (ed in seguito per le Americhe) dall’Antichità al 1800, contribuendo a creare canali commerciali, scoprire nuove vie di comunicazioni e nuovi continenti, colonizzare, trasformare il gusto e la vita di milioni di persone (spesso in peggio, a seguito delle politiche colonialiste). Per dare una idea di quanto peculiare fosse il mercato delle spezie, basterebbe accennare al pepe nero ed alla sua storia. Tra il 1975 ed il 1976 una equipe del Musee de l’Homme di Parigi, osservando la mummia di Ramsete II, scoprì, inseriti nelle sue narici, due grani di pepe nero. Nei tre anni tra 11 e 8 a.C, la truppa romana si accampò lungo le sponde del fiume Lippe, vicino a Oberaden (nell’odierna valle della Ruhr) per affrontare la tribù dei Sugambri. Duemila anni più tardi, gli scavi del campo militare romano rivelarono, tra i resti della cucina, dei grani di pepe nero. Questo due fatti potrebbero essere dei semplici indicatori che il pepe nero era una spezia considerata importante, magari anche estremamente utile, ma nulla di più, se ci dimenticassimo di un altro dato fondamentale: le piante del pepe antico (Piper nigrum e Piper longum) sono originarie della costa del Malabar, in India occidentale, e non crescono in altri luoghi, o per lo meno non crescevano in altri luoghi. Come siano arrivati nell’Egitto del 1300 a.C.è difficile saperlo; è possibile che esistesse già un mercato per le spezie che univa questo territori, ma è più probabile che queste spezie fossero arrivate per vie traverse, passate di mano in mano, senza che il ricevente sapesse molto sulla provenienza del prodotto. Che i grani di pepe fossero presenti nel mondo romano è meno sorprendente, ma è indicativo di un cambiamento radicale di impostazione: se fino al tempo della Grecia classica le spezie sono presenti e utilizzate solo molto raramente e per utilizzi medici, a causa del loro prezzo, questi grani sono presenti nei resti della mensa di un soldato romano. Il pepe deve cioè avere raggiunto un livello di distribuzione impensabile prima, ed il suo prezzo deve essersi ridotto se poteva essere utilizzato nell’alimentazione. In effetti sia Antifane (ca. 400 a.C., sia Teofrasto nel 200 a.C., sia Plutarco nell’86 a.C. parlano delle spezie come prodotti costosissimi, ma già pochi decenni più tardi Strabone dichiara che 120 navi partono ogni anno per il lungo viaggio (12 mesi) fino all’India, viaggio testimoniato nel Periplus di un anonimo autore greco.
Plinio il vecchio si lamenta che ogni anno venivano sprecati 50 milioni di sesterzi per pepe nero ed altre “spezie da effeminati”. I mercanti che si arricchivano con questo commercio erano di opinione differente, come si nota nelle opere satiriche del primo periodo imperiale, dove il pepe divenne il simbolo dell’avarizia, e in genere nell’opera moraleggiante di tanti autori, tra i quali Plinio, che vedevano nelle spezie e nell’avarizia e lussuria da esse stimolati, una indicazione della decadenza dei tempi, tinta moraleggiante che non ha più lasciato le spezie. La presenza del pepe nella vita delle persone diventa sempre più comune (seppur sempre limitata agli strati più ricchi della società) se si legge che intorno all’anno mille i mercanti tedeschi a Londra pagavano le tasse in grani di pepe, se nel 12 secolo Anselmo di laone scrive che il pepe “è una necessità” per il viaggiatore, come il formaggio ed il pane. E’ in questi decenni che iniziano a comparire le Gilde degli Pepperers and Spicers, e lo Speciarum diventa figura comune nei mercati fino a far parte dell’establishment nel 13 secolo. E’ innegabile che la ricerca delle spezie e del controllo del loro mercato domini il mondo antico e ancora di più quello moderno, ne segni anzi in un certo senso la nascita, se consideriamo che i viaggi di esplorazione che portarono alla scoperta del continente americano erano in realtà spedizioni organizzate per trovare una via alternativa verso il mercato asiatico delle spezie. Tutto questo è ancora più sorprendente se riflettiamo sul fatto che, a differenza di altre piante che hanno segnato la nostra storia ed economia, come le principali piante alimentari, le spezie non davano un contributo significativo alla dieta in termini nutrizionali. Esse potevano però caratterizzare e rendere speciali piatti insipidi o poco interessanti, modificare il sapore di cibi conosciuti in maniera insolita (e sappiamo come questo sia importante per un animale dalla sazietà sensorio specifica come l’uomo), funzionare come metafore dello sconosciuto, esotico e paradisiaco, come simbolo di status sociale e religioso, entrare facilmente nella struttura delle medicine tradizionali, ed agire come riserva di composti fitochimici attivi. Perché le spezie erano così importanti economicamente? Perché venivano così fortemente associate al mondo del sensuale ed allo stesso tempo dello spirituale, del terreno (cibo, lusso, qualità della vita, status sociale) e del trascendente (riti religiosi, associazione con l’immortalità del corpo e dello spirito, associazione al mondo ultraterreno, alla santità, ecc.). Perché, nonostante materialmente non siano più, se non raramente, associate all’idea di lusso, status, esoticità, permane ancora nel linguaggio moderno una reminiscenza della loro forza evocativa (frasi come “una donna tutta pepe”, la sensualità che caratterizzerebbe gli odori orientali, ecc.)?
Grecia I greci impararono molto dagli scambi culturali con gli egiziani – Erodoto e Democrito visitarono l’Egitto nel IV secolo AC e dissero degli egiziani che erano maestri nell’arte dei profumi. I greci ascrivevano origini divine alle piante aromatiche, e l’arte della profumeria si pensava fosse stata creata da una ninfa di Venere – Aeone.
Erodoto (e più tardi Plinio e Dioscoride) parlano di due soli “olii essenziali” nei loro testi, la trementina (che veniva ricavata dal legno delle conifere con una procedura solo in parte riconducibile alal distillazione), e la canfora (non un olio essenziale vero, bensì una resina ricavata bollendo il legno di canfora in grandi tini d’acqua). Il grande commercio di olii aromatici tra Asia, Grecia e Roma esiste, ma si tratta in realtà di oleoliti aromatici. Con la civiltà greca si osserva l’inizio della distinzione dell’arte medica dalla religione, e nascono delle scuole di pensiero medico che enfatizzano l’importanza di un approccio razionale (sotto l’influsso del pensiero aristotelico). Già alcuni autori del Corpus Hippocraticus consigliavano di fare bagni aromatici e massaggi profumati ogni giorno, e descrivevano l’utilizzo delle piante aromatiche per fumigazioni durante la peste in Atene. Teofrasto, nel suo Historia Plantarum, descrive molte delle piante aromatiche greche, e ipotizza che il profumo dei fiori sia contenuto vicino alla superficie dei petali. Dioscoride, nel suo De Materia Medica, cita anche i momenti nei quali i principi attivi sono più abbondanti nelle piante: ad esempio il profumo del gelsomino è più forte dopo il tramonto e la pianta dovrebbe essere raccolta di notte; i fiori di rosa dovrebbero essere raccolti al massimo a mezzogiorno.
Roma Gli antichi ed in particolare i romani nell’era imperiale, avevano una vera e propria fascinazione e passione per i prodotti aromatici; si pensava allora che l’essenza, l’aroma di queste piante desse al rimedio un potere quasi magico, e su questo esistono innumerevoli citazioni classiche di un utilizzo apotropaico, magico, antimalocchio, ecc. In parte esse venivano trattate come piante “allucinogene”, e se ci ricordiamo che queste popolazioni non conoscevano il tabacco possiamo forse comprendere la possibilità di un’esperienza psicoattiva. Le spezie entravano nella costruzione di filtri magici, antidoti, ecc. ed erano caricate di significati mitologici profondi. Nel 1° secolo AC Mitridate VI, re del Ponto (nell’odierna Turchia), formulò con il suo medico un rimedio contro i veleni, un antidoto che 200 anni più tardi fu chiamato Mitridatium da Galeno, il quale poi inventò un altro importante antidoto: la Teriaca. Ingredienti tipici di queste formulazioni molto complesse (con 40-50 ingredienti) includevano; zenzero, cannella, cassia, malabatrum, galbanum, cardamomo, nardo, pepe, incenso, mirra, zafferano, ecc. Le spezie erano naturalmente oggetti di lusso, limitati ad una minoranza della popolazione, ma ciò non diminuisce la loro importanza nella vita anche culturale. Il mondo delle spezie è un mondo di ricchezza sia sul piano commerciale che sul piano dell’ostentazione. La raccolta, il trasporto, la distribuzione, la stessa utilizzazione delle spezie, erano strettamente controllati ed organizzati in un circuito commerciale centralizzato. La fascinazione dei Romani era onnicomprensiva. Un’analisi della letteratura rivela che le spezie erano presenti in quasi tutte le attività umane: cerimonie e culti; cucina e alimentazione; decorazioni; igiene; profumeria e cosmetica; antidoti; esequie funebri; sporti ed attività fisica; pigmenti tessili; vini aromatici. Un famoso olio profumato – il Susinum – era ricavato da melissa, miele, mirra, cannella, cardamomo, calamo aromatico e zafferano. Dall’antichità classica fino al Medioevo le spezie sono state spesso utilizzate per produrre vini medicati (enoliti), utili per dolori di stomaco e problemi digestivi. Una tipica ricetta det-
ta hippocras consisteva in: cannella, zenzero, melegueta (pepe africano), noce moscata, galanga e miele in vino. Questo rimedio era utilizzato per curare il raffreddore, patologie “fredde” e flegmatiche. Ancora oggi rimangono tracce di quest’utilizzo nei vari vini aromatizzati presenti nelle cucine regionali, come il vin brulé. Quale è la ragione di questa passione, che poi si trasmetterà per molti secoli fino al 17001800? Prima di tutto il gusto dei romani per il lusso, inteso anche come benessere e ben-vivere e non solo come ostentazione. Con il tempo, la concezione di lusso come scelta di qualità di vita e di benessere si ridusse sempre di più in importanza, e si accrebbe l’uso delle spezie come segno di ricchezza, potere, capacità d’influenza e di pressione sociale e politica, insomma un segno di status. Poi l’attrazione verso l’Oriente e l’esotico, un cosmopolitismo di cui le spezie erano un simbolo. E quindi l’attrazione per le piante aromatiche: sia per il piacere sensoriale che possono dare, sia per le attività fisiologiche che svolgono, sia per lo sviluppo delle conoscenze scientifiche che stimolarono, perché permisero la creazione di molteplici categorie descrittive (grazie alla ricchezza di diversi stimoli). Inoltre le spezie svolgevano senza alcun dubbio delle attività fisiologiche riconosciute dagli antichi, stimolavano la salivazione e i succhi gastrici, promuovendo la buona digestione e riducendo i gonfiori intestinali (sono a tutt’oggi utilizzate per queste proprietà); promuovevano la sudorazione, cosa che le lega intimamente alle teorie umorali ma che ha anche un’utilità pratica, perché abbassa la temperatura corporea; in alcuni casi (zenzero, peperoncino, pepe, ecc.) riducevano i rischi d’intossicazione alimentare sia direttamente (moderata attività antimicrobica) sia indirettamente (stimolazione della digestione). Inoltre si adattavano bene alla struttura teorica dell’umoralismo ippocratico prima e galenico-arabico poi, che ha dominato l’Europa fino al 1600. In particolare le spezie erano quasi tutte droghe “calde” e “secche”, quindi utili in patologie fredde ed umide, del tipo flegmatico o reumatico, come ad esempio stomaco debole (con poco calore) che non riesce a “cuocere” bene il cibo e a trasformarlo nei quattro umori, oppure reuma (o flemma) che si accumula nelle articolazioni (reumatismi), nei polmoni (polmoniti), nella testa (vista offuscata o pensieri annebbiati). Erano inoltre piante “aperienti”, cioè che aprono i passaggi corporei (urine, flusso mestruale, ecc.).
Breve storia della distillazione. Quest’argomento è controverso, alcuni autori dichiarano che gli egiziani conoscessero il principio della distillazione, ma l’evidenza per supportare questa tesi è minima. Tradizionalmente si è sempre mantenuto che Avicenna abbia scoperto la distillazione, ma è probabile che l’autore e come egli molti fino al medioevo, fossero interessati nel processo di distillazione perché permetteva di ottenere acque aromatiche. Rimangono comunque ancora dei dubbi sulla paternità del metodo, se è vero che alcuni recenti studi indicano la possibilità che i Cinesi conoscessero la distillazione prima degli Arabi. Non è facile stabilire con certezza la data della prima estrazione con distillazione di quelli che noi chiamiamo "olii essenziali". Le prime distillazioni servirono ad ottenere alcol dal vino, lo "spirito" del miele fermentato. Questa pratica, secondo gli scritti ebraici (Genesi 9:20-24), risale al periodo subito dopo il diluvio.
Anche se balsami, resine e piante aromatiche sono state utilizzate per l’imbalsamazione, per cerimonie religiose o sacrifici, non esistono documenti scritti che ci offrano una chiara evidenza della preparazione degli OE. I primi documenti scritti sulla storia della distillazione risalgono al IX secolo, con i testi di Geber (Dschabir) sulla distillazione a secco e in acqua, mentre Mesue, nel suo “Grabadin” del XIII sec., descrive due oli da distillazione distruttiva (olio di cade ed asphaltus) Il primo autore a parlare esplicitamente di olii da distillazione fu Arnaldo di Villanova (1240?-1311) che menziona trementina e rosmarino. Va però detto che ci sono dei dubbi sulla paternità dello scritto relativo a questi prodotti, che potrebbe essere una interpolazione più tarda, e che comunque il significato del termine distillazione nel testo è diverso è più generico di quanto intendiamo al giorno d’oggi. Si legge infatti che la distillazione è: “preparazione di estratti animali e vegetali secondo le regole dell’arte, ovvero rettificazione e separazione”. Inoltre Arnaldo (come tutti gli autori del tempo) era comunque interessato alle proprietà delle acqua aromatiche, e probabilmente gli OE erano visti come residui non importanti. Essi infatti maceravano prima le piante in "acquavite", o le facevano fermentare in acqua. La presenza di alcol significa che non si separassero degli OE, bensì delle acque aromatiche distillate. All’incirca in questo periodo sono menzionate le distillazioni di mandorla amara, Ruta, cannella, rosa e sandalo. La pratica di distillare le piante aromatiche crebbe in popolarità con la pubblicazione dei libri di Hieronymus Brunschwig (c. 1450-1512) sull’arte della distillazione dei semplici e dei composti: Liber de arte distillandi (1500) e Liber de arte distillandi de compositis (1512). Egli fa menzione di trementina, legno di ginepro, rosmarino e spiga. Ma i processi descritti coinvolgono ancora l’utilizzo di alcol, ed il risultato non poteva essere un OE. La distillazione era importante perché era vista come processo alchemico atto ad discriminare l’essenziale dal non essenziale, ed infatti Paracelso (Bombastus von Hohneheim) ne parla come processo di separazione dell’ultimo principio che contiene in sè la virtù della pianta, la quint’essenza (da cui il nome e la carica semantica del termine olii “essenziali”). Il primo importante punto di svolta si ha con la pubblicazione del Krauterbuch di Adam Lonicer (1551), che parla delle virtù di: ”molti meravigliosi ed efficienti olii di spezie e semi” e ci dice che la distillazione: “è una invenzione abbastanza recente, non antica, sconosciuta ai medici antichi greci e romani, e in effetti non è stata usata per niente”. Pochi anni dopo (nel 1563) Giovanni Battista della Porta pubblica il suo Liber de distillatione, il primo testo che specifica esattamente le differenze tra olii grassi, OE, i metodi e le apparecchiature necessarie per separare questi ultimi dalle acque aromatiche distillate. Oltre che dal punto di vista tecnico, la distillazione fu importante anche per lo sviluppo del pensiero medico. Essa, infatti, agì come ponte tra la medicina delle piante (Galenica) e quella chimica (Paracelso) attraverso la “chimicizzazione” delle piante. Dagli anni 1540 in poi, con il movimento della Controriforma che prendeva sempre più piede, gli adepti di Paracelso passarono alla clandestinità in Italia; gli scritti di Paracelso vennero considerati eretici, accusati di Protestantesimo e di magia. Comunque, la distillazione degli OE e delle acque da animali e piante divenne molto popolare a Venezia e contribuì alla transizione ai rimedi chimici. La prima edizione del Dispensatorium Pharmacopolarum di Cordus (1546) elenca solo tre OE (trementina, ginepro e spiga) ma la seconda edizione del 1592 ne elenca ben 61. Nel 1607 il Quercetanus (Joseph du Chesne) può dire che “la preparazione degli olii essenziali è conosciuta a tutti, anche agli apprendisti” e dice che dai 15 ai
20 OE erano conservati nelle farmacie. Nel 1642 il Collegio degli Speziali prevedeva nei suoi listini dei prezzi ufficiali medicine ermetiche e spagiriche (alchemiche) e medicine preparate per distillazione. E’ importante puntualizzare che per secoli sono state le acque aromatiche a ricevere l'attenzione dei vari autori, e non gli OE. Boerhave nel 1728 descrive gli OE come formati da due principi: Mater: “un principio resinoso, insolubile in acqua…” e Spiritus Rector: “un principio molto sottile, difficilmente percepibile, forse ‘eterico’…Questo principio – continua Boerhave - comunica le proprietà olfattive ed aromatiche tipiche di ogni pianta al suo idrolato. E' un principio idrosolubile che comunica la fragranza, il sapore e le proprietà alle acque distillate."
La chimica degli olii essenziali Nel XVII e XVIII secolo le investigazioni dei farmacisti e chimici iniziarono l’era delle scoperte analitiche. L’interesse nell’utilizzo delle essenze in profumeria crebbe rapidamente (la Francia, ed in particolare Grassé, divenne un centro mondiale di produzione di OE) e si Lo studio sistematico degli OE inizia con JB Dumas ed il suo trattato sugli olii essenziali (1833), mentre nel 1866 appare per la prima volta il termine Terpene, coniato da Kekulè, il cui lavoro viene portato avanti alla fine del 19 secolo da Tilden e Wallach, che sono considerati i padri della chimica dei terpeni. Tale è lo sforzo e l’interesse in questi decenni che il periodo di tempo tra la fine del 19 secolo e l’inizio del 20 viene definito l’Era Elisabettiana dell’industria degli olii essenziali All’inizio del XX secolo l’interesse nelle piante aromatiche e nelle essenze naturali dal punto di vista terapeutico fu ravvivato dal chimico e studioso francese Rene-Maurice Gatefosse. Gatefosse sperimentò gli OE durante la prima guerra mondiale, usando OE come lavanda, timo, camomilla, limone e chiodi di garofano presso l’ospedale militare per le loro proprietà antisettiche e vulnerarie. Più tardi, Gatefosse coniò il termine "Aromaterapia" scrivendo che “i chimici cosmetici francesi pensano che i complessi naturali dovrebbero essere utilizzati come unità costruttive complete…senza essere frammentati. La terapia dermatologica si evolverebbe quindi in "Aromaterapia"”. Egli scrisse vari libri, incluso il famoso Aromatherapie (1928), spiegando le varie proprietà degli OE e le possibili applicazioni, con esempi delle loro proprietà antisettiche, battericide, antivirali e antinfiammatorie. Più tardi egli parlò di terapie di grande successo per tumori della pelle, ulcere del viso, cancrene e osteomalacia. I ricercatori italiani Gatti e Caiola studiarono i benefici medicinali, psicologici e cosmetici degli OE negli anni ’20 e ’30. Paolo Rovesti fu il primo a dimostrare il valore di certe essenze per problemi come ansia e depressione. Il Dottor Jean Valnet, come Gatefosse, usò gli OE per trattare le ferite di guerra – nella seconda guerra mondiale. Egli era sia un medico che un fitoterapeuta e usò gli OE per molte condizioni differenti. Pubblicò il suo libro sull’aromaterapia nel 1964. La storia successiva degli studi sugli OE diventa molto più complessa e ricca di autori, con la crescita dell’importanza dell’aromaterapia dal punto di vista commerciale oltre che terapeutico; si moltiplicano le pubblicazioni sull’argomento, molto spesso di scarso valore scientifico e spesso rimasticazioni di materiale già prodotto da altri studiosi.
Aromaterapia e medicine alternative
Ciò che non mi soddisfa nel termine Medicine alternative e complementari (CAM), o negli altri termini cognati come medicine naturali, dolci, tradizionali, olistiche, non-ortodosse, ecc. è il fatto di usare un termine “ombrello” unico per accomunare in maniera non giustificata terapie spesso molto differenti nella teoria, nella prassi, nel livello di formazione dei terapeuti. Il raggruppamento viene fatto secondo parametri negativi, cioè definendole come terapie che non sono ufficialmente riconosciute, che non sono parte dei curricula universitari di medicina, che non sono biomedicina. Questo raggruppamento artificiale non solo é di scarso valore esplicativo e predittivo, ma svilisce la storia e l’individualità dei singoli modelli, costretti a coabitare in fallaci costruzioni astratte che vorrebbero unire la medicina tradizionale cinese, l’omeopatia, la fitoterapia, la fisiognomica ottocentesca, la kinesiologia applicata, ecc.
Una proposta tassonomica (Pieroni) Sistemi di guarigione completi • MTC • Ayurveda • Fitoterapia tradizionale • Osteopatia • Chiropratica • Omeopatia • Naturopatia Sistemi diagnostici • Iridologia • Chinesiologia • Pendolino • Diagnosi dell’aura Modalità terapeutiche • Massaggio • Riflessologia • Aromaterapia • Guarigione spirituale • Shiatsu Auto-aiuto • Rilassamento • Yoga • Qi-gong • Tai-chi • Meditazione • Visualizzazione • Digiuno
In realtà, ad una analisi più stringente, ciò che colpisce di più dei modelli raggruppati è la mancanza di basi epistemologiche comuni, di minimi obiettivi educativi comuni, la grande diversità di tradizione e la mancanza di concordanza sul significato dei termini “cardine”
quali olismo, che risultano spesso svuotati di un reale significato piegati come sono alle molteplici interpretazioni. Anche i teorici punti di concordanza tra le diverse terapie risultano ad uno sguardi più ravvicinato più delle enunciazioni teoriche molto generali che delle prassi significative: troviamo spesso enfatizzata l’esperienza soggettiva del paziente, l’importanza delle emozioni, l’obiettivo di trattare mente e corpo con rimedi non aggressivi e non sintomatici, la ricerca della “salute totale” tramite l’ausilio di un terapeuta che non sia un non esperto ma un facilitatore. E’ invece necessario discutere le caratteristiche proprie di un modello terapeutico, valorizzandone le peculiarità, se necessario per poterle meglio criticare in un secondo tempo. Per fare questo è necessario interrogarsi prima di tutto sulle ragioni del successo delle medicine alternative, per vedere quanta parte di questo successo derivi dalle particolarità delle terapie e quanto dal momento storico, dall’appeal del modello di medicina proposto. E’ possibile che forze solo in questo sia possibile raggruppare le CAM in maniera sensata, ovvero nel fatto che sono riuscite a rispondere ad una domanda di senso che emergeva dal fallimento del modello biomedico ortodosso nel rispondere alle nuove esigenze dei pazienti all’interno di una società dei consumi. La crisi del modello paternalistico, la richiesta di una libertà di scelta terapeutica all’interno del mercato libero capitalistico, la richiesta di partecipazione, di coinvolgimento, di maggior relazione terapeutica, sono a parere di molti sociologi della salute all’origine del primo movimento New Age. Questa rivoluzione di ruoli a cui la New Age ha risposto si inserisce perfettamente nel quadro della società capitalistica e consumista, ad esempio nel porre sempre di più al centro del dibattito sociale il binomio salute/malattia, ed in particolare quelle attività tipicamente moderne che sono la ricerca attiva di salute, benessere, qualità della vita, e la cura della malattia da parte della medicina organizzata e professionale. Il movimento delle CAM ha accompagnato il passaggio dalla dimensione sociale della malattia a quella individuale. Le radici sociali della malattia non sono quasi mai discusse nelle CAM, che tendono sempre ad enfatizzare la dimensione della responsabilità individuale: le visualizzazioni del paziente tumorale per combattere il cancro, le donne che non possono lavorare in certi ambienti per ik rischio alla loro fertilità, l’uso della volontà personale e della allegria (o pensiero positivo) come rimedi per le malattie, il controllo di dieta, esercizio, stress, sessualità per migliorare la salute. Naturalmente non c’è nulla di completa,ente sbagliato in queste affermazioni, ma è la mancanza di riferimenti alle altre dimensioni a colpire. Questo approccio è del tutto congruente con un modello economico, di mercato, capitalistico, individualista, della malattia. Ma esiste un modello di salute/malattia tipico delle CAM? Non credo, anche se il loro successo ha anche le sue basi nella crisi di un certo modello biomedico, che ha reificato malattia e salute come conseguenza dell’enorme sviluppo della tecnologia medica. Questa reificazione ha permesso di immaginare la malattia come entità reale nel mondo, osservabile, identificabile, manipolabile, quindi eliminabile, ed ha permesso una facile quanto fallace equazione: salute = assenza di malattia, e la proposizione che salute e malattia siano concetti opposti.
Anche ad uno sguardo distratto appare però evidente che l’assenza di malattia sembra una condizione necessaria ma non sufficiente per parlare di salute, e che in realtà molti professionisti della salute non combattono la malattia ma promuovono la salute. Se malattia e salute fossero contraddittori non avrebbe senso logico parlare di massimizzare la salute. In seno a questa discussione si pongono le proposte teoriche delle CAM che si inseriscono comunque all’interno del dibattito classico tra normativismo e non-normativismo, ovvero tra “malattia come categoria imposta da esseri umani su esseri umani” (normativismo di Boore) e “malattia come stato posseduto e definibile oggettivamente” (non normativismo di Culvert e Gert). Per i normativisti nella malattia esiste sempre una dimensione di giudizio di valore, nel senso che per decidere cosa significhi salute/malattia è necessario fare riferimento a giudizi di valore. E’ malattia ciò che viene considerato spiacevole, non buono, non augurabile dalla maggior parte delle persone, e non sarebbe possibile dare delle definizioni oggettivamente vere di malattia senza parlare di valori. Molti esempi sembrano dare supporto ad una versione più o meno forte del normativismo, ad esempio il fatto che nel XVIII secolo il fatto che una donna provasse piacere nel fare l’amore o nel masturbarsi fosse considerato un sintomo di gravi disturbi mentali, o il fatto che lo schiavo africano che tentava continuamente di scappare dalla piantagione di cotone del sud degli stati uniti fosse considerato affetto da una patologia specifica chiamata drapetomania, per non parlare di autori anche contemporanei che descrivono l’omosessualità come una malattia. La malattia consisterebbe allora in una percezione della indesiderabilità di una condizione, percezione variabile ma abbastanza stabile in uno stesso contesto Normalmente le proposte teoriche delle CAM tendono a raggrupparsi con i normativisti, ma una certa tendenza a definire la malattia come “fisiologia in difficoltà”, cioè a sussumere il discorso patologico a quello fisiologico, è presente in alcuni modelli teorici CAM e si può ricondurre alle posizioni non normativiste. Secondo queste ultime la malattia (disease) è definibile oggettivamente e ciò che cambia sono le percezioni individuali (illness) e sociali (sickness) della stessa. Per parlare di salute e malattia basterebbe fare riferimento a concetti statistici senza appellarsi ad alcun giudizio di valore. La salute sarebbe normalità, la malattia anormalità. Alcune tradizioni o concetto utilizzati nelle CAM, come ad esempio la medicina umorale o l’omeostasi, fanno specifico richiamo ad un concetto di normalità/anormalità, e quindi ricadono in una concezione oggettiva di salute/malattia.