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  • Pages: 15
STUDIA UNIVERSITATIS S. THOMAE IN URBE 15

SANT'ALBERTO MAGNO l'uomo e il pensatore

a cura della Pontificia Università

MASSIMO

-

u

S. Tommaso »

MILANO

- Roma

AL LETTORE

Con approvazione delì'ordine Domenicano e del Vicariato di Roma

Nel presente volume sono raccolti alcuni studi elaborati in occasione del corso di conferenze che nel novembre 1980 vennero tenute a Roma per illustrare la vita e il pensiero di SantlAlberto Magno, Dottore della Chiesa, a cura della Pontificia Università San Tommaso dlAqtiino de Urbe, della quale il Maestro di Colonia è compatrono. Siamo onorati e lieti di poter premettere agli studi dei docenti della nostra Università il testo del discorso che Giovanni Paolo Il, ex-Alunno della stessa, tenne il 15 novembre 1980 nella Cattedrale di Colonia, e la preghiera da lui rivolta al Santo nella Chiesa di Sa~zt'Andreadove è sepolto. Tutto ciò a memoria del V I 1 Centenario della morte (12801980), che il Papa andò a celebrare a Colonia nei giorni stessi in cui a Roma si si~olgevail corso di conferenze presso la Pontificia Università San Tommaso.

ISBN 88-7030-951-7 Prima edizione: marzo 1982 Copyright @ 1982 by Editrice Massimo Corso di P o ~ t aRomana, 122 - 20122 Milano Proprietà letteraria riservata Printed in Ztaly

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T,ipografia S.T.I.- Romla

SANT'ALBERTO MAGNO E IL RINNOVATO COLLEGAMENTO TRA PENSIERO SCIENTIFICO E FEDE NELLA PAROLA DI GIOVANNI PAOLO I1

Coloilia, Cattedrale, 15 novembre 1980.

CONCILIAZIONI ONTOLOGICHE DELLE TRADIZIONI PLATONICA E ARISTOTELICA I N SANT'ALBERTO E SAN TOMMASO

P. Edward Booth O.P. della Pontificia Commissione Leonina, Roma.

I1 confronto nel tredicesimo secolo dei filosofi-teologi con temi aristotelici che mettevano in discussione uno stile platonico di pensiero, di lunga tradizione nei paesi cristiani, non era senza precedenti. Al volgere del quinto secolo non solo si faceva affidamento sulle agevolazioni delle categorie aristoteliche per sostenere le articolazioni delle dottrine cristiane sulla Trinità e la natura di Cristo: si utilizzavano cristianamente anche concezioni aristoteliche nelle critiche rivolte a quei sincretismi pagani di temi platonici e aristoteiici a noi noti come neo-platonismo D. La comparsa di queste critiche negli scritti dello pseudo-Dionigi e di Boezio (che assunse una posizione più aristotelica, e al contempo più monoteistica, di opposizione al neoplatonismo pagano che perdurava) contribuì a promuovere una valutazione positiva dei mondo mat'eriale per quello che è. Le ontologie neoplatoniche, specialmente quella di Proclo, questo l'avevano negato insistendo sulla dipendenza del mondo da un più reale mondo di intelligibili creativi. Ai cristiani questo parve un atto di dispregio per la bontà della creazione di Dio. Tuttavia, nell'occidente cristiano, la teodicea platonica di Sant'Agostino, grazie alla quale le idee di Platone divennero i pensieri di Dio, e le almeno altrettanto importanti traduzioni latine degli scritti dello pseudo-Dionigi, insieme con i primi testi platonici in latino, gli scritti di Giovanni Scoto Eriugena, e gli scritti provenienti dalla duecentesca scuola di Chartres garantirono nel dodicesimo secolo la preminenza a un platonismo cristianizzato. La conoscenza testuale di Platone era limitata al Timeo. Ciò che era stato trovato di utilità alla teologia cristiana era confluito nell'enorme volume degli scritti di Sant'Agostino. Sarebbe difficile sottovalutare l'importanza che questo suddito della Roma tardo imperiale ebbe per l'età oscura e per la rinascenza culturale del medioevo. La forma lapidaria delle sue opere, malgrado il carattere di Gelegenheit (occasionale) dei sui scritti, fornì verità atemporali per mediazioni verosimilmente senza fine. Le forme retoriche, originalmente intese per rapidi e subito dimenticati successi o insuccessi nelle aule di tribunali, copiate da dimenticati scribi, parevano parlare dalla beatificata immobilità

dell'eternità, della quale, in innumerevoli perorazioni, esse ~ a r l a vano. E tuttavia il pensiero di SantlAgostino non si costituì in un sistema: era piuttosto una ben connessa costellazione di intuizioni, sempre tese verso l'alto a trovare in Dio il loro ultimo luogo di riposo. E all'interno di questa costellazione di intuizioni, non v'erano solamente elementi platonici e neoplatonici interamente cristianizzati, ma anche elementi aristotelici. Non disse forse egli nelle Confessioni di aver letto le Categorie e di non aver avuto bisogno che nessuno glie le spiegasse? oltre a questa sono molte le fuggevoli allusioni a temi aristotelici. Non sorprende che la Cristianità dell'occidente potesse accettare insieme le congiunte autorità di SantlAgostino e dello pseudo-~ionigi. Non solamente le loro teodicee erano accostabili, e insieme ad esse le loro concezioni dell'uomo e le loro concezioni della grazia; anche alcune delle circostanze che li avevano indotti a scrivere erano comuni a entrambi. Entrambi infatti scrissero spinti da uno stesso motivo, sebbene a distanza di un secolo. ~ a n t ' ~ g o s t i n o scrisse la sua Città di Dio e il suo De Trinitate in risposta al risorgente neoplatonismo pagano di Plotino e di ~orfirio,che aveva trovato tra i profughi pagani nel Nord Africa dopo la presa di Roma nel 410; lo pseudo-Dionigi scrisse il suo Dei nomi divini, e forse in parte anche altre delle sue opere, in seguito alla sfida del pensiero di Proclo. In entrambi i casi il metodo fu irenico ed essenzialmente lo stesso: consisteva nel prendere in prestito elementi dal neoplatonismo e nell'usarli nuovamente, strutturandoli in modo nuovo: e nel renderli, con questa correzione apologetica, accettabili alla concezione cristiana di Dio come dell'uomo. Anche la conoscenza testuale di Aristotele era scarsa. Quale risultato del rinnovarsi degli studi sotto Gerbert, successivamente papa ~ilvestro11, e nello spirito del curriculum di studi ecclesiastici proposto nel de Doctrina Christiana di Sant1Agostino1 alcuni dei lavori aristotelici di logica - le Categorie e il Peri Hermeneias, preceduti dall'Eisagoge di Porfirio e completati dalle opere di logica di Boezio, Cicerone e Vittorino - costituirono un prospetto di studi filosofici noto come Logica VetuS. L'autorità di Agostino pareva trascendere e unire le due tradizioni di Aristotele e di Platone; la conoscenza di entrambi era per esterisione minima, e non venendo rapportati l'uno all'altro questa conoscenza minima di essi non rilevava alcun problema insu~erabile che mettesse in difficoltà la loro fusione nel pensiero eristiano e la loro reciproca coesistenza. In tali condizioni l'ideale . 62

cristiano di un'unità della verità pareva essere stato raggiunto, grazie alla sapienza di Agostino. La conoscenza di altri testi platonici non avrebbe turbato la relazione che s'era già stabilita con le parti note di Aristotele. Ma non si potrebbe affermare la stessa cosa per il volume del pensiero aristotelico là dove esso rimaneva sincretisticamente inadulterato dal neoplatonismo. Sebbene Bisanzio in epoca più tarda avesse mostrato un maggiore interesse per la sua scienza naturale che per la sua metafisica, tuttavia gli aristotelici arabi, che abbiano ricevuto in origine tramite i Siriani testi e commenti aristotelici insieme ad altri neoplatonici e platoneggianti, erano divenuti progressivamente sempre più intransigenti nella loro metafisica. Un poco disorientati dall'ascrizione ad Aristotele di quelli che erano di fatto testi neoplatoneggianti, che si avevano ricevuto in forma monoteizzata o che avevano corretto in senso monoteistico, ciascun appartenente alla linea principale dei filosofi arabi, al-Kindi, al-Farabi, Ibn Sina e Ibn Rushd, mostrò un sempre maggiore ritorno alla metafisica di Aristotele, ritorno che si può verosimilmente far risalire al rifiuto da parte di al- arabi della cripto-plotiniana Teologia di Aristotele. Nel tredicesimo secolo, se si fa eccezione per il cripto-procleo Liber de Causis che veniva presentato come a peripatetico », la tradizione neoplatoneggiante era, in quei centri della Spagna musulmana che sarebbero divenuti in qualche modo importanti per la Cristianità occidentale, un ricordo assai lontano. La Cristianità occidentale non era al corrente della voluminosità e della natura del materiale aristotelico. Mentre la teoria etica e la scienza naturale potevano venire assimilate senza difficoltà, la metafisica di Aristotele era destinata a porre ben più ardui problemi. Infatti conteneva una ripetuta e profonda critica del platonismo, delle cui agevolazioni s'era avvaisa la teologia cristiana. Tanto più che essa sarebbe stata accompagnata dalla sistematica rielaborazione di Ibn Sina e dai limpidi e completi commenti di Ibn Rushd - cose di cui non v'erano stati precedenti né anticipazioni. La totalità della Metafisica dello Shifa venne tradotta in latino, e in seguito per intero pure i Medi e Grandi Commenti di Ibn Rushd alla Metafisica, e possibilmente anche le sue Epitome. Lasciando a parte la polemica interna di Ibn Rushd per i fraintendimenti di Ibn Sina (non in quanto neoplatonico, come vien spesso affermato, ma in quanto péripaticien manque?, essi devono esser apparsi come due alternative e strettamente apparentate interpretazioni di Aristotele, di indubitabile autenticità. Successivamente i testi di Aristotele in gre63

co avrebbero permesso un'interpretazione ancor più fedele di quella basata sulle traduzioni arabo-latine, come pure l'avrebbero permessa gli originali di antiche autorità, specialmente i commenti di Alessandro di Afrodisia, Temistio e Nicola Damasceno, estratti dalle cui opere si potevano trovare in particolare negli scritti di Ibn Rushd. Nel passato la metafisica era stata un'occupazione di pochi. Alessandro aveva scritto il suo commento intorno al 200, e gli scholia di Giovanni Filipono sulla Metafisica allJinizio del sesto secolo lo seguivano nello spirito, e persino (in forma abbreviata) nella lettera. A partire dal libro V il commento di Alessandro sopravviveva solo in forma mutilata, e venne ricostruito nell'undicesimo secolo da Michele di Efeso. Anche nel mondo islamico gli aristotelici venivano guardati con sospetto dall'autorità religiosa; il loro pubblico, così come quello in Bisanzio, era ristretto. Ma queste opere, al loro arrivo nella Cristianità occidentale, ebbero subito un grande pubblico in ogni principale centro religioso, le recenti università incluse; e si trattava di un pubblico enormemente influente, poiché non apparteneva a cerchie al di fuori della sfera dell'ortodossia religiosa come in Islam, ma era composto dalle stesse autorità religiose: chierici, sia negli anni della loro formazione oppure già ordinati. E fu nelle mani di tale pubblico relativamente immaturo che improwisamente giunse la profonda critica della tradizionale metafisica platoneggiante, non solo attraverso i testi di Aristotele, ma anche con i commenti altamente elaborati dei commentatori arabi quale guida. Per i1Europa occidentale si trattava di una situazione intellettuale che per genere ed estensione non aveva precedenti. E' palese quindi che quegli studi moderni che ricercano in questo periodo semplicemente l'« influenza » di un pensatore su di un altro, quasi che in questo risiedesse la chiave del tutto, si sbagliano di grosso. Ciò che è necessario fare è invece considerare la situazione nella sua globalità ed esaminare non tanto l'influenza ricevuta quanto la reazione creativa dei grandi filosofi-teologi a questa turbuienta situazione di crisi; una reazione generosa e veemente che dimostra la loro preoccupazione sia per probiemi di ordine pastorale che intellettuale. Sebbene la controversia metafisica e soprattutto ontologica non assunse le proporzioni di una cause celèbre delle dimensioni di quella suscitata dalla tesi dell'unicità dell'intelletto potenziale, tuttavia era d'importanza vitale. Sant'Alberto come San Tommaso dovettero stabilire una relazione tra il tradizionale neoplatonismo cristianizzato e 1'aristotelismo radicale che aveva avuto inizio come criti-

ca di ciò che era per Aristotele la palese erroneità del platonismo; la voluminosità del materiale e le contraddizioni che rilevava non potevano più coesistere all'interno dell'area vagamente definita del pensiero di Agostino. L'arrivo di tanto materiale aristotelico fu caratterizzato da una acritica accettazione da parte di alcuni, un- acritico rifiuto da parte di altri, e una discriminata accettazione da parte di altri ancora, che tendeva a unificarlo, conciliandolo, alla teoria esistente ed unanimamente accettata. E' questa discriminata accettazione a caratterizzare le pur diverse ontologie sincretistiche di entrambi Sant'Alberto e San Tommaso. Era assiomatic0 per essi che la verità non potesse in ultimo essere in conflitto con se stessa, dato che essa risiedeva interamente in Cristo, che era la Verità stessa, e che in qualche modo era, come aveva insegnato SantlAgostino, i'unico, infallibile, interiore maestro di ogni verità. L'interesse risiede nel differente modo in cui entrambi costruirono una complessa figura filosofica come strumento di interpretazione che, attraverso un'organizzata messa in relazione di categorie, permetteva di convertire materiali disparati in un tutto coerente. Si trattava innanzitutto di una questione di ontologia e di epistemologia, e di trovare una posizione nella quale le relazioni categoriali potessero aver luogo in funzione di una profonda intuizione che dava loro validità. Questo obiettivo non venne raggiunto quando in queste figure eclettiche questioni controverse assunsero un carattere indipendente e di principio - come ad esempio la tesi averroista di San Tommaso della totale identità della cosa con l'universale. E per di più l'accettazione discriminata di certe tesi averroiste fu ritenuta riprovevole in base alla completa inaccettabilità di altre due tesi. E' chiaro che né Sant'Alberto né San Tommaso si limitarono ad aristotelizzare il materiale preesistente nella cultura cristiana ed è anche chiaro che i principi fondamentali che guidavano il loro sforzo di riconciliazione dei materiali platonici e aristotelici erano diversi. Questo può venire affermato senza quel certo tono spregiativo che traspare in tre saggi di Bruno Nardi: « Alberto Magno e san Tommaso »: « La posizione di Alberto Magno di fronte all'Averroismo »; << Individualità e Immortalità nel1'Averroismo e nel Tomismo (l). Alcune delle lagnanze di Nardi in apparenza sono giustificate, poiché v'è nella concezione di un peripatetismo albertino-tomistico » un'ingenuità che non discrimi(1)

Raccolti nei suoi Studi di Filosofia Medievale (Roma, 1960).

na sufficientemente tra i loro diversi peripatetismi. Ma poggiava su una base meno solida quando scrisse: << E' evidente che, mentre Tommaso tende a liberare veramente il pensiero aristotelico dalle soprastrutture neoplatoneggianti degli arabi e a ridargli la schietta fisionomia originale... Alberto, invece, non segue da vicino la maniera d'interpretare degli arabi, specialmente di Avicenna, ma talora si sforza di conciliarla col pensiero cristiano (*). Questo è sbagliato per due ragioni: a) quanto più si studiano i filosofi arabi, tanto più diviene certo che al-Kindi, al-Farabi, Ibn Sina e Ibn Rushd rappresentano altrettanti stadi nell'aristotelizzazione di ciò che in al-Kindi appare ancora essere un orientamento procleo e neoplatoneggiante, specialmente neli'ontologia. E per quanto riguarda Ibn Sina, sebbene vi possano essere alcuni elementi neoplatoneggianti nella sua cosmologia dovuti alla sua accettazione di alcuni apocrifi pseudo-aristotelici come autentici, se si continua l'attenzione alla sezione u Eisagoge » della Logica (l'unica sezione nota in traduzione latina) e alla Metafisica del suo Shifa, deliberatamente ed esplicitamente peripatico, è fuori di discussione che egli non può in alcun modo venir descritto come un neoplatonico. E ancora, sebbene si affermi senza tregua il contrario, la critica di Ibn Sina da parte di Ibn Rushd non riguarda alcuna tesi che possa venir riconosciuta come neoplatonica, cripto-plotoniana o cripto-proclea che sia. Lo riguarda come riguarda altri che possono ugualmente venir descritti come aristotelici radicali, in quanto dibattito tra studiosi all'interno di un contesto esclusivan~entearistotelico, e concerne il suo insuccesso nel rappresentare fedelmente il significato di Aristotele: non per esser ricaduto su vecchie posizioni neoplatoniche, ma per aver cercato di ricominciare daccapo. Come s'è già detto la critica che Ibn Rushd rivolge Ibn Sina è che egli è un péripaticien manqué. E in questo caso, ma per ragioni differenti, la tesi di Nardi è giusta: c'è un riconoscibile elemento neoplatonico in Alberto, che ci dirà molto su di lui. Ma c'è non perché egli avesse accettato il neoplatonismo dagli arabi, ma perchd egli awertiva l'urgente necessità di conciliare il nuovo Aristotele, e soprattutto la metafisica, con il tradizionale neoplatonismo cristianizzato e monoteizzato, in particolare con quello di SantlAgostino e dello pseudo-Dionigi. (2)

Op. cit., pp. 104-105.

b) I1 secondo punto sul quale Nardi si trova in errore è il suo ripetere la caratterizzazione comunente accettata dell'orientarnento di San Tommaso, secondo cui egli avrebbe rimesso in evidenza l'insegnamento principale di Aristotele, liberandolo dalle concrezioni neoplaneggianti, ed opponendolo così ad Alberto che si sforzava di conciliare il pensiero cristiano con l'aristotelismo. E' invece certamente falso che la teologia e la filosofia di Tommaso siano esenti da ogni traccia di platonismo. Solo la tradizione d'ispirazione platonica poteva fornire agevoiazioni per una teodicea tale da essere utilizzabile dal Cristianesimo. Inoltre si avverte in Tommaso la stessa intensa ricerca che si ritrova in Alberto di una via per unificare la nuova ontologia aristotelica con il platonismo che ne era Soggetto di critica. E Tommaso trovò l'unico modo soddisfacente in cui ciò poteva essere compiuto: una via che egli intraprese senza dubbio prestando molta più attenzione all'impresa sincretistica del suo maestro, Alberto, di quanto i pochi possibili e non espliciti riferimenti a lui possano far sospettare. Senza la generosa ed ingegnosa riconciliazione di diverse tendenze compita da Alberto, il tentativo più soddisfacente di Tornmaso sarebbe stato di gran lunga più difficile, e non avrebbe assunto la forma che prese: Alberto aveva provveduto l'orientamento, il modello globale e lo stile dettagliato. E tuttavia il risultato fu diverso nei principi e nei dettagli: pare derivare da un diverso equilibrio degli elementi. Per entrambi Alberto e Tommaso la partecipazione alle idee da parte delle cose, separate in ultimo sia dalle cose che l'una dall'altra era inaccettabile. Alberto concepiva le rationes in Dio reciprocamente più indipendenti che Tommaso; esse con una certa indipendenza contengono le cose che hanno in esse la loro costituzione: « praeexistunt in Deo sicut universale praehabens rem » C). Questo in Alberto è comprensibile dato che, come apprenQiamo dal suo Commento, egli aveva accettato il principio delle emanazioni plurime trovato nel Liber de Causis, che egli riteneva essere u peripatico D, e che quando egli tratta delle tre emanazioni dell'esse, del vivere e dell'intelligere nei Nomi Divini dello pseudo-Dionigi pare in ogni caso averle interpretate come plurime. Tommaso, però, prendendo forse spunto da un brano in quest'ultima opera che presentava l'emanzione dell'esse come totale e includente le altre, vide che ogni emanazione doveva venir collocata all'interno dell'onniawolgente comunicazione del(3)

Cfr. infra,p. 78.

l'esse da parte di Dio. Per questa ragione egli pare essere meno platonico di Alberto, visto che, venendo la molteplice radiazione della forma inglobata nell'unica comunicazione dell'esse, pare assente un'identificabile struttura di partecipazioni, e la empeiria aristotelica è spesso messa maggiormente in luce. Questo accade non perché la platonica partecipazione delle forme sia meno implicata ma perché lo è di più: è la totale dipendenza dell'esse creato, che include la totalità delle forme, dall'esse increato di Dio, che per la proporzione degli elementi nella figura di Alberto, acquista da lui una maggiore prominenza. Per quanto riguarda la tradizione platonica Alberto aveva due obiettivi: a) dare un resoconto della critica di Aristotele a Platone. In questo caso era nota giusto una quantità sufficiente degli scritti di Platone per comprendere la critica delle forme, ma non abbastanza per comprendere la critica dei numeri. Dobbiamo per questo cercare nei luoghi del commento alla Metafisica che riportano le critiche di Aristotele. b) armonizzare il neoplatonismo cristianizzato esistente con la nuova ontologia aristotelica. Alla ricerca di questo dobbiamo esaminare un numero maggiore di testi: i commenti sul Liber de Causis e sui Nomi Divini, ed anche i lavori di logica. Nel raggiungere entrambi questi obiettivi Alberto si mostra conciliante. Per raggiungere il secondo dei suoi obiettivi il suo metodo consisteva nel comporre con elementi provenienti da entrambe le tradizioni una complessa figura filosofica. E qua la concezione dell'identi~à dell'universale con l'individuale, che egli aveva trovato in entrambe le tradizioni, è l'agevolazione alla quale l'intera figura deve la sua plausibilità. Alberto scovò tale concezione nel secondo commento aillEisagoge di Boezio e (forse) nelllEpitome di Metafisica di Ibn Rushd; questi, presi insieme e in relazione ad altri testi, dovevano esser parsi una guida affidabile alla comprensione di testi contenuti nella stessa Metafisica, e soprattutto al libro VII, testi che erano oscuri a causa degli evidenti maldestri tentativi dei traduttori di mettere in ordine quelle cose che nel testo stesso di Aristotele erano profondamente aporetiche. Secondo la mia personale opinione direi che la pur diversa posizione di Ibn Rushd nel suo Medio e nel suo Grande Commento alla Metafisica, vale a dire che c'è un miscuglio dell'universale con l'individuale, è una variante piuttosto inelegante della stessa concezione. L'identità dell'universale

con l'individuale si prestava a esattamente il genere di sincretismo che Proclo aveva compiuto con i testi e i temi platonici e aristotelici: « Ogni tutto-in-una-parte è parte di un tutto-di-parti » (4). Era relativamente facile imporre una relazione di unione tra cose che erano oggetto di una specifica somiglianza, e concepirla come prodotto di un processo creazionale, che nasce nella mente di Dio e non viene mai meno - soprattutto visto che nei Topici Aristotele aveva usato un linguaggio platonico, e aveva parlato di generi e specie contenenti gli individui. L'approccio filosofico di Alberto era quindi quello di convogliare materiali aristotelici e anche altri a carattere peripatetico di origine greca, islamica ed ebraica in un sistema creazionale nel quale il cosmo veniva visto in diretta dipendenza per la sua specificità dall'azione creazionale di Dio, esprimentesi attraverso l'ordinata genericità e la specificità delle cose, così come nel sistema aristotelico di logica formale. Lo si dovrebbe quindi descrivere un sistema logico-emanazionistico. La stessa figura si trova nei lavori di logica, che ne vengono quindi ontologizzati in un modo che può solo ricordarci la logica di Hegel: e in modo più dettagliato nei commenti sulla Metafisica e sul Liber de Causis, che dovrebbero venire considerati come complementari. Le fonti di questa teoria emanazionistica sono senza dubbio, a parte Agostino, alcune tracce neoplatoniche nei due commenti di Boezio sull'Eisagoge, i Nomi Divini dello pseudo-Dionigi soprattutto, e lo stesso Libeu de Causis. A causa delle associazioni che siamo portati a fare alla concezione emanazionistica nelle sue varie forme, possiamo non notare immediatamente l'approccio perspicace di Alberto, che trova nella realtà ultima un'equivalenza, rappresentata dalle metafore dell'emanazione, della creazione, del flusso e dell'illuminazione, e che vede tutte le teorie apparentate e approssimativamente equivalenti tra di loro. L'ontologia dei lavori logici di Alberto è fondamentalmente un'identificazione di un'emanazione, di purissima concezione, delle forme da Dio con una formale struttura logica. Dio crea e mantiene nell'essere ogni cosa attraverso la sua forma, e la formale struttura logica generalizzata nei predicabili dell'Eisagoge di Porfirio suggeriva che il modello fosse ordinato e totalmente interrelazionato. Questa identificazione dell'emanazione e della logica significava che il genere non era meramente un attributo universale di ogni membro della sua specie: era esso stesso un comincia(4)

Elementi Theol. Prop. 68.

mento confuso di ciò che veniva portato a perfezione nella forma o specie. Era la u forma generalis, et confusa et indistincta f ormae inchoatio... Species autem dicit notionem totius sic determinati et distincti D. E la forma caratteristica nella quale ciò viene spiegato è l'immagine della luce. In questa possiamo vedere non solo la duratura tradizione del paragonare l'intellettualità allo splendore della luce nell'oscurità, che si ricollega alle immagini del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma in particolare l'espressione che viene data a questa metafora nel pensiero dello pseudo-Dionigi, e in quello dei filosofi ebrei Ibn Gebirol e Ibn Dawud: « sicut color secundurn esse formale est in lumine indistincto et confuso diaphani sive perspicui, qui distinguitur non alio quodam distinguente, sed esse formale ipsius eiusdem luminis diffusione determinata ad superiorem determinati corporis » (5). Che il colore debba venire all'esistenza quando una superficie viene illuminata suggerisce una debolezza nella metafora. Se è la forma che viene irradiata o emanata da una superiore fonte intellettuale, da dove viene la materia che riceve la forma? La risposta di Alberto sarebbe probabilmente stata che l'emanazione della forma alla quale l'esse proviene è talmente profonda da esserne del tutto fondamentale - sebbene per lui l'esse fosse distinguibile dalle altre emanazioni. Un passaggio nella sua opera sui Predicamenti (Categorie) adopera l'immagine della luce che dà forma alle cose a partire dalla somiglianza con il prototipo, che ha in se stessa; e dall'oggetto, la luce muove la mente, che è connaturale a questa luce: t< secundum veritatem sunt tres substantias formales. Sunt enim formae quae sunt tantum formantes: et illae sunt primae formae procedentes a lunline agentis intellectus ad rei constitutionem, sicut lumen quod est coloris formalis et substantialis causa procedens ad corpus terminatum in perspicuo. Et sunt formae substantiales quae sunt cum eo egredientes in esse rei et constituentes, quae sunt sicut lumen causa coloris, qui iam diffunditur in superficie perspicui: et illae sunt conjunctae substantiae formales rei ipsius quae substantialiter est constituta. Et similiter substantiae formales quae sunt rem constituentes, quae sunt sicut color est immutativus visus ve1 motivus secundum actum lucidi sive perspicui, qui abstractus a colorato corpore determinato secundum esse spiri(5)

De Praedicabilibus, Borgnet ed., p. 95 a-b.

tuale est in perspicuo, et secundurn esse speciei et animale sive intentionale est in oculo percipiente colorem » ( 6 ) . E questo per il fatto che la mente ha sopra ogni altra cosa la capacità di essere aperta a questa luce dalla quale viene colmata di ammirazione: u Ex hoc enim quod homo intellectualis est et intelligentiae stratum, in quo sternuntur formae intellectuales in actu hominis intelligentiae... fit homo admiratiVUS »

C).

La spiegazione di questa del tutto particolare unione di emanazione creazionale e di logica formale risiede interamente nel bisogno awertito da Alberto di porre, nella generale intenzione di stabilire una nuova unità della verità, l'articolata struttura logica di Aristotele, specialmente quale si trovava esposta nella sezione « Eisagoge D della Shija di Ibn Sina, in relazione sistematica con una maggior quantità di materiale neoplatonico, per io più ben noto nei paesi occidentali e parte di una lunga tradizione. Espressioni platoneggianti che si trovavano nei Topici, che era chiaramente la principale fonte dell'Eisagoge di Porfirio (alle Categorie), tali da destare l'impressione che il genere contenesse le specie e che le specie contenessero gli individui, devono venir considerate formulazioni provvisorie, con le quali Aristotele intendeva non avanzare la medesima posizione ma indicare ia differenza tra le sue concezioni e quelle di Platone. Privata dell'aporetica titubanza nei riguardi del senso in cui i generi e le specie « contenenti » in effetti « contenevano D, una più ordinata e semplificata versione del materiale di Aristotele si prestava, grazie alle agevolazioni offerte da queste espressioni platoniche, a un'interpretazione platoneggiante. Tale era stato l'uso fattone dai neoplatonici dal terzo al sesto secolo e tale fu l'uso che ne fece Alberto. Nelle sue mani il materiale della logica viene immensamente arricchito dalla sua fusione con concezioni emanazionistiche. Prima di dar un giudizio dicendo che ciò può essere ingegnoso, ma non è né logica né teoria dell'emanazione, dobbiamo riflettere che nell'intensità della concezione di Alberto a proposito della radiazione divina che costituisce le cose, e nella sua concezione della posizione dell'uomo predisposto a una istintiva ammirazione, o contemplazione, traspare la visione di un santo illuminato che cerca di comunicare una ricchezza di visione fino al punto in cui le parole devono esitare e venir meno. Presa in questo modo la metafora della luce non si pre(6) (7)

De Praedicamentis, Borgnet ed., p. 169 b. De Praedicabilibus, p. 2 a-b.

senta più come una copertura fonte di distorsioni, ma come una apertura alla realtà; l'emanazione perde ogni associazione quasitemporale e quasi-spaziale; la puramente concepita creatività di Dio riceve un'immenso significato; e un corrispondente immenso significato viene assunto dall'intensità certo limitata con la quale la mente umana la può concepire. L'uso contemplativorazionale della mente sembra sottostare al potere di un motore superiore, e le sue categorie sembrano trovare un'intima prossimità con ciò che esse descrivono. Che le categorie di Aristotele dovessero rivelarsi essere qualche cosa di più di una creazione dell'uomo, ed essere l'impressione di una più alta verità; e che la mente dovesse essere naturalmente aperta a ricevere nuove impressioni della creatività della stessa fonte eccelsa: questi fatti non sono più fonte di sorpresa, ma plausibili e veri. La complessa figura filosofica della riconciliazione, che, grazie all'intensità semplificante della mente di Alberto, aveva, di teorie apparentemente contrarie, costituito un'unità, suggerendo insospettabili somiglianze sostanziali, viene alquanto sviluppata nei commenti alla Metafisica e al Liber de Causis (che Alberto riteneva sufficientemente peripatetico da far da complemento alla Metafisica). All'inizio la quantità di materiale neoplatonico che si trova nel commento alla Metafisica desta sorpresa. Non proveniva né dagli aristotelici arabi, né dalle traduzioni della Metafisica compiute dall'arabo da Michele Scotto, che Alberto aveva attentamente comparato con l'anonima traduzione Media dal greco, sulla quale egli dipendeva principalmente. Così come nel caso delle opere di logica, tale materiale venne messo in relazione con il materiale aristotelico dallo stesso Alberto. L'emanazione delle forme, il flusso dell'esse, la metafisica della luce sono tutti nuovamente presenti in una forma assai sviluppata e approfondita. Seguendo il suggerimento di un irrintracciabile passo di Al-Farabi, anch'egli peripatetico, l'assoluta e diretta dipendenza di ogni forma da Dio, come pure l'assoluta e diretta dipendenza di ogni conoscenza da Dio, viene detta essere simile alla dipendenza dei colori dalla luce fisica. K Forma ,habet esse formae in eo quod separatum lumen est hypostasis formarum, sicut lux corporalis est hypostasis colorum... Sic igitur separatum esse formae habens per hypostasim suam, quae in esse formali substantificat eam, habet quod est principum esse et scientiae » (8)

Metaphysica, Geyer ed., I, p. 89 a.

Qui l'immagine di Aristotele dell'intima dipendenza del colore dalla luce riceve un significato molto più esteso. E tuttavia il luogo comune dell'intelligenza quale illuminazione non è estranea all'intera tradizione platonico-aristotelica. Su questo argomento, spunto per un'intensa contemplazione del potere di Dio tramite la metafisica della luce, Alberto ritorna per suggerire in che modo le posizioni essenziali di Plaione e di Aristotele possono venir messe reciprocamente in relazione: Platone, egli dice, pose l'accento sull'unica fonte della luce, mentre Aristotele mise l'accento, giustamente, sugli individuali recipienti, che modificano la semplicità della luce conformemente alla propria costituzione: « Volebat enim Plato, quod unitas formae esset ab unitate luminis, quod est hypostasis ipsius. Aristoteles autem dicebat, sicut et verum est, quod licet lumcn hoc sit hypostasis formarum, tamen determinantia lumen illud sunt essentialia formae, inquantum est forma rei illius et illius, et ideo multipliciter participatur esse luminis in formis et formatis, sicut et lux corporalis multiplex esse accipit in coloribus diversis, et quia sicut resolutio colorum est ad hypostasim unam lucis corporalis, ita dicebat Plato, quod resolutio foimarum est ad hypostasim unicam primae lucis » (9). Quindi la relazione tra ie posizioni di Aristotele e quelle di Platone è simile alla relazione esistente tra la varietà degli oggetti colorati e l'unica fonte di luce sulla quale, in quanto colorati, essi dipendono completamente. Si presenta quindi l'irenica conclusione: « Et scias, quod non perficitur homo in philosophia nisi ex scientia duarum philosophiarum Aristotelis et Piatonis » (l0). L'elemento chiave nell'elaborazione in Alberto dell'incontro speculativo di strutture logiche e reali è la natura della specie. La paradossale identificazione dell'universale e del particolare era un tema centrale nella Metafisica di Aristotele, sebbene vi si trovi condizionata da certe aporetiche titubanze che crearono imbarazzo nella letteratura di commento che desiderava nei suoi testi scoprire e rilevare ordine e certezza. Alla fine del tredicesimo secolo questa fu una tesi che divenne ancor più paradossale, poiché se un universale coincideva con il particolare allora ogni universale in esso presente coincideva con il particolare; e di conseguenza gli universali coincidevano l'uno con l'altro. Questa, la dottrina dell'unicità della forma, era ritenuta un tradimento dell'insegnamento di Agostino e un indice di aver(9) Zb., p. (10) Zb.

89 b.

roismo. Questa si trova nella concezione della specie di Alberto, ed coscientemente presa in prestito dalla metafisica di Ibn Rushd, poiché pareva coincidere con l'insegnamento di Boezio che « species est totum esse et substantia ». Come vedremo, né Boezio né Ibn Rushd credettero che la specie e l'individuo da essa costituito nell'esse, e in qualche modo con essa coincidente, esistessero indipendentemente, e quindi si può concedere ad Alberto di aver trovato una sostanziale identità nelle loro pur diversamente espresse vedute. Dal punto di vista di Platone, quale egli lo comprendeva , la forma veniva irradiata dalla suprema fonte divina, indotta nell'oggetto; dal punto di vista di Aristotele quale egli lo comprendeva, la forma veniva edotta dalla potenzialità della materia. Ragion per cui nella specie di un oggetto costituito si trovano insieme la C( species immediata educta de substantia potentiae generis », e la « species immediata et forma materiae causata ex aliquibus passionibus eius » ("); una giusta considerazione del fatto che nei generi v'è una divisione in specie contrarie, e anche del fatto che vi sono altre opposizioni nella materia che sorgono dal fatto che la stessa materia produce accidenti comuni ed individuali. Grazie a questo incontro speculativo di forme corrispondenti, reciprocamente preadattate, e grazie alla divina intenzione di questo stesso, Alberto chiaramente sperava che la completezza della concezione avrebbe in effetti, risposto a qualunque domanda riguardante l'origine e la natura della materia. Persino questa tolleranza di un'esistenza duplicata delle forme in Dio e nella materia veniva tollerata da Ibn Rushd: « Omnes proportiones et formae sunt in potentia in prima materia, et in actu in primo motore » (l2):egli era consapevole della difficoltà che l'origine della materia presentava, e a tale proposito fece un'ulteriore osservazione (l3). Tuttavia la figura di Alberto dette un maggior peso alla genericità e alla specificità che non all'individualità dell'empirismo di Aristotele - come è evidente da ciò che dice, che cioè una natura individuale è accidentale a una natura comune: « Significatur etiam in accidentibus, sicut curn dico filius vel Socrates ve1 albus musicus ve1 aliquid huiusmodi D (l4). E' quindi accidentale per un uomo essere Socrate; perciò l'aspetto universalizzabile di un uomo ha la priorità sulle sue determina(11) (l*)

(13) (14)

Ib., 11, p. 456 b. VI11 ed. 1560, vol. 8, fol. 326 F. In de Divinis Nominibus, Geyer ed., p. 73 a-b. Metaphysica, Il, p. 480 b.

.

zioni individuali. Sebbene questo possa essere connesso, generalizzata e aporetica questione in Aristotele, la tendenza generale del suo pensiero era di vedere questi aspetti nell'ordine inverso. « "Uomo" e "uomo colto" sono la stessa cosa, o perché "colto" è un accidente di "uomo", che è ununica sostanza; oppure perché entrambi sono accidenti di un qualche individuo per esempio Coriscus n. Secondo Aristotele quindi non è accidentale per un uomo l'essere Socrate, ma è accidentale per Socrate l'essere uomo. Questa posizione (della Metafisica) è a sua volta connessa con una posizione che si trova solamente nelle Categorie, che cioè la sostanza seconda è una « qualità relata a una sostanza ». E ancora, secondo la Metafisica, un individuo può venir considerato un composto in due sensi: in quanto composto di razionale e animale, e da un punto di vista che al primo si sovrappone, in quanto composto di anima e corpo considerati universalmente. Questo vale per ogni individuo uomo. Oppure un individuo uomo può venire considerato come completamente individualizzato: « è questa carne e queste ossa D; e prowisto di un nome come Socrate D. Secondo Aristotele è quest'ultimo a essere un composto (synolon), in un modo incondizionato che ne fa il vero composto. Un uomo indicato come « quest'animale razionale » è un composto in un senso secondario e condizionato: « u n certo composto » (synolon ti). Quindi l'alterazione dell'originale equilibrio aristotelico, piccola ma importante, è il prezzo pagato per l'unione eclettica d i tanto materiale appartenente alla tradizione platonica e neoplatonica con la sua critica aristotelica. Non è tuttavia la metafisica del mondo materiale il punto centrale del pensiero di Alberto, che soprattutto si sforzava di soddisfare la necessità di armonizzare in più grande schieramento possibile di verità ricavate da ogni sorta di fonti. Egli considerò questo compito innanzitutto come una vocazione religiosa; e di conseguenza il punto centrale del suo pensiero risiede nella sua teodicèa. Abbiamo già visto come egli abbia stabilito connessioni speculative tra logica e teodicèa. Senza dubbio la spiegazione finale di questo lavoro di sincretismo risiede nel segreto della mente di Alberto e nella divina illuminazione che egli diceva di aver ricevuto. E' un segreto perché non è stato espressamente formulato in parole. Una spiegazione plausibile potrebbe essere rappresentata, con le dovute rettificazioni, dalla crescita della conoscenza in una ricca unStà e dal raggiungimento di una

nuova semplicità, tanto almeno attraverso uno sviluppo soggettivo quanto con l'oggettiva crescita sia in estensione come nello sviluppo categoriale, così come descritto nella filosofia di Hegel. Pure questo riesce a cogliere l'essenza dell'illuminazione sovrannaturale. L'intensità dello sguardo di Alberto si diresse verso le teodicèa che usavano le immagini del flusso e delle fonti, o processioni, ed egli le vide' come tutt'uno in ultimo in relazione all'immagine dell'artigiano nella Metafisica VII. La forma della casa che l'architetto ha in mente, egli la rende presente nella casa che costruisce; la forma di salute che il dottore ha in mente, egli la rende presente nel paziente. Questa immagine può ben venire applicata a Dio creatore, così-come pure le altre immagini. Alberto vide in tutte queste teodicèa, aristoteliche e neoplatoniche, una similiarità essenziale, che poteva anche tollerare insieme un'interpretazione aristotelica e platonica della crea.. zione ch descrivevano: fluxus est emanati0 formae a primo fonte, qui omnium formarum est fons et origo. Propter quod Plato talem originem datorem formarum vocavit ... Ex quo patet, quod licet forma secundum Peripateticos educatur de materia, tamen secundum hanc viam non dicitur fluere, sed potius causari ve1 produci: sed dici potest, quod fluat secundum quod est actus ab actu, et domus a domo, et sanitas a sanitate, ut dicit Aristotelis in VI1 philosophiae primae. Istum modum fluxus antiqui Peripateticos et primi processionem vocaverunt » (l5). L'ultima frase è significativa, poiché « processio » implica che Alberto considerasse lo pseudo-Dionigi un peripatetico, così come Tommaso asseriva che e a uno che sia attento a ciò che scrive, Dionigi segue Aristotele fere ubique » (l6). Una posizione non infondata, poiché delle correzioni che Dionigi aveva compiuto all'ontologia di Proclo nel suo trattato sui nomi Divini, molte sono fatti in senso aristotelico. Quando ci volgiamo a Tommaso e consideriamo la sincretistica figura filosofica che egli aveva chiaramente modellato negli equilibri e nei dettagli su quella di Alberto, non ci sbagliamo se cerchiamo nel commento sui Nomi Divini la fondamentale spiegazione del suo pensiero. Mentre possiamo considerare i commenti sul de Hebdomadibus e sul Liber de Causis come saggi di rinconciliazione ontologica delle diverse tradizioni, è in questo commento che troviamo i suoi insegnamenti essenziali. (15) (16)

In Libr. de Causis, Borgnet ed., p. 411 a. In 11 Sent., 14, 1.2.

Egli si occupa qui principalmente della dipendenza dell'esse creato dall'esse increato: l'esse considerato come un'unica totalità. L'approccio che considera l'esse sul modello dell'atto può perdere di vista il fatto che è atto in un senso molto particolare, e che la sua relazione all'essenza trascende ogni paragone hylomorfico. L'esse creato include certamente la materia delle cose materiali, ma in sé racchiude pure ogni formalità: genericità, specificità, individualità e ogni accidentalità vengono considerati come derivanti da Dio, sebbene unitariamente, a costituire ogni individuale cosa, il cui esemplare è in Dio. Questo modo di vedere venne da una piena e seria considerazione della comunicazione dell'esse: o significava totale comunicazione o non significava nulla. Era un orientamento che Tommaso prese fin da quando cominciò a scrivere. Da questo conseguirono due cose: una diffidenza per l'ontologia del Liber de Causis con la sua triplice emanazione di esse, vivere e inteiligere, anche prima che la traduzione di Gugiielmo di Moerbeke degli Elementi di Teologia di Proclo rivelasse a Tommaso la verità, e cioé che il Liber de Causis non ne era che una versione monoteizzata; significò pure fin dall'inizio una cortese e rispettosa presa di distanze dalla posizione di Alberto riguardo alla sua accettazione come complemento alla Metafisica. Tommaso notò che l'autore del Liber de Causis concordava con Dionigi nel suo monoteismo, ma non coincideva con lui nella sua concezione dell'emanazione. Dato che l'opera dello pseudo-Dionigi sui Nomi Divini è così importante è estremamente illuminante comparare congiuntamente il commento di Alberto con il commento di Tommaso. La conclusione che emerge dall'esame di tali testi paralleli sono che Tommaso insiste sull'unità dell'essenza di Dio, che contiene in sé tutte le rationes, e sull'unità della totale comunicazione dell'esse da parte di Dio. In contrasto, la teodicèa di Alberto non pone un così marcato accento sull'unità delle rationes in Dio, dando l'impressione che nella loro connessione con la creazione esse godano di un certo grado di indipendenza. In entrambi, Alberto e Tommaso, vi sono elementi di unità e di pluralità nell'essenza di Dio e nella sua attività, ma in Alberto la pluralith e più evidenziata che in Tommaso. La spiegazione di questo è che Alberto non era in grado di far uso dell'agevolazione costituita dalla concezione dell'esse, che avrebbe provocato un diverso equilibrio fra i diversi elementi. Era trattenuto in particolare dall'ontologia del Liber de Causis che faceva dell'esse la prima ma non la totalità dell'emanazione.

In alcuni passi Tommaso critica di fatto la posizione mantenuta da Alberto: a) Alberto dice che Dio non agisce immediatamente tramite la sua essenza: « Deus non sit immediata causa omnium per essentiam » una posizione da cui Tommaso si discosta:

(l7)

« in

sua simplici essentia, omnia virtualiter praeexistunt; et similiter secundum idem procedit ad omnia causative et tamen manet in seipso » (l8).

b) La concezione dell'emanazione di Alberto, sebbene ordinata, sembra implicare in ogni caso la conservazione da parte della particolare ratio universalis di una speciale funzione contenitiva rispetto agli individui che da essi ricevono la loro forma; ed egli estese questo paragone alle rationes preesistenti in Dio: « quae enim in rebus essentialiter differunt, in Deo uniuntur in unitatem divinae essentiae et differunt tantwn rationibus, quae praeexistunt in Deo sicut universale praehabens rem, ut domus in mente artificis » (l9). Ma Tommaso critica questa posizione: in primo luogo di Dio stesso: « rationes praeexistunt in Deo singulariter, idest unite et non secundum aliquam diversitatem » (20)e in secondo luogo, negando che la plurificazione degli effetti del creare di Dio possa essere confrontato a un universale: « in pluralitatem plurificatur in suis effectibus non sicut aliquod universale, sed singulare in seipsa manens » (21). C ) infine, la concezione di Alberto della pluralizzazione nella radiazione delle forme nelle cose create sminuisce la varietà degli individui che vengono descritti come appartenenti a una specie, ma ineguali nei loro atti individuali:

u ea quae sunt in eadem specie, quamvis sint aequalia in esse speciei, non tamen sunt aequalia in actibus individualibus » (22). (17) (18) (19)

(20) (21) (22)

In De Divinis Nominibus, p. 339 b. Zb. Ed. Tour, 672. Ib. (Albert),p. 324 b. Zb. (Thomas), 666. Zb. (Thomas), 215. Ib. (Albert), p. 213 a.

Ma le agevolazioni della concezione dioniigiana di un dono totale e singolo dell'esse a ciascun individuo, che nello stesso tempo include la specificità e le caratteristiche individuali, non presenta alcuna difficoltà simile, e quindi sopporta un più pieno apprezzamento della varietà degli individui nell'esperienza: « ex amore fecit omnia, dans eis esse; et omnia perfecit, implendo singula propriis perfectionibus » (u). Non sorprende quindi che Tommaso avesse trovato un sapore aristotelico nei lavori dello pseudo-Dionigi. L'agevolazione che la sua concezione presentava, vale a dire la totale comunicazione dell'esse, era soprattutto che se Dio era la totale e non parziale causa dell'esse di ogni cosa, la creazione poteva venire considerata simultaneamente come da lui indipendente e come da lui totalmente dipendente. Quindi l'agevolazione dionigiana permise il pieno sviiuppo dell'empirismo aristotelico nella scienza naturale, la metafisica e l'etica. E' da qui che deriva il reale significato del commento di Tommaso sulla Metafisica. Se confrontato con l'opera di Alberto, esso appare notevolmente aderente al testo, e il deliberato sincretismo con il neoplatonismo cristiano, o almeno monoteizzato, non risultava necessario. La filosofia dell'esse non fa quasi capolino in queste pagine; certo non può di quanto non esiga il testo stesso. Ma non è irrelato al resto del pensiero di Tommaso; e il pensiero di Tommaso ha il suo centro in una concezione ciell'esse presa in prestito da Dionigi, che si sviluppa in ogni canto della sua teologia e della sua filosofia. Con la certezza che Dio, in quanto causa totale dell'essere delle cose, sostiene totalmente la sua creazione, l'attenzione umana può continuare a considerare la realtà metafisica come un quasi-fine a se stesso, anche se la concezione dionigiana della dipendenza dell'essere asserisce più di qualsiasi platonica o neoplatonica teoria aeila partecipazione asserisca sulla dipendenza dalla forma. Possiamo quindi asserire che nel commento alla Metafisica di Tommaso, soprattutto quando viene confrontato con quello di Alberto, la presenza dell'ontologia pseudo-dionigiana è evidente per Ia sua completa assenza. C'è un'altra cosa che il commento di Alberto ai Nomi Di-

vini ci può mostrare. A un quarto dalla fine del commento vi sono una serie di osservazioni nelle quali la pluralizzazione di entrambi le rationes in Dio e gli effetti nella creazione pare (a)Ib. (Thomas), 409.

venir messa da parte, e nelle quali Alberto per un lungo passo pare adottare nel suo più pregno significato la concezione del testo pseudo-dionigiano sulla singolarità e la totalità di ogni comunicazione dell'esse: (Deus) est causa substantificatrix totius esse, id est dans omnibus esse... ab eo in quo invenitur esse simpliciter et perfecte, oportet quod sit esse in omnibus aliis, sicut ab eo quod est maxime calidum, est calor in ornnibus aliis; sed esse simpliciter et perfecte invenitur in Deo; ergo ab ipsa est esse in omnibus entibus (24).E soprattutto: a in veritate nihil est enti addibile » (25). E' noto che Tommaso ebbe in suo possesso per molti anni un manoscritto di questa opera, considerato adesso certamente un suo autografo, che è ora il Codex I B 56 della Bibiioteca Nazionale di Napoli (26).Questa sezione dalla quale ho tratto la mia citazione è contigua a un'altra sezione il cui contenuto anticipa la concezione di Tommaso riguardante la « partecipazione astratta ». E' possibile quindi che questo passo delI1insegnamento di Alberto abbia ispirato a Tommaso la sua filosofia dell'esse, o piuttosto il suo personale sviluppo della concezione dell'esse derivata dallo pseudoDionigi, il cui pensiero anticipò l'arrivo del nuovo Aristotele nelllEuropa occidentale; e che gli abbia dato insieme l'ispirazione per sviluppare, sul modello del suo venerato maestro, una sincretistica figura filosofica di maggiore semplicità, utilità e completezza? Si può bensì obiettare che Tommaso fu incompletamente compreso da molti di coloro che lo appoggiavano così come pure dai suoi awersari. Certamente i suoi awersari erano incapaci di prender coscienza dello spazio che le agevolazioni dell'esse offrivano. Essi guardavano alla sua metafisica, che nella sua letterale prossimità ad Aristotele, ricordava loro quella di Ibn Rushd: dopo tutto dei temi averroisti erano stati fatti consapevolmente confluire nelle figure sia sue che di Alberto. Ma Alberto le pose in relazione con i principi metafisici che erano familiari ai suoi awersari dal precedente periodo prescolastico: Alberto espose le rationes dell'azione di Dio, e il paragone con la luce, che egli faceva spesso, esprimeva quel misticismo con i1 quale essi erano familiari. Questa esposizione era assente negli scritti di Tommaso che abbiamo preso in In De Divinis Nominibus, pp. 310 a - 311 b. Ib. p. 315 b. v. P. M. Gils, O.P., Le MS, Napoli Bibliotheca Nazionale I. B. 54 est-il de la main de S. Thomas? n, Rev. Sc. Phil. Theol. (1965), 49, pp. 37-59. (24) (25) (26)

considerazione. E così avvenne che, sebbene il pensiero di Tommaso possa dar di più a coloro che sono pronti a dedicarvisi più profondamente, il pensiero di Alberto, che esponeva l'azione di Dio nella sua creazione, e specialmente la sua illuminazione della mente umana, parve a quel tempo più accettabile. La ternatica neoplatonica è presente nel centro della sintesi di Tommaso, ma è unita così strettamente all'empirismo aristotelico tramite l'agevolazione della concezione pseudo-dionigiana dell'esse - che può essere molto difficile, specialmente nei suoi lavori sopra Aristotele, scorgerla. In Alberto, l'elemento neoplatonico cristianizzato è più in vista, più articolato, più prontamente utilizzabile, più direttamente incoraggiante nei confronti del misticismo che fioriva dopo la sua epoca. Ci si potrebbe facilmente dimenticare dell'uso deliberato dei temi e delle agevolazioni aristoteliche che fecero quell'articolazione possibile. La riconciliazione delle tradizioni platonica e aristotelica in Alberto è opera di una grande capacità di penetrazione intellettuale e di inesauribili articolazioni: è necessario studiarlo per se stesso, e quale aiuto indispensabile alla comprensione del suo allievo, Tommaso, che indusse a criticarlo e purtuttavia a seguirlo. (Traduttore: Roberto Donatoni)

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