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Geert Lovink Zero comments Teoria critica di Internet Prefazione di Stefano Zamagni Conversazioni a cura di Deborah Duva, Miriam Invitti, Efrem Milia, Matteo Pirola Postfazione di Lisa Ponti
Bruno Mondadori
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Tutti i diritti riservati © 2008, Pearson Paravia Bruno Mondadori S.p.A. Titolo originale dell’opera: Zero Comments © Geert Lovink Traduzione dall’inglese di Alessandro Delfanti Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail
[email protected] e sito web www.aidro.org Realizzazione editoriale e Glossario: Agenzia X, Milano La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro.
www.brunomondadori.com
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Indice
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Ringraziamenti
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Orgoglio e gloria del Web 2.0
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Bloggare: l’impulso nichilista
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I crociati del free Jihad su Internet in Olanda «Abbiamo perso la guerra» Danah Boyd e le dialettiche del controllo Una fugace Discordia Questa non è un’economia 2.0 Conclusione: oltre la cultura delle lamentele
Bloggare con qualità e raffinatezza I blog non dicono nulla, sono come un martedì qualsiasi Blog senza frontiere Critica della ragione di Internet Aperta resistenza armata Il nichilismo? Sono troppo cinico per credere al nichilismo... Occhi di serpente e carri merci Blogito ergo sum
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La terra di Kizmiaz Blogged off
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New media art: alla ricerca dell’indecifrabile cool
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Glossario
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Note
Gli inizi Sciogliere un consiglio di new media art Il mito della pagina bianca Un intermezzo di arte motivazionale La stanca media art Il desiderio di essere scienza Dibattiti online su arte e scienza Dentro ai cambiamenti istituzionali L’arte elettronica e le Dot-com I new media come guerra tra generazioni Complotti dell’arte contemporanea Evoluzione Spazi sociali in rete Intervento critico: Warren Neidich Al di là dell’indecifrabile cool
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Ringraziamenti
Dopo Dark Fiber e Internet non è il paradiso, questo libro è il terzo di una serie di studi sulla cultura critica di Internet, tutti tradotti in italiano. Questa edizione contiene solo tre saggi su Web 2.0, blog e new media art. L’edizione originale inglese è stata pubblicata nell’agosto del 2007 dalla Routledge di New York; contemporaneamente è uscita una traduzione in tedesco del manoscritto completo per Transkript Verlag, Bielefeld. Vorrei ringraziare Matteo Pasquinelli e Franco Berardi che mi hanno aiutato a trovare un editore italiano per il mio lavoro. Sono grato ad Alessandro Delfanti per la traduzione. La ricerca che ha dato vita a Zero Comments è stata condotta dal 2003 al 2006. La maggior parte del lavoro è stata fatta nel 2005-2006, durante la mia visita all’Institute of Advanced Study del Wissenschaftskolleg di Berlino; voglio ringraziare tutto lo staff del Wiko per il suo supporto. Il capitolo sul Web 2.0 è stato leggermente modificato e aggiornato, quelli su blog e new media art sono rimasti identici all’edizione originale. È stato un onore rivestire, nel 2004, gli incarichi di professore alla Hogeschool di Amsterdam, all’interno della School of Interactive Media, e di professore associato nel programma Media & Culture dell’Università di Amsterdam. Ringrazio in particolare Emilie Rande, direttrice della School of Interactive 1
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Media, per il suo sostegno. Poco dopo essermi stabilito lì ho potuto realizzare un sogno, fondando l’Institute for Network Culture (INC), costruito insieme alla sua energica produttrice, Sabine Niederer, che voglio ringraziare per il supporto devoto e costante. Infine, il mio debito più grande è con Linda Wallace, amore della mia vita, complice di tutto ciò che faccio e in questo caso anche mia editor principale, cui dedico questo libro. Geert Lovink Amsterdam, luglio 2007
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Orgoglio e gloria del Web 2.0
Bloggare è una forma di vanità: si possono adoperare termini eleganti, parlare di “cambio di paradigma” o “tecnologia dirompente”, ma la verità è che i blog sono sbrodolature adolescenziali senza senso. Adottare lo stile di vita del blogger è l’equivalente letterario di attaccare nastri colorati al manubrio della bicicletta. Nel mondo dei blog “0 comments” è un dato inequivocabile: significa che una certa cosa non interessa assolutamente a nessuno. La terribile verità dei blog è che le persone che scrivono sono molte di più di quelle che leggono. Stodge.org, The Personal Memoirs of Randi Mooney, postato il 5 maggio 2005, (14) commenti
Nel 2005 la rete si era ripresa dal crollo delle Dot-com e, in linea con l’economia globale, si stava reincarnando nel Web 2.0. Mentre gli abitanti del cyberspazio oltrepassavano il miliardo, blog, wiki e social network come Friendster, Orkut e Flickr venivano presentati come la nuova frontiera del lavoro volontario. “Comunità virtuali” era diventata un’espressione inflazionata, «associata a idee screditate sul cyberspazio come sistema indipendente e alle idee fallimentari delle Dot-com sulla costruzione di comunità all’ombra di brand di massa, come i forum sul sito della Coca-Cola»;1 si parlava piuttosto di sciami, mobs e folle: i media erano diventati sociali. 3
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Dalla produzione collaborativa di contenuti per Wikipedia al social bookmarking di Digg, c’era senza dubbio un nuovo slancio. Se i blog erano “molto 2004”, la Bbc definì il 2005 “anno del cittadino digitale”. Lo tsunami del giorno di Santo Stefano del 2004 mostrò in modo molto crudo il potenziale di questi strumenti, mentre pochi mesi dopo le bombe del 7 luglio a Londra e gli uragani negli Stati Uniti obbligarono a riconoscere il fatto che nella produzione di notizie i cittadini avevano un ruolo molto più grande di quanto non fosse mai accaduto prima. La Bbc ricevette per e-mail 6500 immagini e video che mostravano gli incendi al deposito di petrolio di Buncefield, qualche migliaio in più di quelle ricevute dopo le bombe di Londra. Il report della Bbc concludeva che i media cominciavano a sembrare più partecipativi e inclusivi. Il passo successivo fu la scelta di “You” come Persona dell’anno di “Time”, che riflette l’aumento fenomenale del numero di utenti dei siti di social networking come MySpace (leggi: News Corporation di Rupert Murdoch) e YouTube (leggi: Google). Il 2007 sarà l’anno della “critica della rete”? Sempre più persone stanno cominciando a mettere in discussione il modello economico del Web 2.0. Perché gli utenti dovrebbero continuare a pubblicare tutti quei dati privati, dai quali una manciata di aziende ricava miliardi di dollari di profitti? Perché dovrebbero cedere gratuitamente i loro contenuti mentre un pugno di imprenditori del Web 2.0 sta facendo i milioni? Che prezzo siamo disposti a pagare per la gratuità? Perché non usiamo la nostra “immaginazione collettiva” per escogitare modelli sostenibili per una cyberinfrastruttura pubblica? È ora di rompere il consenso liberista. Da sociale a socialista, il passo è breve. È tempo di tornare a essere utopisti e cominciare a edificare una sfera pubblica al di fuori degli interessi a breve termine delle corporation e della volontà di regolamentazione dei governi. È ora di investire nell’educazione, ricostruire la fiducia e svincolarsi dalle retorica securitaria post-undici settembre. 4
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Orgoglio e gloria del Web 2.0
Invece delle classiche due fasi della cultura di Internet, preferisco distinguerne tre. La prima è il periodo scientifico, precommerciale e solo testuale che ha preceduto il World Wide Web. La seconda, il periodo euforico di speculazioni nel quale Internet si è aperta al pubblico generico, culminato nella mania delle Dot-com della fine degli anni novanta. La terza, il periodo successivo al crollo delle Dot-com e all’undici settembre, che con il Web 2.0 sta volgendo al termine. I blog, o weblog, sono un fenomeno intermedio interessante, che ha avuto inizio attorno agli anni 1996-1997, durante la seconda fase di euforia, ma sono rimasti fuori dagli schermi radar perché non avevano al loro interno una componente di commercio elettronico. Il cambiamento più rilevante che si è verificato negli anni passati è stata la “massificazione” e successiva internazionalizzazione di Internet, che nel 2005 ha oltrepassato il significativo limite del miliardo di utenti. Per la cultura dominante anglo-americana la “globalizzazione” di Internet è stata più evidente a causa della sua ignoranza, voluta e organizzata, e della sua scarsa conoscenza delle lingue straniere. Non tutti colgono il significato del fatto che i contenuti in inglese siano scesi ben al di sotto del limite del 30 per cento. Inoltre, la crescita ha portato a un’ulteriore “nazionalizzazione” del cyberspazio, soprattutto attraverso l’uso delle lingue nazionali, in contrasto con la presunta assenza di frontiere della rete – che forse non è mai esistita: le aziende occidentali di information technology sono più che felici di aiutare i regimi autoritari con i firewall nazionali. Come si suol dire, il mondo è grande. Oggi la maggior parte del traffico Internet è in spagnolo, mandarino e giapponese.2 Questa fotografia si complica ancora di più se si prende in considerazione il potenziale della convergenza di due miliardi di utenti di telefoni cellulari, della blogomania in Iran, del fatto che la Corea del Sud possieda una delle più dense infrastrutture broadband e della crescita della Cina. Chi mai direbbe che Polonia, Francia e Italia sono fra le nazioni europee con più blog? 5
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Le tecnologie come Internet vivono del principio del continuo cambiamento. Non c’è nessuna normalizzazione in vista. La dittatura del nuovo continua a dettare legge, ed è l’eco dell’era Dot-com a far apparire il Web 2.0 così antiquato anche se è molto recente. Possiamo disprezzare la sua implacabile instabilità come un trucco di marketing e chiederci perché continuiamo a eccitarci per l’ultimo gadget o l’ultima applicazione; oppure, invece di ignorare il rumore del mercato e distaccarcene, possiamo riconciliarci con il solito vecchio “cambiamento” e goderci le “rivoluzioni” preconfezionate. Dieci anni dopo la sua apparizione e la rapida crescita della sua popolarità, la cultura di Internet è lacerata da forze contrapposte che non permettono più di parlare di trend generali, né in senso positivo né in senso negativo. Dato che domina il cambiamento permanente e che sono stati introdotti massicci sistemi di controllo, le decine di milioni di nuovi utenti che si aggiungono ogni mese danno scrolloni inaspettati a questo mezzo di comunicazione, interpretando ciò che è già dato e appropriandosi allegramente dei servizi, anche in forme che gli analisti di mercato potrebbero non avere mai immaginato. Se si vuole analizzare il Web 2.0, tuttavia, bisogna considerare la gestione della percezione come un aspetto della questione. La rete contiene opportunità straordinarie, che vanno ben al di là dei sogni proibiti degli imprenditori che vogliono semplicemente fare il tutto esaurito il più in fretta possibile. La sfida è produrre riflessioni rigorose, che influiscano in tempo reale sui dibattiti in Internet e che si basino su un coinvolgimento informato. Del resto, nonostante la nuova generazione di applicazioni e la crescita spettacolare della popolazione della rete, e nonostante l’aumento del coinvolgimento degli utenti, molti dei problemi che Internet si trova ad affrontare sono rimasti gli stessi: il controllo da parte delle corporation, la sorveglianza e la censura, i “diritti di proprietà intellettuale”, i filtri, la sostenibilità economica, la “governance”. In questo saggio mi concentrerò in particolare su due aspetti: la tentazione 6
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di partecipare all’economia “free” – ovvero “libera/gratuita” – e le questioni relative al controllo interno ai siti di social networking, e il motivo per cui i giovani pensano di avere buone ragioni per ignorare questi problemi. Il critico della rete Nicholas Carr si chiede se ci sia un argomento da contrapporre alla moda del Web 2.0. «Tutto ciò che il Web 2.0 rappresenta – partecipazione, collettivismo, comunità virtuali, dilettantismo – diventa indiscutibilmente buono, deve essere alimentato e applaudito, diventa simbolo del progresso verso una condizione più luminosa. Ma è davvero così?»3 I promotori del Web 2.0, dice Carr, «venerano il dilettante e diffidano del professionista». Lo si vede nelle loro lodi a Wikipedia e nella loro adorazione per il software open source, nonché nella promozione dei blog come alternativa ai media mainstream. La mia risposta è diversa da quella di Carr, che è riluttante a riconoscere ciò che c’è di buono nel modello professionale tradizionale. Le lodi liberiste per i dilettanti nascono dal sospetto e dal rancore nei confronti delle grandi organizzazioni che diffidano delle ricette anarco-capitaliste sull’innovazione. Ma siamo già oltre la critica al comportamento dei dinosauri istituzionali: le reti aperte minacciano i sistemi di gestione della conoscenza chiusi e basati sulla proprietà intellettuale. Nell’approccio liberista, il professionista diventa un ostacolo a causa del suo comportamento simil-sindacale. Così, il risultato della poca diversità di modelli economici è la riluttanza a inventarne di nuovi per i professionisti (emergenti) che si sono lasciati alle spalle il sistema del copyright ma cercano disperatamente di guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro. Mi chiedo anche come contrastare le lodi acritiche nei confronti dei dilettanti, come quelle contenute nel recente libro di Andrew Keen, The Cult of the Amateur, non dal punto di vista dell’establishment in pericolo ma da quello della sottoclasse creativa, dell’intellighenzia virtuale, del precariato, della moltitudine che cerca di professionalizzare la sua posizione sociale di lavoratore dei nuovi media. C’è bisogno di modelli economi7
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ci che sostengano i dilettanti più ambiziosi, che vogliono guadagnarsi da vivere con il loro lavoro. È nostro dovere trasformare i dilettanti in professionisti, farla finita con i lavori precari e fare in modo che i nuovi media siano un terreno fertile di prosperità economica e non un’occupazione notturna: «Tutti sono professionisti». A questo problema si collega il dibattito, sempre importante, su standard professionali, certificazioni e codici: cos’è il Web design, chi può farlo, quanto costa? Se può farlo chiunque, questo significa che tutti sono dotati della stessa sensibilità estetica? I nuovi compiti legati alle reti informatiche come rientrano nelle istituzioni esistenti, quali ospedali, sindacati, aziende metalmeccaniche e musei? Non possiamo rispondere prima di avere codificato le pratiche lavorative, proprio come hanno fatto in passato le gilde e come stanno facendo in questo momento le organizzazioni professionali. Lo scopo della professionalizzazione del lavoro sui nuovi media è creare settori nuovi e separati, oppure sarebbe meglio dissolvere questi compiti all’interno delle professioni esistenti?
I crociati del free I frammenti dell’ideologia di Internet degli anni novanta stanno ancora fluttuando qua e là. Per lo più si tratta di idee “agevolanti” che affascinano gli utenti giovani e amanti della libertà; prendiamo il blogger Ian Davis, per il quale il Web 2.0 «è un’attitudine, non una tecnologia. Riguarda il fatto di permettere e incoraggiare la partecipazione attraverso le applicazioni e i servizi open. Con open intendo aperti tecnicamente ma anche, ancora più importante, aperti socialmente, con diritti che garantiscano l’uso dei contenuti in contesti nuovi ed eccitanti. Certo, la rete ha sempre avuto a che fare con la partecipazione: senza, non sarebbe nulla; è proprio il suo risultato più grande, la creazione di una rete di link, a incoraggiare la partecipazione sin dal principio».4 Oppure prendiamo l’at8
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traente autodefinizione di Digg: «Digg è completamente legato ai contenuti potenziati dagli utenti. Ogni articolo è pubblicato e votato dalla comunità di Digg. Condividi, scopri, etichetta e promuovi le notizie che ritieni importanti!». Decostruire il richiamo di questo tecno-liberismo su una rivista accademica o una mailing list non basta, perché il discorso anarco-capitalista sul “cambiamento” non verrà nemmeno scalfito. Nessun dissidente si è ancora levato in arene pubbliche più grandi per opporsi all’ipocrisia che sta dietro alle parole “free” e “open”. Bisognerebbe chiedere ai guru del free di scovare un modello economico innovativo ogni volta che “liberano” una nuova attività sociale o economica. Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia, ha stilato una lista ancora più visionaria delle Dieci cose che saranno gratuite, ispirata al discorso di David Hilpbert al Congresso internazionale di matematica tenutosi a Parigi nel 1900, che proponeva ventitré importanti problemi matematici irrisolti. Oltre agli ovvi Dizionario free ed Enciclopedia free, nella lista ci sono libri scolastici di base, mappe, comunità, editoria scientifica, musica e arte ma anche programmazione televisiva, motori di ricerca e formati di file.5 L’ambiguità che Richard Stallman non è mai riuscito a far passare alla storia, cioè che “free”, per lui, non significa gratuito ma esprime piuttosto la possibilità di modificare un codice informatico, non dovrebbe più essere riprodotta. Per me invece non c’è alcun collegamento immediato tra gratuità e libertà. L’ideologia del free (nel senso di free beer, birra gratis) attrae e accontenta milioni di persone mistificando e nascondendo il fatto che i suoi promotori, e in generale la classe virtuale, in qualche punto della catena intascano i soldi. L’ideologia del free, nonostante le buone intenzioni, sta evitando il problema dell’economia della cosiddetta “società della conoscenza”, mentre i crociati del free evitano sistematicamente di discutere il loro modello economico, e parlano dell’altro – l’utente, il programmatore, il cittadino, il blogger ecc. – che deve essere liberato. 9
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L’enfasi posta da Lessig, O’Reilly, Kelly, Ito e molti altri sul diritto di remixare i contenuti mainstream tocca una questione importante ma non cruciale, dato che molti aspiranti artisti producono da sé i propri lavori. Affermare che la produzione culturale odierna è fatta solo di citazioni è un pessimo cliché postmoderno. L’attenzione per i dilettanti giovani e innocenti che vogliono solo divertirsi e il risentimento contro i professionisti non sono casuali: è più difficile che i dilettanti si alzino e reclamino una parte del surplus in rapida crescita (in termini sia simbolici sia monetari) creato da Internet. I professionisti di vecchia data capiscono quali implicazioni ci sarebbero per i produttori di contenuti se un gigante come Google dovesse controllare i flussi di denaro al posto degli editori di libri. Per questo è importante immaginare fonti di reddito sostenibili che vadano al di là degli attuali sistemi di copyright. I vizi dell’architettura di Internet devono essere resi noti (e non restare indiscussi), di modo che le sue virtù possano avere la meglio. L’ideologia del free come componente chiave della rete, infatti, fa parte del viscido linguaggio del business. Nel suo saggio The Destruction of the Public Sphere Ross McKibben afferma che l’arma più potente del managerismo di mercato è stata il suo vocabolario: «sappiamo bene come agisce questo linguaggio. Dobbiamo stare sul vertice della piramide, sperare di essere in un centro di eccellenza, disprezzare le industrie dominate dai produttori, desiderare di avere molti fornitori diversi, umiliarci di fronte ai nostri diretti superiori ancor più che davanti alla direzione, consegnare i risultati e dare possibilità di scelta. Quelli che prima erano studenti, pazienti e passeggeri ora sono clienti».6 Secondo McKibben si tratta di un linguaggio che è stato concepito nelle business school, che in seguito è penetrato nello stato e ora infesta tutte le istituzioni. Esso «non ha un vero predecessore storico ed è singolarmente seduttivo. Pretende di essere neutrale: per questo tutte le procedure devono essere “trasparenti” e “robuste”, e tutti devono essere “affidabili”. È duro ma funziona, perché il set10
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tore privato sul quale si basa è duro ma funziona. È efficiente; assorbe i rifiuti; fornisce tutte le risposte. Ha guidato la cultura aziendale della Thatcher. È più potente del tipo di linguaggio preso in giro da Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni perché, per quanto possa risultare ridicolo, determina il modo in cui le nostre élite politiche (ed economiche) pensano il mondo». «Cederai tutto gratuitamente (accesso libero, no copyright); ti farai pagare solo per i servizi supplementari, che ti renderanno ricco.» Ecco il primo dei “Dieci comandamenti liberali comunisti” pubblicati da Olivier Malnuit sulla rivista francese “Technikart”. La persona che più di chiunque altro incarna questi valori è il venture capitalist, hacker e attivista giapponese Joi Ito. Slavoj Zˇizˇek ha citato i comandamenti di Malnuit e ha classificato Bill Gates e George Soros come comunisti liberali: «Il nome di questa nuova realtà nella neolingua comunista liberale è smart. Smart significa dinamico e nomade contro burocratico e centralizzato, dialogo e collaborazione contro autorità centrale, flessibilità contro routine, cultura e conoscenza contro vecchia produzione industriale, interazione spontanea contro gerarchia stabile. [...] Il loro dogma è una versione nuova, postmoderna, della mano invisibile del mercato del vecchio Adam Smith: il mercato e la responsabilità sociale non sono antitetici ma possono essere riuniti con reciproco vantaggio».7 Zˇizˇek continua affermando che i comunisti liberali sono pragmatici, infatti odiano l’approccio astratto. «Oggi non esiste una classe operaia sfruttata, ci sono solo problemi concreti da risolvere: la fame in Africa, la condizione delle donne musulmane, la violenza del fondamentalismo religioso.» A questo punto, la conclusione di Zˇizˇek non suona sorprendente: «non dovremmo farci illusioni: i comunisti liberali sono il nemico di ogni vera lotta progressista». I comunisti liberali distribuiscono con una mano parte di quello che hanno arraffato con l’altra. Qui siamo al cuore dell’ideologia di Internet, che ci impedisce di vedere quanto paghiamo vera11
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mente, troppo felici di entrare nell’economia del dono rappresentata dal free. Zˇizˇek menziona la necessità, per problemi come razzismo, sessismo e antisemitismo, di costruire alleanze con i comunisti liberali. E Internet? Non è il momento di abbandonare le alleanze con i liberisti, proporre l’esodo e opporsi a loro e ai loro doppi fini? Felix Stalder e Konrad Becker, di Vienna, riassumono lo scontro per la libertà dei media in modo netto: «l’obiettivo è ideare nuovi modi per permettere all’informazione di scorrere liberamente da un luogo all’altro, da persona a persona. Piuttosto che accrescere la frammentazione, informazioni e culture devono essere risorse prodotte e usate in modo collaborativo, non controllate da singoli proprietari. La gente deve essere libera di appropriarsi dell’informazione, a seconda dei suoi desideri e bisogni storici e personali, invece di essere obbligata a consumare i prodotti standardizzati di McMondo».8 Credo che si possano continuare a diffondere questi appelli per la libertà soltanto se si oppongono al “free”. Non possiamo continuare a supportare acriticamente Creative Commons, l’open source e le piattaforme di sapere aperto a tutti come Wikipedia se le loro premesse ideologiche non vengono messe in discussione. «Signore, ti prego, dacci un’altra bolla!» ho letto su un adesivo. È importante notare come la moda Web 2.0 del 2007 si differenzi dall’era delle Dot-com della fine degli anni novanta. I giorni dei portali vuoti sono passati da un pezzo, e al loro posto le band e i brand stanno inseguendo le orde nomadi degli utenti nel tentativo di aumentare la propria popolarità. La cosa positiva, rispetto al 1999, è che abbiamo capito che la gente non si accalca nella rete per il commercio elettronico ma per conversare.9 Invece dell’espressione «Web 2.0» strombazzata da Tim O’Reilly, Trebor Scholz preferisce parlare di «Web media amichevoli» e in un post sulla sua lista iDC ha scritto: «il Web 2.0 è un’altra bolla fraudolenta pensata per fregare gli investitori con una falsa novità. È uguale a quello che fa McDo12
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nald’s quando riammucchia i suoi strati di carne unta per vendere un prodotto completamente nuovo ogni sei mesi».10 Eppure le applicazioni cui ci riferiamo quando parliamo di Web 2.0 sono relativamente nuove, così come le decine di milioni di utenti che usano social network come Digg e Facebook e siti come Wikipedia. E non dimentichiamo gli scambi economici tramite eBay, Second Life e soprattutto Craigslist. Nello stesso thread di quella mailing list, l’esperto di tecnologia Andrea Schiffler si diceva affascinato dal modo in cui il Web 2.0 rappresenta una riscoperta di tecnologie esistenti. Strumenti come il sistema Rss, introdotto per la prima volta da Netscape nel 1999, il linguaggio Ajax e il Dhtml erano già diffusi nelle aziende basate sui browser e sono stati trasformati in un fenomeno sociale. Sarebbe fuori luogo classificare i settanta e rotti milioni di utenti di MySpace come mere vittime dei corporate media solo perché a un certo punto la News Corp di Rupert Murdoch ha comprato il sito: sembra difficile che i consulenti delle corporation, gli hacker e i mediattivisti abbandonino il modello broadcast per accettare completamente, al di là del bene e del male, l’uso massiccio della produzione di contenuti da parte degli utenti e delle reti di amici. Lo sdegno per quelli di America online, imprigionati nei loro schifosi prodotti Microsoft, è profondo, ma in realtà non fa che mostrare che le élite dei primi programmatori hanno perso da un pezzo la presa sulla rete. I promotori del Web 2.0 sono stati giustamente accusati di pompare i siti emergenti per poterli vendere ai venture capitalist, che ne cambiano la direzione e allontanano gli utenti, i quali a quel punto si spostano di modo che da qualche parte possa ripartire un nuovo ciclo. Certo, questa non è la fine della storia. Secondo Jon Ippolito «respingere le innovazioni che stanno dietro al Web 2.0 semplicemente perché i venture capitalist stanno usando questa sciocca definizione per spremere denaro agli investitori è come liquidare il movimento ambientalista perché i politici britannici hanno cominciato improvvisamente 13
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a sventolare bandiere verdi per corteggiare gli elettori nell’anno del voto. Non confondiamo gli avventurieri con le comunità». Saul Albert ammette: «non c’è nulla di sbagliato nel business se si riesce a mantenere il delicato equilibrio tra i miei bisogni e gli imperativi di finanziatori e inserzionisti». Poi fa l’esempio di del.icio.us, che a un certo punto, proprio prima di essere comprato, ha avuto la possibilità di rimpiazzare (uccidere) Google con un’infrastruttura di sapere pubblico dal basso. Juha Huuskonen del festival Pixelache di Helsinki ricorda ai partecipanti che «per un’organizzazione/servizio/strumento sembra indispensabile mantenere la propria immagine di “bravi ragazzi”, cosa che per i servizi commerciali in futuro potrebbe diventare sempre più difficile. Una questione complessa e importante è il modo di relazionarsi con i monopoli, nel caso di servizi commerciali come Google ma anche di progetti come Wikipedia. Il ruolo magico dei “dittatori benevoli” come Jimbo Wales per Wikipedia o Linus Thorvalds per Linux non sembra essere una soluzione duratura».
Jihad su Internet in Olanda Una delle sfide più grandi affrontate durante il lavoro di ricerca per questo libro va al di là di Internet in senso stretto e riguarda l’assassinio del regista olandese Theo van Gogh, avvenuto il 2 novembre 2004 a opera del fondamentalista musulmano Mohammed Bouyeri, a due isolati dal mio appartamento nella zona est di Amsterdam. Diversi mesi prima, van Gogh aveva girato un film sulla condizione delle donne nell’Islam insieme all’allora membro del parlamento olandese Ayaan Hirsi Ali. A mio parere l’uso dei “nuovi media” da parte del fondamentalismo islamico violento ha posto una gamma di problemi che vanno bel al di là delle dispute contro i troll che ho descritto nelle mie pubblicazioni precedenti. I moderatori delle liste, le community online e i provider si trovano costantemen14
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te nella scomoda posizione di doversi confrontare con una cultura Internet andata fuori controllo, ma che essi vorrebbero mantenere libera e aperta. Anche Mohammed B. (come è stato chiamato dalla stampa olandese fino alla sua condanna) e i suoi amici facevano un uso intenso di Internet per discutere e diffondere le loro idee. Per esempio operavano in diversi forum di discussione e avevano le loro pagine Web personali. Partecipavano a siti di jihadisti – spesso con i gruppi di Msn, per esempio, sotto il nome di “5434” e “tawheedwljihad”.11 Non si può capire il caso van Gogh senza prendere in considerazione la crescita dei cosiddetti “shocklog” (shock+blog). Gli shocklog olandesi sono un interessante sottogenere di quello che gli ottimisti di professione come Dan Gillmor chiamano “We Media”; si posizionano deliberatamente ai margini dell’industria dell’informazione: si tratta di cultura partecipativa, ma con risultati sgradevoli e indesiderati. I post degli shocklog servono a testare le frontiere della cultura politically correct dei media occidentali. Secondo una voce (poi cancellata) di Wikipedia, gli shocklog sono «blog che usano lo shock e la calunnia per gettare fango sulle vicende in corso, sui personaggi pubblici e sulle istituzioni. Di solito gli autori degli shocklog commentano una notizia in modo provocatorio e ingiurioso, spesso con il risultato di stimolare commenti ancora più offensivi, come minacce di stupro e assassinio. Occasionalmente gli shocklog inciteranno il lettore a intraprendere qualche azione (online), di solito un attacco contro un obiettivo specifico».12 I più grandi shocklog olandesi sono Geenstijl, Jaggle, Retecool e Volkomenkut. I visitatori unici stimati per questi siti variano da 25.000 a 38.000 al giorno. Questi shocklog, che in olandese vengono chiamati anche “treiterlogs”, non si limitano a postare contenuti offensivi, ma attirano una folla di persone che spesso vogliono esprimere le proprie frustrazioni; sono gli outsider del sistema, che si sentono esclusi dall’establishment progressista e liberale, ma in molti casi gli argomenti 15
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delicati che vengono discussi su questi siti anticipano i sentimenti della società olandese, in particolare riguardo ai musulmani e altre minoranze. Lo stesso van Gogh era coinvolto attivamente nella rete olandese con il suo sito De Gezonde Roker (Il fumatore sano), e nel 2004 in Olanda i blog erano all’apice della loro popolarità. La moda del blog aveva il vento in poppa e le celebrità, dai ministri ai cantanti, ne avevano uno personale. Ma nella mia storia dell’uso della rete le chat cospiratorie, i discorsi di odio e razzismo online e la condivisione peer-to-peer di video di decapitazioni nei mesi che hanno preceduto l’assassinio di van Gogh segnano il compimento della “democratizzazione” di Internet: da quel momento in avanti non si poté più parlare legittimamente del potenziale democratico dei nuovi media. Internet e i telefoni cellulari sono penetrati nella società a tal punto da far sembrare ridicolo anche solo interrogarsi sull’“impatto” delle tecnologie su di essa, come se ne fossero ancora al di fuori: Internet e la società, perlomeno in Olanda, si sono fusi completamente. Perché dovremmo sorprenderci se i “perdenti radicali” (secondo un’espressione di Hans Magnus Enzensberger)13 pubblicano siti Web, trasferiscono file, si scambiano messaggi via e-mail, discutono su forum e newsgroup, si parlano via chat o instant messaging oppure fanno videoconferenze? Nell’ottobre del 2005 il ricercatore dell’Università di Amsterdam Albert van Benschop ha pubblicato un rapporto sul caso van Gogh nel quale sottolinea il ruolo dei nuovi media. Per Benschop Internet è una condizione di libertà ma anche un rifugio per opinioni imbarazzanti. Theo van Gogh, proprio come il suo killer, aveva imparato a usarla. Del resto, come opinionista, van Gogh era stato cacciato da molti giornali per i suoi articoli straordinariamente offensivi – scritti che tuttavia per le leggi olandesi erano legali. Cacciato nel nome della tolleranza e delle libertà individuali, valori che stanno al cuore dell’Olanda. Seguendo l’analisi di Benschop dobbiamo colle16
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gare lo spostamento a destra della politica olandese sotto Pim Fortuyn (assassinato nel 2002) con una particolare lettura della libertà su Internet. Theo van Gogh, del resto, considerava Internet l’unico media sul quale poter parlare liberamente. Benschop, nella sua “Cronaca di una morte politica annunciata”, sostiene che «l’ascesa del populismo fortuynista in Olanda si è accompagnata con un forte indurimento e un imbarbarimento dello stile del dibattito politico. Era difficile non accorgersi che molti utenti di Internet contribuivano a questa polarizzazione. Molti forum di discussione sono degenerati in rifugi per persone che si insultano e calunniano pesantemente a vicenda e che arrivano addirittura a minacciarsi di morte».14 La polarizzazione avvenuta nella società dopo l’undici settembre è ulteriormente amplificata dall’architettura libertaria della rete, che assicura libertà di parola assoluta e incondizionata.15 Secondo Benschop «le comunicazioni via Internet non hanno ripercussioni immediate sulla vita sociale locale dei singoli partecipanti. Per questo essi si sentono (più) liberi di esprimersi in modo disinibito. È proprio per questo motivo che su Internet le comunicazioni sono caratterizzate da due manifestazioni estreme del comportamento sociale: un’eccessiva e insolita dolcezza nei confronti degli altri (“netslutting” o “flirting”) e l’insulto o addirittura la minaccia (“netshitting” o “flaming”)». I giovani musulmani olandesi visitavano siti tipo “Come prepararsi alla Jihad”, che chiama alla guerra in Cecenia, e sul sito per giovani marocchini mocros.nl Theo van Gogh era stato minacciato di morte per mesi. Già nell’aprile 2004 su un forum di mocros.nl era stata pubblicata una fotografia del regista con la scritta «Quando arriva il turno di Theo?». Sulla sua gola, sulla testa e sul torace era disegnato un bersaglio con sette buchi di pallottola. «Allah si sbarazzerà velocemente di questo maiale in senso letterale e figurato.» Mohammed B. usò la rete per trovare testi sull’Islam radicale tradotti in olandese. Il rigetto dell’assassinio da parte del pubblico fu altrettanto 17
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estremo. Sui siti e sui forum marocchini – prima che si autolimitassero – si potevano leggere molti contributi di islamici che asserivano che finalmente il porco infedele aveva avuto ciò che si meritava, che Allah avrebbe trionfato e che van Gogh aveva ricevuto una giusta dose della sua stessa medicina. «Gloria al martire che ha ucciso Theo van Gogh! Ecco la fine sanguinosa che aspetta i sionisti e i loro servi!» Secondo Albert Benschop, «molte persone hanno trasformato il loro dolore per la morte di van Gogh in un’aggressività enorme verso tutto ciò che percepivano come “culturalmente impuro”. Siamo stati troppo deboli e dovremmo contrattaccare. “Nel nostro paese non possiamo più esprimere le nostre opinioni” (Angelica). A parte il gigantesco risentimento per la trasgressione della libertà di parola e la violenza senza senso, la gente strillava per avere più violenza: la vendetta. “Forse la prossima volta che un imam apre il becco per parlare della società olandese dovremmo farlo fuori” (anonimo). “Chi dà fuoco alla prima moschea? Spero che ne andranno in fiamme molte” (un olandese). “Olandesi, svegliatevi! È giunto il momento di farci giustizia da soli a partire dalle aree svantaggiate” (Henk). “Gettiamo questa feccia fuori dal paese e chiudiamo le porte!” (Leo)». Un po’ troppo, per la famosa tolleranza olandese. Le società in fermento, come quella olandese, producono più dati (digitali) di quanti sia possibile processarne. Sono pochi i ricercatori in grado di monitorare tecnicamente e linguisticamente una simile moltitudine di chat, blog e siti in rapido movimento. Il dettagliato studio empirico di Albert Benschop reclama un supplemento di analisi critica e teorica e uno spostamento degli Internet studies, dal costruttivismo soft e dalla Ideologiekritik verso un approccio non-critico che sia pronto a scavare nei loschi fatti quotidiani della network society. Dobbiamo accantonare le teorie che identificano Internet con la democrazia, il rafforzamento dell’identità e il bene. Il caso di Theo van Gogh non è unico: anche l’autore di Smart Mobs, Howard Rheingold, ha dovuto correggere la sua visione otti18
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mistica del modo in cui le tecnologie mobili stanno potenziando gli sciami di persone che agiscono per il bene. Il potere dei molti può portarci in qualsiasi direzione. Durante gli scontri avvenuti nel dicembre 2005 sulla spiaggia di Sydney, per esempio, migliaia di manifestanti furono mobilitati per mezzo di Sms che esortavano a ripulire le spiagge dai libanesi e da chi aveva sembianze mediorientali.16 In un altro caso, i membri della gang Pcc detenuti a San Paolo paralizzarono la metropoli orchestrando una campagna di intimidazione fuori delle loro celle, usando Sms e una rete tv che mostrava un’intervista registrata con un cellulare in cui una persona si presentava come il leader di Pcc.17 In risposta, il governo brasiliano progettò una legge che obbligasse gli operatori telefonici a installare attrezzature per bloccare i segnali provenienti dalle prigioni.
«Abbiamo perso la guerra» La portata delle misure contenute nell’Homeland Security Act dell’amministrazione di George W. Bush, riprese interamente e ben volentieri dai governi della coalizione, hanno impedito di scavare più a fondo nell’ideologia di Internet: per il ritorno di idee liberiste pure e rispettabili, tra cui essere cool e controculturali, dobbiamo ringraziare le misure prese in tutto il mondo per combattere la guerra al terrore. Nel 2005, invece di mostrare il solito ottimismo, Frank, un importante hacker del Chaos Computer Club tedesco, ha scritto una “Dichiarazione di resa”. Il titolo era “Abbiamo perso la guerra. Benvenuti nel mondo di domani”.18 Questo manifesto indica che la strategia egemonica costituita dalla semplice rivendicazione di una posizione superiore nella conoscenza da parte dei programmatori rispetto ai poteri costituiti non funziona più. Frank chiede ai suoi sostenitori di riflettere sul significato dell’attitudine underground oggi. Il testo si apre con la misteriosa frase «perdere una guerra non è mai una cosa carina». La sua 19