1+dicembre+2009

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GIORNATA CONTRO L'AIDS/ STRAGE DIMENTICATA Oggi è la giornata mondiale contro l'Aids. Il virus continua a colpire e nell'ultimo periodo si registra un aumento tra la popolazione bi e omosessuale e tra i giovanissimi. Ma la comunità, in molti, casi ha abbassato la guardia. Aurelio Mancuso a pagina 2

CASO CUCCHI: SI VUOLE ALLONTANARE LA VERITÀ? Martedì 01 Dicembre 2009

Grave battuta d'arresto nella doppia inchiesta sulla morte di Cucchi. I tre medici che lo avevano in cura sono stati reintegrati al reparto sanitario penitenziario del Pertini. La morte di Cucchi sarebbe stata inaspettata.

Euro 1,00 ANNO 1 NUMERO 174 www.altronline.it [email protected]

Monia Cappuccini a pagina 10

Il tribunale: "Se è rom stia in galera" Condannata senza prove la bambina di Ponticelli. Niente libertà perché è zingara Piero Sansonetti

I

l Tribunale dei minori di Napoli ha pronunciato in forma solenne la prima sentenza che entrerà in giurisprudenza come affermazione della legittimità del razzismo. Cioè dell'idea che ciascuna decisione dell'autorità giudiziaria non deve essere "assoluta" ma relativa al gruppo etnico - e dunque alla pericolosità -

EDITORIALE

dell'imputato. E così è successo che l'istanza di scarcerazione della ragazzina che nel maggio del 2008 fu accusata - in modo abbastanza fantasioso - di avere tentato di rapire una bambina a Ponticelli, è stata rigettata con questa inaudita motivazione: «Emerge che l’appellante è pienamente inserita negli schemi tipici della cultura rom. Ed è proprio l’essere assolutamente integrata in quegli schemi di vita che rende, in

mancanza di concreti processi di analisi dei propri vissuti, concreto il pericolo di recidiva». Non so se siete riusciti a districarvi nel linguaggio tribunalizio. La sostanza è questa: il tribunale sostiene in modo formale e solenne che esiste un rapporto di causalità tra gruppo etnico di appartenenza e pericolosità sociale. segue a pagina 3

L'ex guerrigliero Pepe Mujica ha vinto le elezioni uruguaiane

Svizzera e Islam Così fece Hitler

Un tupamaro come presidente

Rina Gagliardi Svizzera è un paese bellisL asimo, una sinfonia di larghi e di montagne, e sarebbe anche bellissimo viverci… se non ci fossero gli svizzeri. Scusate la battuta, di pessimo gusto, ma dopo il referendum di domenica non sappiamo come altrimenti esprimere indignazione, rabbia, sconcerto. Un paese che vanta Guglielmo Tell come eroe nazionale (e che ha dato al mondo gente di valore straordinario, tipo Paul Klee, Giovanni Calvino e il "non tedesco" Albert Einstein), una zona d'Europa che ha scelto da sette secoli la neutralità e si pretende come il luogo-culto del pacifismo, ora, semplicemente, abolisce la libertà di religione e dichiara guerra all'Islam e ai suoi simboli. Sembra di tornare agli editti regi di qualche secolo fa, o peggio alle ere oscure delle persecuzioni religiose, quando gli ebrei dovevano scegliere tra la conversione forzata o la morte e l'esilio (che era lo stesso). Ora, certo, i nuovi ebrei sono i musulmani - non importa se praticanti o no, da dove vengono, quanto lavorano e quanto nutrono la ricchezza nazionale. In Svizzera sono quattrocentomila, all'incirca, e sono di sicuro, come tutti i migranti in quel finto paese di Bengodi, già molto sfruttati e molto discriminati. Adesso, gli si aggiunge l'impossibilità, per chi lo vuole o lo desidera, di riunirsi in preghiera: un avvertimento minaccioso, simbolico (ma che cosa è più forte di un simbolo, in un'epoca dove quasi tutto si gioca sui simboli?) e tanto più perciò violenta. segue a pagina 10

Guillermo Andrada

«C'

è solo una cosa che voglio dirvi, so che faremo degli errori, ma non li faremo mai in cattiva fede, e soprattutto saremo sempre uniti». L'Uruguay ha scelto. A vincere le elezioni presidenziali, come avevano preannunciato gli exit poll, è Pepe Mujica, 74 anni, ex guerrigliero Tupamaro. A lui la maggioranza dei voti in un'elezione che ha visto un'affluenza vicina all'80%. «Popolo, dovresti essere tu qua sopra, e noi lì sotto ad applaudirti», ha detto il presidente eletto al suo popolo. a pagina 5

IL LIBRO

Massimo Ilardi

Libertà e futuro, ha ragione Fini: vanno messe al centro della politica

IL COMMENTO

Alfonso Gianni

Ennesima crisi del turbocapitalismo, ma a Dubai tutto tornerà come prima

non è inscritto in alcun destino, non si conosce, non esiste. Si volte ritornano. Gli spettri, o gli zombies, fate voi. Una nuova Lehman I lpuòfuturo solo costruire. Con quali mezzi? Certamente con la capacità e la A Brothers, cioè un nuovo clamoroso fallimento si aggira per il mondo fivolontà, ma soprattutto facendo leva sul desiderio. In una società del consumo sono i desideri a produrre mondo e sono le pratiche di una libertà senza aggettivi e responsabilità a innescare i conflitti. Spetta all'agire politico mediarli e proiettarli al futuro, a un agire che sappia correre il rischio di riempire questo spazio vuoto. Futuro e politica di nuovo insieme: ma futuro non come utopia irrealizzata e politica non come semplice amministrazione del presente. Ha ragione Abruzzese quando scrive su questo giornale (29 novembre) che «proprio il superamento delle utopie fondate sul riscatto dei modi di produzione possa favorire una maggiore tendenza -tensione- socio-antropologica a farsi carico di ciò che tali utopie [...] hanno costantemente trascurato di mettere al centro dei propri obiettivi: la cura immediata della sofferenza fisica e mentale dell'altro e di noi stessi. Del dolore, proprio in quanto ineluttabile destino di ogni relazione umana». Ma che cos'è il dolore se non «la difformità tra ciò che si è e ciò che si ha» (S.Quinzio), se non l'inadeguatezza dei fatti nei confronti del desiderio che li sperimenta? Questa premessa è necessaria per arrivare al libro di Gianfranco Fini, Il futuro della libertà (Rizzoli ), perché l'autore, come si evince dal titolo, è proprio sul futuro e sulla libertà che fa ruotare la sua riflessione. segue a pagina 6

nanziario. Si tratta del Dubai World, un agglomerato finanziario controllato dall'Emirato di Dubai, uno dei facenti parte degli Emirati arabi uniti. I quasi cento miliardi di debito accumulati, di cui ora viene chiesto il congelamento, non sono in effetti una grandissima cosa. Ma già sono sufficienti per fare tremare il mercato finanziario mondiale e per mettere a rischio di default, cioè di fallimento, l'intero Emirato, il cui debito pubblico è ormai stimato attorno al 120% del Prodotto interno lordo. Al punto che i credit default swap, ovvero i famigerati Cds, lo strumento finanziario per assicurarsi contro i rischi di insolvenza, sono balzati nel fine settimana (mi riferisco ai Cds a cinque anni) da un valore 313 a 541, dopo avere toccato il picco di 570. In pratica per assicurarsi contro il rischio che l'Emirato faccia fallimento costa ora circa il doppio e tutto è cambiato nel giro di tre giorni. Lo spavento nelle prime ore è stato quindi fortissimo sui mercati finanziari, poi le cose si sono un poco ridimensionate, anche perché il vicino Abu Dhabi, ricco di petrolio, che invece manca a Dubai, ha già dichiarato che correrà in soccorso, naturalmente non gratis. I toni dei commenti degli operatori finanziari e economici, fra cui molti italiani, che hanno interessi diretti nell'Emirato si sono così fatti più distensivi. Le grandi banche, come il Credit Suisse, sembrano essere di nuovo più preoccupati dei segue a pagina 11 rischi di default dell'Islanda o dell'Ungheria.

focus

Per sconfiggere il virus bisogna superare dannosi moralismi, propri anche della comunità lgbt, e l’omissione di verità scomode e importanti. C’è bisogno di un mucchio di soldi e di milioni di preservativi

CI SIAMO DIMENTICATI LA LOTTA ALL’AIDS di Aurelio Mancuso

H

o partecipato domenica a Milano alla cerimonia storica delle coperte, organizzata dall’Asa importante associazione che combatte da decenni l’Aids. La giornata uggiosa e fredda non ha sicuramente favorito la partecipazione, ma leggere i nomi delle centinaia di morti per Aids davanti a poche decine di persone, mi ha fatto male, e reso ancor più consapevole di quello che sta accadendo. Una rimozione collettiva ha colpito il nostro paese, complici le non politiche di prevenzione di questo governo, ma anche delle insufficienze passate del centro sinistra. Questo primo dicembre 2009 segnala 40mila morti ufficiali per Aids dall’inizio della sua tragica storia, l’aumento delle infezioni tra la popolazione bi omosessuale, un preoccupante ampliamento dei casi tra i giovanissimi e le fasce oltre i 50 anni. Per completare la triste statistica bisogna ricordare che ogni anno si registrano 4.000 nuove infezioni, una ogni due ore. E come ricorda Sandro Mattioli, responsabile salute del Cassero di Bologna «La comunità omosessuale infatti sta vivendo un periodo tutt’altro che tranquillo dal punto di vista dell’Hiv. Ignorata dall’autorità sanitaria e dalla politica, la nostra comunità si scopre al centro del problema Hiv. I dati che emergono dalla video-intervista degli infettivologi Guaraldi e Mussini del Policlinico di Modena (ai circa 60 nuovi casi di Hiv, quest’anno se ne sono aggiunti circa 40 di ragazzi gay) e dal progetto Sialon, che scopre una prevalenza degna del continente africano nella comunità gay veronese, sono allarmanti». Insomma si sta tornando indietro. Le cure negli ultimi anni hanno abbattuto notevolmente l’incidenza della mortalità che ha subito una brusca frenata. Ma le cure, nonostante le positive evoluzioni, sono pesanti, in molti casi difficili da reggere. Anche in questo caso la rimozione è diffusa: delle persone siero positive, delle loro problematiche sociali e lavorative, nessuno o quasi si occupa. È facile recitare il solito refrain dell’assenza della politica e delle istituzioni, ma non tutto dipende da loro. Anche noi, associazioni lgbt abbiamo abbondantemente abbassato la guardia, anche noi siamo colpevoli di aver sottovalutato ciò che stava avvenendo. Nei nostri ritrovi ricreativi e non solo, si fa sesso, ne siamo orgogliosi, è una conquista che ha strappato migliaia di gay dai pericoli della notte, ma dopo anni di vera attenzione e formazione (l’informazione non basta proprio), ci siamo distratti, politicamente adeguati all’illusione che l’efficacia delle nuove cure di fatto cronicizzasse una malattia che prima portava direttamente, tra immani sofferenze, alla morte. Dagli anni 2000 la sottovalutazione è evidente e per troppo tempo le persone sieropositive e non, impegnate dentro e fuori le associazioni lgbt sono rimaste sostanzialmente inascoltate. Non abbiamo smesso di combattere, progettare campagne, in molti casi con le nostre poche risorse e forze, ma non abbiamo colto che la mera distribuzio-

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Anche noi, associazioni lgbt abbiamo abbondantemente abbassato la guardia, anche noi siamo colpevoli di aver sottovalutato ciò che stava avvenendo ne di preservativi e lubrificanti, l’insistenza di campagne per il loro utilizzo, per l’accesso al test, non sono sufficienti. Soprattutto tra e con i giovani e giovanissimi va progettata un’azione permanente di educazione alla salute, all’attenzione rispetto agli stili di vita, all’informazione sull’utilizzo di sostanze che possono alterare la coscienza di se. Questi sono temi duri, non proprio digeriti dentro la comunità lgbt, ma che vanno affrontati senza dannosi moralismi, non omettendo verità scomode e importanti. È inutile nasconderlo c’è bisogno di un mucchio di soldi, d’interventi concertati con le istituzioni, le Asl, le altre associazioni che lottano contro l’Aids e tutte le malattie sessualmente trasmissibili. Il nostro primo dicembre deve tornare a essere un impegno quotidiano, perché solo cosi ci vorremo davvero bene. Di cosa avremmo bisogno? Che dopo le tante ricerche finanziate negli ultimi anni di valutazione sul mutamento del fenomeno, siano finalmente messi a disposizione strumenti adeguati. Alla comunità lgbt italiana servono concretamente almeno due milioni di preservativi e dosi lubrificanti all’anno. Abbiamo inoltre bisogno di poter mettere in campo progetti di formazione per educatori e soggetti sociali, rivolti alla rete dei circoli ricreativi e anche politici culturali, di

I numeri nel mondo Oggi è il World Aids Day 2009 - fissata nel 1988 da World Health Organization - Who. Secondo le stime di Unaids e dell’Organizzazione Mondiale per la salute 33.4 milioni di persone (in media) vivono con il virus HIV nel mondo; 2.7 milioni di persone (in media) hanno contratto il virus nel 2008; 2 milioni di persone (in media) sono morte per malattie correlate all’Aids nel 2008. Negli ultimi otto anni nuove infezioni da HIV sono state ridotte del 17%. Dal 2001, con la Dichiarazione di Intenti per la lotta contro l’Hiv/Aids delle Nazioni Unite, il numero di nuovi casi nell’Africa subSahariana è diminuito del 15%. Nell’Est asiatico le infezioni sono diminuite del 25% circa e nel sud e sud-est asiatico del 10% nello stesso arco di tempo. Nell’Europa dell’Est dopo un primo drammatico picco di casi di nuove infezioni tra i tossicodipendenti, la situazione sembra stabilizzata.

campagne nazionali permanenti non generiche, rivolte a target ben precisi. Insomma 20 milioni l’anno spesi bene e disponibili sul serio potrebbero invertire la rotta. Se si guarda alla diffusione del virus ai danni sociali che ciò provoca, stiamo parlando di pochi soldi, che in un paese normale sarebbero messi da tempo in bilancio. Non si tratta però di soldi, la questione è tutta culturale e politica. Il tema non è nei fatti affrontato con serietà dalla politica, sempre pronta a qualche lacrimuccia e contrizione pubblica, perché non porta consenso. Se poi ci aggiungiamo la deleteria e continua campagna contro l’utilizzo del preservativo di cui si fa paladina la chiesa cattolica, possiamo dire che come sempre questo paese si distingue per la sua cattiva coscienza. In ultimo, tutto questo c’entra con il tema della discriminazione, perché più le persone sono discriminate e più hanno paura e si nascondono, non è infatti un caso che la Conferenza Mondiale sull’Aids che si terrà a Vienna nel 2010 ha proprio al centro il tema della discriminazione. In questo primo dicembre, dimenticato nella sostanza da tutti i mass media, dalla cultura, dalla politica, con le nostre insufficienze e riflessioni autocritiche, ci sentiamo disperatamente soli, in una battaglia di umanità e di civiltà così smarrite.

ATTUALITÀ Politica

Lega scatenata sul no ai minareti Preoccupazione e sconcerto in tutta Europa dopo l'esito del referendum in Svizzera. A parte il Carroccio che parla di «un monito» per il nostro paese Monia Cappuccini

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l no che nessuno si aspettava, quello uscito domenica scorsa dalle urne svizzere, che con un referendum ha bocciato la costruzione di nuovi minareti in territorio elvetico. Un risultato preoccupante che ha colto di sorpresa gli stessi promotori della consultazione popolare, il partito partito di estema destra Svp, che, contro ogni aspettativa, è riuscito invece a sfondare una quota altissima di consensi, stimata al 57,5%, in un paese dove vivono circa 400mila musulmani (circa il 5% della popolazione locale, provenienti per la maggioranza da Bosnia, Kosovo, Macedonia e Turchia) e dove esistono già quattro minareti. Ieri non solo la Svizzera ma l'Europa intera si è svegliata più intollerante del solito e con l'incubo di un deterioramento dei rapporti con il mondo islamico che è già una realtà. Non è un bel segnale, tanto che il «no» ai minareti ha suscitato commenti «preoccupati» di governi e istituzioni, a partire dal presidente del Pontificio consiglio dei migranti, monsignor Antonio Maria Vegliò, che già nei giorni scorsi aveva espresso con chiarezza il suo pensiero sul referendum. «Non vedo come si possa impedire la libertà religiosa di una minoranza, o a un gruppo di persone di avere la propria chiesa», aveva detto tre gioni fa in occasione della presentazione del messaggio del Papa per la Giornata mondiale per i migranti. «Un duro colpo alla libertà religiosa» ha ribadito ieri a scrutinio concluso, posizionandosi sulla stessa linea dei vescovi svizzeri che, per voce del loro rappresentate - il pastore Thomas Wipf - ha parlato di un risultato che mette a repentaglio la

coesione sociale: «Il divieto di costruire minareti non risolve nessun problema, ma ne crea di nuovi». «Un segnale negativo, un'espressione di un notevole pregiudizio e forse anche di paura» è il commento del ministro degli Esteri svedese e presidente di turno dell'Ue, Carl Bildt, che reputa «molto strana» la decisione di Berna di sottoporre la questione a referendum: «Di solito in Svezia e in altri Paesi sono gli amministratori delle città a decidere su queste cose». No comment invece dalla Commissione Europea. «La Commissione ha affermato a Bruxelles il commissario alla Giustizia, la libertà e la sicurezza Jacques Barrot - non deve prendere posizione sulla questione, la Svizzera non è uno stato membro e del resto sono state seguite procedure democratiche». Per il Consiglio d'Europa: «Nonostante sia espressione della volontà

popolare, la decisione di vietare la costruzione di nuovi minareti in Svizzera suscita in me grande preoccupazione» ha affermato Lluis Maria de Puig, presidente dell'Assemblea parlamentare. «Se da un lato questa decisione riflette le paure della popolazione svizzera e dell'Europa, nei confronti del fondamentalismo islamico, dall'altra, mentre non aiuterà ad affrontare le cause di questo fondamentalismo, è molto probabile che incoraggi sentimenti di esclusione e approfondisca le spaccature all'interno della nostra società». Posizione simile alle Nazioni Unite. Un portavoce dell'Alto commissariato per i diritti umani Onu afferma che «il comitato è preoccupato per l'iniziativa che mira a vietare la costruzione di minareti e per la campagna discriminatoria di manifesti che l'accompagna». Deluso e preoccupato anche il segretario generale dell'Organizzazione della

Giudici razzisti, per una volta si applichi la legge Mancino

Piero Sansonetti segue dalla prima

questo nodo il Tribunale reI nstaura i principi essenziali delle leggi sulla razza che furono varate nel 1938 dal governo Mussolini e poi abrogate dopo la caduta del fascismo. La sentenza naturalmente è in contrasto netto ed evidente con tutti i principi costituzionali, con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, con le normative europee. E' un mostro giuridico. Però, non solo è un mostro giuri-

dico "funzionante", e cioè ha come immediata conseguenza la mancata scarcerazione della ragazzina rom, ma - chiaramente contribuisce al rafforzarsi del senso comune razzista. Proprio perché è una sentenza che non giustifica, ma afferma la legittimità e addirittura la sacralità del razzismo. Bisogna - a margine - notare che è anche una sentenza in contrasto con la legge Mancino, la quale punisce con il carcere fino a tre anni i delitti di opinione di marca razzista. Noi non abbiamo mai condiviso la legge Man-

cino, perché siamo contro i reati di opinione, però stavolta ci piacerebbe davvero che - una tantum - fosse applicata ai giudici che hanno emesso una sentenza così orrenda. La ragazzina rom di Ponticelli, A.V., è stata condannata a tre anni e otto mesi di carcere, per il tentato rapimento di una bimba. La sentenza d’appello ha confermato quella di primo grado e si attende ora la decisione della Corte di Cassazione. Su quali basi è stata condannata? Solo sulla base del racconto della mamma della bambina, sebbene

conferenza islamica (Oci), Ekmeleddin Ihsanoglu, che ha criticato «l'evoluzione malaugurata che offusca l'immagine della Svizzera in quanto paese che rispetta le diversità, la libertà di culto e i diritti umani». Cerca di stemperare la paura il ministro della giustizia elvetico, Eveline Widmer-Schlumpf. «Non si tratta di un voto contro la religione islamica ma contro i minareti come edifici. In Svizzera si rispetta la libertà di fede, è un valore fondamentale, ma certo il risultato di questo referendum non è un bel segnale - ha affermato -. È importante che nella nostra democrazia si abbia la possibilità di votare, e questo voto non è contro la religione islamica». Si accoda alle reazioni di preoccupazione anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ne approfitta però per risfoderare la battaglia dei simboli religiosi, vecchio cavallo di battaglia della maggioranza, e per riportare il vento contrario a suo favore: «l'Italia ha detto Frattini - difende il diritto di esporre il crocifisso nelle scuole, quindi guardiamo con preoccupazione a certi messaggi di diffidenza o addirittura proibizione verso un'altra religione». Dalle sue parole si dissocia, spingendosi oltre, il collega di Governo Roberto Maroni, che ha rilevato come «sia sempre utile in democrazia ascoltare ciò che vuole il popolo e non elite più o meno illuminate. La Lega lo fa». E sono proprio gli esponenti del Carroccio gli unici ad esultare per il risultato svizzero. «Un monito anche per chi, nel nostro Paese, si ostina a difendere una politica permissivista che rischia solamente di annientare le nostre radici e i nostri valori» è il commento del capodelegazione della Lega Nord alla regione Lombarda, Davide Boni, il quale sottolinea che «non è possibile subire passivamente un'invasione da parte di chi pretende di imporre i propri usi e costumi, e nel contempo tenta di scardinare il passato di un popolo». E si sbilancia azzardando una previsione: se un referendum del genere venisse organizzato anche in zone di Milano quali via Padova o viale Jenner, l'esito sarebbe «scontato».

La ragazzina è rimasta sola, difesa solo dal suo avvocato. Non capisce l'italiano fosse in moltissime sue parti incoerente - la descrizione dei tempi e dei modi del rapimento non funzionava, né era possibile un solo motivo valido per il rapimento della bimba. E tuttavia il tribunale ha deciso di credere alla madre, senza ulteriori verifiche, sulla base del seguente ragionamento: «La madre non aveva nessun motivo per mentire, dunque quello che ha detto è certamente vero». L'avvocato della ragazzina rom, Cristian Valle, ha rilasciato dichiarazioni di fuoco, dopo la sentenza. Facendo notare anche molte irregolarità nel processo. Una su tutte: la ragazzina rom non parla italiano. E il tribunale si è rifiutato di fornirle una interprete e di tradurre gli atti di accusa. Quindi la ragazzina non ha avuto nessuna possibilità di difendersi. Non solo. Il legale si è visto rigettare, per le stesse motivazioni, prima la richiesta di scarcerazione e poi quella di adottare per la minorenne misure alternative alla detenzione. «In modo assolutamente sconcertante - ha riferito l'avvocato Valle -, si afferma

l’opzione del carcere su base etnica e, attraverso la definizione di "comune esperienza", i più biechi e vergognosi pregiudizi contro la minoranza rom vengono elevati al rango di categoria giuridica». Cose mai viste nella storia della giurisdizione nel nostro paese, e che ci riportano alle immagini altrettanto vergognose del clima che si respirò in quei giorni a Ponticelli. Vi ricordate come andarono le cose nel maggio del 2008? Ci fu questo episodio, e cioè l'accusa della madre di una bambina con tro la ragazzina rom. L'arresto della minorenne fornì il pretesto ad una sfilza di assalti ai campi rom di Ponticelli, con sassaiole, spari e case bruciate. Una specie di pogrom. I rom furono messi letteralmente in fuga. Nel giro di una notte furono costretti a raccolgliere un po' di loro cose e a scappar via, terrorizzati, con le macchine o a piedi, o con i furgoncini e le moto e i tre ruote. Anche i genitori della ragazzina arrestata fuggirono via, in Romania, e non sono più tornati. La ragazzina ora è sola, abbandonata nel carcere minorile, difesa solo dall'avvocato Valle. I pogrom di Ponticelli consentirono lo sgombero dei campi, e così l'area fu resa libera e a disposizione della speculazione. Che si dice fosse il vero obiettivo di tutta questa operazione.

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ATTUALITÀ

Martedì 01 Dicembre 2009

Politica

Tutti in attesa di Spatuzza ma il pericolo imminente è Mills Il 4 dicembre parlerà il pentito di mafia, ma il premier e i suoi sono impegnati a stoppare i pm milanesi Luigi Scardigli

C

i vuole un direttore d’orchestra, a sinistra, per cercare di dare melodia ai suoni, altrimenti striduli, ma solo perché eseguiti senza spartito, dei vari strumenti che invocano giustizia. Perché mentre il partito dei firmatari della proposta-Saviano si ingrossa a vista d’occhio (mentre scriviamo ci si aggira attorno al mezzo milione di persone), gli intransigenti dell’Idv reclamano la leadership per la manifestazione in programma il prossimo 5 dicembre a Roma per il “No B day” e il resto della popolazione, eterogeneamente composta da comunisti e liberali, cattolici e laici, donne e uomini, che ha apposto la propria sigla in calce e sarà probabilmente in piazza, aspetta con trepidazione le dichiarazione di Gaspare Spatuzza venerdì prossimo alla Procura di Torino, Marcello Dell’Utri, «l’uomo della contiguità mafiosa» (questa la definizione che gli affibbiarono Falcone e Borsellino), intervistato da Lucia Annunziata, ha candidamente affermato che «i pentiti vengono cercati apposta per farli parlare e per poi essere con loro generosi» e, soprattutto, che «la verità non esiste». La magistratura di sinistra e in particolar modo quella comunista, re-

stando alle dichiarazioni di Dell’Utri, è quella che nelle due fasi processuali per l’accusa a suo carico di concorso esterno in associazione mafiosa (invenzione della giurisprudenza, sua definizione) ha già imbonito 23 pentiti, indorando le loro mendaci dichiarazioni con foto, appunti, incontri, testimonianze, intercettazioni telefoniche e quant’altro possa servire a comporre un attendibile e equo mosaico accusatorio. Certo, occorre attendere la sentenza definitiva, perché come con tutti gli altri, anche con Dell’Utri occorre usare lo stesso principio innocentista che sbandieriamo puntualmente in tutte le altre circostanze. E dovremo usare cautela anche se venerdì, alla Procura di Torino, Gaspare Spatuzza dovesse confermare quanto circola ormai da giorni, che non furono Riina e Aglieri, del mandamento di Santa Maria del Gesù, ma i fratelli Graviano, di quello di Brancaccio, ad ordire contro Borsellino facendo

saltare in aria lui e tutta via d’Amelio. Perché se questa fosse la vera verità sulla seconda strage mafiosa a Palermo e dintorni, occorrerebbe necessariamente cambiare molte delle ipotesi fin qui formulate e inserire tra le migliaia di pagine del tomo-giustizia anche gli appunti presi e sottoscritti da Falcone e Borsellino tanti anni fa fino ad arrivare a quelli più recenti di Antonio Ingroia, passando attraverso gli scritti temporaneamente intermedi di Giancarlo Caselli e dello scomparso Gabriele Chelazzi. Uno stuolo variegato di giudici e magistrati sono convinti e documentati assertori delle connivenze codificate tra la Cupola e alcuni centri di potere politico e mediatico. Certo, il governo Berlusconi è, dati alla mano, quello che ha inferto il maggior numero di colpi sotto la cintura alle varie organizzazioni criminali, da Cosa Nostra alla Camorra, riuscendo a devitalizzare contemporaneamente tanto la ‘Ndrangheta quanto

la Sacra Corona Unita. Ma questi incoraggianti risultati sono esattamente e letteralmente il frutto, prima di ogni altra cosa e al di là del merito stratego-militare dei vari funzionari delle forze dell’ordine, dell’opera inquisitoria che questo Governo vorrebbe, con l’introduzione dei processi brevi, lo scudo fiscale (la compravendita dei beni confiscati) e la decapitazione di alcuni stratagemmi giuridici (concorso esterno in associazione mafiosa e intercettazioni telefoniche su tutti), cancellare. Oltre che strozzare tutti quelli che scrivono di mafia e che alludono che l’organizzazione criminale possa far leva sulla tacita ma fattiva copertura dei palazzi collusi. Certe affermazioni tanto colorite e istintive, Marcello Dell’Utri non se le sarebbe mai fatte scappare di bocca. Come non è un caso che il braccio destro di Mediaset ignori, non certo casualmente, l’approssimarsi della riapertura del processo Mills, quello che vede sul tavolo degli im-

Cento: "Hanno espulso metà dei verdi" Nicola Del Duce Cento ex fondatore è stato appena P aolo espulso dai Verdi insieme a Michele Aragosta con cui siede nel coordinamento nazionale di Sinistra e Libertà. «Una cosa ridicola» dice «se si pensa che la scissione in atto prevede una separazione del 50.4 dal 49,6 del partito». Tanti i dirigenti, militanti e amministratori che con lui intendono restare in SeL per farne un soggetto «innanzitutto ecologista». Paolo Cento rivendica il merito dei Verdi di aver saputo «grazie anche ad uno straordinario movimento», «dire no al nucleare» mentre altri soggetti politici ecologisti in Europa «si sono fatti costruire le centrali dentro casa». La vittoria di Bersani spiega Cento «non pone al riparo la questione ecologista» ed è per questo che vede «un grande spazio per SeL» che però dovrà lanciare presto una battaglia seria sui temi del clima, del no al nucleare e della riappropriazione dei beni comuni. Paolo Cento che succede, l’hanno espulsa dai Verdi? Succede che, com’era prevedibile, il congresso dei Verdi anziché rilanciare una proposta per la nascita di un soggetto di sinistra ecologista ha fatto una scelta diversa, tendenzialmente minoritaria. Noi, e con questo intendo Grazia Francescato, Loredana De Petris, Gianni Mattioli e tanti altri dirigenti nazionali, locali, eletti nei Municipi, nei Consigli comunali e regionali, insieme a tanti iscritti e militanti nei territori, avevamo detto che saremmo rimasti all’interno di Sinistra e Libertà. Siccome Michele Arago-

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sta ed io sediamo nel coordinamento nazionale di SeL è arrivata questa espulsione ridicola. Perché, lo ricordo, siamo di fronte alla scissione del 50,4 del partito che se ne va dal 49,6. Senta Cento, perché in Italia i Verdi sono arrivati a questo punto mentre in molti altri paesi d’Europa hanno una forza spesso significativa? I Verdi in Italia hanno grandi meriti. Uno su tutti è quello di aver vinto sulla questione nucleare. Perché se è vero che in molti paesi europei le forze ecologiste hanno saputo raccogliere consensi anche importanti è vero anche che si sono fatti costruire le centrali nucleari dentro casa. In Italia, grazie anche alla forza di un movimento straordinario riuscimmo ad evitare che l’Italia diventasse un paese nuclearizzato. Però c’è anche un altro punto. Quale? In Italia a sinistra c’era un peso della questione comunista che in altri paesi non c’era. E noi verdi abbiamo dovuto fare spesso a gomitate con quella cultura che ad esempio aveva sul tema dello sviluppo la visione per cui la crescita era sempre portatrice di benessere. Invece non è così. Come immagina il soggetto rossoverde che vorrebbe vedere nascere a sinistra del Pd? Non un partito tradizionale. Non un partito novecentesco per intenderci. Tanto per utilizzare l’espressione adoperata da Cohn Bendit per descrivere France ecologie, ‘dovrà essere un animale politico’. Un soggetto di movimento con un’organizzazione orizzontale che rinunci alla vecchia pratica per cui la maggioranza vince sulla minoranza. Dobbiamo far diventare la questione ecolo-

gica dirimente. La parte dei Verdi che resta in Sinistra e Libertà lo fa per costruire una forza ecologista. La vittoria di Bersani che cosa rappresenta per voi? Un’opportunità prima di tutto. Perché se il Pd con la sua vittoria si sposata un po’ più a sinistra diventando un po’ più socialdemocratico questo non pone al riparo, anzi, la questione ecologista. Ed è per questo che se Sinistra e Libertà diventa innanzitutto una forza ecologista questo può costituire un vero elemento di novità e di ricchezza. E può crearsi uno spazio politico molto significativo. Cohn Bendit ha avuto il successo che ha avuto perché è diventato un punto di riferimento anche per José Bové, una delle figu-

putati Silvio Berlusconi in qualità di corruttore (il corrotto, l’avvocato Mills, è già stato condannato a 4 anni e sei mesi), una pena questa che se confermata in via definitiva produrrebbe immediatamente l’effetto collaterale dell’inibizione dai pubblici uffici per cinque anni. Il concistoro affabulatorio delle depenalizzazioni è in tutt’altre faccende affaccendato, al momento, ma non è da escludere che insabbiato il problema più impellente - tra le pieghe delle memoria di teorie e contro teorie di pentiti di primo e secondo livello e il clamore di inammissibili, ma solo perché inquietanti, scenari prefigurati -, Berlusconi e il proprio staff si prodighino per cercare di aggirare l’ennesimo ostacolo che si frapporrà, inevitabilmente, tra la sua dichiarata onnipotenza e le semplicissime regole della convivenza e della democrazia, che non possono prescindere dalla giustizia e dal suo corollario principe, che la legge è uguale per tutti.

re di maggiore spicco del movimento altermondialista. Quali sono secondo lei i punti programmatici da assumere per un soggetto politico rossoverde? Penso alla questione climatica assunta però in modo da fare giustizia dell’opportunismo che spesso alberga in molte aziende che si vendono come sostenitrici della green economy. Il problema non è solo di livelli di efficienza produttiva o energetica oppure di consumo. Il problema vero è la riconversione del modello di sviluppo. Che tipo di merci vengono prodotte, quali cibi arrivano sulle nostre tavole. Esistono produzioni nocive che andrebbero fermate. Ma penso anche alla riconversione dei nostri territori e delle nostre città attraverso la riappropriazione dei beni comuni. Non basta dire no alla privatizzazione dell’acqua occorre dire sì, come sta facendo Nichi Vendola in Puglia, alla sua ripubblicizzazione.

"Liberi di scegliere Nichi Vendola presidente", sono i volantini apparsi ieri l'altro all'assemblea regionale del Pd pugliese in cui era presente anche Massimo D'Alema. Il volantino era firmato dai Giovani Democratici.

ATTUALITÀ Esteri

Il tupamaro presidente L'ex guerrigliero José "Pepe" Mujica ha vinto le elezioni in Uruguay: «Chi tocca il welfare state muore»

Guillermo Andrada

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a la stessa moglie da più di cinquant'anni, arriva alle riunioni di governo in bicicletta e vive in una casupola di periferia. Gli piace coltivare rose e riceve i giornalisti in ciabatte. E' il nuovo presidente dell'Uruguay. Fu il fondatore del movimento guerrigliero dei Tupamaros. E' stato negli ultimi cinque anni il più paziente mediatore dei conflitti interni nel Frente amplio, schieramento davvero ampio di tutte le sinistre del Paese (dagli ex guevaristi ai cattolici progressisti, in difficile convivenza con i socialisti). Ha vinto domenica con dieci punti di vantaggio sull'avversario Luis Lacalle, uomo

forte della destra. 51, 7 % Mujica, 42% Lacalle, secondo le prime proiezioni. Non male per uno che era stato presentato dagli avversari come la risposta più tristemente vetero che l'Uruguay potesse dare al timore del contagio della crisi economica mondiale. Il fatto è che Mujica nella sostanza di vetero (comunista) ha davvero poco. E infatti ha il suo più ricco bacino elettorale tra gli under 30. Non pontifica, non parla difficile ed è modesto. Se gli si chiede della senatrice ed ex guerrigliera Topolansky dice: Non si racconta un amore così lungo». Quando gli si domanda se non fu un po' fesso a credere che la tattica guevarista dei fuochi rivoluzionari fosse una buona idea per esportare alla fine degli anni Sessanta la rivoluzione nel placido Uruguay, minuscolo

Paese agricolo lungo il rio de la Plata, più pecore che persone, risponde: «Sì, ci sbagliammo, ma non sull'obiettivo. Sono rimasto delle stessa idea, la tattica è cambiata ma il fine è lo stesso: costruire un mondo meno ingiusto». Per averci provato, in passato, passò gli ultimi due anni di prigionia in un pozzo. Quando le guardie carcerarie di Punta Carreta, la mattina del 6 settembre del 1971, aprirono la porta della cella di sicurezza e la trovarono incredibilmente vuota, seppero che tra i 111 guerriglieri Tupamaros scappati nella notte attraverso un tunnel scavato sotto il muro della prigione c'era Pepe Mujica. E capirono che non era solo leggenda la storia del minuscolo guerrigliero capace di muoversi nella rete fognaria di Montevideo come nella soffitta di casa sua. Oggi Punta Carretta è uno shopping mall e Pepe Mujica si prepara a formare il suo primo governo. Il neopresidente è un maestro nell'arte della mediazione. Se il centrosinistra uruguayano non si è schiantato in uno dei suoi innumerevoli conflitti intestini ed è uscito a testa alta dai primi cinque anni alla guida del Paese, è fonda-

mentalmente merito suo. E' stato lui, l'anima più radicale del Frente, a trovare il punto d'equilibrio tra laici e cattolici, tra liberisti e statalisti, tra fondamentalisti ed eterodossi, tra 'vedette' e gregari delle varie correnti interne. Quando dentro il Frente gli hanno detto con quella storia politica alle spalle non andava bene come candidato presidente, meglio piuttosto il più presentabile economista Daniel Astori, ha proposto le primarie all'americana. Quando le ha vinte e gli hanno rimproverato di non essere laureato, ha offerto allo sconfitto il ministero dell'economia. Ma quando l'hanno criticato per aver preso in giro in un'intervista la boria dei neoperonisti al governo in Argentina, (gli chiedevano di commentare il conflitto tra Cristina Kirchner e gli agroesportatori e lui rispose 'mah, è darsi un gran lusso perdere miliardi per litigare con quattro fascisti produttori di soia'), solo allora ha detto 'o mi lasciate dire quello che mi pare o vi trovate un altro candidato'. Il capo del governo uscente Tabaré Vazquez, socialista molto light, l' acerrimo nemico interno che ha tentato di fargli le scarpe sempre, questa volta l'ha supplicato di restare. Formare il nuovo esecutivo non sarà opera semplice. I cattolici vogliono garanzie, i socialisti accampano pretese, la sinistra radicale scalpita e gli chiede se non sarà, finalmente, il caso di accelerare. Mujica non ha ancora detto da dove comincerà, ma una prima indicazione l'ha posta come condizione alla sua candidatura: «Sapete cosa penso, chi tocca le garanzie del welfarestare muore».

La primula rossa che terrorizza la Russia Marco Clementi - Mosca

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siste un capo del terrorismo interno russo responsabile della serie di attentati che dal 2004 insanguinano la Russia? Una primula rossa che ancora oggi, sebbene la guerra sia stata ufficialmente dichiarata conclusa dal Cremlino e da pochi giorni addirittura riaperto l'aeroporto di Groznyj, combatte per la liberazione della Cecenia? Secondo le autorità di Mosca, sembrerebbe di sì. Si tratterebbe dell'ex allievo ufficiale Pavel Kosolapov, trent'anni, da tempo entrato in clandestinità e accusato di aver organizzato e messo in atto l'attentato terroristico che il 27 novembre ha provocato il deragliamento del "Nevskij Express" e la morte di un numero ancora imprecisato di persone. Prima dell'attentato di tre giorni fa, il nome di Kosolapov era circolato negli ambienti investigativi, ma ora è comparso su tutti i mezzi di informazione e le 24 vittime finora accertate, oltre che i 26 dispersi, sarebbero solo le ultime che ha provocato. Secondo fonti vicine al ministero degli Interni, Kosolapov, dopo aver frequentato l'accademia militare di Rostov, si è avvicinato all'islam integralista e quindi al movimento per l'indipendenza della Cecenia. Entrato in contatto con uno dei capi della resistenza, Shamil Basaev, all'inizio di questo decennio avrebbe trascorso un pe-

riodo di addestramento in un campo clandestino e quindi avrebbe organizzato una cellula combattente in Russia- Il 6 febbraio 2004 il suo gruppo avrebbe organizzato l'attentato dinamitardo alla metropolitana di Mosca, che provocò, la morte di 42 persone. Nell'agosto del 2007 un altro attentato ferroviario, sempre contro il "Nevskij Express", aveva causato il deragliamento di tutti i 12 vagoni del convoglio e il ferimento di 60 passeggeri; anche allora si era fatto il nome di Kosolapov in quanto mandante, mentre l'attentatore è stato arrestato e si trova ora sotto processo. Il luogo prescelto per l'azione del 27 novembre non è lontano da quello del 2007 e si trova tra le stazioni di Aleshkina e Uglovka, al confine tra le province di Tver' e Novgorod. È una zona impervia, scomoda da raggiungere, praticamente disabitata per decine di chilometri e per questo neanche coperta dalla rete di telefonia mobile, che in Russia è provinciale e dunque cambia di città in città. L'ordigno, 7 kg di tritolo, è esploso alle 21 e 34 minuti, a due ore dall'arrivo a San Pietroburgo, provocando la distruzione di circa mezzo metro di binario. Pochi minuti prima era transitato sullo stesso tratto di ferrovia il treno veloce di ultima generazione "Sapnas", che stava svolgendo una corsa di prova, quindi è sopraggiunto il "Nevskij Express",

Pavel Kosolapov è accusato dell'attentato del "Nevskij Express". Dopo aver frequentato l'accademia di Rostov, si è avvicinato all'islam integralista e al movimento indipendentista ceceno che ha subito il deragliamento degli ultimi tre vagoni. Per fortuna non c'era ancora la neve, nonostante la bassa temperatura, e questo ha favorito l'intervento dei ferrovieri russi, che hanno immediatamente riportato proprio il treno "Sapnas" sul luogo del disastro per caricare i 591 passeggeri rimasti illesi (sui 682 totali, compreso il personale viaggiante) e portarli fino a San Pietroburgo, dove sono giunti intorno alle quattro del mattino. I circa sessanta feriti sono stati trasportati negli ospedali di Novgorod, Tver' e San Pietroburgo, mentre i resti delle 24 vittime finora accertate sono stati trasferiti a Tver', dove 22 corpi sono già stati riconosciuti. Tra essi ci sono diverse personalità, come (ironia del destino) Boris Evstratikov, direttore dell'Agenzia Federale per la Riserva Statale, che finanzia gli aiuti in caso di emergenza naturale o terroristica, il direttore dell'ACI rus-

sa ed ex senatore Sergej Tarasov e la vicedirettrice dell'Associazione della Pesca, Ljudmila Muchina. Il "Nevskij Express", che unisce le due capitali russe dal 2002, è un treno ad alta velocità e svolge in Russia la stessa funzione che è stata affidata in Italia al Freccia Rossa: unire le due maggiori città del paese (che distano 632 km.) in 4 ore e mezzo. Ne partono solo quattro al giorno, due per direzione ed è dunque altamente frequentato da uomini d'affari, politici e dirigenti dello Stato, specialmente il venerdì sera, quando i funzionari della Venezia del Nord voluti dall'amministrazione "pietroburghese" di Putin e Medvedev nella capitale, rientrano a casa. Armando Noacco, l'imprenditore italiano rimasto ferito in seguito al disastro è stato operato in una clinica di San Pietroburgo per fermare una emorragia interna. L'intervento sarebbe riuscito, ma l'uomo d'affari ha perduto molto

sangue ed è dunque ancora in terapia intensiva. Secondo informazioni in nostro possesso, provenienti direttamente dal luogo del disastro, è stato grazie al coraggio e alla prontezza dei ferrovieri russi che si è affrontato l'emergenza con rara velocità ed efficienza; i mezzi di soccorso canonici, infatti, avrebbero impiegato moltissime ore per evacuare i superstiti e l'intervento del "Sapnas" si è rivelato fondamentale. Inoltre, a differenza che in altre tragiche occasioni, i mezzi d'informazione hanno potuto coprire interamente e senza censure l'accadimento e le trasmissioni televisive, così come i giornali, sono stati puntuali nel fornire ogni particolare. Si tratta di un fatto nuovo, salutato con favore dall'opinione pubblica e certamente voluto dal presidente Medvedev, che sembra voler traghettare la Russia verso una democrazia meno "sovrana", come la definiva Putin, e più partecipativa.

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QUEER

RECENSIONE

Come ristabilire un rapporto tra politica e società, come far rivivere i legami sociali in un’epoca di crisi profonda? Le riflessioni di uno dei politici più attivi degli ultimi anni

LIBERTÀ E FUTURO. HA RAGIONE GIANFRANCO FINI di Massimo Ilardi SEGUE DALLA PRIMA

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a anche una seconda premessa è doverosa per ricordare che Fini è un uomo dello Stato non solo per la carica che ricopre ma per la sua biografia politica che lo vede nell’ultimo decennio attraversare molti incarichi istituzionali. Questo per dire che il suo pensiero su questi due nodi fondamentali e contradditori dell’agire politico che sono la dimensione del futuro e della democrazia che riguarda la collettività e la libertà che riguarda qui e ora l’individuo vanno contestualizzati dentro il suo percorso. In altre parole, non si può chiedere a Fini di pensarla su questi temi come un banlieusard o come un componente del black bloc non fosse altro perché in queste culture della strada il futuro non esiste e la libertà non si pensa mai ma si pratica sempre sul territorio. La sua libertà si ferma a quella politica, di coscienza, di mercato, di parola, di associazione. I suoi autori di riferimento

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sono, per citarne alcuni, Hannah Arendt, Karl Popper, Isaiah Berlin, John Stuart Mill, Ralf Dahrendorf. Il suo obiettivo è la formazione di “una grande società aperta, plurale, moderna, dinamica, autorevole” dove la politica tende a presentarsi non «secondo le linee novecentesche dell’essere» ma secondo «le linee contemporanee del fare», dove poter sviluppare liberamente capacità e creatività, dove democrazia e libertà si integrano in un perfetto equilibrio, e dove la libertà si coniuga sempre con la responsabilità. Quello che interessa a Fini è, insomma, come ristabilire un rapporto tra politica e società, come far rivivere i legami sociali in un’epoca di crisi profonda degli strumenti dell’agire politico che non riescono più a tenere dietro alle trasformazioni sociali. E Fini lo fa dal suo punto di vista che è quello di presidente della Camera dei Deputati, non può che farlo da qui: «una delle prime cose da fare in Italia è quella di varare finalmente le riforme istituzionali. Il nuovo patto di cittadinanza deve passare innanzitutto per

“Il futuro della libertà” di Gianfranco Fini Rizzoli 166 pagine 16 euro

una grande stagione costituente [...]» perché «l’uomo non può pienamente decidere del proprio destino se non all’interno di una comunità politica che lo veda come protagonista consapevole e attivo.» Il primato della politica viene così ristabilito. Almeno sulla carta. Ora sarebbe facile ribattere a Fini affermando che un nuovo legame tra società e politica non può essere ristabilito solo attraverso una stagione costituente che nel contesto in cui viviamo sarebbe autoreferenziale al sistema politico che la promuove. La ripoliticizzazione della società per essere tale ha bisogno di livelli di conflittualità così alti che il sistema politico non solo dovrebbe innescare ma ai quali dovrebbe essere in grado soprattutto di rispondere. E non mi sembra che la cultura politica di questi anni sia capace di fare questo salto se anche lo stesso Fini demonizza quegli anni dove il conflitto sociale ha spinto proprio nella direzione che il presidente della Camera si augura oggi. Però non è questo il punto che mi preme sottolineare. Il punto

antologie sonore

il Batiato che fa comodo L’ultimo brano atacca Berlusconi. E i critici vanno in brodo di giuggiole per un lavoro, a dire il vero, poco originale

di Gianni Lucini

Lo scontro che ha innescato nei confronti del governo e dei suoi alleati sta a dimostrare che i suoi ragionamenti sull’agire politico vanno presi sul serio e letti con molta attenzione anche da chi milita in schieramenti avversi

è un altro e riguarda il discorso sulla libertà. Io credo che mettere la libertà al centro delle proprie riflessioni, addirittura farne il fondamento della propria azione, porti alla fine e comunque alla rivolta. Rivolta sociale ma anche politica o istituzionale. Dipende ovviamente dal contesto in cui siamo collocati. Nel caso di Fini, lo scontro politico che ha innescato nei confronti del governo e dei suoi alleati sta a dimostrare che la sua riflessione sulla libertà va presa sul serio e letta con molta attenzione anche da chi in schieramenti politici avversi. Un’ultima considerazione, anzi una specie di post scriptum: ma perché oggi molto spesso quando si scrive un libro ci assale questa mania, da cui non si sottrae neanche Fini, di rivolgersi ai figli, ai nipoti, ai pronipoti, insomma ai giovani in genere per dare loro consigli? Eppure siamo stati giovani tutti e, dunque, sappiamo tutti che l’unica cosa che i giovani non vedono è proprio il ditino puntato su loro da parte dei più anziani. E fanno bene! Anzi, abbiamo fatto bene!

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o ascoltato bene e più volte Inneres Auge, l’osannato brano che ha fatto da apripista all’ultimo album antologico di Franco Battiato e non riesco davvero a capire quale sia il “tocco” di genialità che ha fatto gridare al miracolo la parte più potente e illuminata della critica e del giornalismo culturale (?) italiano. Dal punto di vista musicale è sufficiente ascoltare l’insieme dei brani dell’album per capire che in Inneres Auge, non ci si trova di fronte a un vertice inarrivabile di eccellenza, ma a un’ottima applicazione delle ricette “pop” del Battiato che ormai conosciamo bene. Quello che però ha suscitato l’eccitazione massima dell’ambiente mediatico è il testo dove spicca chiaro e potente un riferimento perfettamente riconoscibile: «Uno dice che male c’è a organizzare feste private/con delle belle ragazze per allietare Primari e Servitori dello Stato?» Seguito dallo scatto dell’invettiva: «Non ci siamo capiti/e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti? Che cosa possono le Leggi dove regna soltanto il denaro?». Bene. E allora? Non capisco l’entusiasmo, davvero. Che cos’ha di speciale il testo? È contro Berlusconi, contro il berlusconismo? E allora? Io sono contro Berlusconi ma devo dire che le battaglie condotte soltanto con ripetuti afflati moralistici non mi suscitano più neppure quelle che lo stesso Battiato chiamerebbe “timide erezioni”. Credo che, in epoche diverse e in modi molto diversi tra loro, Piero Ciampi, Rino Gaetano o Giorgio Gaber producessero invettive

molto più potenti, acide e fetenti di questa. Non so come la pensi Battiato, ma arrivo addirittura a pensare che lui stesso ridacchi del cumulo di scemenze scritte dagli esaltati incensatori di questa canzone che, a mio sommesso parere, è destinata a non lasciare particolari tracce nella sua gigantesca produzione. Quando il tempo avrà provveduto a sbiadire gli elementi di cronaca spicciola cui si ispirano alcuni versi essa stessa sbiadirà al confronto con altre composizioni dello stesso Battiato. Lo dico con la consapevolezza che in ogni canzone, in ogni composizione musicale dell’artista siciliano ci si trova di fronte sempre e soltanto a uno dei Battiati possibili e che ce n’è sempre in agguato un altro pronto a smentirlo. È proprio questa capacità di misurarsi ogni volta con una nuova porzione del suo essere e della sua creatività ad averne illuminato la carriera fin da quando suonava nel gruppo di Ombretta Colli o sbarcava il lunario in una delle tante sale da ballo che all’inizio degli anni Settanta erano un’occasione spesso unica per ascoltare musica dal vivo. Intelligente e geniale anche nella temperie del pop più commerciale di quegli anni tentava comunque di difendersi proponendo, magari soltanto su disco, una visione diversa, una strada nuova o anche soltanto una suggestione che superasse gli schemi della moda. Ogni Battiato ne nasconde un altro e ogni tempo ha il suo Battiato, ma i vari Battiati non sono necessariamente il prodotto di quelli che li hanno preceduti.

Quando si avvicina alle sonorità sperimentali in cerca di nuove espressioni che navighino tra la dodecafonia e l’eternità elettronica lo fa in modo totalizzante e improvviso. Non fa alcuna concessione né al pubblico né a chi investe su di lui. Non ha paura di nulla. L’ho visto personalmente da solo, sul palco, perdersi nei suoni di un sintetizzatore tra i fischi del pubblico rocchettaro e inferocito. L’ho visto anche interrompere l’esecuzione e mandare a quel paese lo stesso pubblico rocchettaro e inferocito che non capiva come il suo fosse un grande gesto artistico e un atto d’amore. L’ho seguito nelle nicchie e poi nei trionfi. Ne ho visto le vette ma anche le ripide cadute e ho sempre apprezzato la sua capacità di essere uno, nessuno e centomila fottendosene delle mode ma anche della necessità di essere sempre e soltanto “fuori dalle righe”. Il Battiato che realizza un album impegnativo come Fetus, più o meno negli stessi mesi scrive anche Tarzan per il gruppo del futuro Pooh Red Canzian. Ho sempre pensato che nel suo lavoro c’era la consapevolezza che la musica in fondo è soltanto un linguaggio e che anche in quell’ambito alla fine «...innervosiscono i semafori e gli stop». Per questo non penso che Inneres Auge sia un capolavoro e proprio per questo penso che si stia sprecando spazio e tempo a incensarlo. Sono arrivato alla fine del pezzo e capisco che anch’io, in fondo ho sprecato spazio e tempo per questo maledettissimo brano. Dannato Battiato!

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Il Campionato

Huntelaar imita Totti e l'Inter non è così lontana Daniela Pellegrini

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nter a più 7 dalla seconda, che non è più la Juve, bensì il Milan di quel Leonardo che, prima del match con la Roma del 19 ottobre era dodicesimo in classifica e sentiva scottare la panchina. Ora invece attende la notte di Champions per conclamare una sorta di piccolo miracolo, per la verità più europeo che brasiliano, oggi nel segno di Huntelaar. Sette giornate per scalare la classifica e posizionarsi in finestra fino a sabato, quando prima e terza si sfideranno e l’occasione sarà ghiotta per rosicchiare ancora qualcosa, Samp permettendo naturalmente. A proposito di Samp, improbabile pensare che domenica con il Milan Cassano&co replichino la brutta figura del derby di sabato, onore al Genoa, a Gasperini ed ai rossoblù tutti, partita perfetta e risultato bugiardo: pochi i 3 gol di scarto sanciti dal campo. Onore anche al Cagliari, battere la Juve è un lusso, farlo correndo per 95 minuti è uno spettacolo. Si riaffaccia nella zona a ridosso dell’Europa la Roma di Ranieri, ingarbugliando ancor di più la situazione dell’Atalanta. E a proposito di coda, povera Lazio, il tunnel è davvero così buio? Due squadre sono da 8pieno in questa giornata: il GENOA e il CAGLIARI. Impressionante la superiorità dei rossoblù a Marassi, la freddezza di Milanetto (8) che prima realizza un rigore, poi serve l’assist del rad-

doppio a Rossi (7.5) quando la squadra è in inferiorità numerica per l’ingenua espulsione di Biava ( 6, peccato). Però il vero protagonista della serata è mister Gasperini (9), 3 derby 3 vittorie, non si chiude rimasto in 10 sull’1-0, inventa Sculli (8) centravanti, ritrova Juric (7.5) a centrocampo, insomma fa e disfa a suo piacimento e tutto gira per il verso giusto. La SAMP) (4 non è mai in partita, ma è ancora quarta in classifica, seppur agganciata dal Parma. Serata no, giudizio sospeso. Poi il Cagliari, Nenè (8) e il suo allenatore Allegri (8.5). Pensare che dopo il finale di stagione dello scorso anno ha cambiato mezza squadra e vedere la facilità impressionante con cui gli isolani ne fanno due a sua maestà Gigi Buffon, quello di Matri (8) addirittura in mezzo alle gambe, dopo una serpentina degna del miglior Tomba… Niente da dire, la squadra è tonica e compatta, e Allegri è proprio bravo. 7 al BARI , rimonta casalinga all’ultimo respiro ai danni del Siena (5), fanalino di coda e sconfitto nonostante il terzo allenatore in tre mesi, una sorta di record. Gli uomini di Ventura (7) corrono fino al 94esimo minuto, fino a quando Giuseppe Greco (7.5), l’ultima delle riserve in attacco, subentrato da 10 minuti, non insacca la palla della vittoria a coronare l’opera di una squadra che, anche se in svantaggio, lotta su ogni pallone e non molla mai. 21 punti in classifica, a un passo dall’Europa. Altro che neopromossa…

7 anche a CHIEVO ed UDINESE. I veronesi non danno spettacolo, ma corrono come dannati e tirano in porta, tanto che il portiere del PALERMO (5), Sirigu ),(7risulterà il migliore in campo per gli ospiti. Delio Rossi (6 ) in 5 giorni non riesce a fare miracoli. La differenza tra le due squadre sta nella forza fisica, il Palermo si perde in lezio sismi infruttiferi, il Chievo realizza e riparte. Sabato ad Udine è tornato al gol Totò di Natale (8), dopo 56 giorni di astinenza, e si è riconquistato la vetta solitaria della classifica cannonieri. Il LIVORNO (5) con 6 gol è l’attacco meno prolifico del campionato, stavolta concede qualcosa anche in difesa, Knezevic (4.5) salta meno di Floro Flores (7) e per i friulani la gestione della partita è una passeggiata. 6.5 all’INTER, che fa sudare fino al minuto 85 il proprio pubblico, prima di realizzare il gol, su rigore, con Milito (6.5). L’Inter appare meno spumeggiante di quanto ci aveva abituati in campionato, ma merita il risultato sia per il numero di palle sprecate, Eto ‘o (5) su tutti, sia per l’impegno del centrocampo che ritrova Quaresma, con (7 Stankovic, il migliore). La FIORENTINA (6) ha fatto il suo, chiuso gli spazi, Frey (7) si è superato in un paio di interventi, Gilardino (7.5, che numero) ha rischiato di beffare la capolista. Ma i nerazzurri hanno davvero una marcia in più, e la fortuna, spesso, aiuta gli audaci. 6.5 anche alla ROMA, il carattere è quello giusto, il gioco non è sem-

pre brillante ma la determinazione c’è e si vede. L’ATALANTA (5.5) si era portata in vantaggio con uno scatenato Ceravolo),(7 ma l’undici di Ranieri (7) ha attaccato a testa bassa fino a sovvertire il risultato con Vucinic (7 ) e Perrotta (6.5), poi ha difeso a testa bassa con le buone o con le cattive. 21 punti, a un passo dall’Europa, e Ranieri a -6 dalla Juventus. Lo spirito per affrontare il derby di domenica prossima è quello giusto. 6 al MILAN, ma 8ad Huntelaar, autore di una doppietta a tempo scaduto, e pensare che gli sono stati concessi solo 10 minuti di gioco. Finalmente si sblocca e regala i 3 punti alla squadra, che per la verità non aveva strabiliato al Cibali. Il CATANIA (5.5) si è difeso con ordine fino al 92esimo, Atzori (6.5) aveva ingabbiato alla perfezione i vari Pato , (5 sottotono) Borriello (5.5) e Inzaghi (6.5). Poi però è entrato Huntelaar. 6 a PARMA e NAPOLI, la partita scorre a ritmi non elevatissimi e il Napoli, che era andato in vantaggio con Denis (7 ), forse avrebbe meritato la posta piena. Il Parma però è squadra che non si arrende mai. Più delle giocate dei singoli, è la pressione della squadra emiliana che porta al rigore: Aronica (5), ingenuamente, strattona Lanzafame (7) in area, rigore, Amoruso (6.5) non si fa pregare e finisce pa-

ri e patta. Ai partenopei è mancata la grinta, De Laurentiis si lamenta perché il Napoli, dopo il 70esimo, ha smesso di correre. Da rivedere la preparazione atletica. 5 alla LAZIO. Correre ai ripari e farlo subito. La benzina dei padroni di casa dura 35 minuti, durante i quali producono 4 palle gol concedendone anche una agli ospiti, ma la Lazio domina e sembra di poter sbloccare il risultato. Sembra, perché poi tutto torna grigio e la partita vivacchia su episodi blandi. Corre solo Zarate (6.5), ma non basta. Il BOLOGNA (6) ringrazia, il punto in trasferta è ossigeno, ma i demeriti degli uomini di Ballardini (4, se la squadra ha i crampi al settantesimo è sbagliata la preparazione) sono sotto gli occhi di tutti. Rocchi (5) e compagni escono tra i fischi, umore a terra e silenzio stampa. 13 punti in classifica, la crisi è ormai palese. E domenica sera c’è il derby. 4.5 infine alla J U V E N T U S , la squadra è senz’anima, Cannavaro (4) non somiglia nemmeno da lontano al “Muro di Berlino”, Ferrara (5) appare senza idee. Si salvano solo Diego e Giovinco,ad 6 entrambi. Però, francamente, gli infortuni di Trezeguet e Iaquinta non bastano a giustificare la Juve. Scavalcata dal Milan, sabato sera deve battere l’Inter: è l’ultima spiaggia in chiave scudetto, perché il distacco, a questo punto, è -8.

IL MARTEDÌ DEL TIFOSO

INTER Mourinho è diabolico Alfonso Gianni e amici neC ompagni razzurri, settimana turbolenta, ma con lieto fine. Si è cominciato davvero male, con un'autentica lezione di calcio in Catalogna. Giuste le parole di Moratti e anche del Mourinho, ma se si deve perdere meglio così, capendo che la lezione si prende, la si porta a casa e la si impara. Anche perché se tutto va bene contro il Rubin, il Barcellona è probabile e sperabile che ce lo troveremo ancora di fronte. L'ho visto nel derby di Spagna contro il Real. Meno brillante e preciso che contro di noi, ma asfissiante, tenace e capace di cambiare gioco in corsa. In più Ibra, alla prima occasione, ha fatto un gol di quelli che di solito si sbagliano. Per cui se vogliamo andare avanti in Champions senza finire per consegnare comunque la coppa al Barça, sarà bene studiare un diverso modulo e un altro approccio alla partita. Con quello attuale, col gioco che mettiamo in campo oggi grasso che cola se si fa uno zero a zero come successe a San Siro. Domenica abbiamo archiviato la pratica Fiorentina, che, lo ripeto, in Italia

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ROMA Torniamo a “pensare in grande” giacomolosi

non è un granch'è, ma si è faticato più del necessario perché la coppia d'attacco si è mangiata l'inverosinmile e perchè all'inizio del secondo tempo è stato annullato un gol regolarissimo di Samuel, a seguito di trattenuta reciproca con il difensore. Poi abbiamo rischiato di perdere con l'unica giocata dei viola, il palo di Gilardino, che ha rinverdito la bambola della nostra coppia centrale difensiva, esattamente come a Napoli. La notizia più lieta è stata quindi la riapparizione di Quaresma. È però presto per dire se l'anatroccolo è già diventato un cigno. La notizia peggiore, il dissidio Mou-Balotelli. A meno che il portoghese non faccia il diabolico: voglia cioè evitargli la trasferta di Torino in modo da non dovere essere messo in condizione di abbandonare il campo di fronte all'inciviltà dei "gobbi" (i tifosi bianconeri per chi non lo sa) e quindi perdere a tavolino. Chissà. Intanto godiamoci il tonfo della Juve, che guarda la terza stella da lontano, e preoccupiamoci con moderazione del recupero milanista.

della domeniL acasintesi potrebbe essere in uno slogan, assai utilizzato poco tempo fa: pensare in grande, agire "in piccolo". Era, più o meno, la parola d'ordine dei tanti che, all'inizio di questo millennio, avevano ancora voglia di opporsi ad un sistema sbagliato. Qui però non si parla di movimenti "no global" ma, molto più banalmente, di calcio. Cioè della Roma. Eppure quello slogan si adatta alla perfezione al racconto della trasferta bergamasca dei ragazzi di Ranieri. È finita come sanno tutti, con una vittoria sofferta quanto importante, ma è finita soprattutto con la possibilità per la Roma di tornare a "pensare in grande". La Champions è lì, ad un tiro di schioppo, a tre punti. E davanti hai squadre come Parma e Sampdoria che non fanno paura. Ma, appunto, sei arrivato a 21 punti e con la possibilità di "pensare in grande", solo grazie ad un agire "picolo piccolo". Che nel nostro caso, si traduce con un calcio semplice, lineare, che qualcuno - con un po' di spocchia - potrebbe definire primitivo. Ma che in

realtà è fatto di norme elementari quanto efficaci. Perché - l'altro pomeriggio al comunale di Bergamo tutti hanno capito che la Roma ce l'avrebbe fatta a portare a casa i tre punti, quando negli ultimi minuti, s’è visto Mexes, l'insuperabile Mexes, arrivare di corsa, anticipare l'avversario e "sparare" la palla in tribuna. Alla "viva il parroco". Niente di più lontano dalle studiate ripartenze spallettiane, niente di più diverso dal meticoloso possesso palla di appena un anno fa. Ma ora, anche con quegli interventi, si può tornare a "pensare in grande". Certo, se poi qualche "colto del calcio" chiedesse come ha fatto Ranieri a creare un mix di questo genere, la risposta dovrebbe essere per forza di cose vaga. Bisognerebbe tenersi sulle generali. Perché in realtà nessuno sa come abbia fatto, nessuno sa se ci sia davvero una formula o sia solo frutto del caso. E anche - perché no? - di quel briciolo di fortuna che tanta parte ha avuto nella carriera di Ranieri. Ma la Roma è lì, a tre punti dal "sogno”. E, soprattutto, gli altri arrancano.

Il Campionato

Casteddu, il calcio è poesia L'ALTRO NEL PALLONE Darwin Pastorin

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i chiama Anderson Miguel da Silva, ma per tutti è Nenè. Gioca nel Cagliari, dopo essere stato nella passata stagione cannoniere del campionato potoghese con la maglia del Nacioal (20 reti in 28 presenze). Allegri non lo considera ancora un titolare "fisso", ma quando gioca sono gol e dolori per tutti. Ne sa qualcosa la Juventus, che è stata umiliata al Sant'Elia 2-0: prima Nenè, poi Matri. I sostenitori sardi hanno rivisto bagliori del 1970, hanno rivisto Riva e Boninsegna, hanno risentito battere forte il cuore. La conclusione da fuori area del brasiliano, su tocco ravvicinato di Biondini, è stata degna di Rombo di Tuono: non il sinistro, ma il destro. Sotto l'incrocio dei pali: inutile il volo di Gigi Buffon. Anderson Miguel è il secondo Nenè della storia cagliaritana, il primo fu uno degli artefici dello scudetto: Claudio Olinto de Carvalho, cresciuto nel Santos, arrivato in Italia - come centravanti - nella Juventus e poi finito a fare il centrocampista elegante e fantasioso nella formazione del "filosofo" Manlio Scopigno. Incontrai Claudio Olinto qualche anno fa, in un ristorante vicino al mare. Mio figlio Santiago, tifoso rossoblù, voleva conoscere quel giocatore-mito così celebrato da nonno Pietro e da nonna Grazia. Lo chiamai, forte di una antica amicizia: e venne a pranzare con noi, raccontandoci di Pelé e di Riva, di Sormani e di Greatti. Aveva sempre quel fare trasognato e nobile, la parlata lenta ed elegante: quanta estetica nei suoi gesti, quanta purezza in quel suo essere calciatore nelle vene. Adesso, un altro Nenè dispensa sogni e allegria, sta portando il Casteddu in alto nella classifica, verso un posto in Europa. Dal portiere Marchetti all'estroso Jeda: ecco, finalmente, una compagine che, senza eccessive alchimie tattiche, senza un "profeta" in panchina, rende il calcio ancora uno spettacolo,

JUVE Non perdiamo tempo: serve il 4-4-2 Beppe Corrado adesso basta. Su O k,queste colonne siamo stati sempre molto indulgenti con Ciro Ferrara, ma non è più il momento. Non siamo fra quelli che vorrebbero cacciarlo, perché crediamo in lui e comunque non ci piacciono i presidenti che macinano più allenatori che olive in tempo di raccolta. Epperò, però.. qui c’è qualcosa che non va. E allora azzardiamo un’ipotesi: è il modulo. Il 4-2-3-1 che tanto bene faceva la Roma di Spalletti, non è ancora la soluzione ideale per questa Juve. Perché manca un mediano che imposti (Sissoko e Melo picchiano e basta) perché i tre fantasisti non si sono ancora integrati, perché Marchisio si è rotto, Giovinco non è continuo come dovrebbe, Diego non ci sta capendo una mazza e Camoranesi non può essere sempre il salvatore della patria. Amauri, secondo noi, fa il suo sporco lavoro di profondità e possesso palla, ma non la butta dentro nemmeno con le mani. Poi, dietro, abbiamo due centrali che o si rompono il setto

nasale (quarta volta per Chiellini) o si fanno saltare come birilli (vedi Cannavaro che è evidentementefuori forma). Lasciamo cadere il discorso sui terzini, ormai nota pecca di questa formazione. Insomma, il 4-2-3-1 non ce lo possiamo permettere. È un modulo che richiede tempo per ingranare, ma la Juve che vuole vincere lo scudetto tempo non ne ha. La settimana prossima c’è l’Inter e perdere significherebbe rinunciare quasi sicuramente a insidiarla. Poi c’è il Bayern Monaco, partita decisiva per andare avanti in Champions. Non vogliamo nemmeno pensare di dover salutare tutto dopo aver speso 50 milioni di euro nel calcio mercato e avere illuso tutti noi ad inizio stagione. E quindi? Quindi ci permettiamo di suggerire che per fare punti ci vuole di tornare al classico, collaudato, noiosissimo 4-4-2. Qualcuno potrebbe obiettare che quello era il modulo di Ranieri. Beh sì, era proprio il suo. Ma, per carità, non diciamolo a voce alta…

Veduta panoramica di Cagliari. Qui sotto Gigi Riva. A sinistra Nenè

una meraviglia tecnica e agonistica. Si chiama José Rodrigues dos Santos e ha scritto un romanzo che ti inchioda alla pagina, che ti lascia veramente senza respiro, che ti spinge ad andare avanti nella lettura anche se è ormai l'alba: "Furia divina", E se al-Qaeda avesse la bomba atomica?, traduzione di Luca Quadrio e Sara Quarantani, Edizioni Cavallo di ferro. Altro che Dan Brown! Rodrigues dos Santos mette insieme realtà e finzione, precisi riferimenti storici e religiosi, costruisce una trama folgorante, dà vita a tre personaggi indimenticabili (lo storico e crittografo portoghese Tomas Noronha, l'americana Rebecca Scott, operativa della Cia distacca-

ta alla NEST, Nuclear Emergency Search Team, e l'egiziano Ahmed destinato a diventare il mujaheddin Ibn Taymiyyah): è questo il mio consiglio di lettura per la settimana. Si chiama Salvatore Iacolino, allena il Savona e nel suo passato ci sono una presenza in A con la Juventus (a Bari), l'esperienza nella Ternana di Viciani e le stagioni felici al Brescia con il centravanti italo-brasiliano Vincenzo Marino e l'ala Ezio Bertuzzo. Giocava con il numero 10, ed aveva una visione di gioco degna di un Omar Sivori. Da tempo è, come si dice, un «vincente tecnico di categoria». In ogni piazza, conquista consensi e promozioni. Ha deciso di fermarsi a Torino e di muoversi nei "paraggi": la Liguria è al limite! Ci incontriamo nel bar sotto casa di mia mamma. Io, lui e Alberto Carelli, che giocò nel Toro con la maglia numero 7 di Gigi Meroni. Iacolino non potrebbe rinunciare all'odore e alle emozioni del prato verde, Carelli ha detto basta nel momento in cui ha visto troppi genitori "rovinare" i propri figli, pensandoli già piccoli Del Piero, piccoli Ibrahimovic, piccoli Gattuso. Salvatore ci crede ancora: per lui il pallone ha mantenuto mistero e magia, per lui il pallone è la giovinezza che ritorna a ogni fischio d'inizio dell'arbitro.

MILAN Che motore eccezionale quel Pirlo Piero Sansonetti ll'inizio del campionato si diceva: «Ma come farà il Milan che non ha in rosa nemmeno un centravanti decente?» Il fallimento delle operazioni di mercato che avrebbero dovuto portare a Milano il brasiliano Luois Fabiano o il croato Dzeko, aveva fatto paventare lo "scioglimento" dell'attacco rossonero. Da ieri si dice: «Ma come farà il Milan che si trova in rosa tre dei più forti centravanti europei e ne può usare al massimo uno alla volta?» Meglio così, no? Meglio l'abbondanza. Huntelaar, domenica sera, è stata una vera e bellissima sorpesa. Ha giocato 10 minuti appena e ha fatto due gol bellissimi. Il secondo da antologia. Lo scatto a destra la semigiravolta, il pallonetto d'istinto, senza guadrare all'angolino sul secondo palo. Roba da Rivera, da Van Basten. Non credo che Huntelaar sia Van Basten (tantomeno Rivera) però non credo nemmeno che sia quello scarpone che era sembrato all'inizio del campionato. Uno che fa due gol così vuol dire che sa giocare a pallone. E il fatto di avere una alternativa forte e valida a Boriello è molto molto importante per la squadra. Da qualche settimana, e cioè da quando

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ha iniziato a macinare vittorie e punti, si diceva del Milan: «Ottima la prima parte ma non si vede la panchina.» Beh, ora comincia a vedersi la panchina: Huntelaar, Inzaghi, Abate, Gattuso... Il punto dolente, mi pare, è un altro. Prodezze di Huntelaar a parte, il Milan contro il Catania ha giocato una bruttissima partita. La squadra non funzionava. Perché non funzionava? Semplicissimo, non aveva il motore. Senza motore non si cammina. Il motore del Milan - da sette anni - si chiama Pirlo, Pirlo e solo Pirlo. Pensate che volevano venderlo quest'estate! Dio... Senza Pirlo la squadra non c'è. E purtoppo non c'è nessuno in grado di sostituirlo. Certo non Flaminì, che si e no è un discreto cursore. Certo nemmeno Seedorf, che ha gambe, piedi, ma neppure un quinto della testa calcistica di Pirlo. Come si fa? Senza Pirlo né Pato e nemmno Ronaldino, e Boriello e lo stesso Seedorf riecono a dare il cento per cento. Giocano a due cilindri. La manovra soffre, stenta, muore. Il Milan, se vuol pensare al suo futuro, deve concentrarsi su questa domanda: chi sarà il Pirlo di domani?

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COMMENTI Martedì 01 Dicembre 2009

Voi e Gli Altri

La Svizzera sceglie razzismo e armi Rina Gagliardi

Oltre al no ai minareti luogo di culto per i musulmani, i cittadini elvetici hanno dato il via libera alla pistola facile. Calpestato il loro inno «Addio Lugano bella...»

segue dalla prima

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ronia della sorte, paradosso della così detta "democrazia diretta": tutto questo non avviene in grazia di un decreto del governo federale, ma per mano di un referendum, ovvero di volontà popolare. L'Europa assomiglia sempre di più ad un fortino reazionario e la Svizzera, che pure non è parte della Ue, si è assunta il ruolo di "avanguardia" (o di retroguardia, fate voi). Ricordatelo: era dagli anni '30, dal nazismo tedesco e dalle leggi razziali di Mussolini, che in Europa non veniva aggredita così platealmente la libertà di culto, non veniva leso così ferocemente un diritto basico della convivenza. A completare il senso di questo voto, notiamo che gli svizzeri non hanno votato soltanto sui minareti, ma anche sulla proposta di vietare il commercio di armi - i referendum erano due. Immaginate che cosa ha sancito la volontà popolare? Niente divieto sulle armi, è un commercio troppo prospero e comodo per la Repubblica elvetica e i suoi opulenti cittadini, che campano sull'evasione fiscale di tutto il mondo e si nutrono, oltre che di cioccolato, di overdose quotidiane di ordine e ipocrisia. Se qualcuno aveva dei dubbi, ebbene, è proprio una cultura organicamente reazionaria, quella che si è espressa. Tutto si può toccare, non certo il portafoglio. Il lavoro degli stranieri è essenziale, ma i diritti dei migranti non esistono - come sanno bene gli italiani che, per gran parte del '900, in Svizzera ci

dovevano andare a guadagnarsi il pane, ma dovevano nascondere i figli che nascevano lì, e allevarli clandestinamente. L'onestà è un valore condiviso, a parole, dal popolo come dai governanti - ma provatevi a cercar di sapere che cosa c'è in quei forzieri, tutto lo sporco denaro del mondo, frutto dei delitti più efferati, provatevi a chiedere una rogatoria, ed avrete risposte (non risposte) scontate. La Svizzera lava più bianco, come diceva anni fa Jean Ziegler, in un bel libro che sicuramente i quattro quinti del popolo svizzero non ha letto. La Svizzera può tranquillamente non produrre quasi nulla - in sette secoli, diceva Orson Welles nel celebre film di Carol Reed, il Il

terzo uomo, di fronte al suo smarrito amico perbene americano, «ha prodotto solo l'orologio a cucù» - perché ha fatto della disonestà di stato la sua ragion d'essere. Ed ora offre agli altri Paesi d'Europa un esempio da seguire. C'è da scommetterci: dopo questo voto, l'Olanda e l'Austria, quantomeno, proporranno referendum o consultazioni analoghe. Lo faranno non i partiti di centro o di governo, ma l'estrema destra razzista e xenofoba - l'intendenza, il popolo, facilmente seguirà. Perché, in un'era di apparente non politica, la politica trionfa, e come: solo che è la politica di destra, quella che sollecita il lato oscuro di ogni perso-

na, quella che alimenta l'odio, l'intolleranza e l'egoismo, quella che fa regredire ai suoi momenti peggiori l'intera civiltà europea. La verità è che l'Europa stessa è a un bivio: ha rinunciato ad esistere come soggetto politico vero, forte, dotato di una Costituzione condivisa, ricco di una civiltà che, pur tra contraddizioni e sangue, che parlava le lingue dell'integrazione, della pace, del dialogo tra i popoli. Il costo di questa rinuncia lo vediamo anche in questo voto svizzero. Nell'esultanza della Lega, una delle principali forze di governo del nostro paese, e nella demenziale proposta di Castelli di modificare, in senso cristian-crociato, la bandiera tricolore. No, purtroppo la Svizzera non è un problema che riguarda gli svizzeri. Ai quali non possiamo che rivolgerci cantando, una volta di più, quell'inno alla libertà che loro, che si spacciano da troppi secoli per un paese libero e rispettoso delle libertà altrui, hanno violato per l'ennesima volta: «Addio Lugano bella\... Scacciati senza tregua\ andrem di terra in terra\ a predicar la pace\ e a bandir la guerra».

«Caro figlio ti scrivo....» Celli e le lacrime di coccodrillo

Caso Cucchi, reintegrati i medici indagati per omicidio colposo

Giorgio Cappozzo

Monia Cappuccini

abbiamo potuto leggere sulle pagine I eridi Repubblica, che delle epistole tra coniugi e parenti ha fatto ormai un cavallo di battaglia, la lettera che Pierluigi Celli, direttore generale della Luiss, indirizza al figlio Mattia, 23 anni: «Vattene dall'Italia, ché è un paese senza futuro». L'ex direttore della Rai sciorina una serie di ragioni che dovrebbero spingere il suo erede oltre frontiera: una società rissosa, individualista, carriere senza merito, clientelismo politico, pochi soldi e manager senza senno. Ora, l'avesse scritta Mario Rossi, portinaio al Casilino, con parole come: «Caro Christian, come vedi qua non si batte chiodo. Ti pago un low cost per Barcellona e tanti auguri», avrebbe avuto una ragion d'esser. Ma che il pippotto appeso a una lacrima venga dall'ex direttore delle risorse umane all'Eni, no, "nun se po' sentì". Non solo per il tono patetico («col cuore che soffre il mio consiglio è che tu prenda la strada dell'estero») rivolto a un figlio che occhio e croce non dormirà all'addiaccio (per tutto il resto c'è mastercard), ma soprattutto per non aver concesso due parole due all'autocritica. L'ex direttore della Corporate Identity di Unicredit finge infatti di non sapere che molti della sua generazione (Celli è del '42) hanno come segno particolare le chiappe più pesanti della storia, capaci di tenerli inchiodati alle poltrone di questo paese oltre il tempo lecito. Dai primi anni '80, smaltita la sbornia militante, hanno (in alcuni casi meritatamente) scalato le nuvolette dell'Olimpo industriale, editoriale, parlamentare e universitario. Molti hanno zompettato (e continuano) da un ambito all'altro con la leggerezza di un tafano. Così è per Celli, consigliere di am-

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ministrazione di Lottomatica. Così è per il padre di Mattia, consigliere di amministrazione di Hera S.p.a. (inceneritori). Così è per l'autore della lettera di ieri su Repubblica, consigliere di Messaggerie Libri. Così è per quel signore per bene e con barba, già manager di Omnitel e Wind, a cui rivolgeremmo volentieri una lettera. Che attaccherebbe più o meno così: «Caro Celli e amici settantenni, l'aereo per Santa Fe parte alle 12 e 30. Il taxi per Fiumicino è già pagato».

al loro posto di lavoro nel reR eintegrati parto detentivo di Rebibbia presso l'ospedale Sandro Pertini. Con questo provvedimento, emesso ieri dalla direzione dell'ospedale sulla base di una indagine amministrativa interna, si assesta un duro colpo, quanto inaspettato, alla vicenda giudiziaria relativa alla morte di Stefano Cucchi, il 31enne romano deceduto in circostanze tutte da chiarire presso il reparto detentivo succitato nella notte tra il 15 e 16 ottobre, ad una settimana dall'arresto per possesso di sostanze stupefacenti. Tra-

sferiti in altri settori e in via provvisoria con un provvedimento immediato della Procura datato il 18 novembre scorso, i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponetti - indagati per omicidio colposo - vengono così scagionati dall'accusa di aver omesso le dovute cure sanitarie al giovane geometra. Nei loro confronti, rileva la direzione dell'ospedale, non sussisterebbe alcun addebito perché la morte del giovane ha un carattere «improvviso ed inatteso in rapporto alle condizioni generali del paziente». In particolare, «l'analisi non ha messo in luce sul piano organizzativo e procedurale alcun elemento relativo ad azioni e/o omissioni da parte del personale sanitario con nesso diretto causa-effetto con l'evento in questione». «Siamo sconcertati. Le autopsie sono ancora in corso e i consulenti al lavoro. È una decisione che non siamo in grado di comprendere» è il commento di Fabio Anselmo, legale della famiglia di Stefano Cucchi. «Andiamo avanti con la nostra attività investigativa. D'altronde non ci aspettavamo niente di più dal Pertini, ne stiamo vedendo di tutti i colori». «Lascia stupiti e addolorati che la morte di una persona nelle condizioni di Stefano Cucchi possa essere considerata inattesa, come ha stabilito l'indagine amministrativa dell'ospedale Pertini» aggiunge Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone. «La revoca del trasferimento dei medici lascia perplessi. Era una misura cautelativa nei loro confronti oltre che un provvedimento importante dal punto di vista simbolico perché dopo aver visto la cartella clinica di Cucchi sia nell'opinione pubblica che nella famiglia erano sorti dubbi legittimi sul trattamento sanitario riservato al giovane detenuto».

COMMENTI Voi e Gli Altri LE FOTO DI TANO

DUBAI, L'ETERNA CRISI DEL TURBOCAPITALISMO Alfonso Gianni segue dalla prima iuttosto che di quello del piccolo emirato arabo. Ma la sostanza della questione che il caso Dubai World solleva rimane tutta. La suddividerei in due considerazioni. La prima. Il rapido interventismo con cui i principali governi erano intervenuti di fronte allo scoppio della crisi economico-finanziaria faceva ritenere che essi avessero pienamente appreso la lezione del '29. In realtà è stato così solo in parte. E' vero che i governi sono intervenuti per salvare gli istituti di credito, rimproverandosi, come nel caso della Lehman Brothers, di non averlo fatto per tutti. E' altrettanto vero che hanno immesso sul mercato tanta liquidità come mai era avvenuto, agendo quindi in modo esattamente opposto a come fece l'amministrazione Hoover dopo il crollo di Wall Street nei primi anni trenta. E' vero che i più preveggenti hanno posto anche il problema

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di un riorientamento della produzione e di un nuovo rapporto fra pubblico e privato, basta pensare alla suggestione della green economy o alla riforma sanitaria in cui è impegnata, non senza enormi difficoltà e resistenze, l'amministrazione Obama. Ma è soprattutto vero che hanno largamente prevalso i primi due tipi di intervento rispetto a questo ultimo, la cui credibilità è messa a repentaglio dalle incoerenze e dai ridimensionamenti con cui ci si avvia alla cruciale scadenza di Copenaghen sui cambiamenti climatici. In altre parole molto si è fatto per salvare il lato finanziario dell'economia, troppo poco per incidere su quello reale. L'esito è che quindi si può solo parlare non di uscita dalla crisi, ma al massimo di un rallentamento della sua precipitazione e che la finanza riprende a muoversi sui vecchi binari, gli stessi che hanno determinato il deragliamento dell'economia mondiale. Le banche hanno ricostituito liquidità ma, per insipienza propria e poiché non esisto-

Direttore responsabile Pietro Sansonetti Editore Broadcasting Innovation Group società cooperativa per azioni Sede legale via Fattiboni 115, 00126 Roma Redazione piazza Giovanni da Lucca 1b, 00154 Roma Telefono 06 45472397

Stampa Litosud - Distributore per l'Italia Press-di Registrazione al Tribunale di Roma N. 209/2009 del 18 Giugno 2009

no piani di sviluppo adeguati, evitano di utilizzarla in direzione dell'economia produttiva, allargando i cordoni del credito alle imprese e alle famiglie, ma ripiegano sulla speculazione finanziaria. Se questo andazzo non verrà fermato e sostanzialmente corretto il mondo si avvia ad una nuova crisi finanziaria in tempi rapidi, disegnando un andamento a W del diagramma della crisi, con conseguenze ancora più devastanti di quelle provocate dal tonfo dell'autunno 2008. La seconda riflessione viene stimolata da un bell'articolo di Nane Cantatore su AprileonLine di qualche giorno fa. Se c'è un caso di specie nel quale è evidente che non è la sovrastruttura finanziaria a non funzionare ma proprio il modello di sviluppo, e quindi di società, questo ci è fornito dalla crisi del piccolo emirato arabo. In un breve saggio di tre anni fa, pubblicato sulla prestigiosa New Left Review, Mike Davis ci aveva descritto con maestria Dubai come un "paradiso del male", uno fra tanti "mondi da sogno del neoliberismo". Un piccolo mondo nel quale si concentrano tutte le mostruosità del turbocapitalismo: la assoluta e frenetica libertà di movimento dei capitali; una flessibilità legislativa che porta a privilegiare i diritti delle imprese sopra ogni altra cosa, compresi naturalmente i cittadini; la generalizzazione del lavoro servile per i lavoratori immigrati, preva-

lentemente asiatici, costretti a costruire luccicanti grattacieli per pochi denari in condizioni di vita di vera e propria segregazione ai margini della città del lusso. Dubai, priva di petrolio, ha chiamato capitali da tutto il mondo e ha pensato che la crescita del mattone fosse infinita. Il suo sogno si è rivelato costruito bolla su bolla, finanziaria e immobiliare. Ma la responsabilità non è solo del rapace Mohammed bin Rashid Al Maktum, l'emiro di Dubai, ma soprattutto dei templi del capitale finanziario internazionale e delle grandi imprese del mattone e delle infrastrutture, cui quelle bolle hanno finora fatto comodo. Tra questi vi sono molte imprese italiane, da quelle, immancabili, della moda, come Giorgio Armani e Versace, Salvatore Ferragamo, Poltrona Frau, o delle costruzioni di infrastrutture e immobili, come l'altrettanto immancabile Impregilo, specializzata in opere faraoniche - in attesa di rovinare il nostro paese con il ponte sullo Stretto - o i gruppi di Laura Todini o di Claudio De Eccher o la Mapei, leader mondiale di adesivi per l'edilizia, di Giorgio Squinzi, attuale presidente di Federchimica. Ma i grattacieli che venivano costruiti, sempre più luccicanti e trasparenti, rimanevano con interi piani vuoti, malgrado la sera tutte le luci venissero accese per fare scena. Recentemente un annuncio ripetuto sui giornali ave-

va dato il primo allarme: offriva due appartamenti, naturalmente prestigiosi, al prezzo di uno, quasi fossero scatolette di conserva in prossimità di scadenza. Nello stesso tempo Dubai era una piazza finanziaria ambita, squisitamente multiculturale, al punto che i suoi uffici parevano come il bar di Guerre Stellari, dove potevi incontrare gente d'ogni tipo e d'ogni credo, dal tradizionale finanziere, all'amico dei talebani, fino all'inviato del governo iraniano per cui Dubai era una specie di finestra privilegiata sulla finanza mondiale, in ossequio al principio che pecunia non olet. Che fine farà ora tutto questo? Non c'è da preoccuparsi. Interverrà Abu Dhabi, l'emirato vicino e concorrente, che ha tanto petrolio, ma meno prestigio e poca finanza e il gioco ricomincerà. Già alcune archistar mondiali si apprestano a calare nel più grande degli emirati uniti per rinverdire in loco, con le loro meraviglie, i fasti di Dubai. Si prevede di costruire nel Golfo Persico l'isola dei musei: ci sarà il Louvre (progettato da Jean Nouvel), il Guggenheim (naturalmente entra in scena Franck O.Gehry) e il museo della storia (su disegno di Norman Foster). Naturalmente con tutto questo la cultura non c'entra nulla. Si tratta solo di far fare un altro giro di giostra a un modello di sviluppo che distrugge ricchezza anziché produrla.

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