INTRODUZIONE
Quando, ormai due anni fa, ho conosciuto per caso alcuni membri della comunità tamil srilankese di Parigi, non avevo assolutamente idea che avrei dedicato ai templi da essi fondati la mia tesi di laurea. Il contatto con la comunità è stato innanzitutto umano: con l’amicizia e il dialogo, pian piano, senza chiedere, senza quella sensazione di intrusione nell’altrui che spesso accompagna la ricerca, essi mi hanno fatto conoscere le loro famiglie, la loro cucina, ciò che li diverte e ciò che li inquieta, i loro sogni per il futuro e, qualche volta, le loro vicende passate; è grazie a queste persone che ho conosciuto l’esistenza della comunità e sono loro che hanno acceso in me il fuoco della curiosità. Questi incontri mi hanno indotto a cambiare il soggetto della mia ricerca e a buttarmi a capofitto in questo nuovo mondo. Associando vecchie e nuove passioni ho quindi deciso di concentrarmi sui templi della comunità. A Parigi sono presenti molti templi hindū. La scelta di prendere in considerazione solo quelli fondati e frequentati da tamil dello Sri Lanka deriva da un lato da considerazioni di natura storica, dall’altro dalla stessa ricerca sul campo, che ha evidenziato la presenza di confini identitari piuttosto netti tra la comunità, gli altri tamil (indiani, mauriziani o provenienti da territori francesi oltremare come la Réunion, la Guadalupe e la Martinica) e gli altri hindū presenti a Parigi. Come si cercherà di mostrare nel primo capitolo, le ragioni che hanno fatto del popolo tamil dello Sri Lanka una comunità diasporica distinguono nettamente il loro vissuto da quello dei gruppi menzionati, influenzando la percezione che la comunità ha di sé stessa come di un gruppo a parte. Se quanto detto può considerarsi valido in termini generali, la realtà si rivela però sempre più complessa di quanto le necessità della ricerca facciano apparire. I confini con i quali delimitiamo il nostro campo di indagine non riescono talvolta ad essere fluidi come quelli che delimitano l’essere umano e le molteplici comunità di cui esso è partecipe. Sebbene infatti i tamil srilankesi costituiscano a Parigi, come altrove nel mondo, un gruppo comunitario, alcuni eventi collettivi mostrano una volontà di trascenderne i confini, mettendo in valore alcune componenti della propria identità condivisibili con
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altre comunità. Essendo entità sociali basate sulla costruzione che di esse fanno i propri membri, le comunità possono anche sovrapporsi, allargarsi o restringersi, risultando in un gioco effimero di inclusioni ed esclusioni. Per quanto riguarda il caso parigino mi riferisco qui ad un evento in particolare, in cui è l’identità ‘tamil’ ad essere messa in risalto, unendo nell’esaltazione di una lingua, letteratura e cultura millenarie tamil di diversa origine: la festa di Pongal, avvenimento annuale spiccatamente culturale, secolare e non politico, etichettato dai suoi stessi organizzatori come “festa della diaspora tamil”, si presenta chiaramente come volto a trascendere le differenze comunitarie per riconoscere “l’identité culturelle tamoule” e “unir tous les Tamouls dans un ésprit laïque et universaliste au delà des barrières religieuses, culturelles et geographiques” (dalla brochure della festa). Le associazioni che contribuiscono all’evento rispondono anch’esse a queste caratteristiche e molte personalità del mondo accademico parigino vi prendono parte: spettacoli culturali, stands di varia natura e l’iniziazione dei bambini alla scrittura sono le attività principali. L’altro importante evento inter-comunitario è la processione organizzata in onore del dio Gayeśa in occasione del Gayeśa Caturthī (agosto-settembre): come si spiegherà nel capitolo IV si tratta di un evento in cui si delinea, per il tempo necessario alla sua preparazione, una effimera comunità hindū parigina. Escluse alcune occasioni sportive, gli esempi (collettivi) finiscono qui. La comunità si presenta quindi molto compatta e i templi si costituiscono entro i suoi confini. Parigi, a differenza di altri luoghi della diaspora come la Gran Bretagna o gli USA, non ospita esempi di ‘joint temple’, templi cioè fondati da hindū di diversa provenienza. La ricerca etnografica di cui quest’elaborato si vuole riformulazione concettuale si è svolta dall’ottobre 2007 al maggio 2008. Naturalmente ho condotto la ricerca prevalentemente nei templi, di cui ho osservato le attività e in cui ho intessuto quei rapporti umani a cui devo il materiale raccolto, ma ho anche partecipato ad eventi di varia natura organizzati dalla comunità tamil srilankese, la quale, nonostante sia di recente formazione, ha dato vita ad una rete di circa sessanta associazioni di varia natura (politiche, culturali, studentesche, assistenziali). Questo mi ha permesso di situare il religioso in un più ampio contesto socio-culturale comunitario.
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La tesi prende le mosse dal concetto di diaspora al fine di applicarlo al caso dei rifugiati tamil di origine srilankese: in un ottica introduttiva, ho indagato le motivazioni alla partenza, le modalità e le problematiche dell’arrivo e dell’installazione in Francia, nonché lo svilupparsi, rapido, della vita comunitaria a Parigi. A tale riguardo mi sono avvalsa di una letteratura internazionale sull’argomento e di una serie di ricerche condotte a partire dagli anni ‘90 sul caso parigino. Questo percorso è volto a fornire un più ampio quadro nel quale inserire il cuore della ricerca, ossia la descrizione e analisi di una geografia del sacro che si rivela molto più frammentata di quanto la relativa omogeneità riscontrata all’interno della comunità faccia supporre. Se tale panorama può spiegarsi in parte come una conseguenza della distribuzione residenziale e commerciale della comunità, la ricerca ha portato a considerare tale fattore come marginale nella scelta degli individui di frequentare un tempio piuttosto che un altro. Ciascuno di essi si caratterizza infatti per una specifica visione del religioso e del tempio, una particolare gestione (collegabile alle diverse origini dei suoi fondatori, alle loro esperienze di vita e di diaspora), rapporti differenti col contesto francese e con il paese d’origine (e le sue vicende politiche). La fondazione di molti templi rivela quindi la necessità di dare espressione ad una molteplicità di visioni ed approcci. In questa estrema varietà le scelte di frequentazione non possono essere neutrali: esse rispondono piuttosto ad una coincidenza di orientamenti che il confronto tra i racconti dei fedeli e le visioni dei gestori-fondatori dei vari templi ha permesso di mettere in luce. Il cuore dell’elaborato si concentra quindi sull’analisi minuziosa delle caratteristiche che fanno la specificità di ciascun tempio, prendendo le mosse dal più “tradizionalista”: il Shri Muthukumaraswamy Alayam1 (tempio di Murugan) viene esplorato attraverso la descrizione degli elaborati rituali che vi si svolgono ogni giorno. Essi infatti rispecchiano una precisa visione del ruolo del tempio, visto come strumento di trasmissione culturale e sede in cui portare avanti la lotta contro la “contaminazione” di valori che il contesto francese e una predominante commercializzazione del religioso stanno causando. In seguito si prenderà in considerazione il più “celebre” tra i templi parigini, il Sri 1
Nel corso dell’elaborato utilizzerò segni diacritici per i termini sanscriti utilizzati, anche nella trascrizione delle interviste. I nomi dei templi e, eventualmente, i nomi propri saranno invece riportati come scritti nelle insegne, affissioni o documenti del tempio stesso. Allo stesso modo per quanto riguarda le divinità si riporteranno nomi differenti in funzione del loro utilizzo da parte degli intervistati.
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Manicka Vinayakar Alayam (tempio di Gayeśa). Anch’esso presenta le sue attività come volte a contrastare il disconoscimento dell’Induismo in Francia, ma le sue modalità d’azione sono diametralmente differenti: si può dire infatti che esso si situi proprio tra quegli esempi di commercializzazione del religioso criticati al tempio di Murugan. Organizzatore della già citata processione in onore del dio Gayeśa, si analizzeranno la sua politica di “marketing religioso”, il suo rapporto (privilegiato) con la città di Parigi e i processi di “messa in mostra del sé” che esso promuove: il pubblico e l’accoglienza al tempio, il sito internet e la processione saranno gli elementi chiave dell’analisi. Il quinto capitolo è dedicato al Sri Sabareesan Manchamatha Ayappan Temple, il quale ha necessitato una trattazione molto approfondita poiché presenta un originale discostamento dalla pratica rituale, la cui creatività è legittimata da una precisa visione del religioso: la storia del suo fondatore e della nascita del tempio, la descrizione del rituale e del pubblico (che si presenta come una comunità costruitasi attorno alla figura del fondatore) saranno gli strumenti attraverso cui si cercherà di rendere conto di tale originalità. Nonostante Ayyappan sia una divinità poco conosciuta in Sri Lanka, a Parigi esistono ben due templi ad esso dedicati. Il capitolo successivo è consacrato al secondo di essi, il Sri Ayyappan temple di Saint Denis. In questo caso l’analisi non si concentrerà sul rituale, quanto piuttosto sulla figura del suo fondatore. La descrizione della sua vita, parallela a quella del tempio, riveleranno infatti un forte processo di identificazione devoto-divinità di cui il tempio è espressione: esso si presenta, più che altrove, come l’opera di un solo uomo ed è per questo che è cosi importante soffermarsi sulla retorica e sulle vicende personali del suo fondatore. Il confronto, in più punti della trattazione, con il Sri Sabareesan Manchamatha Ayappan Temple sarà un utile mezzo per mettere in luce le specificità di ognuno. Nel
settimo
capitolo
ho
deciso
di
trattare
congiuntamente
l’Arulmihu
Mutthumaariamman Aalayam e il Sivan-Parvathi Temple (La Courneuve). Le ragioni sono due: innanzitutto essi presentano molte caratteristiche in comune, di cui si renderà conto; in secondo luogo la ricerca sul campo si è scontrata in entrambi i casi con una notevole opposizione al dialogo da parte dei gestori-fondatori dei due templi. Il tentativo di darne una spiegazione concluderà questa sezione dell’elaborato.
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La necessità di disegnare un quadro particolareggiato, dedicando ad ogni tempio una trattazione approfondita, deriva non solo dalle notevoli differenze che li distinguono ma anche dalla mancanza di lavori precedenti. Nessuno studio infatti è stato condotto sui templi parigini e se in qualcuno dei saggi che il mondo accademico francese ha dedicato alla comunità si ritrova qualche accenno ai templi di Mutthumāriamman e di Gayeśa, entrambi localizzati nel quartiere tamil di Parigi (La Chapelle), essi sono piuttosto sbrigativi e superficiali. La comparazione, a questo livello della ricerca, si è dovuta quindi compiere con studi condotti sulla diaspora tamil in altri paesi europei: in particolare gli studi di M. Baumann e B. Luchesi (specialisti della vita religiosa della comunità tamil srilankese in Germania), K. Jacobsen (per la Norvegia) e P. Schalk (che ha dedicato una monografia al tempio di Stoccolma, in Svezia) sono stati particolarmente utili; a questi si sono aggiunti altri studi dedicati più generalmente alla “hindū diaspora”. Solo a questo punto, una volta analizzato ogni tempio in funzione delle sue specificità, ho proceduto a indagare i punti in comune, al fine di fornire un’immagine d’insieme dei ruoli (vecchi e nuovi) che assume il tempio, congiuntamente alle visioni su di esso. Esso si presenta infatti non solo come luogo di culto, ma anche come importante sede di socialità comunitaria e di trasmissione culturale. In diaspora questi ruoli, già presenti al paese d’origine, vengono rafforzati e il tempio diviene espressione di un Sé cosciente della propria cultura proprio perché portato a confrontarsi con una molteplicità di Altri. Oasi di cultura in un mare alieno, il tempio non è solo “luogo per la comunità” ma anche “luogo della comunità”: in quanto tale esso diviene strumento di espressione e messa in mostra della sua compattezza, solidarietà e prestigio. Di queste tematiche tratterò nel capitolo conclusivo. Nonostante l’aspettativa riposta nella ricerca sia inevitabilmente quella di disegnare un quadro il più possibile completo ed esaustivo di quel frammento di reale che abbiamo estrapolato dal fluire degli eventi e dei soggetti (individuali e sociali) per farne il nostro oggetto di studio, il presente lavoro non può che ammettere la propria parzialità e incompletezza. All’estrema frammentarietà del panorama hindū parigino si sono sovrapposte da un lato l’assenza di un’adeguata competenza linguistica da parte mia, dall’altro la mancanza di studi precedenti, alla quale l’utilizzo della letteratura
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internazionale disponibile non ha potuto completamente ovviare. Esso si presenta quindi come un’introduzione al tema, poiché ogni tempio avrebbe necessitato una ricerca a sé: la frequentazione assidua delle sue attività è infatti il modo migliore per capirne il funzionamento e le dinamiche interne e soprattutto è la principale porta d’accesso alla comunicazione interpersonale. Essa, per essere proficua, non può a mio parere che basarsi su una condivisione di esperienze, tramite cui instaurare la fiducia che ne è la base. La necessità di frequentare contemporaneamente più templi ha naturalmente reso impossibile, a parte qualche caso, una simile profondità. La complessità del panorama della vita religiosa della comunità, in cui la ricerca si muove per piccoli passi, ha reso inoltre necessario escludere dalla trattazione questioni importanti come la religiosità domestica, i saxskāra e i due grandi pellegrinaggi annuali, ai quali si accennerà soltanto in termini molto generali. Nonostante i suoi limiti, i risultati di questo lavoro di ricerca sono molti, come variegate sono le problematiche affrontate. Limiti e meriti, spero rappresentino entrambi uno stimolo ed un avvio per ricerche future poiché le potenzialità di sviluppo sono infinite e i mondi che si aprirebbero meravigliosi. Prima di lasciare spazio all’elaborato vorrei spendere qualche riga per ringraziare le moltissime persone che vi hanno contribuito. Innanzitutto i cosiddetti ‘informatori’, che mi hanno dedicato il loro tempo, la loro pazienza e tanta gentilezza: senza di loro questa ricerca non sarebbe stata possibile. Vorrei poi ringraziare il professor P.G. Solinas per avermi sostenuto e accompagnato in questo progetto e la professoressa C. Natali per l’aiuto e i preziosi consigli. Ringrazio anche Giacomo per aver percorso con me parte di questo viaggio e Luca per i consigli “letterari”. Alla mia famiglia, con cui ho potuto condividere la passione e le fatiche che hanno segnato la ricerca, spetta naturalmente un ringraziamento speciale. A mia madre, che mi ha insegnato ad essere curiosa, dedico questo lavoro.
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Capitolo I I TAMIL SRILANKESI A PARIGI: UNA COMUNITÀ DIASPORICA
Nonostante la presente ricerca intenda concentrarsi principalmente sui templi hindū della comunità tamil srilankese di Parigi, è necessario, in un’ottica introduttiva, soffermarsi su alcune questioni, innanzitutto terminologiche. In questo senso si prenderà in considerazione il termine diaspora, al fine di comprendere la sua applicazione al caso dei tamil dello Sri Lanka, i quali costituiscono, in Francia come altrove, una comunità a sé stante. Tale necessità prende le mosse dalla considerazione che il tempio, in quanto luogo della e per la comunità, si inscrive in un più ampio contesto comunitario, da cui partire e a cui tornare, nella coscienza che solo attraverso un simile movimento di feed-back si può ovviare alla frammentazione del reale causata dall’atto analitico. Naturalmente in questa sezione dell’elaborato mi rifarò principalmente a fonti bibliografiche. Sebbene le tematiche del viaggio, il rapporto con la Francia, la trasmissione di valori e l’educazione, le relazioni con il paese d’origine e tante altre questioni “diasporiche” siano state affrontate in moltissime conversazioni informali, non ho compiuto un lavoro etnografico sistematico a tale riguardo. Malgrado questa mancanza di sistematicità, anch’esse hanno contribuito a modellare la mia visione della comunità e della sua storia, e saranno quindi implicitamente o esplicitamente presenti nelle pagine che seguono.
1.1 Tre significati per il termine ‘diaspora’ In maniera generale la diaspora può essere definita come “the maintenance of group consciousness defined by continued relationship with an original homeland within a population dispersed between several different location” (Fuglerud 1999: 4). In questo caso gli aspetti sottolineati sono la multipolarità della dispersione e l’interpolarità delle relazioni (con il paese d’origine da un lato e tra i diversi poli della migrazione dall’altro), 7
le quali risultano in una coscienza di gruppo. Tale definizione, seppur valida, non fornisce però, a mio parere, un quadro completo delle problematiche che il termine ‘diaspora’ sottende. Nel suo The hindu diaspora: comparative patterns, Steven Vertovec propone una superba opera di sintesi concettuale costruita attorno ad una definizione tripartita del termine ‘diaspora’. Nella mia trattazione della comunità tamil srilankese di Parigi mi rifarò principalmente ad essa e non alle definizione riportate in apertura di tanti studi dedicati alla diaspora tamil (Étiemble 2003, McDowell 1996, Fuglerud 1999): ritengo infatti che Vertovec affronti la questione in maniera più organica, integrando punti di vista “strutturali” e punti di vista più interni. Egli individua, attraverso un’analisi degli studi sull’argomento, tre significati principali del termine ‘diaspora’: Within a variety of academic disciplines, recent writing on the subject conveys at least three meanings of the concept ‘diaspora’. These meanings refer to what we might call ‘diaspora’ as social form, ‘diaspora’ as type of consciousness, and ‘diaspora’ as mode of cultural production (Vertovec 2000: 142).
Questi tre significati non vanno visti come elementi discreti, ma piuttosto come strumenti concettuali la cui utilità risiede nell’essere visioni complementari e integrabili. Innanzitutto Vertovec esplora il significato di ‘diaspora’ in quanto forma sociale. Esso implica: •
un processo di dispersione (volontario o forzato) verso una pluralità di destinazioni;
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la costruzione e il mantenimento cosciente di un’identità collettiva comune, basata sul rapporto con la terra d’origine e spesso sostenuta da un “mito del ritorno”;
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un senso di differenza rispetto al nuovo contesto, che può essere di gradi diversi: alienazione, esclusione, confronto, superiorità;
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lo sviluppo di una varietà di relazioni che si esplicitano nel mantenimento di
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legami con la terra d’origine e nello sviluppo di reti transnazionali di varia natura: economiche, politiche, di solidarietà. Nello studio della diaspora come forma sociale bisogna quindi tenere in considerazione tre elementi in relazione: la collettività autodefinitasi e costruitasi come comunità nonostante la dispersione geografica; gli stati e i contesti in cui essa risiede; la terra d’origine. Nella sua seconda accezione, il termine ‘diaspora’ indica poi un particolare tipo di consapevolezza che caratterizzerebbe le comunità transnazionali contemporanee e deriverebbe da un senso di dualità sperimentato negativamente, attraverso discriminazione ed esclusione, e positivamente, attraverso l’identificazione con un’eredità culturale1 (o storico-politica). A tale proposito si può dire che “diaspora consciousness lives loss and hope as a defining tension” (James Clifford citato in Vertovec 2000: 147). La coscienza diasporica si definisce quindi come la consapevolezza dell’essere contemporaneamente “qui e lì”, la consapevolezza cioè della multilocalità della propria condizione. Essa deriva dall’autoanalisi che il Sé è portato a compiere dal confronto con il nuovo contesto in cui si trova, il quale lo mette in relazione profonda con una varietà di alterità. V. Daniel (1997: 328) descrive superbamente questo processo di inferenza compiuto dal Sé: Self-awareness is not the product of intuition but of inference. Consciousness is a process in which “the self becomes aware of it-self on becoming aware of what it is not, of the non-self, of the external other”. Without the precipitation of self against the Other, there is nothing to infer and therefore no reason for self-awareness or selfconsciousness to be; and, conversely, without self-consciousness, the self remains unrealized, as a mere potential, a pre-self, if you will. It is this triadically correlative relationship - among the Self, the Other, and the awareness of the relationship of identity/difference that bring the two together - in process that constitutes a self.
La coscienza diasporica, che origina da questa relazione triadica, dà origine non 1
Il rapporto con la pluralità di alterità con cui l’individuo è costretto a relazionarsi genera una autoriflessione sulla propria eredità culturale e religiosa.
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solo a particolari legami sociali, come si diceva poc’anzi, ma anche all’elaborazione di memorie collettive ed immaginari, i quali non necessariamente contribuiscono a consolidare un’identità monolitica. In una complessa rete di relazioni sociali, memorie frammentate e comunità immaginate l’individuo diasporico può fare delle sue identità fluide e molteplici una fonte di orgoglio e di adattamento. Il termine ‘diaspora’ può infine indicare una modalità di produzione culturale. In questo terzo approccio si pone l’accento sulla fluidità e creatività che caratterizza in particolare l’esperienza dei giovani nati e cresciuti in diaspora. Le nuove generazioni sarebbero in questo senso impegnate, attraverso la padronanza dei mezzi di comunicazione globale, in un processo di produzione e riproduzione di culture locali a partire da elementi transnazionali: gli elementi culturali della molteplicità di poli in cui essi si inseriscono vengono combinati e rielaborati in un processo di costruzione creativa di identità. Questi tre significati del termine ‘diaspora’ sono, come si diceva, complementari e la loro utilità in quanto strumenti analitici tranculturali (Baumann 2000) è innegabile, poiché consentono la visione simultanea di più prospettive. Nelle pagine che seguono verrà analizzata la diaspora tamil srilankese in Francia: nella misura dei dati disponibili cercherò di sviluppare la tematica rifacendomi a questo modello analitico, la cui applicabilità risiede anche nel suo essere stato concepito in un’ottica comparativa.
1.2 La diaspora tamil in Francia 1.2.1 Storia e dinamiche migratorie: la dispersione del popolo tamil L’arrivo e l’attuale consistente presenza dei tamil srilankesi in Francia sono strettamente legati alle vicende politiche e alla situazione di crisi che, a partire dagli anni ‘70, caratterizza il loro paese d’origine; in particolare è il 1979 a vedere l’arrivo della
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prima ondata di immigrati srilankesi in Francia (Robuchon 1995). Detto questo ritengo, con McDowell (1996), che l’esodo massiccio della minoranza tamil caratterizzante gli ultimi 25 anni di storia dello Sri Lanka, vada compreso non solo alla luce dei drammatici avvenimenti storici che ne sono la causa, ma anche dei movimenti migratori precedenti. Infatti, nonostante le motivazioni alla partenza, le modalità e la mole del flusso rivelino le specificità di ciascun movimento migratorio, “tamil asylum-migration in the 1980s did not occur in a vacuum; rather there were continuities and connections between the two migratory movements. Those continuities could be categorised as practical and cultural” (McDowell 1996: 91). È in quest’ottica che procederò a fornire un quadro approssimativo dell’emigrazione tamil nel XIX° e XX° secolo, anche se questi flussi non hanno interessato la Francia. Esso infatti risulterà utile all’inquadramento delle esperienze migratorie contemporanee, le quali, lungi dall’uniformarsi ad un unico modello, rivelano vissuti ed interpretazioni diverse, che a loro volta si rispecchiano nelle modalità di interazione col contesto francese. In Sri Lanka i primi impulsi all’emigrazione si riscontrano nel periodo della colonizzazione inglese dell’isola. L’ingresso nell’economia coloniale, associato allo sviluppo di una scolarizzazione di alto livello (portata avanti dagli inglesi nelle regioni a maggioranza tamil), aprono la via ad un’emigrazione di elite verso i paesi del Commonwealth. L’emigrazione aveva fini lavorativi o di formazione e inizialmente era concepita come temporanea. Il diploma o l’esperienza lavorativa all’estero erano motivi di prestigio una volta tornati in Sri Lanka: Many came to Britain to obtain professional degrees that would ease them into the faculties of the universities and the civil service at home. (…) Few had any intention of staying on in Britain, for too many were the comforts of home that they would thereby relinquish (Daniel 1997: 312).
L’emigrare diviene quindi, nel periodo coloniale, un modello di successo sociale che, attraverso la cultura delle classi dominanti, si diffonde in tutti gli strati sociali. Già in questo periodo alcuni dei migranti decidono di stabilirsi oltremare, dando vita alle prime
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comunità. Naturalmente questo fenomeno interessa soltanto i paesi del Commonwealth, Gran Bretagna in testa (Guilmoto 1991, McDowell 1996, Robuchon 1995). Con l’indipendenza, l’emigrazione resta un privilegio delle classi medio alte, che approfittano dell’apertura delle frontiere inglesi. D’altronde il peggiorare della situazione economica e politica del paese, con l’introduzione progressiva di misure volte a sfavorire la minoranza tamil, stimolano l’installazione all’estero di questi gruppi sociali privilegiati. Gli anni ’70 vedono la nascita di un nuovo movimento migratorio: nel 1977, dopo decenni di protezionismo, il neoeletto primo ministro J.R.Jayawardana (UNP) promuove il liberalismo economico (con la conseguente attrazione di capitale straniero, creazione di zone franche e sviluppo del turismo) in modo da creare nuovi posti di lavoro, ma il problema della disoccupazione viene risolto principalmente attraverso la promozione dell’emigrazione nei Paesi del Golfo. Nella storia dello Sri Lanka post-indipendenza è questo il primo grande fenomeno di emigrazione che non si inserisce nelle dinamiche coloniali e post-coloniali. Uomini e donne, colpiti dalla crescente inflazione, dalla crisi delle nascenti industrie e della più antica industria di lavorazione del tè, fanno ricorso ad agenzie di reclutamento specializzate, attraverso le quali partono, contratto alla mano, verso i paesi del Golfo bisognosi di manodopera. La fine degli anni ‘70 e i primi anni ’80 vedono una svolta nella storia del paese. Il conflitto tra i due principali gruppi etnici, linguistici e religiosi dell’isola (tamil-hindū vs cingalesi-buddhisti), cominciato alla fine degli anni ‘50 ed inaspritosi nei due decenni successivi, diviene infatti a partire dal 1983 una vera e propria guerra civile. L’evento drammatico che segna il passaggio ad una nuova sanguinosa fase del conflitto è lo scoppio di pogrom anti-tamil, che prendono avvio nella capitale Colombo2 per poi diffondersi nelle zone sud-occidentali, centrali e orientali del paese: utilizzando le liste elettorali che riportavano l’indirizzo esatto dei tamil, gruppi organizzati cingalesi distruggono o bruciano case, negozi, fabbriche e uccidono in pochi giorni tra 450 e 1000 persone (Natali 2004: 25). Gli atti rivelano una natura sistematica, organizzata, e avvengono con la connivenza o la partecipazione delle forze dell’ordine. La maggioranza della popolazione tamil della capitale e delle altre zone colpite lascia la propria abitazione 2
in seguito al successo di un’azione dell’LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam, principale e oggi unico movimento indipendentista armato tamil, che lotta per l’indipendenza delle regioni a maggioranza tamil) nella quale vengono uccisi 13 soldati cingalesi.
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e trova rifugio in centri di accoglienza improvvisati nei templi, che vengono a loro volta attaccati, e nei campi profughi. Molti poi vengono accolti da amici e vicini cingalesi e musulmani. Il 1983 rappresenta quindi l’anno di inizio della guerra civile. I 25 anni che sono passati da allora, hanno visto il conflitto evolvere, le parti in lotta modificarsi, nuovi soggetti intervenire. In questa escalation di violenza la popolazione civile è stata “vittima di bombardamenti, attentati, rappresaglie, incarcerazione, esodi forzati” (Natali 2004: 35). Accanto ai rifugiati interni si calcola che dall’inizio del conflitto circa un terzo dei tamil dello Sri Lanka abbia lasciato il Paese (Étiemble 2003), per approdare in Australia, Stati Uniti, Canada ed Europa, dove hanno sollecitato l’asilo politico. La storia della diaspora tamil srilankese corre quindi parallela all’andamento della guerra civile, ma le direzioni dei flussi migratori sono influenzate da molte altre variabili: innanzitutto l’apertura o chiusura delle frontiere e le politiche di accoglienza agli immigrati; secondariamente, e torniamo con questo a McDowell, la presenza di nicchie migratorie pre-esistenti ha giocato un ruolo molto importante3, soprattutto nelle prime fasi dell’esodo: In the early of the movement of Tamils after the outbreak of war, established overseas communities played an important role. At first they were prepared to offer assistance, both financial and professional, in arranging the passage of relatives, friends and professional acquaintances from both the north and the south of Sri Lanka to the west (McDowell 1996: 91-92).
Anche la migrazione degli anni ‘70 verso i paesi del Golfo ha giocato un ruolo importante in quanto ha permesso, con lo scoppio della guerra, un passaggio “più facile” in occidente: There is also considerable evidence that Tamils who had remained in employment in 3
Jacobsen (2004) fornisce a tale proposito un interessante esempio. Negli anni ‘50 giunge in Norvegia il primo tamil srilankese. Arrivato per ragioni di formazione professionale, questi dà avvio ad una rete di rapporti economici tra i due paesi, che portano all’arrivo di altri tamil anch’essi nell’ambito di programmi di formazione. “Rajendram’s activities had opened up channels for Sri Lankan Tamils to come to Norway. He had made Norway known to the Tamils in Sri Lanka so that during the war Norway became a favoured choice for seeking asylum” (Jacobsen 2004: 137).
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the Middle East were in a strong position either to move on to Europe themselves in pursuit of asylum, or to provide funds and a staging post for family or friends who wished to make the journey. These were important factors in influencing the rate and incidence of post-1980 asylum migration (McDowell 1996: 92-93).
Va considerato inoltre un ultimo gruppo di variabili che, oltre all’evolversi del conflitto, concorrono a determinare in varia misura la densità e la composizione sociale del flusso migratorio: •
Le risorse: fino agli anni ‘80 solo le classi medie e alte avevano i mezzi per emigrare.
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Il tempo: permette di accumulare risorse e informazioni.
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Le politiche pro o anti emigrazione delle parti in lotta: in alcune fasi del conflitto la migrazione viene facilitata dal governo e dall’LTTE. Entrambi traggono vantaggio da migrazioni massicce.
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I nuovi mezzi di comunicazione: permettono un movimento rapidissimo delle informazioni, tramite cui sfruttare eventuali “falle” del sistema. Tutte queste variabili concorrono a rendere conto delle molte, talvolta inaspettate,
direzioni che ha preso l’esodo dei tamil dello Sri Lanka: tra le “nuove” mete troviamo anche la Francia, in cui l’assenza di migrazioni precedenti il 1979 si spiega soprattutto con l’assenza storica di legami con lo Sri Lanka, durante e dopo il periodo coloniale. Non si può escludere che alcuni tamil srilankesi abbiano risieduto in Francia per periodi più o meno lunghi durante questa fase, ma non vi sono molte fonti al riguardo. Si può solo dire che prima del 1979 “il y avait quelques dizaines de Sri-Lankais seulement, dont certains avaient dejà demandé l’asile. En fait les Sri-Lankais ont commencé à quitter leur pays suite aux émeutes anti-tamoules de la période post-électorale de 1977” (Robuchon 1995: 25). Questo primo esodo, condotto via terra, si conclude per molti in Iran4, paese che offriva all’epoca ottime possibilità di reclutamento in società americane o inglesi. È con la rivoluzione di Khomeini che questi lavoratori tamil, associati agli 4
A compiere questo percorso erano gli oppositori politici (cingalesi e tamil). L’ingresso nei paesi del Golfo prevedeva infatti il passaggio per l’amministrazione ufficiale.
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americani, vengono indotti a lasciare il paese e riprendono la loro rotta verso la Gran Bretagna, luogo storico del “Making it overseas” tamil (McDowell 1996: 91) in cui sarebbe stato possibile sfruttare la propria formazione professionale. Ma la Gran Bretagna impone a partire dal 1980 nuove misure restrittive in materia d’immigrazione, modificando la legislazione in vigore per i membri dei paesi del subcontinente indiano (che fino a quel momento non avevano bisogno di un visa d’entrata)5: negli studi sul caso francese l’arrivo delle prime ondate migratorie dallo Sri Lanka viene spiegato proprio come una conseguenza della chiusura delle frontiere inglesi. Partiti dallo Sri Lanka o double migrants dall’Iran, i primi tamil che rimangono “bloccati” in Francia e in Germania vi sollecitano l’asilo politico, con l’idea di ripartire per la Gran Bretagna qualche anno dopo (Étiemble 2003, Robuchon 1995). Nonostante la maggior parte di queste prime domande vengano respinte 6, molti tamil possono approfittare della regolarizzazione eccezionale del 1981 (con cui assumono lo statuto di travailleurs immigrés) e uscire dalla clandestinità. Si costituisce cosi in pochi anni il primo nucleo della comunità tamil srilankese. In conseguenza alla degenerazione del conflitto, è soprattutto dopo il 1983 e durante tutti gli anni ‘80 che la Francia viene investita da una massiccia ondata migratoria tamil, la quale rivela con gli anni una crescente diversificazione interna: inizialmente infatti le donne migranti erano molto poche, mentre cominciano a questo punto ad arrivare mogli e bambini; esse raggiungono mariti che spesso non hanno ancora ricevuto risposta alle domande di asilo politico (le pratiche richiedono in questo periodo da due a cinque anni). Il peggiorare della situazione in Sri Lanka e in particolare l’intervento dell’esercito indiano nell’87 portano l’OFPRA7 a rivedere la propria posizione: a partire da questa data lo statuto di rifugiato viene concesso ai tamil srilankesi quasi d’ufficio e nel ‘91 una regolarizzazione concede lo statuto a tutti i tamil i cui dossiers erano in attesa. Inoltre coloro che avevano visto la loro domanda respinta negli anni precedenti, approfittano di 5
Solo i cittadini del Commmonwealth appartenenti a categorie specifiche (ricercatori, studenti, personale medico, ecc.) vengono lasciati entrare: “les membres des professions libérales tamouls (medicin, droit) ou les fonctionnaires de haut niveau émigrent de préférence vers des pays anglophones (Grande-Bretagne, Canada, Australie), pouvant faire valoir leurs qualifications, hors de toutes considération relative à l’urgence de l’exil” (Robuchon 1995: 35). 6 “Le confit au pays n’a pas ancore été vraiment reconnu par l’administration française et presque tous sont deboutés dans leur demande d’asile” (Robuchon 1995: 26). 7 Office Français de Protection des Réfugés et Apatrides.
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altre regolarizzazioni eccezionali. La presenza di una comunità e l’atteggiamento di apertura e accoglienza delle istituzioni francesi si traduce in breve tempo in un aumento degli arrivi: è cosi che la Francia diviene una meta in sé stessa e non più uno scalo verso la Gran Bretagna. Nonostante questo cambiamento di prospettiva, il Regno Unito rimane ancora oggi nell’immaginario collettivo come una terra di facile ascesa sociale e successo economico. Le considerazioni fatte a tale proposito non si limitano alla vita migliore che si potrebbe avere in questo paese, ma sono legate soprattutto alla formazione dei figli in un’ottica di “mito del ritorno”: la lingua inglese e i diplomi ottenuti in Gran Bretagna sarebbero più utili di quelli francesi una volta tornati in Sri Lanka alla fine della guerra (Étiemble 2003). M. è in Francia dal 19908. Proviene da una famiglia benestante di casta Vellala di Jaffna e ha gran parte della sua famiglia in Francia (una sorella, un fratello e le rispettive famiglie). È molto ben integrato: parla piuttosto bene francese, ha un buon lavoro e vive in un pavillon acquistato con un mutuo nell’immediata banlieu parigina. Intrattiene rapporti di vario tipo, lavorativi, di vicinato, amicali, con molti francesi e allo stesso tempo frequenta attivamente la comunità tamil srilankese (soprattutto la cerchia famigliare ma anche molti amici d’infanzia ritrovati a Parigi). Nonostante questo ha più volte espresso il desiderio di partire per l’Inghilterra, dove ha una sorella: Ne ho abbastanza della Francia. Perché qui anche se guadagni bene i padroni rimangono sempre loro [i francesi], non è che puoi andare tanto lontano. Stavo pensando che … te l’ho detto no, ho una sorella in Inghilterra, vive vicino Londra. Potrei affittare la mia casa qui, è una casa grande, e prendere là un appartamento per A. e S. [moglie e figlia], vicino a mia sorella, e io resto ancora qualche anno a lavorare qui. Non è che posso lasciare tutto cosi, però intanto S. ha già tre anni, almeno comincia a studiare lì, sennò dopo è più difficile per lei. E poi se torniamo in Sri Lanka, vuoi mettere aver fatto la scuola a Londra? È tutta un’altra cosa. Se comincia a studiare qui poi è troppo tardi. Quindi pensavo, intanto loro vanno, poi io le raggiungo. Il marito di mia sorella ha un buon lavoro, guadagna bene e mi ha detto 8
Gli itinerari di arrivo in Europa si sono modificati nel corso del tempio: i primissimi (‘77-‘79) compivano un viaggio via terra passando per l’India, l’Afghanistan, l’Iran e la Turchia. Poi fino ai primi anni ‘90, quando era soprattutto la classe media ad emigrare, il viaggio si compiva via aerea attraverso l’Italia o la Grecia, come nel caso di M. In seguito gli scali principali erano la Jugoslavia (nel periodo precedente la guerra), Mosca o la Romania.
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che ci sono delle possibilità lì. Anche la banca, i prestiti sono migliori.
Il desiderio di partire per la Gran Bretagna, dove vi sarebbero migliori opportunità, è rivelatore del perpetuarsi di un modello ereditato dal passato coloniale, in cui la migrazione all’estero non solo era compatibile con un eventuale ritorno, ma era anche motivo di prestigio. Vivere in Francia significa in questo senso rinunciare non solo alla propria patria (ora e per sempre) ma anche alle possibilità di una vita migliore in un paese dove la sofferenza dell’esilio sarebbe almeno compensata dal successo economico. Le parole di M. rivelano poi un altro elemento: la multilocalità della dispersione che caratterizza la diaspora fa sì che la maggior parte di coloro che vivono in Francia abbia parenti e amici sparsi in tutta Europa, con cui vengono mantenuti rapporti molto stretti. Contatti telefonici e visite regolari generano uno scambio fittissimo di informazioni di varia natura, tra cui le possibilità di successo economico e ascesa sociale che i diversi paesi offrono: si discute delle politiche del lavoro, dell’assistenza sociale, delle possibilità di acquisto immobiliare, del trattamento dei datori di lavoro, con la creazione di una sorta di “geografia del possibile” transnazionale. La mobilità viene valorizzata e non è motivo di paure particolari, mancando il legame e l’identificazione con la terra in cui si è costretti a vivere. Questo scambio di informazioni coinvolge naturalmente anche il paese d’origine, dove molti conservano gran parte della famiglia e con cui sono mantenuti legami molto stretti. Anche negli anni ‘80 e primi anni ‘90, quando la tecnologia non permetteva ancora la rapidità comunicativa attuale, stretti contatti venivano mantenuti telefonicamente. Come si diceva, questo aspetto ha contribuito largamente a determinare le direzioni prese dal flusso migratorio. Per la Francia le informazioni dell’accettazione quasi automatica delle domande d’asilo alla fine degli anni ‘80 si sono tradotte in un aumento del flusso migratorio nei primi anni ‘90. La densità del flusso si scontra però a partire dal 1992 con le nuove misure europee in materia di asilo politico: a partire da quest’anno le domande d’asilo dei tamil srilankesi vengono nuovamente sottoposte a rigidi e lunghi controlli, per poi diminuire progressivamente nel corso degli anni ’90. Nonostante questo alla fine del secolo la Francia è il secondo paese nel mondo per numero di réfugiés statutaires dopo l’India
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(14%) e continua fino ad oggi a concedere l’asilo politico ai tamil srilankesi in percentuale decisamente superiore alla media delle altre domande (Étiemble 2004).
1.2.2 La comunità tamil srilankese di Parigi In Francia i tamil srilankesi si concentrano fin dal principio nella regione parigina. Una comunità si costituisce anche a Lyon (Codandamourty 1997), per grandezza la seconda città di Francia, e qualche famiglia si sposta per ragioni lavorative in altre zone del paese (Nice, Strasbourg, Toulouse), dando vita a piccole comunità. Questo fenomeno dipende largamente dalla peculiare distribuzione demografica francese, che vede un’altissima concentrazione nella regione parigina9. Essa si rispecchia in una maggiore disponibilità lavorativa e quindi in una tendenziale concentrazione della popolazione immigrata: d’altronde secondo le statistiche dell’APUR10 il tasso di disoccupazione e precarietà degli immigrati è, nella regione parigina, nettamente inferiore a quello della media nazionale (APUR 2003). A Parigi i primi tamil srilankesi si stabiliscono nelle chambres de bonnes del XV° e XVI° arrondissement, dove trovano lavoro come domestici presso famiglie francesi dell’alta borghesia; progressivamente affittano dei piccoli studios nei “sobborghi” dell’area nord-est della città (XX°, XIX°, XVIII° e X° arrondissement) e in qualche comune di provincia (soprattutto nel dipartimento Seine-Saint-Denis, a nord di Parigi), dove gli affitti sono meno cari. Essendo la popolazione quasi esclusivamente maschile, le camere vengono condivise inizialmente da diversi uomini, per poi riorganizzarsi attorno al nucleo familiare nel corso degli anni: col tempo infatti l’immigrazione si diversifica, molti uomini fanno arrivare mogli e figli dallo Sri Lanka e altri si sposano. A partire da metà degli anni ’90 poi, quando la comunità tamil srilankese è già consistente (si parla di 35000 srilankesi nel 1995), si delinea un fenomeno ancora presente: il quartiere de La Chapelle 11 9
È infatti a Parigi e nei quattro dipartimenti limitrofi che si registra la più alta densità abitativa in Francia. Atelier Parisien d’Urbanisme. 11 Il quartiere de La Chapelle viene chiamato “la piccola Jaffna” di Parigi. Questo dipende non tanto dal fenomeno sopra citato, che non ne fa un quartiere residenziale tamil, ma piuttosto dalla significativa concentrazione di commerci, scuole, servizi e luoghi di culto che lo caratterizza. Dequirez (2002) vi ha dedicato uno studio approfondito. 10
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nel XVIII° arrondissement diventa teatro di un turn-over residenziale che interessa gli ultimi arrivati, in una dinamica in cui è la comunità stessa a farsi carico dell’accoglienza. Contemporaneamente si delineano le zone di provincia che si caratterizzano oggi per un’alta densità residenziale della comunità: La Courneuve, Saint Denis, Pantin, Bobigny, Garge-Sarcelle. È stato notato come la scelta residenziale attuale segua quattro “direttive” principali: •
Prossimità alle zone a concentrazione residenziale tamil.
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Prossimità dei trasporti.
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Collegamento con le zone commerciali tamil (quartiere de La Chapelle, compreso tra la Gare du Nord e la Gare de l’Est).
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Esclusione di quartieri dove risiedono troppi stranieri, in particolare Arabi e Africani. Negli studi sulla popolazione tamil srilankese in Francia si sottolinea spesso la
tendenza di questa comunità all’acquisto immobiliare, il quale, entrate permettendo, si delinea come una scelta di investimento conseguente la fondazione della famiglia: l’importanza data al luogo di residenza e ad una buona abitazione si traduce in un accesso alla proprietà diffuso e particolarmente rapido, soprattutto se si pensa alla stagnazione occupazionale che caratterizza il panorama lavorativo della maggioranza dei membri della comunità. Nel corso degli ultimi 25 anni si sono infatti definite due nicchie lavorative nelle quali si inseriscono la maggior parte dei tamil srilankesi: ristorazione e pulizie. Al momento dell’arrivo trovare un lavoro è stato fin dall’inizio una priorità (bisogna rimborsare i debiti contratti per il viaggio, le spese relative al primo soggiorno e ai documenti necessari per la domanda di asilo) e in entrambi i casi si tratta di un’occupazione che permette di posticipare il problema della lingua. Questo problema irrisolto è però causa di soprusi e grosse frustrazioni: il fatto di non parlare francese li priva della possibilità “de défendre des droits parfois bafoués (les heures travaillées ne sont pas toutes declarées ou rémunérées, par example). Présentés comme peu “revendicateurs” par les professionels, la langue française est perçue par les hommes srilankais eux-mêmes comme l’obstacle d’où découle leur situation professionelle: ils ne 19
peuvent faire autre chose que la restauration et ne peuvent se défendre ou se faire respecter parce qu’ils ne parlent pas français” (Étiemble 2000: 6). Questo tipo di occupazioni risultano frustranti per un altro motivo: rappresentano spesso una degradazione notevole rispetto alla posizione occupata (o che si sarebbe potuti occupare per formazione e appartenenza castale) in Sri Lanka: Quando ho finito gli studi ho iniziato a lavorare come contabile. Vedi abitavo qui con la mia famiglia [mi mostra una foto della villa in Sri Lanka]. Vedi com’è grande. Poi qui non si vede ma avevamo anche un grande giardino con palme e fiori. Mio padre era nell’amministrazione. Eravamo molto rispettati. Qui è diverso. Ma le mie figlie sono molto studiose: M. vuole fare economia all’università. Almeno loro avranno un buon lavoro. [C. di casta Vellala, in Francia dal 1983. È impiegato come lavapiatti in un ristorante francese e come cuoco in un ristorante giapponese di Parigi].
Le parole di C. mettono in luce una serie di incubi e di sogni della popolazione tamil srilankese di Parigi. Innanzitutto rivelano la frustrazione derivante dal condurre un lavoro non adeguato alla propria formazione e posizione sociale (-castale): Ce type d’emplois est, a priori, particulièrement dévalorisant pour ceux qui proviennent de la classe moyenne sri-lankaise du fait qu’ils restent très attachés à la symbolique du statut social. Ces travaux sont, au pays, en effet réservés aux très basses castes ou aux Intouchables. La situation professionelle en France est donc ressentie comme un très net déclassement (Robuchon, Percot, Tribess 1995: 3).
Secondariamente rivelano l’importanza, già sottolineata, dell’abitazione, che diviene in diaspora come in patria marcatore della posizione sociale occupata. Ma esprimono anche un sogno: nel panorama desolante di una vita di duro lavoro in un paese straniero, la speranza è rappresentata dalle nuove generazioni. Il sogno è che i propri figli non debbano vivere le medesime sofferenze dei loro genitori. Nelle famiglie tamil in diaspora i bambini sono oggetto di grandi aspettative e grandi investimenti, in termini di tempo e denaro. Se una buona educazione era fortemente valorizzata anche in patria, in diaspora essa assume una connotazione quasi rivendicativa: una buona riuscita scolastica
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è la porta per un lavoro prestigioso e un modo, per la famiglia, di recuperare la posizione sociale perduta. I bambini sono quindi molto seguiti nel loro percorso scolastico: fin dalla scuola materna si fa attenzione che si inseriscano bene, che siano attenti e disciplinati e che imparino bene il francese, il quale per altro è poco parlato in famiglia; quando parlano di loro i genitori sottolineano aspetti legati alla riuscita scolastica e ad una buona educazione. L’investimento nella formazione dei propri figli passa anche attraverso grandi sacrifici: la valorizzazione delle scuole private, dove i bambini sarebbero più seguiti e meno soggetti a cattive compagnie, comporta l’aggiunta di un peso economico notevole, che spesso si traduce per il padre di famiglia nell’accumulazione di più lavori. Se l’integrazione passa attraverso la formazione scolastica, essa è vissuta come un mezzo più che come un fine: il valore dell’educazione “alla francese” risiede cioè nel suo essere mezzo di riuscita economica. Integrarsi non significa in altre parole perdere la propria cultura e i propri valori, come comunica bene il titolo di un articolo apparso su Naan, giornale franco-tamil mensile, edito dal Comité de Coordination Tamoul-France (CCT), di cui riporto un estratto: La communauté tamoule de France. «L’identité tamoul est un héritage auquel les jeunes franco-tamoul issus de l’immigration ont droit». (…) Au sein des familles tamoules sri lankaises, le tamoul reste de façon dominante la langue de communication entre parents et enfants. Pour les enfants nés en France, l’immersion en milieu francophone correspond au moment de l’entrée à l’école maternelle. L’enfant ne quitte pas alors seulement sa langue maternelle, mais aussi ses repères culturels, sa culture familiale et ses habitudes alimentaires. S’adapter à la societé française n’est possibile que par le travail, par l’école, bref par l’éducation à travers les normes et les valeurs françaises. Ce facteur est d’ailleurs le plus important dans la réussite de l’intégration sociale des immigrants. Et cela, les Tamouls l’ont bien compris. Même s’ils ne s’adaptent pas aussi bien, ils remercient la France de les avoir accueillis et connaissent la chance qu’ils ont. Le droit à l’instruction gratuite et obligatoire est un droit fondamental en France et il s’applique à tous les enfants. Il
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s’agit là de principes nobles de ce pays. De nombreux parents poussent ainsi leurs enfants à travailler dur pour leurs réussite professionelle. Les jeunes tamouls de la seconde génération dialoguent davantage avec les Français, et parfois ils ont le sentiment de mener une double vie, tiraillés entre deux culture, deux identités. C’est ainsi que la jeunesse tente de se forger une nouvelle vie, affrontant avec vaillance les conséquences de l’immigration. De ce point de vue, les problèmes rencontrés par la jeunesse sont les mêmes que ceux du reste de la diaspora. Cette seconde génération s’en sort plutôt bien. On trouve en France de nombreux étudiants tamouls dans le domaine technologique, médical…L’avenir de ces jeunes est plein d’espoirs. Cependant, dans la fonction publique, ils sont très peu représentés. L’identité est un héritage auquel les jeunes franco-tamouls issus de l’immigration ont droit. La promotion de la langue tamoule et de la culture tamoule, à travers les nombreuses associations, est une priorité pour cette communauté, qui considère que connaître sa culture permet une meilleure intégration dans cette societé. Sachons toujours rappeler que la communauté tamouls recale des potentialités énormes et constitue une formidabile richesse pour la France (Naan, gennaio 2008).
Questo lungo estratto riassume una grossa quantità di “questioni diasporiche”. Il fatto che sia apparso su un giornale edito dal CCT, il quale è legato al movimento delle Tigri tamil, non ne inficia a mio parere la validità generale. Gli elementi contenuti rispondono largamente da un lato alla mia esperienza diretta, dall’altro trovano riscontro negli studi che in ambito francese sono stati dedicati all’argomento. La visione della “vita in diaspora” che l’articolo rispecchia è infatti una visione condivisa, al di là delle convinzioni politiche: la difesa della cultura tamil è una priorità in diaspora, sia che la si veda come il dovere di preservare un patrimonio letterario e culturale millenario12, sia che essa rappresenti un mezzo per valorizzare una nazione etnicizzata (una lingua, un popolo, un territorio). L’articolo mette in luce molti degli aspetti elencati a inizio capitolo come caratterizzanti la condizione diasporica: • 12
Il senso di differenza rispetto al contesto francese, il quale se è causa di traumi da
In quest’ottica l’incendio della grande biblioteca tamil di Jaffna è un atto di grande gravità.
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un lato (ad esempio nell’inserimento del bambino nel mondo scolastico) è anche motivo di orgoglio (“è una ricchezza potenziale per la Francia”). •
La necessità di un adattamento alla società d’accoglienza, il quale passa attraverso l’educazione e il lavoro.
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La consapevolezza della dualità della propria condizione esistenziale, che è chiaramente espressa quando si dice che i giovani hanno la sensazione di condurre una doppia vita (due mondi, due identità).
•
L’importanza del mantenimento della propria cultura, concepita e costruita come comune attraverso una rete di associazioni di varia natura. Essa rappresenta una priorità per la comunità nel suo complesso e una responsabilità verso le generazioni future, oltre ad essere il miglior mezzo di integrazione. Quest’ultimo elemento merita una trattazione un po’ più approfondita. La comunità
tamil srilankese di Parigi ha infatti dato vita, in un periodo di tempo relativamente breve, ad una rete commerciale e associativa di notevoli dimensioni, attraverso la quale vengono mantenuti contatti (economici, politici, culturali) con lo Sri Lanka e con gli altri luoghi della diaspora. Questa rete si concentra nel quartiere de La Chapelle, il quale si presenta come un quartiere “etnicizzato”: lungo un asse principale rappresentato dalla rue du Faubourg Saint Denis si estende una piccola area caratterizzata da una concentrazione di commerci di varia natura (alimentari, parrucchieri, macellerie, negozi di abbigliamento, gioiellerie, videoteche), servizi (uffici di traduzione, scuole) e associazioni tamil. La rete associativa tamil rivela una complessità notevole, dovuta principalmente ai legami stretti (ma non sempre chiaramente definibili) che essa intrattiene con il politico (Étiemble 2002b). Non mi sono tuttavia interessata alla questione, che, seppur di grande interesse, esula ampiamente dal mio soggetto d’indagine. Ciò che mi preme sottolineare in questa sede sono invece gli aspetti “diasporici” di questa rete associativa, i quali rendono in parte conto della costruzione identitaria della comunità. Accanto ai rapporti economici con il paese d’origine, stabiliti attraverso la rete commerciale, e alla rete transnazionale di conoscenze che ciascuna famiglia intrattiene e coltiva, la comunità infatti si forgia e si manifesta attraverso una serie di eventi e attività
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promosse da circa sessanta associazioni. Il panorama è molto vario: troviamo club sportivi, scuole di tamil (che propongono anche corsi di francese e inglese per adulti e sostegno scolastico), scuole di Bharata Natyam e musica, associazioni culturali e ong. Queste associazioni intrattengono rapporti tra di loro, con il resto della diaspora e con il paese d’origine13, rilevabili ad esempio all’occasione dei grandi avvenimenti culturali o sportivi organizzati mensilmente: si tratta infatti di eventi spiccatamente comunitari organizzati dalle scuole o dalle associazioni sportive della regione parigina, ad occasione dei quali vengono invitati i corrispettivi di altri paesi europei meta della diaspora (soprattutto tedeschi) e i cui proventi servono a finanziare attività in Sri Lanka. Le associazioni quindi (e naturalmente, seppur in modo diverso, i commerci) rappresentano una risorsa notevole nella costruzione della comunità intesa come collettività dall’identità comune: tale identità si basa sulla coscienza della differenza con il contesto francese, i cui valori vengono accettati solo nella misura in cui permettono un’integrazione economica e lavorativa, e sul mantenimento cosciente di una cultura tamil che si sa transnazionale, ma che si riporta sempre alla terra mitica del Tamil Eelam. Anche quando non passa attraverso la rete associativa, la trasmissione della lingua, dei valori e della cultura tamil rappresenta una priorità per le famiglie e i bambini vengono inquadrati in un serie di attività extrascolastiche (corsi di tamil, canto, danza) a domicilio. In questo caso la presenza della famiglia allargata rappresenta spesso l’occasione per formare piccole classi di cugini e abbassare i costi dei corsi. Sulla base degli elementi delineati si può quindi dire che i tamil srilankesi di Parigi costituiscano una comunità diasporica. Tale affermazione non si basa soltanto sull’osservazione di caratteristiche strutturali (multipolarità della dispersione e interpolarità delle relazioni, attraverso commerci, associazioni e rapporti personali) e sull’osservazione di una volontà di mantenimento dell’identità comunitaria, ma sull’elaborazione che la comunità stessa fà della propria condizione esistenziale, la quale 13
Principalmente attraverso l’ORT (Organisation Réhabilitation Tamoul) branca umanitaria del CCT, organizzazione transnazionale legata alla lotta delle Tigri tamil. Si rinvia agli studi di A.Étiemble e si segnala che G. Dequirez (Université de Lille2) sta conducendo un dottorato di ricerca sulla rete associativa della comunità tamil srilankese, di cui si potranno leggere le conclusioni tra circa un anno.
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rivela una chiara coscienza diasporica. L’ultimo elemento della definizione tripartita di Vertovec, la diaspora come creatività culturale, necessità a mio parere ancora qualche tempo per potere essere indagata: i primi figli della diaspora hanno oggi 20-25 anni ed è quindi solo tra qualche tempo che si vedranno i frutti di quell’interazione di identità multiple di cui parla lo studioso; inoltre per il caso francese non sono stati condotti studi in questa prospettiva. Da parte mia sono a conoscenza di un solo interessante fenomeno, facilmente visibile passeggiando nel quartiere de la Chapelle: gruppi di ragazzi si aggirano per il quartiere con piccole telecamere e in quest’ambientazione ripropongono, riadattandole al contesto e alla vita parigina, le storie viste nei film tamil14 ambientati in India o in Sri Lanka. I cortometraggi finiscono poi sulle pagine di youtube o di altri siti di condivisione video.
1.2.3 L’evoluzione della vita religiosa Se in diaspora, come si è dimostrato, la comunità investe una gran quantità di tempo, energie e denaro nel mantenimento del patrimonio culturale che fonda l’identità collettiva, la religione, in quanto fetta importante di questo patrimonio, non può che rivestire un ruolo fondamentale. È attraverso di essa, infatti, che si trasmettono valori e norme culturali ed è su di essa che si basa la costruzione dell’individuo. La comunità tamil srilankese di Parigi è per la stragrande maggioranza hindū, ma sono rappresentate anche varie confessioni cristiane (cattolici, protestanti, testimoni di Geova) ed è presente una piccola percentuale di musulmani. Mentre questi ultimi costituiscono un gruppo a parte (Robuchon 1995), tra hindū e cristiani (escludendo probabilmente i testimoni di Geova15) c’è una notevole compenetrazione, che si esprime 14
L’importanza dei media nel mantenimento e nella costruzione della cultura comunitaria è un altro importante elemento. Anch’essi si sono adeguati alle esigenze della diaspora e canali satellitari tamil sono sorti a Londra, Parigi e Berlino (Étiemble 2002b): essi trasmettono notizie del paese e i più importanti eventi della comunità nei vari paesi della diaspora (ad esempio i festeggiamenti per la festa di Pongal, celebrazioni religiose e avvenimenti politici, come le commemorazioni del Maaveerar Naal il 27 novembre), oltre a proporre film, programmi culturali, e telenovelas. Un interessante fenomeno è la nascita di serie tv che raccontano la vita delle comunità tamil disperse nel mondo. 15 Ho conosciuto alcuni tamil srilankesi appartenenti al movimento dei testimoni di Geova. Essi si dissociano assolutamente dalla comunità, di cui non si sentono parte: “io non ci vado a La Chapelle, non frequento la comunità, perché sai loro fanno un sacco di risse, come in Sri Lanka, anche in Sri Lanka tutti si
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in una sorta di “sincretismo leggero”, spiegabile in parte come eredità storica e in parte come conseguenza della condizione diasporica. Se già in Sri Lanka cristianesimo e induismo convivono largamente (in particolare vi sono alcuni luoghi di pellegrinaggio che possono essere definiti ecumenici, Robuchon 1995), al momento poi dell’arrivo in Francia, l’assenza di luoghi di culto hindū costringe i primi tamil a frequentare alcune chiese cattoliche: la Basilique du Sacré Cœur a Montmartre e la Chapelle de la Médaille Miraculeuse della Rue du Bac. Secondo Robuchon (1986 e 1995) la scelta non è casuale, ma risponde a dei rimandi visivi che renderebbero i due luoghi più familiari: nella Cappella della rue du Bac si tratterebbe in particolare della “Madonna nera” e nella Basilica del Sacré Cœur di una struttura architettonica che rende possibile la deambulazione rituale intorno alle statue. Dalle descrizioni fornite da Robuchon pare che in questi luoghi cristiani i tamil hindū compissero i medesimi gesti che caratterizzavano le visite al tempio in Sri Lanka16: il compiere pradaksiyā, la sosta di preghiera di fronte alla statua, la genuflessione, il toccare i piedi della statua per poi portare le mani agli occhi o alla testa. Robuchon (1986) documenta inoltre che le visite alla Basilica rappresentavano un importante momento di socializzazione della comunità ed erano occasione di incontri, scambi e riunioni che si svolgevano lungo la scalinata che porta alla chiesa. A questa sorta di pellegrinaggio settimanale si aggiungono rapidamente due mete di pellegrinaggio annuali: Lourdes e Chartres. Lourdes è una destinazione ampiamente conosciuta già in Sri Lanka: Jeunes hommes et femmes hindous, à partir de leurs souvenirs du pays, de ce qu’en un temps leur dirent leurs camarades chrétiens à l’école à Sri Lanka, ils se rappelèrent que Lourdes était en France. Et ils visitèrent. Hindous, ils firent leur miracle de la grotte (Robuchon 1991: 2).
ammazzano. Io ho perso mia sorella e non voglio più avere a che fare con loro, e neanche coi buddhisti. Io frequento gli altri del gruppo [i testimoni di Geova], sono tutte brave persone, francesi, africani, a me non interessa: se credi in Geova non puoi non essere una brava persona. Capisci no? Anche mio marito è cambiato. All’inizio lui non voleva venire…ma poi l’ho convinto e ora è una persona migliore. Non frequenta più gli altri tamil, solo la famiglia.” [S. tamil srilankese arrivata nel 1991, vive a Parigi col marito e il figlio di 8 anni] 16 e che naturalmente si osservano oggi nei templi hindū di Parigi.
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La Madonna di Lourdes “déesse locale, déesse d’ici et déesse de l’ici” (Robuchon 1991: 2) viene subito integrata nel pantheon hindū e il pellegrinaggio a Lourdes diviene una pratica comune tra i tamil srilankesi. Questi luoghi e questi culti “locali” sono praticati ancora oggi. In tutte le case che ho visitato, accanto a Gayeśa, Murugan, Śiva e Pārvatī, era sempre presente una delle tipiche bottigliette col tappo azzurro contenenti l’acqua di Lourdes, o altri souvenirs della Vergine. Lungi dal rappresentare un allontanamento dalla propria cultura o un tradimento della propria religione, queste nuove pratiche rappresentano un arricchimento dovuto: ogni terra ha i suoi dèi e, in questo senso, si può dire che la Vergine venga a rappresentare per gli hindū la divinità locale, colei che veglia sulla terra di Francia. In quanto tale Essa merita la devozione di coloro che ha accolto. Il pellegrinaggio a Chartres rappresenta anch’esso un momento ecumenico della comunità tamil srilankese, ma rivela una grossa differenza rispetto alle visite a Lourdes: queste sono organizzate intorno al nucleo famigliare, mentre il pellegrinaggio a Chartres (dove per l’occasione viene recitata una messa in tamil) è organizzato dalla comunità stessa; in particolare degli autobus sono affittati per l’occasione, seguendo le zone residenziali. Sono soprattutto i tamil hindū a partecipare, ma vi si trovano anche tamil musulmani e naturalmente cattolici. Il pellegrinaggio si presenta quindi come uno dei più importanti eventi annuali della comunità nel suo complesso. Nonostante la meta sia una cattedrale cattolica ciascuno vive l’evento secondo la propria appartenenza religiosa: Bien sûr les Tamouls catholiques sont présents et chantent les cantiques (…) Lors de la messe, pendant que la cathédrale résonne des prières en tamoul, les Hindouistes, c’est-à-dire la plus grande partie de l’assistance, font une queue de plusieurs heures, dans le plus grand silence, devant Notre-Dame-du-Pilier, Vierge Noire qui est devenue leur sainte (…) Chacun, tour à tour, vient faire un vœu et baiser le pilier de la Vierge, ou y apposer les mains. Les parents soulèvent leurs plus jeunes enfants jusqu’au pied de la statue (Robuchon 1995: 106).
Mentre i cattolici partecipano alla messa, gli induisti partecipano del luogo: come a Lourdes e come al Sacré Cœur, è la sacralità del sito a renderlo fruibile. I santi cui ci si 27
rivolge sono quelli cristiani, ma la gestualità e le modalità di preghiera rivelano la traslazione che li ha resi membri a pieno titolo del pantheon hindū. Come la partecipazione alla vita economica e lavorativa francese non si traduce necessariamente in una perdita della propria cultura, allo stesso modo la fruizione di luoghi di culto “altri” non comporta il sentimento di tradire la propria religione. Nonostante la pratica dei pellegrinaggi a Lourdes e a Chartres si sia consolidata e sia molto viva ancora oggi non si può dire lo stesso della frequentazione delle chiese cattoliche, la quale si è progressivamente interrotta con il sorgere dei primi templi hindū a metà degli anni ‘80. La nascita di luoghi di culto17 si inscrive in un più ampio quadro di progressiva strutturazione della vita comunitaria: risolti i problemi del primo arrivo, la comunità può occuparsi di dirigere le sue energie verso la messa in atto di tutta una serie di strutture tramite cui rendere possibile quel mantenimento culturale di cui si è parlato fin’ora. I templi sono una di queste strutture e come le altre rivelano una netta caratterizzazione in senso comunitario. In particolare, se è vero che i templi della comunità tamil srilankese sono frequentati, in piccola parte, anche da hindū di diversa provenienza, non è ugualmente vero il contrario: difficilmente i tamil srilankesi frequenteranno un tempio “altrui”. Come si vedrà il tempio assume in diaspora molti ruoli: alcuni sono legati alla sua natura di luogo “della e per la comunità”, altri, più “tradizionali”, derivano dal suo essere luogo di culto; altri ancora sono il frutto della creatività che caratterizza la cultura umana. Il percorso effettuato in queste pagine non vuole essere soltanto introduttivo: molti degli elementi analizzati saranno presenti nella trattazione dei templi hindū e soprattutto, in un’ottica di sintesi, verranno ripresi nel capitolo conclusivo. In questo senso il religioso e le sue strutture diverranno la chiave di lettura della comunità tamil srilankese ( hindū) nel suo complesso.
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È sottointeso luoghi di culto hindu.
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Capitolo II NUOVI COSMI, NUOVI TEMPLI: UN’INTRODUZIONE AL PANORAMA HINDŪ PARIGINO
Come già è stato detto in molti studi (Kramrisch 1976, Reiniche 1985, Shulman 1980, Eck 1996) il tempio hindū rappresenta il cosmo inteso come totalità ontologica: esso vede dispiegare la catena di esseri che costituisce questa totalità in una rete di rapporti spaziali, norme rituali, contatti e diritti di prossimità. Il tempio rispecchia, afferma o trasforma non solo il cosmo nella sua totalità ma anche i microcosmi che, in un gioco di inclusioni multiple e rimandi reciproci, in esso trovano dimora e analogia. L’organizzazione sociale del mondo degli uomini1 e il pantheon hindū, il manifesto e l’immanifesto, valori mondani e valori trascendenti trovano eco e si combinano in questo luogo-simbolo. L’importanza del tempio risiede quindi nel suo essere centro non solo in senso geografico (il villaggio si costruisce intorno al tempio e in relazione spaziale ad esso) ma soprattutto in senso ontologico, poiché è in esso che si incontrano la linea verticale che attraversa i diversi mondi e la linea orizzontale che percorre il mondo umano. Il tempio rappresenta quindi il luogo in cui si riassumono le potenzialità relazionali dell’individuo (in quanto microcosmo) col macrocosmo di cui è parte. Tali possibilità però non sono date e il tempio, come la mūrti2, non trae la sua sacralità da caratteristiche intrinseche: essa è il risultato, sempre temporaneo, di determinati atti rituali. Attraverso di essi l’uomo interpreta e forgia il proprio universo. L’importanza del tempio non può quindi essere sottovalutata. Ma in che misura quanto appena detto è applicabile ai templi di cui si occupa il presente studio, i quali sono sorti, silenziosamente, in un contesto dove Dio è stato escluso dalla sfera pubblica e dal sociale nel suo complesso e in cui i valori rispecchiano un’altra, differente, concezione del 1
Come suggerisce J.C.Galey “l’organisation social et la religion ne sont pas choses distinctes, et (…) ce sont les rites plutôt que les traités qui en assurent le lien” (Galey 1985:11). 2 Fanno eccezione il bāya-linga, una pietra bianca trovata nel fiume Narmada, le śālagrāma, pietra del fiume Gandaki in Nepal e le pietre del monte Govardhana nel Vraj, considerate svarūpa, ossia forme naturali rispettivamente di Śiva, Visyu e Krsya.
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reale? Una volta deconstruita, questa domanda, rivela tutta la sua complessità e nell’intento introduttivo di queste pagine non ci si propone di fornire una risposta esauriente: si avanzeranno piuttosto alcuni spunti di riflessione e si definiranno alcune problematiche, volte ad inquadrare i casi etnografici che seguono. Innanzitutto diamo uno sguardo al contesto in cui il tempio si inserisce. La città di Parigi, come suggerisce un celebre testo di sociologia urbana ad essa dedicato (Pinçon 2001), si presenta come un mosaico composto da tasselli variegati e in movimento perpetuo. La città si trasforma così come le sue componenti, le quali si sovrappongono più che altrove, risultando in un’altissima densità urbana ed abitativa. Gli elementi in gioco sono da un lato la struttura urbana in cui il tempio si inserisce (che non è costruita intorno ad esso!), dall’altro la società che lo circonda: entrambi generano conseguenze, il primo sul piano della fruizione, il secondo su quello della percezione del tempio3.
2.1 Il tempio nella città A differenza di quanto avvenuto in altri paesi meta della diaspora tamil (e hindū in generale), i quali hanno visto sorgere veri e propri templi4, costruiti nella loro interezza seguendo le norme dell’architettura sacra, a Parigi essi sono stati allestiti in sale, di diversa grandezza, all’interno di edifici preesistenti. Essendo l’architettura del tempio importante nella sua interezza, i compromessi derivanti da queste locazioni inusuali sono evidenti, soprattutto se si pensa alla complessità del tempio hindū, śivaita in particolare, il quale è composto da molteplici spazi, ordinatisi in rapporti simbolici reciproci. Non è questa la sede di una trattazione approfondita dell’architettura sacra hindū. Basti qui ricordare un nugolo di caratteristiche la cui assenza comporta due importanti modifiche nell’utilizzazione dello spazio del tempio. Il tempio forma tradizionalmente un quadrilatero orientato, il cui centro è costituito dall’inner sanctum. Attorno ad esso si costruiscono spazi successivi, separati da cinte 3
Più generalmente il nuovo contesto influisce sulla visione di sé. Ad esempio il sri Kamadchi Temple di Hamm, in Germania; il Richmond Hill Hindu Temple in Canada e il Sri Swaminarayan Mandir di Londra (finanziato però dalla ricca comunità gujarati). 4
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interne ed esterne, le quali permettono la fruizione del tempio secondo due movimenti, quello lineare di entrata-uscita e quello circolare, il quale può essere centripeto o centrifugo a seconda del soggetto che lo compie: Le dévot qui vient de l’extérieur va procéder par encerclements successifs, en faisant le tour éventuel de la seconde enceinte, puis de la première, pour arriver au centre face à la divinité. Inversement, la divinité, après un rituel approprié, va (…) quitter le centre par une suite de déploiements concentriques de plus en plus large, pour sortir du temple et l’encercler avec une partie de la ville en faisant le tour des quatre rues extérieures; (…). Ainsi, au mouvement centripète de l’homme pour rejoindre le divin répond le mouvement centrifuge du divin pour se manifester dans la societé (Reiniche 1985: 80).
Il movimento circolare che prepara il pellegrino alla visione suprema, facendogli percorrere simbolicamente la totalità del cosmo, può compiersi a Parigi (e non in tutti i templi) solo attorno al nucleo più interno, il garbhagrha in cui dimora la divinità. Il movimento centripeto non può esprimersi nella sua completezza, mancando la struttura architettonica che lo rendeva possibile: l’inner sanctum è ospitato in una sala unica e anche esternamente il tempio non è percorribile essendo incastonato in un susseguirsi ininterrotto di edifici. Tali limiti si ripercuotono anche sullo svolgersi del movimento centrifugo che compie regolarmente la divinità, la quale viene portata in processione intorno al tempio secondo un movimento inverso a quello del devoto. L’unica processione che si svolge a Parigi è quella in onore del dio Gayeśa: anche in questo caso tuttavia, a causa dei limiti sopra enunciati, il tempio non rappresenta più il centro del percorso quanto piuttosto il suo punto d’avvio e di conclusione. Gli altri templi non hanno invece ottenuto l’autorizzazione necessaria allo svolgersi della processione e in alcuni casi, quando non si voglia rinunciare a questo momento fondamentale del calendario rituale, essa si svolge all’interno del tempio stesso, in un suo surrogato cinetico: in esso il senso di espansione implicito nell’atto stesso della processione risulta vanificato5. 5
Riprenderò più dettagliatamente la questione quando tratterò, nel capitolo dedicato al Sri Manicka Vinayakar Alayam, del Gayeśa Caturthī.
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2.2 Il tempio nella società francese Oltre ai cambiamenti architettonici che si riflettono nella fruizione del tempio, esso si inserisce in un contesto culturalmente nuovo, differente, il quale modifica la percezione del tempio e il rapporto che esso ha con la società. La Francia è un paese laico, forse il paese laico per eccellenza e in esso la religione e il religioso non hanno più spazio nella sfera pubblica. La laicità diviene strumento dell’egalité e la costruzione dell’identità pubblica fa propri tali principi rispecchiandosi e venendo sostenuta dalla legge, che vieta in vari modi l’espressione pubblica dell’appartenenza religiosa. L’identità religiosa, come quella etnica, diviene questione privata, vissuta all’interno della famiglia o della comunità ristretta cui si decide di far parte6. Tale comunità non è più rappresentata dalla maggioranza degli individui con cui quotidianamente ci si trova a contatto, come avveniva al paese d’origine, ma da un ristretto (seppur relativamente numeroso) gruppo di persone che costruiscono attivamente la comunità, la cui realtà si fonda su un senso di appartenenza condiviso: The reality of community lies in its members’ perception(s) of the vitality of its culture. People construct community symbolically, making it a resource and repository of meaning. (Cohen 1985: 118)
Come è stato sottolineato in molti studi riguardanti la diaspora hindū (Knott 1987, Vertovec e Van der Veer 1991, Vertovec 2000, Baumann 2000 e 2001b, Mazumdar 2006) o più specificatamente la diaspora tamil in paesi occidentali (Jacobsen 2004, Luchesi 2004, Baumann 2001a), la percezione delle altre confessioni religiose (in particolare del cristianesimo, religione dominante) e della cultura secolare europea ha generato un processo di auto osservazione che si è tradotto in una diversa coscienza del Sé e di rimando in una diversa percezione del tempio. Il pericolo, di fronte all’alterità rappresentata dalla maggioranza, di una perdita identitaria e culturale in senso largo,
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L’individuo, nonostante sia immesso, per nascita ed educazione, in un contesto in cui elementi disparati forgeranno la sua identità, è anche attivo reinteprete della sua cultura d’appartenenza, la quale può anche essere in parte rigettata.
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genera un maggior interesse nei propri costumi e tradizioni, nelle modalità educative7 e nelle pratiche e valori religiosi: When one religion comes into contact with another, and its beliefs, practices, and values become open to question in the new social context, the adherents of that religion become increasingly aware of its content. This is not without consequence for the persistance of a religion in an alien milieu. (Knott 1987: 160)
La visione del tempio come il suo ruolo vengono influenzati da questa “sharpening of awareness [that] seems to be a prominent development, in one form or another, throughout many hindu communities overseas” (Vertovec 2000: 34).
2.3 La comunità nella società e l’analogia sociale-rituale Se la percezione del tempio come quella del Sé risultano modificate dal nuovo contesto in cui si situano, l’inserimento nella società francese (occidentale in generale) genera conseguenze profonde anche nella struttura sociale, le quali a loro volta influenzano l’applicabilità di alcuni modelli conoscitivi validi nel contesto d’origine. Se negli studi di tempio in India o in Sri Lanka esso diviene “espace de distinction sociologique” (Galey 1985) e nel rituale che in esso ha luogo si rispecchia l’organizzazione sociale (Fuller 1992), per i templi parigini questa equazione non è più applicabile. La società in cui il tempio si inserisce non si è modellata sulla medesima visione del reale: risponde a leggi differenti, che esso non può rispecchiare. I devoti che si recano al tempio non fanno più parte di un insieme gerarchicamente ordinato secondo regole castali, ma di una società dove gran parte delle regole e delle concezioni su cui si basava il vecchio mondo non sono mai esistite. Questo non significa che le caste siano assenti: 7
Joahanna Vögeli si è interessata per il caso tedesco al ruolo della donna tamil. La studiosa sostiene che l’ideale della donna cosciente della tradizione e della morale è rafforzata in diaspora. Le donne assumono il ruolo di preservatrici della cultura tamil e di guardiane dell’onore della comunità e della famiglia come compenso della perdita di cultura che avviene in esilio, mentre il modello di donna e di famiglia occidentale è valutato negativamente.
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nonostante esse non siano un facile argomento di discussione e se ne taccia spesso l’esistenza, regolano ancora molti dei rapporti sociali intra-comunitari continuando ad essere marcatori d’identità, status e ruoli sociali all’interno della comunità. L’individuo tuttavia, oltre ad essere parte di una comunità, in questo caso tamil srilankese, è anche parte della società in cui tale comunità si inserisce. La condizione diasporica fa del Sé un frammento di un mosaico diversamente costituito e nel nuovo contesto il Sé vede i suoi confini continuamente attraversati, talvolta silenziosamente, per osmosi, talvolta violentemente, per cambiamenti imposti: l’Alterità prende il controllo di alcune “nicchie”, entra nel quotidiano, modifica le gerarchie, i significati, l’immaginario. Questo rapporto imprescindibile con l’Altro8 genera non solo paure ma anche, nel lungo periodo, modifiche nelle abitudini culturali: si pensi ad esempio alla soppressione di alcune norme di purezza relativa, rispettate in Sri Lanka e abbandonate in Francia. Un evento tra tanti mi servirà a spiegare tale fenomeno. Il ristorante in cui ho lavorato per qualche tempo a Parigi ha due cuochi, entrambi tamil di origine srilankese. Una mattina di marzo ricevo la telefonata di uno dei due uomini, che mi chiede se posso arrivare al lavoro con un ora di anticipo: aveva appena ricevuto la notizia della morte della figlia dodicenne di un suo caro amico e voleva andare a vedere la salma della piccola prima che la portassero all’ospedale. Naturalmente ho acconsentito a sostituirlo per il tempo necessario. Dopo la visita, M. è rientrato al lavoro, senza poter ripassare da casa: si è recato in bagno a lavarsi le mani ed è sceso in cucina senza dirmi granché. Appena la mia collega è arrivata, un paio d’ore più tardi, ne ho approfittato per scendere in cucina a vedere come stava. Naturalmente era scosso dall’evento ma ciò che mi ha fatto notare prima di tutto è che in Sri Lanka non sarebbe stato possibile tornare a lavorare dopo una visita simile: se si è entrati a contatto con la morte, mi spiegava, bisogna stare lontani dagli altri per un certo periodo e sottoporsi ad alcune pratiche purificatorie. Ma in Francia non è cosi e “a loro [i clienti francesi] non interessa cosa ho fatto e dove sono stato prima di preparargli da mangiare”. Il fatto che alcuni valori, pratiche o regole non abbiano importanza nella nuova società, associato in alcuni casi, come quello appena descritto, alla loro inapplicabilità (se M. non fosse tornato al lavoro sarebbe stata considerata un’assenza non giustificata), 8
La validità di tali concetti risiede, a mio parere, in un utilizzo relazionale e non assoluto degli stessi: essi si definiscono solo reciprocamente.
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comporta il loro abbandono o la loro applicazione solo all’interno di alcune sfere, familiari o comunitarie, della vita dell’individuo. Allo stesso modo se le caste non sono vivibili nella società francese, mostrano ancora la loro forza in alcuni ambiti del sociale intra comunitario, come ad esempio nelle scelte matrimoniali. Nello studio del tempio tutto ciò significa, a mio parere, l’impossibilità, nei casi della diaspora, di un’equazione rituale-sociale, proprio perché il sociale non rispecchia più il medesimo cosmo di cui il tempio è simbolo. I microcosmi individuali di coloro che si recano al tempio non rispecchiano più, essi stessi, quel cosmo: il nuovo individuo si costituisce ormai di pezzi di mondi e le sue identità sono numerose quanto i cosmi di cui si nutre. Anche nel tempio, come negli individui che lo frequentano, questi cosmi si combinano, in modi diversi e in fieri. L’immagine del tempio come rappresentazione di un cosmo ordinato ne risulta compromessa, ma può fungere da utile modello cui riportare la mente durante l’osservazione degli esempi che compongono il panorama hindū parigino. Esplorarli è lo scopo che mi prefiggo nei capitoli che seguono in cui ogni tempio viene analizzato in funzione delle sue specificità.
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LA DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA DEI TEMPLI
Fig. 1 - La cartina mostra la distribuzione geografica dei templi fondati dalla comunità tamil srilankese a Parigi e nei comuni della petite couronne. Come si può notare, essi si concentrano nell’area nord-ovest di Parigi (XVIII° e XIX° arrondissement) e nei due comuni de La Courneuve e Saint-Denis. La numerazione dei templi è funzionale all’ordine di trattazione degli stessi: 1. Shri Muthukumaraswamy Alayam 2. Sri Manicka Vinayakar Alayam 3. Sri Sabareesan Manchamatha Ayappan Temple 4. Sri Ayyappan Temple 5. Arulmihu Mutthumaariamman Aalayam 6. Sivan-Parvathi Temple
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Capitolo III IL SHRI MUTHUKUMARASWAMY ALAYAM
3.1 Il tempio: storia e gestione Murugan
è una delle divinità più conosciute e adorate in Sri Lanka, cosi come suo
fratello Gayeśa, il dio a testa d’elefante. È conosciuto anche col nome di Skanda (sanscrito) o Kārttikeya ed è il secondo figlio della coppia divina Śiva-Pārvatī. Ha un carattere marziale, è un dio guerriero il cui oggetto-simbolo (oggetto esso stesso di venerazione) è la lancia (vel). Il tempio Shri Muthukumaraswamy Alayam ne ha fatto la sua divinità principale. Il tempio si trova in un quartiere benestante del XIX° arrondissement, a due passi dal metro Jourdain. Si tratta di una sorta di “villaggetto” che, con le sue botteghe, negozietti di nicchia, bistrot e associazioni culturali, ritaglia un’isola “borghese” tra i due quartieri popolari di Place des Fêtes e Belleville. La presenza di un tempio hindū è quindi piuttosto sorprendente, soprattutto se si considera che la zona non è collegata particolarmente bene né alle zone a concentrazione residenziale tamil né alla zona commerciale tamil de La Chapelle. Nella stragrande maggioranza gli abitanti del quartiere ignorano l’esistenza del tempio, il quale si situa d’altronde in posizione un po’ nascosta. Per trovarlo mi sono rivolta all’unico alimentari indiano9 del quartiere. L’ingresso del tempio passa facilmente inosservato, se si escludono i momenti d’inizio e fine delle cerimonie, quando donne in sari colorati, uomini e bambini entrano ed escono numerosi. Nessuna insegna rivela la presenza del tempio, il cui nome è scritto a piccoli caratteri solo sulla cassetta delle lettere, mentre un piccolo foglio, affisso sulla vetrina della sala, riporta in tamil e in francese gli orari delle cerimonie accompagnati da un’immagine di Krsya bambino. L’impressione è che tutto sia fatto con la massima 9
Uso qui il termine ‘indiano’ nell’accezione comune: pakistani, bangladeshi, srilankesi, nepalesi e indiani vengono inclusi in questa categoria. Nel caso in questione si trattava di commercianti pakistani. Il fatto che conoscessero il tempio pur non frequentandolo rivela una serie di contatti tra comunità. Robuchon (1995: 94) cita gli incontri di cricket come eventi di incontro degli immigrati provenienti dal sub-continente indiano.
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discrezione e nel rispetto del vicinato.
Fig.2 - L’ingresso del tempio
Il tempio Shri Muthukumaraswamy Alayam è stato fondato nel 1994 da un gruppo di persone costituitesi in associazione: si tratta prevalentemente di famiglie i cui membri sono arrivati progressivamente in Francia nel corso degli anni ‘80. Alla base della fondazione del tempio c’è stata probabilmente la volontà di costituire un luogo di culto per sé e quella ristretta cerchia di persone con cui si condivide una certa visione del religioso. Come si vedrà, in effetti, il tempio rivela caratteri a lui specifici, che ne fanno un luogo “più tradizionale”. Questi elementi, per altro, sono quelli sottolineati dal pubblico come determinanti la scelta di frequentarlo. Attualmente l’associazione conta 200 membri, tutti tamil srilankesi devoti di Murugan
per tradizione di famiglia, i quali sostengono le attività del tempio attraverso
donazioni volontarie. L’associazione elegge un consiglio direttivo di nove persone, tra cui vengono designati il Presidente del tempio, il Segretario, il Tesoriere e i loro vice. Pare che il consiglio, sebbene elettivo, sia costituito di anno in anno più o meno dalle medesime persone; si tratta prevalentemente di commercianti, qualche professionista o persone che hanno fatto carriera nelle due nicchie lavorative occupate dalla comunità, ristorazione e pulizie. Il sesso femminile non trova rappresentanti all’interno del
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consiglio. I consiglieri si occupano degli aspetti gestionali del tempio (pagamenti, rifornimenti di materiale rituale) e sono presenti a turno il venerdì e il weekend per dare una mano al brāhmaya
durante la pūjā. Soprattutto il venerdì infatti c’è un maggior afflusso, spiegato
come una conseguenza del fatto che, essendo il giorno della settimana in cui non si mangia carne, tutti ne approfittano per andare al tempio. L’afflusso è comunque piuttosto contenuto in confronto ad altri kovil: sono principalmente i membri dell’associazione a frequentare il tempio, spesso con frequenza settimanale e in funzione del lavoro. Il tempio è aperto tutti i giorni della settimana e offre due cerimonie giornaliere, tranne il venerdì in cui si svolgono tre pūjā. Balakrishna, il brāhmaya che si occupa del rituale, è arrivato in Francia con la famiglia nel 1990. Proviene da Jaffna, la città più importante della zona a maggioranza tamil nel nord dell’isola, dove officiava in un tempio di Śiva. Nell’ottica di una partenza in Occidente, egli decide a metà degli anni ‘80 di lasciare la città per recarsi nella capitale Colombo, dove sarebbe stato più facile organizzare il viaggio e dove aveva delle conoscenze. Per qualche anno officia in un tempio di Visyu, finché finalmente, grazie a dei contatti, riesce a partire per la Francia. Qui trova ad aspettarlo qualche parente lontano, ma soprattutto diversi amici che lo aiutano nei primi anni. Sono questi stessi amici a chiedergli di partecipare alla fondazione del tempio. Fin dall’inizio è stato lui ad occuparsi del rituale ed è quindi parte integrante della storia del tempio. Parlare con lui è stato molto istruttivo: oltre a spiegarmi minuziosamente e con notevole pazienza le diverse fasi del rituale e la storia del tempio, mi ha infatti reso partecipe di una serie di motivi di inquietudine che condivide con altri membri dell’associazione. Essi sono legati all’impossibilità di vivere con completezza la propria religione e rispondono a quella sensazione di disconoscimento e svalorizzazione della propria cultura che, come vedremo, caratterizza la retorica di molti templi (soprattutto il Sri Manicka Vinayakar Alayam). L’associazione sostiene la sua visione e l’esistenza del tempio si presenta come volta a contrastare questa tendenza: esso è per Balakrishna, come per gli altri membri dell’associazione, un luogo dove ritrovare e trasmettere la propria cultura. Il tempio è pensato e costruito intorno ad una porzione della comunità che si
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riconosce in determinati valori e che vuole lottare per essi. In quest’ottica il rituale assume un’importanza fondamentale, in quanto espressione di conservazione della tradizione: Qui la cerimonia la fanno bene. Negli altri templi dura venti minuti e poi basta, dai i soldi e via. Qui la fanno come va fatta, come la fanno in Sri Lanka. È per questo che la gente viene, perché sa che qui ritrova le sue tradizioni. Non è che visto che siamo qui bisogna fare le cose male. È questo che pensa chi viene qui. E poi qui non chiedono soldi come negli altri posti, non c’è neanche un posto per raccoglierli. Perché l’importante non è questo, non sono i soldi. L’importante è un buona preghiera. [K. 28 anni, arrivato in Francia nel 1984. La sua famiglia fa parte dell’Associazione dal 1997]
Le persone che frequentano il tempio hanno in molte occasioni espresso questo tipo di considerazioni. Chi viene non lo fa insomma solo perché è particolarmente devoto di Murugan,
ma anche perché sceglie di sostenere la posizione del tempio. Il fatto che esso
non si trovi in una zona tamil e neanche lungo una delle “rotte” della comunità, rende la scelta ancora più significativa. La condivisione di una medesima visione della religione e del suo ruolo non porta però a mio parere alla costituzione di una comunità di fedeli nel senso che vedremo per il tempio di Ayyappan a La Courneuve. La grossa differenza sta qui nella natura “più tradizionale” della figura di Balakrishna, il quale riveste molto bene il proprio ruolo di servitore della comunità, senza però assumere quel complesso di funzioni (ascolto, guida, consiglio, ammonimento) che invece caratterizzano Guruswāmī, fondatore del suddetto tempio. Nelle parole di Michell: The absence of a congregation reveals the fundamental role of the temple priests, who represent the community they serve and who are responsible for its satisfactory relationship with the divine. Upon this depends the happiness, welfare and success of the members of the community (1977: 63)
Balakrishna soddisfa quindi, nel rispetto della tradizione, le necessità religiose dei membri dell’associazione, e la comunità trova non in lui, ma in un ideale condiviso, la sua
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compattezza. Nelle pagine che seguono esplorerò inizialmente il rituale della pūjā, il quale è effettivamente molto più elaborato in questo che in altri templi, per poi dilungarmi sull’attaccamento alla tradizione che in esso si esprime. Come vedremo, le strategie adottate da questo tempio in risposta alla “violenza culturale” del contesto francese non sono le medesime del tempio di Gayeśa a cui è dedicato il capitolo seguente.
3.2 Un’esperienza conoscitiva In un soleggiato pomeriggio di marzo mi sono recata al tempio di Murugan per un appuntamento speciale con Balakrishna. La settimana precedente gli avevo espresso il desiderio di conoscere più approfonditamente il complesso rituale che compie ogni giorno, ed egli mi aveva proposto di raggiungerlo al tempio dopo la pūjā delle 13: partiti tutti i fedeli avremmo avuto il tempo di parlare. Al Shri Muthukumaraswamy Alayam l’ambiente è molto accogliente: si tratta di una piccola sala divisa in due da tre scalini degradanti. Le tre cappelle ospitanti le mūrti di Gayeśa, Murugan
e Ambal si trovano sul fondo della stanza, la quale è sovrastata in parte
da una struttura a vetrate. La decorazione della sala, affidata a sthapati srilankesi residenti a Parigi, è sobria ma molto curata. Quando sono arrivata al tempio egli mi stava già aspettando, attaccato al termosifone che riscalda la piccola sala in cui è stato allestito il tempio. Dopo aver lasciato le scarpe negli appositi ripiani che affiancano la porta di ingresso, ho raggiunto Balakrishna, il quale nel frattempo si era seduto, schiena al muro, sul bordo degli scalini. Prima di cominciare, avendo espresso il desiderio di registrare la conversazione, mi ha chiesto di conoscere la lista di domande che intendevo porgli. Concentrandosi sul rituale non rappresentavano naturalmente un problema per lui: piuttosto, come mi ha confessato lui stesso, conoscerle in anticipo gli serviva a preparare meglio le risposte e, per mia immensa gioia, il materiale “didattico” necessario. Una volta a conoscenza delle domande, infatti, Balakrishna ha proceduto a raccogliere tutti gli strumenti e le sostanze necessari alla pūjā: in circa dieci minuti aveva riempito lo spazio intono a me di lampade
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di ogni foggia e dimensione, polveri colorate, frutti, ciotole, ventagli e fiori. Quel pomeriggio Balakrishna mi ha aperto un mondo: superando qualsiasi mia aspettativa, mi ha raccontato la sua religione, ma non come la si legge sui libri, fatta di parole. Egli me l’ha raccontata attraverso il gusto, l’olfatto, la vista e il tatto: mentre scorreva, come in un elenco, le fasi della pūjā, si allungava a cercare, in quel mare di oggetti che ci circondava, quello necessario in quel determinato momento del rituale. Di ogni oggetto mi spiegava l’uso e di ogni sostanza mi invitava a toccare la consistenza, sentire l’odore, sperimentare il gusto. In un simile panorama ogni oggetto non è solo espressione della sua funzione: esso riassume simboli e miti, e implica una gestualità, una parola e uno stato della mente. La conoscenza di questi oggetti è una porta d’acceso alla complessità di un universo di significati e la capacità di manipolarli implica una possibilità di costruzione del reale. Naturalmente nella mia piccola esperienza non posso dire di aver varcato questa porta, ma la disponibilità di Balakrishna mi ha permesso almeno di percepirne l’esistenza. Tenendo a mente le teorie che descrivono l’Induismo essenzialmente come ortoprassi, anche l’esperienza della sua didattica, eminentemente pratica e visiva, è stata foriera di informazioni: la conoscenza, come la pratica religiosa, passa innanzitutto dall’esperienza gestuale e in quest’ottica la conoscenza del materiale rituale è il primo passo verso la comprensione del rito, il quale è eminentemente linguaggio di gesti simbolici.
3.3 La pūjā al tempio di Murugan: un triplice atto religioso La pūjā è un atto di adorazione della divinità: essa viene invitata a risiedere nel supporto fisico rappresentato dalla mūrti, e poi accolta e intrattenuta come “un ospite di rango regale” (Stutley 1980). Il rituale della pūjā rappresenta “the core ritual of popular theistic Hinduism” (Fuller 1992: 57) e può essere condotto da categorie di persone differenti in modi, luoghi e occasioni diverse. Al tempio di Murugan il rituale è condotto quotidianamente e si rivela
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nella complessa performance di 16 upacāra 10, termine che significa letteralmente “atto di servizio” (Piano 2001: 223). Con esso si indicano i gesti attraverso cui si onora la divinità. Ad ogni gesto corrisponde un suono e spesso un oggetto o un gruppo di oggetti. La cerimonia inizia con la purificazione dello spazio del tempio. L’impurità presente nell’ambiente viene eliminata attraverso i fumi dell’incenso, il quale viene acceso gettandolo, sotto forma di polvere, su della carbonella accesa. Questo upacāra prende il nome di dhūpaka e non necessariamente è compiuto dal brāhmaya. Purificato lo spazio rituale si procede ai riti preparatori: il brāhmaya rimuove i fiori, i gioielli e i tessuti che adornano Murugan, in vista dell’abluzione rituale conosciuta con il nome di abhiseka. Si tratta di un bagno rituale durante il quale la mūrti viene lavata con una serie di sostanze: latte, yogurt, acqua di rose, succo spremuto di arance e limoni, un mix di banane, mango, miele, cocco e melograno chiamato pañcamrita, latte di cocco, e ancora curcuma, farina di riso, vibhūti, pasta di sandalo e kumkum mescolati ad acqua. Tra una sostanza e l’altra la mūrti viene risciacquata e una lampada accesa gli viene passata davanti. Significativamente la prima zona da cui vengono rimosse le sostanze dell’abluzione sono gli occhi. Alcuni dei prodotti utilizzati, in particolare il latte e il pañcamrita,
verranno donati ai fedeli come prasād.
A questa fase segue la vestizione e decorazione della mūrti che prende il nome di alankāra.
Successivamente vengono presentate alla divinità delle offerte di cibo. Queste
come tutto il resto, sono preparate esclusivamente dal brāhmaya: Il prasād si deve fare al tempio perché se viene da fuori non è bene. Qui lo preparo io, perché è un’offerta alla divinità e non può farlo qualcuno che non è brāhmaya [Balakrishna].
A questo punto comincia la pūjā propriamente detta. Mentre l’abhiseka è destinato solo alla divinità principale, Murugan, il resto della cerimonia coinvolge anche Ambal e 10
Di 16 momenti-upacāra è costruita la pūjā descritta negli Agama. La sequenza del rituale tuttavia può essere semplificata, senza che questo implichi un’insufficienza, una mancanza o imperfezione: abbreviazioni e semplificazioni rituali sono previste dai testi stessi, ma in alcun caso sono ritenute anticonvenzionali. Fuller (1992) parla di sineddoche nel descrivere la pūjā. Essa infatti, nonostante sia composta di molti momenti e di atti successivi di offerta e onorazione, può essere rappresentata da rituali semplici e abbreviati, i quali, in quanto parti ordinate del complesso rituale, ne riproducono la struttura e il significato. Il fatto che la completezza della pūjā sia riassumibile in un nucleo rituale semplificato rende lo svolgimento della sua forma completa ancora più ricco di valore.
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Gayeśa,
con il quale si inizia tradizionalmente il rituale. Egli è colui che rimuove gli
ostacoli e in quanto tale va onorato prima di cominciare qualsiasi impresa, rituale compreso. La prima offerta consiste nella presentazione di una lampada ad olio alle divinità: si tratta di una lampada ad una fiamma (dhipakal) che viene passata di fronte alle tre divinità con un movimento circolare. Posata questa prima fiamma, il brāhmaya procede a compiere lo stesso gesto con una lampada a canfora ( karpūra āratī). A questo segue l’offerta di acqua, purificata attraverso la recitazione di mantra e contenuta in cinque coppette, aventi ciascuna uno dei nomi dei volti di Śiva. Altre lampade a olio vengono accese e presentate alle divinità (mayura dīpa, bilba dīpa, alankara dīpa, sarpa dīpa)
e a questo segue un omaggio speciale rivolto a Murugan: vengono usati uno
specchio, un ombrello (chattra) un ventaglio fatto con una criniera bianca di yak (chamara), due altri tipi di ventagli e una bandiera. Tutti gli strumenti sono costituiti dal pañcaloha,
la lega di cinque metalli con cui vengono costruite anche le mūrti. Questo tipo
di onori ripropongono gesti abitualmente destinati al sovrano: Puja is originally and esentially an invocation, reception and entertainment of God as a royal guest (Gonda 1970: 77).
Si confrontino a questo proposito le parole di Balakrishna: Nella famiglia del maharaja, quando il maharaja arriva lo accolgono con il chamara e quest’altro ventaglio. Allo stesso modo onoriamo Murugan: come il sovrano è anch’egli un guerriero. Ma in quanto Dio è il Re dei re.
A questi onori regali segue l’offerta di fiori accompagnata dalla recitazione dei nomi della divinità. A questo punto il brāhmaya raccoglie una serie di foglietti sui quali i fedeli hanno scritto il loro nome e la loro naksatra (stella) di nascita, al fine di compiere arcanā,
una preghiera in cui questi due elementi vengono inseriti nella recitazione. La
cerimonia si conclude con la presentazione di una lampada a sette fiamme in cui viene fatta bruciare della canfora. A questo punto i fedeli si prostrano davanti alla divinità e compiono pradaksiyā intorno alle tre cappelle.
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Gli elementi fondamentali del rituale sono principalmente tre: gesto, parola e oggetti rituali. Si è già menzionato il rapporto tra gesti ed oggetti. Un legame dello stesso tipo mette in relazione parola e gesti e ad ogni atto corrisponde una precisa successione sonora. Parlando dei mantra, termine con cui si designano i versi utilizzati durante i rituali e tratti dai Veda, L. Patton dice: As I suggested throughout, in this mode of “ritual commentary”, a part of an oral text is associatively linked to the whole of an action, thus confirming and imagining that action as it is being performed. In this sense commentary is not simply a discursive act, but rather a deeply formative one, ritually constructing of persons, of actors who comment (2005: 183).
Nel rituale hindū il suono è agente, crea e trasforma il reale: Speech is agentive. Mantra is its earlier form, beginning as a kind of vehicle for insight and (…) developing a power as a pronounced form (Patton 2005: 126).
Il mantra non è quindi semplicemente un sostegno mnemonico del gesto o un’ode a Dio, esso è un elemento necessario al rituale in quanto concorre alle sue finalità trasformative: The matching of word and act are powerful ways of augmenting the power of ritual (Patton 2005: 184).
In questo senso la pūjā non è solo un atto di adorazione della divinità, ma innanzitutto un atto di trasformazione del reale. Per una visione d’insieme del suo significato è a mio parere necessario volgersi agli attori che vi prendono parte: la divinità, il brāhmaya e il pubblico dei fedeli. La divinità viene innanzitutto invocata a risiedere nella mūrti: è il brāhmaya che rende possibile questa discesa del divino nel suo supporto materiale, attraverso la prima fase del rituale. Una prima trasformazione ha quindi luogo e mette in contatto due mondi altrimenti separati. Dopo essere stata invocata, la divinità è oggetto di una serie elaborata di
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onorificenze. È sempre il brāhmaya a conoscere le formule rituali adatte, nonostante i medesimi atti vengano compiuti in forma semplificata anche dai fedeli in altre occasioni (Fuller 1992). La divinità è quindi a questo punto presente e ben disposta e il brāhmaya può procedere al rituale di arcanā, la pūjā individuale. Attraverso di esso egli agisce da mediatore tra mondi e in questo senso il rituale va inteso come atto comunicativo: le richieste dei fedeli vengono “tradotte” in linguaggio rituale (cino-sonoro) e trasmesse alla divinità. L’importanza del brāhmaya sta qui nel suo essere uno specialista della comunicazione col divino: a tal fine egli non può che usare il sanscrito, poiché esso è Deva Bhāsā,
lingua di Dio, e non può che conoscere alla perfezione il susseguirsi di
oggetti e gesti rituali. In quest’ottica, proprio perchè ognuno degli elementi è necessario ma non sufficiente alla riuscita dell’atto comunicativo, solo colui che ha studiato ed è stato formato a questo scopo può compiere il rituale. Nelle parole di Balakrishna si riassume quanto detto: La gente viene qui e chiede tante cose. È gente semplice ed è per questo che siamo qui, perché loro si rivolgono a noi. Noi siamo necessari per parlare con Dio. Noi studiamo il sanscrito per questo, perché è Deva bhāsā. È per la pūjā. Puoi pregare in tamil, si, ma non fare la pūjā. Dio capisce tutte le lingue, non è che non le capisce. Puoi pregare in tamil. Ma per pregare solo hai bisogno di bhakti. Puoi fare la pūjā con il cuore o con le mani. Noi la facciamo con le mani. È per questo che si deve fare in sanscrito perché non puoi pronunciare un mantra in tamil, non sono gli stessi suoni. (…) Noi siamo qui per la gente. Perché loro vengono per avere śānti, la pace della mente. Śānti, è per questo che si prega, per la pace della mente. Puoi pregare con le mani o pregare con il cuore, noi preghiamo con le mani.
Nella visione di Balakrishna il brāhmaya è un servitore: la sua funzione è quella di parlare con Dio e per farlo egli usa le sue conoscenze, la sua formazione al rito e alle formule sanskrite (mantra). Solo colui che ha studiato può usarle poichè la loro agency risiede nel suono: una pronuncia sbagliata cioè non inficia solo il significato della parola ma anche la sua capacità di agire sul reale. Detto questo però è anche vero che “Dio conosce tutte le lingue”.
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Quest’affermazione è a mio parere particolarmente significativa poiché in essa si riassume uno dei caratteri fondamentali dell’Induismo: essa sentenzia cioè che il divino può essere raggiunto secondo modalità differenti, dipendenti dalla natura del devoto. In particolare Balakrishna si riferisce alla possibilità di comunicare col divino attraverso il cuore: il fedele può stabilire un contatto diretto con Dio, senza bisogno della sua mediazione, facendo la pūjā dentro di sè. Tale possibilità però non è data a tutti poiché necessita tanta bhakti (devozione).
In questo senso il brāhmaya offre i suoi servizi alla “gente
semplice”, che non ha il tempo e le capacità di pregare in solitario. Nelle parole di Balakrishna si inverte quella visione “classica” che fa del bhakti margā una via “democratica” al divino, in quanto potenzialmente accessibile a tutti: la via della pratica rituale è accessibile a chiunque poiché il brāhmaya mette i suoi servizi a disposizione della collettività, mentre il sentiero dell’amore risulta più difficile in quanto necessita una maggiore dedizione, difficile da ottenere nella frenesia del mondo moderno. Arriviamo qui all’ultima questione menzionata da Balakrishna: riferendosi ai fedeli egli parla di śānti, la pace della mente. Il fine delle loro visite al tempio sarebbe l’ottenimento di uno stato di soddisfazione e quiete interiore. In questo senso la pūjā è un atto finalizzato ad ottenere śānti. Questo è possibile perché la pūjā, in quanto preghiera, permette la focalizzazione della mente sul divino. Se essa venga fatta “con le mani” oppure “con il cuore” dipende dalle capacità e tendenze individuali ma in entrambi i casi la divinità, nella forma fisica della mūrti, si presenta agli occhi dei fedeli e attraverso il medium
visivo
stimola
dhārana,
la
concentrazione,
strumento
indispensabile
all’identificazione fedele-divinità. Se la vista è, in questa relazione col divino, il senso di riferimento, il fine dell’atto meditativo è trascendere la percezione stessa, annullando la distanza tra l’osservatore e l’oggetto osservato. In questo senso la pūjā è una complessa meditazione rituale attraverso cui la distanza tra umano e divino viene trascesa nella loro identità: Fundamental to puja is the ideal achievement of identity between deity and worshipper; it is inherent in the ritual’s sequential logic (…) this movement toward identity is worship’s most distinctively Hindu aspect and it must be given due significance in understanding the ritual. Through worship, an inferior, less powerful mortal here on earth potentially transcends the human condition to become one with a
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deity present in its image form (Fuller 1992: 82)
Nelle parole di Balakrishna sono quindi riassunte tre visioni complementari della pūjā,
le quali si costruiscono su ognuno dei soggetti che rientrano nella relazione tripartita
che ne è il fondamento: la divinità, il brāhmaya e i fedeli. Centrando l’attenzione sulla divinità la pūjā è un atto di adorazione; concentrandosi sul brāhmaya essa è un atto di comunicazione che mette in relazione umano e divino; nell’interiorità dei fedeli essa è una modalità di meditazione sul divino attraverso cui ottenere la pace della mente.
3.4 La pūjā al tempio di Murugan: tradizione e identità in pericolo Come si è accennato a inizio capitolo la performance della pūjā al tempio di Murugan
è particolarmente apprezzata dai partecipanti, i quali sottolineano il fatto che
essa è fatta nel rispetto della tradizione, da un brāhmaya qualificato e senza fini di lucro. La visione dei membri dell’Associazione è rispecchiata dalla visione che Balakrishna ha del suo ruolo: egli si vede principalmente come un servitore della comunità e vede il tempio come un luogo in cui vivere e trasmettere alle generazioni future la propria cultura. Le affermazioni dei fedeli e quelle del brāhmaya non comunicano però soltanto una valorizzazione del tempio e delle sue attività. Nelle loro parole è presente anche un profondo senso di pericolo e di disagio per la propria condizione esistenziale, la propria cultura e le generazioni future. Si confrontino ad esempio le parole di un membro dell’Associazione e quelle di Balakrishna: In Francia è difficile. Tutto è difficile. Ti faccio un esempio: quando esci dal tempio non è che puoi tenere questo [la vibhūti], te lo devi levare. Cioè io non lo levo, ma lo vedo come mi guarda la gente. Tutti ti guardano come per chiederti “ma cos’è?” E quindi è difficile, non puoi vivere come in Sri Lanka. I miei figli vanno a scuola e non è facile: perché loro non possono parlare coi loro compagni del tempio o di altre cose che facciamo noi tamil e allora a volte secondo me, diventano quello che non sono. [G. in Francia dal 1990, padre di due bambini di 10 e 12 anni]
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Eh, le prossime generazioni….è una buona domanda. Sarà molto difficile… è già difficile. Per questo gli fanno fare corsi di danza, musica, tamil perché se no…i ragazzi guardano un po’ da tutte le parti, non è che hanno una direzione. Ma è difficile perché loro amano la cultura degli altri, la cultura francese, la cultura americana, la cultura di tutti gli altri. E in Francia ci sono tutti, tutti sono immigrati qui, perché qui c’è ricchezza, ma poi le conseguenze quali sono? I genitori ci provano, ma non è facile, perché poi loro [i francesi] non ci permettono di fare quello che andrebbe fatto. Io voglio costruire un grande tempio! Per stabilire la nostra religione qui. Per la nostra gente, non per i francesi. Ecco cosa andrebbe fatto, ma loro non ce lo permetteranno, l’amministrazione francese non vuole altre religioni. Infatti i cartelli per le chiese ci sono, ma per i templi no…non puoi mica mettere indicazioni per un tempio hindū [Balakrishna].
Questi due estratti riassumono tante altre conversazioni simili ruotanti sui medesimi temi. Come tanti tamil srilankesi, i frequentatori del tempio di Murugan esprimono un forte senso di disagio per una condizione di vita in cui è difficile “rimanere sé stessi”. Il contesto francese, con i suoi disvalori e le sue regole laiche, frustra la possibilità di vivere appieno la propria cultura e la propria religione. Questa condizione di disagio, tipica delle comunità diasporiche, è aggravata da considerazioni sulla trasmissione generazionale. I figli della diaspora comincerebbero infatti a rivelare un pericoloso distaccamento dalle proprie radici, sostenuto dalla volontà di integrarsi alla cultura dominante. Il confronto con le chiese cristiane è significativo a questo riguardo poiché rivela l’idea di essere oggetto di un trattamento di sfavore: il tempio e la sua comunità reagiscono ad esso rinforzando il proprio attaccamento alle tradizioni. In questo senso il rituale, fatto con cura e attenzione da un brāhmaya esperto, diviene uno strumento attraverso cui affermare la propria “non-contaminazione” e un modo per fare del tempio un’isola di cultura tamil . Il confronto con gli altri templi rinforza questo sentimento di isolamento. Essi infatti sarebbero venuti meno alla loro funzione di protettori della religione e avrebbero fatto di essa un business:
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[avete legami con altri templi della regione parigina?] No, no! Non c’è nessun collegamento tra il nostro tempio e gli altri. Ti dico una ragione. Non mi piace dirlo ma voglio dirlo. Non mi piace dirlo ma voglio dirlo! Le persone, gli hindū costruiscono i templi. Perché? Per le entrate. Non è una cosa buona, non è bene. Si, per il denaro. E le entrate non vanno per il tempio, vanno fuori dal tempio. Vanno in Sri Lanka. E infatti prova, prova ad andare a La Chapelle a chiedere del tempio di Murugan. Ti diranno: “non lo so, non lo so”. Perché è una questione di soldi: c’è competizione, c’è gelosia. E loro li usano [i soldi] per combattersi l’uno con l’altro. Noi vogliamo denaro, si, non è che dico di no, ma il giusto per il tempio, non per business. Non è bene farlo per i soldi. Vogliamo proteggere la nostra religione non vendere la nostra religione.
In questo passaggio Balakrishna esprime la sua critica nei confronti degli altri templi hindū: essi infatti utilizzerebbero il denaro raccolto attraverso le loro attività religiose per fare del business o per finanziare attività extra-religiose in Sri Lanka. È per questo che tra i templi di Parigi non c’è collaborazione, perché ognuno cerca di conquistare più pubblico e quindi entrate possibili. Nessun tempio in particolare viene menzionato “perché non è bene parlare male degli altri”. Nonostante quindi tante cose restino implice, è chiaro che egli considera il proprio tempio, per purezza d’intenti e per qualità rituale, come l’unico vero tempio di Parigi, poiché è l’unico dove la religione è veramente protetta. Il tempio di Murugan è quindi agli occhi dei suoi frequentatori, dei membri dell’Associazione e del suo brāhmaya un baluardo attraverso cui combattere la grande sfida che la condizione diasporica pone alla conservazione della propria identità. Il confronto con altre zone della diaspora tamil srilankese è costante: in particolare la nascita di un grande tempio ad Hamm in Germania è oggetto di ammirazione, ma anche fonte di grandi frustrazioni poiché “qui non ci permetteranno mai di fare una cosa del genere”. Il sogno rimane vivido nella mente, ma in questa battaglia i nemici da affrontare sono due: la società francese da un lato, con le sue regole e i suoi valori “contaminanti”, e quella porzione degenerata della comunità per cui la religione non è altro che business. La lotta si prevede quindi dura ma la speranza è forte poiché è sul tempio che si basa il futuro delle prossime generazioni: “alle generazioni future insegneremo la religione attraverso il
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tempio”.
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Capitolo IV IL SRI MANICKA VINAYAKAR ALAYAM
4.1 La fondazione del tempio A Parigi il tempio hindū più conosciuto al di fuori della comunità tamil srilankese è il tempio di Gayeśa. La sua fama si deve soprattutto alla processione11 annuale che organizza da ormai 12 anni in occasione del Gayeśa Caturthī (ribattezzata ‘fête de Ganesh’), ma anche ad una precisa politica di comunicazione del religioso portata avanti dal suo fondatore, il signor Sanderasekaram. Il Sri Manicka Vinayakar Alayam non è il più antico tempio hindū di Parigi12, ma sicuramente il primo ad essere stato fondato da un membro della comunità tamil srilankese. Il signor Sanderasekaram è arrivato in Europa nel 1975, per condurre i suoi studi di ingegneria a Londra. Come il fondatore del Sri Ayyappan Temple (di cui si tratterà nel capitolo VI) anch’egli proviene dall’elite tamil di Jaffna e fa parte della casta dominante, i Vellala. Il suo arrivo in Europa è da ricondursi ad una pratica comune tra i figli delle ricche famiglie tamil in Sri Lanka, il completamento della propria formazione universitaria all’estero: Les étudiants sri-lankais qui en avaient les moyens ont toujours fait en sorte de compléter leur formation à Londres (…) Les tamouls sri-lankais, qui avaient profité du développement particulier de l’enseignement dans leurs régions par la colonisation anglaise, ont récouru à cette émigration (Robuchon 1995: 21).
Egli fa parte forse dell’ultima generazione partita dallo Sri Lanka in un’ottica di “émigration de prestige” (Robuchon 1995: 24) e per cui emigrare era una scelta e non un modo di sopravvivere al conflitto. 11
Baumann (2001c: 4) nota a proposito della comunità tamil srilankese in Germania che “a move into the public and a growing recognition by the neighbourhood and local authorities occured as temple started to carry out procession during their annual temple festivals”. 12 Pare che il primo tempio hindū sia stato fondato dalla ISKON, più precisamente da un francese induista membro dell’Organizzazione per la Coscienza di Krsya.
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Il signor Sanderasekaram mi ha raccontato le motivazioni che lo hanno indotto a fondare il tempio in più di un’occasione, a distanza di qualche tempo l’una dall’altra: in cerca di maggiori dettagli sulla questione ho tentato infatti di affrontare l’argomento molte volte. In ogni occasione egli mi ha riproposto, seguendo il medesimo schema narrativo, una storia sempre identica, in cui nessun nuovo particolare veniva ad arricchire o contraddire il quadro precedentemente fornito. Navigando su internet13 alla ricerca di informazioni sui templi hindū di Parigi, sono poi capitata su alcuni siti contenenti dei riferimenti al tempio di Gayeśa. La storia della sua fondazione, i problemi con le autorità, la forza e il coraggio del suo fondatore, vengono narrati ovunque allo stesso modo, come fosse la versione ormai convalidata di una storia che si è raccontata centinaia di volte, una storia in cui i particolari e la cronaca si sfuocano per far posto a personaggi quasi mitici, a tradizioni tramandate, a miracoli. Sanderasekaram giunge a Parigi nel 1983, una volta conclusi i suoi studi a Londra. Non trovando alcun luogo di culto hindū decide di continuare la tradizione di famiglia fondando, due anni dopo, un tempio dedicato a Gayeśa. Il Sri Manicka Vinayakar Alayam sarebbe il quinto tempio a Vināyaka14 che viene fondato dalla sua famiglia, tra cui se ne annoverano uno a Melbourne, di cui è fondatore un nipote e uno a Londra, fondato dal fratello di Sanderasekaram. Inizialmente il tempio viene allestito in un piccolo locale in rue Oberkampf, nell’XI° arrondissement: la mūrti di Gayeśa che ancora oggi occupa la posizione centrale al Sri Manicka Vinayakar Alayam fu la prima ad essere installata. In questa piccola sala i primissimi membri della comunità tamil srilankese, prevalentemente giovani maschi, trovavano finalmente un luogo appropriato in cui praticare la propria religione. Fino a quel momento infatti il culto era praticato in sale temporanee, nelle chiese cristiane e, naturalmente, a casa. Questa fase transitoria, in cui non esisteva ancora un vero e proprio luogo di culto hindū,
è documentata, per la Francia, da un unico, brevissimo saggio (Robuchon 1993).
Mi rifarò quindi ad esso in questa breve descrizione della religiosità dei primi tamil 13
Si vedano ad esempio: www.hinduismtoday.com o www.india-forum.com. ‘Colui che asporta, che rimuove’ e dunque ‘rimovitore di ostacoli’, poiché ottenne da Brahmā la facoltà di abbattere gli ostacoli che si presentavano sul cammino degli uomini (Stutley 1980). 14
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srilankesi giunti in Francia. Essa riveste qui una particolare importanza, poiché l’evoluzione nell’espressione della vita religiosa della comunità, di cui il Sri Manicka Vinayakar Alayam rappresenta a mio parere l’esempio più completo, parte proprio da qui: tale processo si delinea come “a development away from initial invisibility towards a public demonstration of hindu beliefs and practices” (Luchesi 2004: 123). I primi rifugiati tamil che, respinti alle frontiere inglesi, cominciarono ad arrivare in Francia a partire dalla fine degli anni ’70, trovarono in gran numero lavoro come domestici presso famiglie dell’alta borghesia parigina: nelle chambre de bonne in cui alloggiavano poterono finalmente tirar fuori e appendere al muro l’immagine sacra che ciascuno di loro aveva portato con sé durante il viaggio, condotto spesso via terra, verso l’Europa. L’incenso fu il primo strumento di preghiera ritrovato in questa terra in cui ci si trovava per forza, infranto il sogno di giungere in Gran Bretagna. Poco per volta nelle camere, spesso sovraffollate, in cui i primi uomini alloggiavano tra connazionali, venne ricreato uno spazio per le divinità: su una piccola mensola le vecchie immagini, ormai consunte, trovavano dimora accanto alle nuove, inviate per posta dalla famiglia in Sri Lanka assieme a un po’ di vibhūti e un filo sacro. Come si sa, la storia dei flussi migratori dallo Sri Lanka ha seguito e segue tuttora quella della guerra civile. Il primo grande esodo di massa ha fatto seguito agli eventi del 1983 (pogrom anti-tamil): con esso si sono cominciati a delineare in Francia quadri di ricongiungimento familiare, con l’arrivo delle prime donne e bambini . La formazione di nuclei familiari ha reso necessarie modificazioni residenziali e lavorative, ma non solo: anche le necessità religiose sono cambiate. Le variabili di questo cambiamento sono principalmente due: i soggetti interessati (uomini in un primo tempo, altri membri della famiglia successivamente) e le pratiche da compiere (necessitanti o meno specialisti del religioso: nascite, matrimoni, cerimonie di pubertà, anch’esse legate a particolari soggetti o gruppi di soggetti). Nuove necessità si sono tradotte in qualche tempo in nuove espressioni della vita religiosa: alle mensole ospitanti gli dei (che si erano in alcuni casi trasformate in vere e proprie pūjā rooms) si sono presto affiancate sale di culto affittate all’occasione di eventi di particolare importanza. L’estensione della comunità e delle sue possibilità finanziarie congiuntamente alla perdita, col perdurare del conflitto, della speranza di tornare in Sri
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Lanka (Baumann 2000, Luchesi 2004) hanno stimolato poi la creazione di luoghi di culto permanenti: il Sri Manicka Vinayakar Alayam fondato nel 1985, nel momento in cui l’arrivo di tamil dallo Sri Lanka cominciava a rivelare drammaticamente la sua portata, è il primo esempio di questo processo. La locazione attuale del tempio risale al 1990: in seguito ad una lunga ricerca, affidata ad un’agenzia immobiliare, il tempio si trasferisce infatti dalla rue Oberkampf al limite nord del quartier tamil di Parigi, il quale stava prendendo forma proprio in quegli anni. La sala, che ospitava precedentemente una falegnameria, pare abbia necessitato molti lavori di ristrutturazione prima di poter essere utilizzata, la spesa dei quali è stata sostenuta interamente da Sanderasekaram. Il presidente descrive la fondazione del tempio come una battaglia, innanzitutto con le autorità francesi: È stata dura con le autorità francesi, una vera battaglia! E ancora oggi ci sono tante limitazioni. La sensazione è che non vogliano che altre religioni prosperino in questo paese. E poi, perché? Non capisco il perché. Non siamo mica una setta. L’Induismo è una religione millenaria, con una grande tradizione, i francesi dovrebbero saperlo. E non facciamo niente di male qui, siamo aperti a tutti, chiunque può venire qui e pregare, noi non chiediamo niente in cambio. Infatti ci sono molti francesi e anche arabi e africani che vengono qui. Noi non chiediamo mica la religione, il nome e il numero di telefono. Tu vieni, preghi e poi…Goodbye!
L’attitudine delle autorità francesi non solo ha fatto della fondazione del tempio un’opera coraggiosa, ma viene interpretata da Sanderasekaram come volta espressamente a limitare la possibile diffusione di religioni altre. Come per i fondatori del tempio di Murugan, la sensazione di vedere la propria religione, e quindi la propria cultura, sminuita attraverso la limitazione delle possibilità di espressione pubblica della stessa, permea tutto il suo parlare. Come si vedrà, sono collegabili a tale sensazione l’attuale gestione del tempio, il lavoro portato avanti dal presidente nello svilupparne la visibilità e, in generale, le relazioni con la società francese. Tutto ciò è a mio parere volto a contrastare il “trattamento di sfavore” cui sarebbe
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soggetto l’Induismo in Francia e la costruzione di una precisa immagine del tempio ne sarebbe lo strumento: come cercherò di mostrare, infatti, il tempio e le sue attività sono costruite interamente attorno ad una particolare politica di “marketing religioso” volta ad estendere il più possibile, ben oltre i confini della comunità tamil srilankese, il pubblico che lo frequenta o lo conosce. La medesima paura ha portato quindi nei due templi a reazioni molto diverse: attaccamento alla tradizione da un lato e “mercificazione” dell’Induismo dall’altro. La ricerca costante di visibilità, inoltre, contrasta con l’attitudine prevalente negli altri templi, in cui essa o non viene cercata o viene coscientemente evitata. È su questa specificità che mi concentrerò nella trattazione del Sri Manicka Vinayakar Alayam: essa verrà indagata attraverso un’analisi dell’accoglienza al tempio, del sito internet ad esso dedicato e dei festeggiamenti per il Gayeśa Caturthī cui ho partecipato nel settembre 2007.
4.2 Il tempio: accoglienza, pubblico ideale e frequentazione effettiva Il tempio Sri Manicka Vinayakar Alayam si trova al 72, rue Philippe de Girard, nel XVIII° arrondissement, poco lontano dalla fermata ‘La Chapelle’. L’ingresso del tempio è indicato da una piccola insegna riportante la dicitura ‘Temple Ganesh’. Tramite un portone si accede ad un cortile piuttosto vasto: esso viene utilizzato soprattutto in occasione della processione, ma anche ogni venerdì, sabato e domenica, quando un pasto collettivo viene offerto dopo la pūjā. Dal cortile si accede al tempio vero e proprio: varcato l’ingresso, ci si ritrova in un corridoio di 5 o 6 metri occupato, su un lato, da un lavabo, una superficie di appoggio in metallo e una specie di “reception”. Una persona è sempre seduta alla piccola scrivania che la compone, per dirigere o informare i nuovi venuti, distribuire volantini, brochure o fotocopie degli ultimi articoli della stampa francese in cui si parla del tempio o della ‘fête de Ganesh’, o ancora per vendere i biglietti che danno diritto alla pūjā individuale. Spesso vi si trova il fondatore del tempio, altre volte vi saranno i suoi aiutanti, tra cui uno dei suoi cognati (un double migrant tamil proveniente dalla Malaysia ) che lo aiuta da quando è in
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pensione15. Durante le cerimonie più importanti il piccolo corridoio è stracolmo di gente: questo perché la sala su cui sbocca può ospitare al massimo una quarantina di persone. Il tempio vero e proprio, infatti, è di ridottissime dimensioni: si tratta di una sala rettangolare di circa trenta metri quadri; le mūrti, numerosissime, sono ammassate in una metà della sala, nella quale sono presenti anche gli strumenti rituali (conservati in un vecchio armadio a vetrina), un grosso tavolo in metallo e un’urna per le offerte. Tra le divinità rappresentate troviamo Laksmī, Śiva (Natarāja ossia ‘danzante’ e nella forma del Linga), Murugan
accompagnato dalle sue due spose, Durgā, Visyu disteso sul serpente
cosmico dalle mille teste Ananta, Hanumān, i 9 pianeti. La divinità principale è naturalmente Gayeśa, di cui il tempio possiede due mūrti, una fissa, posta al centro delle altre, e una mobile (un Gayeśa a cinque teste) utilizzata durante lo yātrā, la processione. La struttura della sala fa sì che il visitatore sia costretto a passare davanti alla “reception” per accedere al tempio propriamente detto. L’accoglienza del pubblico, in particolare di coloro con fattezze “non indiane”, è oggetto di un’attenzione particolare: come si diceva, una persona è presente all’ingresso per invitare i nuovi venuti a farsi avanti e fornire spiegazioni sulle attività del tempio, a cui segue sempre la consegna di brochure, calendari delle maggiori festività, e fotocopie di articoli della stampa francese. È stato molto interessante notare come il pubblico “occidentale” venga invitato a partecipare alle cerimonie attraverso una pubblicità mirata, in cui l’Induismo e le sue pratiche vengono spiegati tramite formule non solo semplificate, ma che rivelano un ché di esotico. Ricordo di aver ad esempio assistito ad una conversazione del presidente con due donne francesi, per la prima volta in visita al tempio, poco prima della festa di Dīpāvali
(Divālī): egli le invitava a ritornare il giovedì successivo (7 novembre) per
assistere all’interessante festa delle donne hindū. Se lo desideravano, avrebbero anche potuto compiere (proprio come le donne hindū) i rituali ad esse propizi, sotto la guida dei suoi esperti brāhmayi. Questo esempio mi pare particolarmente interessante poiché rivela un’elaborazione della propria cultura fatta a fini precisi, quelli cioè di attirare un pubblico specifico: interpretando la maggior parte delle visite di uomini e donne occidentali come “la ricerca di un mondo esotico a due passi da casa” ed essendo interessato alla presenza 15
Fino a qualche anno fa il tempio era co-gestito, a quanto sembra molto attivamente e secondo alcuni “con maggior devozione”, dalla sorella del fondatore. Alla sua morte, il marito è subentrato in aiuto del cognato, pur non assumendo un ruolo di grande importanza.
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di tale pubblico nel proprio tempio, ha fornito della festa di Dīpāvali quella che riteneva la migliore rilettura possibile. L’interesse di Sanderasekaram per un allargamento del pubblico è immediatamente visibile. Io stessa ho sperimentato durante la frequentazione del tempio un cambiamento di atteggiamento nei miei confronti, funzionale ad una mia presunta capacità di contribuire a questo scopo. Inizialmente mi recavo al tempio da sola e, in maniera molto discreta (erano i primi passi della ricerca sul campo) partecipavo alla pūjā, scambiavo quattro chiacchiere quando possibile e ponevo qualche domanda molto generale sul tempio e le sue attività al presidente o ai suoi aiutanti. Escludendo la prima visita, in cui avevo approfittato anch’io dell’accoglienza “speciale” di cui parlavo poc’anzi, l’atteggiamento del fondatore nei miei confronti era sempre piuttosto freddo, diciamo di indifferenza. Una mattina di fine ottobre, contravvenendo alle mie abitudini, mi sono recata al tempio in compagnia, portando inoltre con me un cd contenente alcune foto che avevo scattato durante la ‘fête de Ganesh’, da regalare a Sanderasekaram. Da quel giorno la sua attitudine nei miei confronti è cambiata notevolmente, passando dall’indifferenza a una notevole disponibilità. Appena giunta al tempio avevo consegnato immediatamente il cd al signor Sanderasekaram, il quale lo aveva accettato con entusiasmo: pensavo quindi che il cambiamento fosse una conseguenza di quel gesto, che provava un interesse particolare da parte mia. Ho capito che non si trattava di quello solo alla fine della visita quando, accomiatandosi, mi ha detto “e porti altri amici la prossima volta!”: la nuova attitudine, forse, dipendeva quindi più dalla potenziale porta verso un nuovo pubblico (giovani e studenti universitari francesi ed europei) che venivo a rappresentare ai suoi occhi, piuttosto che a presunte espressioni di interesse per la sua religione. Questo “fattore pubblico” permea non solo l’agire di Sanderasekaram, ma anche il suo parlare. Egli ha spesso approfittato delle nostre conversazioni per sottolineare quanto fosse variegata la frequentazione del tempio, e dimostrare attraverso di essa la sua apertura: al Sri Manicka Vinayakar Alayam infatti non ci sono “limitazioni di alcun tipo, etnico, linguistico o religioso” e “l’entrée du Temple est entièrment libre”, come si legge su una delle brochure distribuite al tempio. Il fatto che i tre brāhmayi che officiano il culto parlino quasi esclusivamente tamil,
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non costituirebbe in questo caso un limite. Ciò che conta infatti è la “qualità” del luogo e dei riti che vi si svolgono16: è da questo che dipenderebbe la fama internazionale del tempio. Sanderasekaran mi ha spesso citato una lunga serie di “prove”: visite speciali, gruppi che vengono dagli USA, personalità importanti che, di passaggio a Parigi, non mancano mai di passare al tempio, anche solo per qualche minuto; donne e uomini che sono disposti a pagare alte somme per una pūjā o che, sebbene di altre religioni, vengono a pregare e meditare al tempio, luogo santo. Se questa varietà nella provenienza, lingua e religione del pubblico può essere vera per quanto riguarda il Gayeśa Caturthī, nelle mie visite al tempio ho notato un grosso scarto tra l’immagine che fornisce il fondatore e la realtà delle persone che lo frequentano: si tratta di hindū (come prevedibile), in forte maggioranza tamil dello Sri Lanka, qualche famiglia di tamil dell’India e tre francesi convertiti all’Induismo. Naturalmente mi è capitato di conoscere anche hindū della Réunion, della Martinica e dell’Ile Maurice e anche qualche “turista” francese, ma queste visite sono rare e si concentrano soprattutto in occasione delle festività maggiori. Nonostante questo scarto, è pur sempre vero che il tempio di Gayeśa si distingue dagli altri per la varietà del suo pubblico e per la sua politica comunicativa e relazionale, la quale si traduce in un’attitudine favorevole al dialogo interreligioso: solo per fare un esempio, l’associazione del tempio fa parte in qualità di partner esterno del collettivo Morts de la rue17, il quale si occupa di assicurare un funerale degno a tutti i senza tetto che muoiono nella regione Ile-de-France. È in oltre l’unico tempio riportato nel sito della Mairie de Paris, dove lo ritroviamo nella categoria delle associazioni socio-culturali.
4.3 Il sito internet del tempio: una politica di comunicazione mirata 16
Tale successo internazionale dipende, secondo Sanderasekaran, dall’eccellente formazione dei brāmani. Essi vengono reclutati in Tamil Nadu, tramite annunci informali e attraverso una rete di conoscenze consolidata nei decenni. Tale pratica non è estranea ad altri templi fondati dai figli della diaspora tamil nel mondo e sicuramente è una pratica comune per i membri della famiglia Sanderasekaram. Egli stesso si reca in India ogni anno al fine di selezionare personalmente il proprio “personale”. Grande rilievo è dato alla preparazione (dalla quale dipende la buona esecuzione, e quindi l’efficacia, del rito) e alla serietà sul lavoro. I brāmani possono anche essere licenziati, se non si comportano adeguatamente alle loro funzioni, come è accaduto qualche hanno fa, quando uno di essi è stato rimandato in India in quanto troppo pigro (“dormiva tutto il giorno”, secondo un informatore). Essi vengono assunti per due o tre anni, ricevono uno stipendio mensile e alloggiano in un locale adiacente al tempio. 17 www.mortsderue.org
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Il tempio di Gayeśa è l’unico, nella regione parigina, ad avere aperto uno spazio su internet, all’indirizzo www.templeganesh.fr . Il sito si presenta nella pagina iniziale e nella sua interezza in francese. È questo un dato da non sottovalutare, se si considera il fatto che al tempio di Gayeśa, come in tutti i templi fondati e frequentati dalla comunità tamil srilankese a Parigi, tutto, dalle informazioni agli orari della pūjā, è scritto in tamil. In alcuni casi gli stessi responsabili del tempio non parlano francese. Dalla home page del sito si può accedere a versioni molto ridotte dello stesso in inglese, tedesco e tamil. La versione inglese si presenta nella struttura come identica a quella francese. Tuttavia i link realmente tradotti sono solo quelli riguardanti il ‘chariot festival’, l’accesso al tempio, i servizi rituali offerti (pūjā e cerimonie domestiche) e il miracolo del 23 settembre 199518 , il quale è ampiamente pubblicizzato. In tedesco sono invece riportate alcune informazioni sulla fondazione del tempio, le cerimonie e la processione, cui viene dedicata una lunga descrizione accompagnata da immagini. Il link ‘tamoul’ è quasi insignificante, conducendo solamente ad una pagina con due immagini della ‘fête de Ganesh’ accompagnate da piccole didascalie. Si può quindi dedurre che il sito sia stato pensato per un pubblico prevalentemente francese e internazionale: la processione di Gayeśa viene in particolare pubblicizzata come un evento che riunisce ogni anno fedeli da tutta Europa, in un’atmosfera di cordialità e convivialità interculturale. Nella versione inglese si legge: All are welcome to participate in this happy event, thus fostering and creating an atmosphere of cordiality and friendship among the various communities.
Il sito francese, oltre a proporre tutto ciò, si presenta anche come un compendio della vita del tempio e dell’Induismo in generale. Per quanto riguarda le attività del tempio, viene fornito il calendario completo delle feste hindū per le quali si organizzano celebrazioni speciali: di quelle più importanti (tra cui Navarātri, Dīpāvali, Mahā Śivarātrī, Thai Pongal
e il Gayeśa Caturthī) si descrivono le origini, i miti correlati, il significato, la
loro diffusione nel mondo, i rituali condotti al tempio e i loro benefici. Vengono 18
Di esso si parlerà più ampiamente all’inizio del paragrafo successivo.
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ovviamente fornite anche informazioni precise sugli orari di apertura del tempio e della pūjā
che si svolge tre volte al giorno. Il Sri Manicka Vinayakar Alayam offre anche
servizi personalizzati al tempio, come rituali di matrimonio o altri saxskāra (il termine non è usato nel sito), benedizioni, homam e pūjā finalizzate, e servizi a domicilio. A tale riguardo vengono specificati l’ottima qualificazione dei brāhmayi e, naturalmente, i benefici dei rituali: Le Temple de Ganesha à Paris organise des services religieux traditionnels à domicile faits en langue Sanskrite par des prêtres indiens qualifiés et compétents. L'hindouisme connaît les secrets qui unissent les actions de l'Homme, la nature et les dieux. Les cérémonies védiques puissantes et efficaces sont les clés qui vous apporteront l'aide et la bénédiction des divinités pour le bien-être et l'équilibre de tous. [grassetto nel testo]
Tra le attività extra-religiose dell’associazione sono invece oggetto d’attenzione gli aiuti umanitari nello Sri Lanka colpito dallo tsunami e la partecipazione ad una cerimonia organizzata nel dicembre 2005 dall’ambasciata dello Sri Lanka in onore delle vittime18 (accessibili dal link ‘tsunami’); la mostra fotografica organizzata nel 2006 sul tema della ‘fête de Ganesh’, l’incontro tra Sanderasekaram e David Lynch e la partecipazione ad un evento culturale organizzato da un’associazione di danza bollywood di Lille sono invece raggruppati sotto la categoria ‘Évenements speciaux’. Quest’ultimo gruppo eterogeneo di eventi rappresentano da un lato la volontà di mostrarsi aperti ad iniziative anche culturali e dall’altro sottolineano la centralità di Sanderasekaram, presente in molte delle foto. Come si diceva, il sito offre anche un compendio dell’Induismo. Esso è esplorato secondo modalità diverse: da un lato attraverso una descrizione di stampo storicofilosofico dei Veda, della Bhagavad-Gītā, dei Purāya e dei testi agamici; dall’altro tramite un glossario che riunisce termini religiosi e rituali, divinità e sillabe sacre. Ovviamente uno spazio particolare è riservato al dio Gayeśa: ne vengono raccontati i miti, descritti gli attributi, motivata l’importanza; la descrizione di una pūjā domestica in suo onore è scaricabile dal sito e una galleria fotografica gli è interamente dedicata. Per quanto riguarda la ‘fête de Ganesh’ la presentazione è prevalentemente per 18
Come si noterà più avanti la partecipazione a questo evento si inscrive in una politica di dissociazione dalla lotta armata del movimento indipendentista delle Tigri tamil (LTTE).
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immagini: piccole didascalie accompagnano foto del percorso (il quale è indicato da una cartina) e una galleria di foto della processione è disponibile per ogni anno a partire dal 2000. Il sito contiene anche una boutique on line (in cui si propongono oggetti sacri e il dvd della processione) e una lista delle testate francesi e internazionali in cui sono comparsi articoli sul tempio, la maggior parte dei quali, naturalmente, si concentra sulla ‘fête de Ganesh’ : leggerli è un interessante modo di indagare l’immagine che la stampa francese ha dell’Induismo (e quindi farsi un’idea dell’immagine che giunge al cittadino medio)19 e di prendere coscienza di quanto, effettivamente, la realtà dei templi hindū di Parigi sia misconosciuta. Il sito si presenta quindi, a mio parere molto chiaramente, come diretto ad un pubblico occidentale medio, francese innanzitutto, al quale si spiega, semplificandolo, l’universo de “l'Hindouisme, génie intellectuel et spirituel de l'Inde”, le sue pratiche e i benefici che chiunque può trarne. Il lato esotico e festoso è assicurato dalla ‘fête de Ganesh’, ad occasione della quale il tempio distribuisce migliaia di brochure nelle quali si legge: Les rues sont lavées à l’eau de rose additionnée de safran. Les chars de Ganesh et de Murugan sont tirés par des fidèles piès nus. Les hommes portent le vesti, long pagne blanc, les femmes le sari, longue pièce de tissu coloré. Les musiciens et les porteurs de cavadis ouvrent le cortège, suivis par des femmes portant des offrandes de camphre enflammé. Tout au long du parcours sont disposés des tas de noix de coco que l’on brise lorque les chars arrivent à leur hauteur. Les commerçants offrent des boissons et des repas aux partecipants.
Acqua di rosa, fedeli scalzi, donne vestite di sari colorati, echi di musica orientale, sentori di canfora bruciata e migliaia di noci di cocco spaccate al passaggio di carri riccamente decorati: un perfetto quadro esotico, ma a due passi da casa. Dall’analisi del sito come delle brochure distribuite al tempio si possono estrapolare tre elementi principali, caratterizzanti l’immagine del tempio comunicata attraverso di 19
Essendo uno dei pochi rappresentanti dell’Induismo in Francia ad essere intervistato dai media (poiché spesso il suo è l’unico tempio conosciuto) sarebbe interessante chiedersi in che misura egli sia, attraverso le dichiarazioni che rilascia, responsabile di tale immagine.
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essi: •
Il tempio è aperto a tutti ed offre un ambiente simpatico e conviviale, come si legge su una brochure: “accueil sympathique garanti”. D’altronde “de nombreux visiteurs sont accueillis toute l’année: groupes scolaires, étudiants, chercheurs”.
•
Il tempio è il luogo per eccellenza in cui è possibile conoscere l’Induismo, religione millenaria che mette l’uomo in contatto col divino.
•
Chiunque può trarre beneficio dai rituali hindū condotti al tempio o a domicilio, poiché essi sono praticati “exactement de la même manière qu’en Inde” da brāhmayi originari
dell’India del Sud.
Il tempio si pone quindi come porta di accesso ad un mondo di spiritualità, benessere, comunione col divino che rispecchia, a mio parere, un’immagine esotica e un po “new-age” dell’India. Tale immagine è costruita in base alle aspettative di gradimento del pubblico che si vuole conquistare e non dipende da una reale volontà di condivisione: l’Induismo, cosi come le attività del tempio, non vengono rappresentate in modo da essere più facilmente comprensibili, ma in modo da risultare più attiranti20. La politica di comunicazione del religioso portata avanti dal tempio è volta a diffondere un’immagine rassicurante, basata su una retorica le cui parole chiave sono apertura e accessibilità. In un certo senso l’Induismo viene reso “commerciabile”: la creazione di un’opininone pubblica positivamente disposta è in quest’ottica il primo passo verso un’estensione delle attività del tempio e lo sviluppo della religione hindū in Francia. Il paragrafo successivo completerà il quadro attraverso una trattazione approfondita della processione in onore di Gayeśa
e della sua storia.
4.4 La ‘fête de Ganesh’ La mattina del 23 settembre 1995 nei piccoli locali del Sri Manicka Vinayakar Alayam avviene qualcosa di inatteso e di meraviglioso: Gayeśa, nella forma di una piccola mūrti, comincia a bere il latte che gli viene offerto. La notizia del miracolo si 20
Questo non toglie che molte delle informazioni contenute nel sito, come ad esempio quelle del glossario, siano effettivamente interessanti e utili alla comprensione.
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diffonde rapidamente all’interno della comunità tamil e tra gli altri hindū di Parigi, e in poche ore il tempio si riempie di devoti e visitatori desiderosi di constatarne la veridicità con i propri occhi. Ma il miracolo non è isolato: in altre città del mondo, in India come in molti dei paesi raggiunti dalla diaspora hindū, Gayeśa manifesta la sua presenza nel medesimo modo, accettando cucchiaio dopo cucchiaio il latte che folle di fedeli gli offrono. Il miracolo, in quanto segno, viene interpretato in modi diversi. Per alcuni è un modo per consolidare la fede negli uomini: intervenendo e sconvolgendo le regole “naturali”, Dio riafferma la propria esistenza, rinforzando la sua presenza nel cuore degli uomini. Per altri la manifestazione divina sta ad indicare la fine dell’attuale era di degenerazione -il Kali Yuga- e l’inizio di un nuovo ciclo cosmico, come si legge nel sito del tempio di Gayeśa di Parigi: Cette manifestation annonce la fin d'un cycle (plusieurs milliers d'années), et l'entrée dans une ère nouvelle inscrite dans les écritures sacrées du Véda [grassetto e sottolineato nel testo].
Il miracolo suscita, proprio per la sua diffusione “throughout the Hindu global village” (Davis 1998: 2), una grande attenzione della stampa indiana e mondiale. Anche in Francia l’evento è oggetto di servizi televisivi e articoli di giornale, attraverso i quali, per la prima volta, il tempio di Gayeśa assume una visibilità extra-comunitaria. Esso rappresenta anche l’inizio della storia del défilé che organizza ogni anno il tempio: il miracolo, infatti, avviene proprio in concomitanza del Gayeśa Caturthī, il “compleanno” del dio Gayeśa, durante il quale in India e in molte parti del mondo vengono organizzate delle processioni in suo onore. A partire dall’anno seguente quindi il tempio decide di riprendere quest’importantissima pratica devozionale e organizza una processione per le strade del quartiere de La Chapelle. Ho assistito alla processione solo una volta, nel settembre del 2007: il percorso compiuto pare sia sempre lo stesso da diversi anni (Dequirez 2002), se si esclude il biennio 19992000 in cui il tempio non ha ottenuto dal sindaco Tony Dreyfus l’autorizzazione al passaggio in rue du Faubourg Saint Denis, via che rappresenta l’asse centrale attorno a cui
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si costruisce “la piccola Jaffna” di Parigi. Come si può vedere dalla cartina qui a fianco (versione “ritoccata” di quella che si trova sul sito del tempio), il percorso della processione attraversa, percorrendone in parte i limiti esterni, quest’area “etnicizzata” della città (evidenziata in rosso). Il punto di partenza è il tempio di Gayeśa (indicato con la lettera ‘G’) e le frecce indicano il percorso del défilé. Con la lettera ‘M’ si indica invece il Fig. 3 - Il percorso della processione
tempio di Mutthumariamman. La scelta del percorso naturalmente non è casuale né priva di conseguenze a livello di affermazione identitaria e appropriazione dello spazio pubblico, come si spiegherà in seguito. La preparazione della processione richiede diversi mesi e il contributo di centinaia di persone. Il presidente del tempio di Gayeśa è naturalmente colui che si occupa di dirigere l’organizzazione dell’evento, il quale raccoglie però la partecipazione della comunità hindū nel suo complesso: ad essa partecipano srilankesi, indiani, hindū della Guadalupe, della Martinica, della Réunion, e anche un francese convertito all’Induismo, che frequenta attivamente il tempio da una decina d’anni. A questo riguardo, è interessante notare il fatto che nessuno degli altri templi presenti sul territorio parigino collabora all’evento, da nessun punto di vista: per quanto ho potuto vedere e a quanto ho sentito, i loro responsabili-presidenti non vi partecipano neanche in qualità di devoti. In più di un’occasione, anzi, essi hanno manifestato il loro risentimento nei confronti delle autorità francesi, le quali hanno concesso l’autorizzazione alla processione solo al tempio di Gayeśa e a nessun altro. Ogni tempio in Sri Lanka fa, una volta l’anno, una grande processione. È molto importante per noi, ma al comune non ci danno l’autorizzazione. Solo a La Chapelle la fanno, sai il tempio di Gayeśa, loro hanno avuto l’autorizzazione perché sono stati i primi a chiederlo. E noi invece siamo costretti a farlo qui dentro. Capisci? Noi lo facciamo lo stesso, ma non è la stessa cosa. [Il brāhmaya del Sivan-Parvathi Temple]
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Tale differenza di trattamento è fonte di gelosie e fomenta le critiche contro il tempio. Nonostante l’avversione dei responsabili degli altri templi, non si notano però atteggiamenti “faziosi” né tra coloro che partecipano alla processione in qualità di spettatori, né tra coloro che vi prendono parte attivamente o che contribuiscono alla sua preparazione: ho conosciuto molte persone che, pur non frequentando abitualmente il tempio durante l’anno, partecipano con entusiasmo alla processione in onore dell’amatissimo dio Gayeśa. Esso è un evento unico ed eccezionale, a cui nessun hindū, praticante o meno, può mancare. A.,
per
esempio,
frequenta
con
assiduità
quasi
quotidiana
il
tempio
dell’Associazione Dharma Sangh (di cui il presente studio non si occupa in quanto guidato da un brāhmaya di Benares e frequentato dalla ristretta comunità di hindū provenienti dal Nord India), non ha alcun legame con la comunità tamil srilankese, né frequenta gli altri templi hindū di Parigi, di cui in molti casi non conosce nemmeno l’esistenza. Nonostante questo da ormai quattro anni partecipa alla processione di Gayeśa, con un ruolo di primo piano, essendo tra coloro che tirano il suo carro. G. invece partecipa da sei anni alla
‘fête
de
Ganesh’
finanziando l’acquisto di uno dei tanti cumuli di noci di cocco che punteggiano il percorso della processione e di cui qua a fianco si può vedere la preparazione (vengono cosparse di pasta di sandalo Fig. 4 - Uno dei cumuli di noci di cocco
diluita).
A
parte
quest’occasione tuttavia egli non
frequenta il Sri Manicka Vinayakar Alayam. Piuttosto, essendo un grande devoto di Ayyappan, si reca settimanalmente con tutta la sua famiglia al tempio de La Courneuve e ogni anno parte per il Kerala con Guruswāmī. Il suo rapporto privilegiato con questo tempio, in cui ha anche un ruolo di una certa importanza, non gli impedisce di prendere parte all’unico grande evento pubblico della comunità nel suo complesso:
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È un’occasione unica. Siamo in Francia ma per una giornata è come essere in Sri Lanka. Le mie figlie sono ancora troppo piccole, hai visto le porto solo al tempio, ma tra qualche anno farò venire anche loro.(…) È una grande festa e io contribuisco come posso.
La festa in onore del dio Gayeśa inizia intorno alle otto con una cerimonia al tempio, durante la quale le utsava mūrti (forme mobili della divinità utilizzate durante le processioni) di Gayeśa e Murugan vengono sottoposte a rituali preparatori dai tre Brāhmayi
del tempio. Nel frattempo nel cortile annesso alcuni uomini finiscono di
decorare i carri che le trasporteranno. Verso le nove i suonatori di thavil (percussione doppia) e nadaswaran (strumento a fiato, simile ad un oboe) che accompagneranno tutta la processione, si ammassano nel ristretto corridoio del tempio e danno inizio alla musica: essa annuncia l’uscita delle mūrti che verranno installate nei rispettivi carri.
Fig. 5-6 I musicisti all’interno del tempio annunciano l’uscita delle mūrti
I musicisti escono e si distribuiscono nel cortile, su due file parallele che lasciano spazio al passaggio delle divinità: installate su due portantine, le mūrti vengono trasportate dal tempio al loro carro da due gruppi di uomini. Il breve tragitto viene percorso quasi danzando, con movimenti ritmati di avanzamento-arretramento parziale. Le mūrti vengono installate e i carri “riposano” ancora per qualche tempo nel cortile. Coloro che non possono assistere all’intera processione potranno compiere pradaksiyā
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intorno ad essi e chiunque lo desideri potrà fare un’offerta individuale, come mostra l’immagine sottostante: le donne attendono il loro turno per l’arcanā, compiuto dal brāhmaya nel carro
di Gayeśa.
Fig.7 - In attesa per l’arcanā
Fig. 8 - Il carro di Gayeśa
La processione parte dal tempio intorno alle undici. Il corteo è piuttosto lungo e si compone di diversi elementi: è aperto da un grande elefante di resina artificiale a dimensioni reali; ad esso seguono il carro processionale di Gayeśa (tirato dagli uomini) e quello di Murugan (tirato dalle donne), ciascuno dei quali ospita un brāhmaya; tra e dietro i due carri, si immettono i musicisti e coloro che hanno fatto un voto21. Esso si esprime in due modalità principali: le donne portano in testa dei vasi contenenti della canfora infiammata22, gli uomini invece portano sulle spalle delle strutture di legno ornate di piume di pavone chiamate kavadi, attraverso cui si esprime la devozione per Murugan23. 21
Baumann (2001c: 10) propone un’interessante analisi delle pratiche votive al Sri Kamadchi Temple a Hamm, in Germania, un tempio della comunità tamil srilankese, in cui mostra come se da un lato “Tamil refugees succeded to recreate known social, cultural and religious customs in the new environment” e quindi anche “the opportunities to choose among the vow activities available expanded (…)”, “ the new socio-cultural context sets limits to the methods esteemed appropriate and feasible”. 22 Rappresenta “l’ego che brucia per lasciare che l’anima si unisca con Dio” [una delle donne del gruppo]. 23 Si tratta di una pratica molto diffusa tra i tamil e rappresenta la principale modalità di adempiere un voto per Murugan. A Parigi esso si manifesta nella sua forma più semplice e fisicamente meno mortificante: i portatori di kavadi danzano durante tutto il percorso della processione (che significa per minimo quattro ore) con una pesante struttura ad arco fatta di legno e piume di pavone tenuta sulle spalle. Essi sono a piedi scalzi e spesso hanno osservato uno stretto digiuno la settimana che precede il défilé. La mortificazione del corpo e il dolore sono modalità attraverso cui esprimere l’amore per il divino e attraverso cui giungere all’unione spirituale con Esso. “The greater the pain the more god-earned merit” (www.aryabhatt.com).
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Fig. 10 - Donne portano i vasi con la canfora infiammata
I portatori di kavadi danzano al suono della musica che li precede, cosi come alcune donne. Tutti coloro che hanno fatto il voto si sottopongono, nei giorni che precedono la processione, ad una purificazione preliminare. Essa non è Fig.9 - La danza dei portatori di kavadi
però definita in maniera uguale per tutti,
è più “una questione tra te e Dio”. Per alcuni significa astenersi dal consumo di carne per un numero determinato di giorni, accompagnato da una frequentazione più assidua del tempio; per altri si tratta invece di un digiuno completo, associato all’astinenza sessuale e ad un “pensiero sempre concentrato su Dio”, come mi è stato raccontato da A. “Ognuno sa cosa è giusto per sé”. In chiusura del corteo si trova un coro che canta le lodi di Gayeśa.
4.4.1 I sensi della festa. Appropriazione spaziale, affermazione identitaria e messa in mostra di sé La processione, organizzata in India come in Sri Lanka ad occasione delle maggiori festività, è un evento che riveste una grande importanza nell’Induismo, in quanto è attraverso di essa che si stabilisce il legame della divinità con il territorio che la circonda
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(Reiniche 1985, Eck 1998, Dempsey 2006): il percorso compiuto dalla divinità estende oltre i confini del tempio lo spazio della sua azione e attraverso di esso il sacro si diffonde nel mondo degli uomini. Come suggerisce C. Dempsey riferendosi alla medesima pratica in un tempio negli USA: As they circled and blessed the barn temple and its grounds, these traveling deities helped link and sanctify terrain and traditions old and new, far and near. As such, they tempered apparently insurmountable barrier -not least, the perceived abyss between divinity and humanity (Dempsey 2006: 168).
Nel suo passaggio Gayeśa (e, dietro di lui, suo fratello minore Murugan) stabilisce un contatto col territorio che lo circonda e riafferma la propria autorità su di esso. 24 Contemporaneamente egli diffonde la propria benedizione attraverso il darśan, in cerca del quale vengono migliaia di fedeli e del quale gioiscono i proprietari dei commerci di fronte ai quali passa il carro divino. Le loro attività ne saranno avvantaggiate poiché egli è ‘Colui che rimuove gli ostacoli’. Se il défilé di Gayeśa è un evento di cui gioiscono e a cui partecipano tutti gli hindū di Parigi, esso riveste per i tamil srilankesi un’importanza particolare. Come si è accennato a inizio paragrafo, Gayeśa percorre un tragitto che si snoda dal tempio attraverso il quartiere de la Chapelle. Tale percorso non delimita un territorio neutro: non si tratta semplicemente di occupare lo spazio pubblico, poiché ad essere percorso e limitato è uno spazio manipolato, trasformato negli anni in una specie di concentrato del Sé. Il quartiere de La Chapelle infatti è il luogo per eccellenza della comunità tamil srilankese: vi si concentrano commerci, scuole, associazioni, servizi, templi. È qui che gli srilankesi vengono a fare la spesa, prendere lezioni di scuola guida, tagliarsi i capelli, mangiar fuori. Ed è qui che gli ultimi arrivati vengono a cercare lavoro o un alloggio, prima ancora di avviare le pratiche per l’ottenimento dello statuto di rifugiati. Pur non essendo definibile “ghetto”, mancando l’aspetto di concentrazione residenziale, il 24
Come sottolinea Mc Gilvray (1998: 61) “Gods are periodically carried in procession from the temple to survey their domain and to transmit their protective blessings to individual households”. Il quartiere de La Chapelle è centro di commerci e servizi tamil, più che residenziale, ma il principio vale ugualmente: saranno quindi il negozio o la scuola (comunque luoghi della comunità) ad esser posti sotto la protezione della divinità.
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quartiere rappresenta il luogo in cui l’identità della comunità tamil srilankese viene vissuta, rinforzata e messa in mostra. La processione, in quanto appropriazione (temporanea) dello spazio collettivo non è priva di conseguenze, poiché esso non solo viene occupato fisicamente, ma soprattutto viene allestito e decorato risultando in un’alta saturazione simbolica. Nella scelta del percorso, che è lo stesso di anno in anno, è presente una volontà di delimitazione di un territorio preciso, quello della “piccola Jaffna”: Gayeśa, percorrendolo, riafferma simbolicamente l’appropriazione comunitaria dello stesso. Oltre a questo aspetto, il défilé riveste molti altri significati per la comunità tamil srilankese di Parigi: •
In quanto pratica religiosa pubblica di grande importanza, essa rappresenta la conquista della possibilità di esprimere la propria religiosità in ambiti da cui essa è normalmente esclusa.
•
In quanto evento pubblico (potremmo dire evento “della comunità”) è un’affermazione della propria presenza in seno alla società francese e contemporaneamente un’importante risorsa di auto-rappresentazione. A tale proposito da un lato bisogna pensare a quanto l’immagine dei tamil srilankesi sia influenzata dal conflitto in Sri Lanka, (per cui vengono automaticamente associati alle Tigri tamil) dall’altro ricordare che la maggior parte delle manifestazione pubbliche tamil (cortei, conferenze, ma anche spettacoli culturali) sono di stampo o derivazione politica. Il défilé invece rappresenta una risorsa di autorappresentazione “positiva”, è un’occasione (ricercata) per portare l’attenzione sulla propria cultura. Per una volta la comunità tamil srilankese viene alla ribalta della cronaca non per gli eventi sanguinosi del paese d’origine o per l’arresto di giovani accusati di terrorismo ed estorsione, ma per un evento pacifico e gioioso, che valorizza la comunità, è motivo di orgoglio e mezzo effettivo di interazione interculturale.
•
In quanto evento “per la comunità” è una fonte di coesione e rafforzamento dell’identità comunitaria.
•
In fine, da un punto di vista interno, la processione rappresenta per i membri
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illustri della comunità un’occasione di giocare un ruolo di primo piano25 e riaffermare le gerarchie sociali.
4.4.2 Il tempio e la processione Naturalmente la processione ha anche importantissimi effetti sul tempio che la finanzia e organizza. Esso rappresenta, come ovvio, un’enorme pubblicità per il Sri Manicka Vinayakar Alayam e per il suo fondatore. Ma non solo: l’immagine del tempio che ne risulta corrisponde ad una precisa politica comunicativa del suo fondatore. Come si diceva l’organizzazione della processione inizia verso il mese di giugno. Lo stesso Sanderasekaram mi ha spiegato che una parte importante di tale organizzazione è costituita dalle relazioni con le autorità e la stampa francese. Innanzitutto si procede agli inviti ufficiali: le autorità di quartiere, il sindaco di Parigi, addirittura il presidente della Repubblica, vengono invitati per lettera a presenziare al défilé; contemporaneamente si sollecita la stampa a partecipare all’evento e a pubblicizzarlo nelle settimane che lo precedono, in modo che “ci sia più gente”. I rapporti con la società francese naturalmente passano anche attraverso le necessarie relazioni con la Prefecture de Police e la Mairie. In entrambi i casi si può parlare di collaborazione: l’autorizzazione per il défilé è ormai concessa quasi d’ufficio e la Mairie fornisce addirittura al tempio uno dei suoi camion per la pulizia stradale. Esso viene utilizzato per purificare con centinaia di litri di acqua di rose e zafferano le strade su cui passera la processione. Per quanto riguarda il corteo, il dato più importante è, come si diceva, l’assenza dei rappresentanti degli altri templi parigini. Il signor Sanderasekaram è significativamente l’unico elemento “istituzionale” hindū: tutte le altre personalità religiose di rilievo che partecipano alla processione non risiedono né hanno attività a Parigi, oppure rappresentano altre confessioni religiose. Questo contribuisce a dare l’impressione che il tempio di Gayeśa sia l’unico tempio hindū della città, come si legge d’altronde nella stampa locale. Unita ai buoni rapporti che con gli anni Sanderasekaram ha intessuto con le autorità francesi, soprattutto nel locale e micro-locale, quest’ultima caratteristica 25
Finanziariamente il tempio è affiancato da molti commercianti tamil del quartiere de La Chapelle: sono soprattutto loro ad offrire gratuitamente cibi e bevande a coloro che partecipano al corteo.
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contribuisce a farne una sorta di porta-parola privilegiato della comunità srilankese e hindū
di Parigi. Tutta la politica di comunicazione del tempio, dal sito internet, alle
brochure, all’accoglienza dei visitatori al tempio, è pensata in questo senso. La processione è per il tempio non solo un’occasione per farsi conoscere, ma soprattutto un modo per far passare ad un pubblico vastissimo un’immagine precisa di sé, costruita con attenzione. Attraverso il défilé Sanderasekaram mostra un’immagine pacifica, quasi bonacciona, dell’Induismo e dimostra di essere l’unico rappresentante degli hindū a Parigi. Il fatto di condurre una politica di dialogo interreligioso è un altro elemento del quadro. Se, come si diceva a inizio capitolo, la politica gestionale e comunicativa del tempio è guidata da un senso di disconoscimento della religione hindū in Francia, Sanderasekaram non solo è riuscito nel suo scopo di portare l’attenzione su di essa, ma si è anche fatto eleggere dalla stampa e dalle autorità francesi a porta-parola della comunità in materia religiosa. A dimostrazione di quanto detto si pensi che “le personel politique qui cherche à toucher les Tamouls commence d’ailléur en général systématiquement par joindre le temple, qui se prête de bon gré à ce rôle de porte-parole, comme en témoigne le fait qu’il se dénomme lui même “Temple hindou de Paris”, comme si il n’y en avait pas d’autre.” (Dequirez 2002: 30). Questo ruolo di “rappresentante istituzionalizzato” della comunità, passa naturalmente per una negazione di qualsiasi legame con la lotta di liberazione delle Tigri, con i suoi scopi e le sue modalità d’azione, in Sri Lanka come nella diaspora. Da questo punto di vista Sanderasekaram si pone criticamente verso altri templi (in particolare il tempio di Mutthumariyamman), che vengono accusati di fare politica: Loro sono come una setta. Noi qui non siamo una setta, siamo aperti a tutti, perché la politica è qualcosa che non mi interessa. E anche se qui viene meno gente, a me non interessa. L’importante è non avere problemi. Sai, con le autorità se no ci sono dei problemi.
Effettivamente il successo della politica comunicativa di Sanderasekaram non si è tradotto, come rivelano le sue stesse parole, in uno sviluppo del tempio, il quale rimane
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relativamente poco frequentato durante l’anno. È questo un dato su cui riflettere. Ogni settimana (soprattutto prima e dopo la processione) egli viene contattato da giornalisti, studenti, operatori dell’accoglienza agli immigrati, politici: il ruolo di mediatore tra mondi e rappresentante della comunità che si è costruito è carico di grosse responsabilità. Nonostante il trattamento di “riferimento obbligato” che gli viene riservato però, l’impressione è che, all’interno della comunità, egli sia piuttosto emarginato. La scarsa frequentazione del tempio, le critiche di commercializzazione della religione che gli vengono mosse da un po’ tutte le direzioni e il suo atteggiamento “sulla difensiva” quando si parla di altri templi portano a pensare che questo ruolo di portavoce che la società francese vede in lui, non abbia in realtà un sostrato nella comunità stessa. L’impressione è che la sua politica comunicativa abbia un gran successo sui francesi ma non sui membri della sua stessa comunità. Probabilmente, al contrario, essi non apprezzano l’immagine che egli fornisce dell’Induismo né tanto meno la sua gestione del religioso. Il successo della processione in onore di Gayeśa inoltre supera ampiamente il successo del tempio che lo organizza e questo non può essere sottovalutato. Questo scarto dipende a mio parere dal fatto che la valenza che i tamil srilankesi ripongono nel défilé è assolutamente indipendente dalla loro considerazione del tempio. Se la festa di Gayeśa è diventato un evento interculturale è sicuramente merito di Sanderasekaram ed è grazie a questo evento che egli si è eretto a ponte tra mondi; tuttavia bisognerebbe chiedersi cosa passi attraverso questo ponte e soprattutto se sulla sponda della comunità tamil srilankese qualcuno sia disposto ad attraversarlo.
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Capitolo V IL SRI SABAREESAN MANCHAMATHA AYAPPAN TEMPLE
5.1 Le prime esperienze Uno dei templi de La Courneuve, comune dell’immediata periferia parigina ospitante una grande comunità srilankese, è dedicato ad Ayyappan. La prima volta che sono andata al tempio era un giovedì. Sono arrivata poco prima della pūjā delle 13, ho assistito alla cerimonia che si svolge tutti i giorni, due volte al giorno, e successivamente ci è stato servito da mangiare. Eravamo solo in 4 ad assistere alla pūjā, oltre i due officianti e due donne che sono arrivate quasi al suo termine e che poi ho scoperto essere co-fondatrici del tempio. Il pasto collettivo, che si svolge immancabilmente dopo ogni cerimonia e che è tra le peculiarità di questo tempio, è un momento di convivialità molto importante ed ha rappresentato, a parte qualche fortunata eccezione, la principale occasione in cui avvicinare e conoscere i devoti e i responsabili del tempio. Nonostante i limiti linguistici infatti, ho incontrato in generale una grande apertura e una volontà, superata l’iniziale timidezza, di comunicare e spiegare la propria cultura. In occasione di questa prima visita, le due donne dell’associazione mi avevano brevemente spiegato che il tempio è stato fondato poco più di 4 anni fa da 6 persone, tutte di origine srilankese, legate tra loro da rapporti di parentela o di amicizia. Una di loro aveva sottolineato il fatto che l’associazione è formalmente registrata alla Prefecture de Police, e che quindi tutto si svolge nella più assoluta legalità. La cosa mi aveva stupito, ma ad ora, non sono riuscita a dare una spiegazione a questa precisazione spontanea; può darsi che in tal modo facesse tacitamente riferimento all’esistenza di sale illegalmente adibite a tempio, probabilmente vera ma di cui non ho esperienza. La nostra conversazione si era poi soffermata sul culto di Ayyappan: con l’aiuto di alcune immagini presenti al tempio una delle due donne mi aveva spiegato la sua leggenda, dalla nascita, frutto dell’unione di Śiva e Visyu (nella forma femminile di Mohinī), alla fondazione del tempio di Sabarimala, in Kerala, che si vuole essere il primo tempio a lui dedicato,
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costruito e gestito secondo i dettami dello stesso Ayyappan. Già in questa prima visita, l’accoglienza, il calore e l’apertura che caratterizzano questo tempio erano stati palpabili. È stato però nelle mie visite successive che ho potuto conoscere coloro ai quali devo la maggior parte delle informazioni riportate nelle pagine che seguono, e ai quali devo tanta riconoscenza: per la fiducia accordatami fin dal primo incontro, per la disponibilità e il tempo dedicatomi, per la gentilezza, sincera, con cui sono stata invitata a partecipare e con cui sono stata accolta, guidata, ascoltata. Un venerdì, qualche tempo dopo la mia prima visita, sono tornata al tempio per la pūjā
delle 13: la sala era stracolma di gente, c’erano almeno un centinaio di persone, tra
cui moltissime donne. Alcune delle persone che avevo incontrato la volta precedente erano presenti: uno dei fedeli, un signore sulla sessantina che frequenta quotidianamente il tempio, e i due uomini che avevano condotto la pūjā. Questa volta però era un altro uomo, visivamente molto più esperto del rituale e molto carismatico, a condurre la cerimonia. È a lui che, su suggerimento di una delle fondatrici del tempio, la terza con cui facevo conoscenza, mi sono rivolta alla fine della pūjā, in cerca di informazioni. Nessuno tra coloro con cui avevo parlato fino a quel momento mi aveva spiegato il suo ruolo e la sua importanza all’interno del tempio, mi era solo stato indicato come colui che avrebbe saputo spiegarmi bene le cose. Rinnovati con lui i miei propositi di condurre una ricerca antropologica sui templi hindū di Parigi, mi aveva esortato a tornare l’indomani: ci sarebbe stato suo figlio, perfettamente bilingue, a farci da interprete. È cosi che l’indomani ho conosciuto S., il figlio maggiore1 di Guruswāmī
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e di sua moglie, co-
fondatrice e, sulla carta, presidentessa dell’associazione. S. ha 19 anni, è nato e cresciuto a Parigi e, pur partecipando attivamente e con notevoli responsabilità alla vita religiosa della sua comunità, si sente innanzitutto francese: Mi sento più francese che srilankese. Sono fiero della mia religione. Sono fiero di essere francese anche. È il mio paese. Ci sono persone che mi criticano per questo. Ma io rispondo ‘è il paese che ti ha accolto, ora sta a te servirlo’. E sono fiero della mia religione, per questo sono ancora qui, se no avrei potuto andarmene a 18 anni, 1 2
Il fratello minore, pur frequentando il tempio con la stessa frequenza, non riveste un ruolo importante. I fedeli del tempio si rivolgono a lui con questo appellativo.
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come fanno molti. Invece no, perché la famiglia è importante.
Il suo rapporto con la comunità srilankese è a dir poco complesso: ne condivide alcuni valori, innanzitutto l’importanza della famiglia e ovviamente vi vede le sue radici. Ma conosce poco o nulla dello Sri Lanka, dove peraltro non è mai stato. Nessuna visione idealizzata del paese d’origine caratterizza né il suo narrare né quello dei suoi genitori, così come sono assenti tematiche politiche: S. ha conosciuto la guerra civile in Sri Lanka più attraverso conoscenti tamil che attraverso la sua famiglia, e ne ha infatti un’immagine molto vaga, conoscendo appena le parti in lotta. La sua appartenenza alla comunità tamil srilankese è basata esclusivamente sulla frequentazione e gestione del tempio, unico luogo e occasione in cui incontra membri della comunità: a parte i suoi cugini, infatti, non frequenta altri giovani srilankesi, di cui dice di non condividere i modi (per esempio il fatto di osservare fissamente le persone). La maggior parte delle informazioni che ho raccolto sul tempio le devo a lui 2. Con suo padre ho avuto occasione di parlare diverse volte, al tempio, ma le nostre conversazioni si sono concentrate soprattutto su aspetti più strettamente religiosi, o sulle regole di condotta, sulla devozione, sui canti dei fedeli. Con S., che ho incontrato anche al di fuori del tempio, ho potuto abbordare i temi più disparati, da questioni direttamente legate al soggetto della mia tesi, a temi personali circa la sua educazione, la sua visione della trasmissione culturale tra generazioni, le relazioni all’interno della comunità, le caste. Per molte delle informazioni che mi ha dato sul tempio, ho avuto l’occasione di fare delle “verifiche” con i devoti, attraverso brevi conversazioni che si sono svolte quasi interamente nel momento del pasto comune che si svolge dopo la pūjā. Come in altri casi (vedi ad esempio la storia della fondazione del tempio Sri Manicka Vinayakar Alayam), i racconti e le modalità di racconto si sono quasi sempre rivelati coincidenti, in un modo davvero sorprendente. La ricchezza delle informazioni che ho potuto raccogliere su questo tempio è dovuta non solo alla maggiore assiduità con cui, devo ammettere, l’ho frequentato3 rispetto ad 2
Naturalmente questo ha influenzato la mia visione del tempio e delle sue attività. Le ragioni di questa preferenza sono dovute innanzitutto all’accoglienza e alla maggiore apertura nei miei confronti, che hanno reso le mie permanenze al tempio particolarmente piacevoli e mi hanno permesso di instaurare rapporti meno volatili. Inoltre l’originalità del tempio, nella figura del fondatore e guru e nelle attività svolte, ha stimolato la mia curiosità, richiedendo approfondimenti in tali direzioni. Terza e non 3
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altri ma soprattutto alla maggiore semplicità dei rapporti che vi ho potuto instaurare e alla maggiore risposta ai miei “stimoli conoscitivi”. Le modalità di acculturazione che ho sperimentato in questo tempio in particolare, sono state sicuramente più variegate che negli altri: mi riferisco qui ad un’esperienza conoscitiva pragmatica che, inattesa, ha più volte aperto le mie visite al tempio e che è stata resa possibile proprio dal mio statuto di “straniera”, palesemente riconoscibile, e alla mia non comprensione del tamil. Infatti, se in molte occasioni il fatto di non conoscere la lingua mi ha posto degli enormi problemi, soprattutto nell’osservazione partecipante, in altre mi ha permesso di vivere uno speciale rapporto di apprendimento-comunicazione con le persone che incontravo. I devoti attendono l’inizio della pūjā seduti o in piedi di fronte alle mūrti, divisi, le donne e i bambini a sinistra, gli uomini a destra. Tale divisione è rispettata con più o meno rigore nei diversi templi e secondo le occasioni, ma è in ogni caso sempre presente. Ogni volta che andavo al tempio cercavo di arrivare sempre un po’ in anticipo rispetto all’orario d’inizio della pūjā, un po’ per rispetto, un po’ per vedere i preparativi, un po’ per approfittare dell’attesa per conoscere qualcuno. Levate le scarpe e le calze entravo al tempio e mi sedevo in mezzo al gruppo delle donne. In molte occasioni una di loro, sola o con la famiglia non importa ma sempre senza figli, si prendeva il compito di spiegarmi ciò che dovevo fare, spesso a gesti o in un inglese/francese elementare: dal levarmi e appendere il cappotto, a dove sedermi, quando alzarmi e cosi via per tutta la cerimonia. Alla fine, nel momento della benedizione, in cui bisogna mettersi in fila e a turno ricevere la vibhūti dal guru, mi indicavano il da farsi, e questo si è ripetuto in ogni occasione: mi facevano mettere in fila dietro di loro, e poi, o mi indicavano di imitare i gesti di chi era davanti a noi, o mi spiegavano che dovevo avanzare, ricevere la vibhūti, e abbassarmi a toccare i piedi del guru. Compiuti questi gesti, mi guidavano verso colui che distribuiva l’acqua zuccherina che, essendo stata offerto alla divinità è considerata prasād, in modo che avessi anch’io la mia parte. Talvolta questi non veniva a trovarsi immediatamente dopo il guru: in questo caso, una volta terminata la loro deambulazione intorno alle cappelle ospitanti le mūrti, durante la quale non si occupavano più di me, tornavano a sincerarsi che fossi andata a riceverne. Ogni volta una piccola lezione di prassi religiosa, impartita tramite l’esempio, l’osservazione e la ripetizione di gesti. Ciò che mi veniva ultima motivazione, lo sviluppo nel corso della ricerca di un personale attaccamento al luogo.
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comunicato e insegnato, con evidente sforzo, non poteva essere certamente qualcosa di superfluo o di poco importante. A parte la cortesia di indicarmi dove sedermi o dove lavarmi le mani, tutto ciò che del rituale mi invitavano a seguire o che omettevano di spiegare e di farmi emulare, mi ha permesso di estrapolare nella complessità del cerimoniale alcuni momenti chiave e da questi trarre delle conclusioni, che in definitiva hanno reso più chiara la peculiarità di questo tempio. Il fatto di non poter comunicare con facilità ha favorito in momenti in cui è la prassi rituale ad avere il ruolo più importante, l’utilizzo di modalità di apprendimento differenti, in armonia con la specificità dell’occasione. Come una bambina, sono stata guidata a ripetere gesti che è più importante fare che analizzare. Gesti che condensano tutta una concezione dell’uomo, del divino e del loro rapporto. La portata conoscitiva di queste esperienze, significative in quanto reiteratesi in molte occasioni, è molteplice: da un lato illuminano, nella loro unicità, la specificità che assume in questo tempio la figura del guru, di cui mi si esortava a ricevere la benedizione; dall’altro permettono una sorta di estrazione dell’essenziale. Della parte attivopartecipativa di tutta la cerimonia mi si invitava spontaneamente, e con decisione, a seguire alcuni passaggi, i quali vanno quindi interpretati come fondamentali. Tuttavia la portata di quanto detto va limitata da una considerazione: se è vero che la presenza dell’Altro stimola una riflessione del Sé sulla propria cultura (in cui includo la religione), che viene quindi rielaborata e comunicata in modo diverso, tale comunicazione risente e viene limitata dalla visione che il Sé ha dell’Altro: ciò che viene comunicato in definitiva può dipendere non solo dalla sua importanza relativa ma anche dall’importanza che si pensa possa rivestire per l’Altro, nonché dalle sue, presunte, capacità di comprensione. Detto questo però, il valore di tale esperienza non è da sottovalutare: le impressioni scaturite da queste lezioni di prassi religiosa hanno svolto un importante ruolo di conferma supplementare di quanto visto, sentito e letto successivamente.
5.2 Fondare il tempio 79
La fondazione di un tempio dedicato ad Ayyappan nel comune de La Courneuve, nella cosiddetta petite couronne, l’immediata periferia parigina, risale a poco più di 4 anni fa. Nonostante formalmente il tempio sia gestito da un’associazione4, la storia della sua fondazione, come il volto che ha oggi il tempio, è indissociabile dalla storia personale del più importante dei suoi membri. Guruswāmī, come viene chiamato dai devoti, è il cardine e il traino di tutte le attività che si svolgono o sono organizzate al tempio: è la sua mano ad aver dipinto a vivi colori l’atmosfera che vi si respira, è la sua esperienza e visione di Dio a permeare il rituale, sono i fiori profumati della sua devozione e il fuoco ardente della sua danza ad attirare sempre nuovi fedeli. Guruswāmī
è arrivato in Francia nella prima grande ondata migratoria che, alla
metà degli anni ‘80, ha fatto seguito agli eventi che hanno insanguinato lo Sri Lanka nel 1983. Come la maggior parte dei tamil giunti nel corso del decennio ha ottenuto subito lo statuto di rifugiato politico dall’OFPRA, l’Ufficio Francese per la Protezione dei Rifugiati e degli Apolidi e successivamente è stato naturalisé, ha cioè ottenuto la cittadinanza francese. Dopo qualche tempo è entrato nel mondo del commercio, fino ad aprirsi una propria attività. A quell’epoca non era neanche lontanamente l’uomo di oggi: soprattutto beveva molto e si era allontanato dalla religione. Come per il signor Muthukumarasamy, del tempio di Saint Denis (di cui parlerò nel prossimo capitolo) il racconto di come abbia ritrovato “la sua via” è molto vago. Pare che la nascita del suo primo figlio lo abbia scosso profondamente e che in seguito ad una crisi abbia riscoperto le proprie radici e l’Induismo. Il suo primo pellegrinaggio in Kerala risale al 1996. Tornato molto cambiato da questa prima esperienza, porta con sé una piccola mūrti di Ayyappan, che prende immediatamente il posto d’onore all’interno della stanza riservata alla preghiera dove egli compie quotidianamente i riti appresi attraverso l’osservazione e l’insegnamento di altri guru. Col passare degli anni la forza della sua devozione, la sua esperienza del rituale e conseguentemente l’energia divina sprigionante dalla mūrti sono andate crescendo e Guruswāmī “ha cominciato a sentire che c’era qualcosa di forte che poteva e che voleva condividere”. Dopo un periodo “preparatorio” in 4
L’associazione è composta da 6 membri, Guruswāmī, sua moglie e altre 4 donne, legate tra loro da rapporti di amicizia. Una solo di loro lavora, in un ristorante indiano nel quartiere de La Chapelle, le altre sono femme au foyer, casalinghe. Si occupano del tempio a turno, soprattutto gestiscono e preparano le offerte.
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cui si recava in abitazioni private, portando con sé il suo Ayyappan, per svolgere la pūjā per un ristretto, ma crescente, pubblico di devoti, viene creata l’associazione e il tempio da essa gestito. Quest’idea, forte, della necessità di condividere la crescente potenza divina che albergava nella piccola mūrti, fondando un tempio dove la divinità potesse essere onorata, nutrita e cresciuta con i migliori mezzi possibili è l’origine di ciò che oggi si è concretizzato. La ricerca del luogo è stata affidata ad un’agenzia immobiliare. I locali dovevano soddisfare molteplici caratteristiche e la ricerca ha richiesto molto tempo. Dopo diversi mesi sono riusciti a trovare, al terzo piano di un palazzo ospitante un maglificio cinese e nessuna abitazione privata, a pochi passi dalla stazione della metropolitana, la grande stanza quadrata nella quale si trova attualmente il tempio.
Fig.11 - L’ingresso del tempio La posizione è ottimale: facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici e in auto, in una zona molto frequentata, anche di sera, il tempio è stato fondato nel bel mezzo di un comune in cui i tamil rappresentano la seconda comunità straniera. La scelta è stata ben calcolata e la grandezza e magnificenza del posto è stata messa in secondo piano rispetto alla sicurezza e facilità nel raggiungerlo: riguardo alla possibilità di costruire un vero
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tempio, al di là dei problemi con l’amministrazione francese per ottenere i permessi di costruzione, “bisogna pensare ai trasporti, se la gente può venire. Si, certo, si potrebbe comprare un pezzo di terra in periferia e costruirlo, ma se poi le persone non possono venire…un tempio è fatto per le persone”. Il fattore logistico è sicuramente tra i più importanti nella determinazione della frequentazione o meno di un tempio: la maggior parte di coloro che li frequenta utilizza i mezzi pubblici per spostarsi; inoltre la visita al tempio rappresenta una delle occasioni principali di uscita per molte donne che non lavorano: il luogo in cui si trova il tempio deve quindi essere raggiungibile e in una zona sufficientemente sicura per una donna e per i suoi figli, in modo che possa recarvisi senza il marito. L’assenza di vicini è un altro aspetto importante nella scelta dei locali, in quanto permette una maggiore libertà nelle attività del tempio, che sono spesso piuttosto rumorose. Inizialmente il tempio era semplicemente una sala con la piccola statua di Ayyappan, non c’era decorazione. Le prime persone che venivano erano i conoscenti della famiglia e degli altri membri dell’Associazione. Ma presto molte altre persone hanno cominciato a frequentare le cerimonie, in poco tempo e senza alcuna pubblicità il tempio si è fatto conoscere nella comunità, innanzitutto tra i devoti di Ayyappan. La risposta positiva della gente ha spinto Guruswāmī e gli altri membri dell’associazione a portare avanti il progetto, finanziando l’acquisto di nuove mūrti, la costruzione da parte di specialisti (sthapati) delle cappelle dove installarle, nonché la decorazione del soffitto. Ci sono voluti un paio di anni affinché il tempio assumesse il volto che ha oggi. Il momento più importante in questo periodo di sviluppo è stata l’installazione 5 della seconda mūrti di Ayyappan
all’interno di una grande struttura che è la copia esatta del grande tempio di
Sabarimala, in Kerala, meta di un importantissimo pellegrinaggio annuale che attira fedeli da tutte le parti del mondo. Questo secondo Ayyappan è molto diverso dall’altro per varie ragioni, che spiegherò più dettagliatamente nel paragrafo seguente. Per ora basti sapere che la sua costruzione è stata interamente finanziata dai fedeli: “è quasi completamente in oro, ed è l’oro donato dalla gente, dalle persone che venivano a chiedere qualcosa” e per 5
Si è trattato di un lungo Abhiseka di acqua santificata da Guruswāmī attraverso il canto, a cui ha fatto seguito una lunga sessione di bhajana durante la quale egli ha gettato centinaia di fiori sulla mūrti.
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questo, molto più del primo, è considerato il loro Ayyappan. Oggi quindi il tempio può dirsi concluso. Ci sono continuamente piccoli lavori (ho potuto assistere ad esempio allo smantellamento del contro-soffitto, riccamente decorato, per ragioni di sicurezza) ma non intaccano la struttura generale. Come già detto il tempio è costituito da una grande sala quadrata, illuminata da una serie di finestre che occupano la parte superiore di tutto un lato6. Come in altri templi della regione parigina, la zona sacra, sede delle cappelle contenenti le mūrti, si concentra in una metà della sala ed è tenuta separata da due grandi tende: su una è rappresentata un’immagine classica, il grande Ayyappan di Sabarimala con il tempio sullo sfondo, ed è posta in corrispondenza della grande mūrti di Ayyappan ospitata da un garbhagrha che è una copia esatta del tempio in Kerala; sull’altro, l’immagine del tempio è incorniciata da una serie di disegni che raccontano la storia mitica di Ayyappan: tali disegni rivestono un evidente ruolo pedagogico e forniscono un importante supporto visivo nel racconto e nella trasmissione del mito, attraverso il quale passano valori e virtù, visioni del mondo, concezioni del bene e del male, dell’umano e del divino. Tali tende vengono alzate al cominciare della pūjā: durante la preparazione, quando le mūrti vengono ornate con mazzi e ghirlande di fiori, collane di limoni, gioielli, e truccate con magnificenza, i devoti intonano canti devozionali. Di fronte a loro sono schierati, su diversi piani, ma in modo da ottimizzare la possibilità di relazione visiva, le mūrti
di Gayeśa, onnipresente nel suo ruolo di rimozione degli ostacoli; Devī, divinità
femminile cui si rivolgono con nomi diversi, Pārvatī, Durgā, Laksmī, espressione della multiforme energia femminile; e i due Ayyappan, entrambi introdotti dalla scalinata a diciotto gradini, simbolo della sua vittoria sull’ego. Sulla destra una piccola mūrti di Hanumān
è appoggiata di fianco alla porta d’ingresso. La visione delle mūrti è facilitata
per le divinià minori dall’apertura su tre lati della struttura che le sovrasta, attraverso il sollevamento delle tendine che ne costituiscono le effimere pareti. Su di esse rappresentazioni a vivi colori della divinità insegnano ai devoti il proprio contenuto sacro. Tra i due Ayyappan, il più antico (quello appartenente a Guruswāmī) è posto in fondo alla sala, in mezzo e posteriormente a Gayeśa e alla Dea. Essendo adiacente il muro e 6
Non mi è stato possibile scattare fotografie all’interno del tempio: il divieto è chiaramente indicato sulla porta d’ingresso e mi è stato confermato dai responsabili. Tale regola è comune a tutti i templi indagati con l’unica eccezione del Sri Manicka Vanayakar Alayam.
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sovrastato da una piccola struttura viene nascosto da un pannello raffigurante i diciotto scalini. Il secondo Ayyappan è invece ospitato in un sontuoso garbhagrha, dalle spesse pareti e attorno al quale si può compiere la deambulazione. Come già detto, esso ripropone in miniatura l’architettura del tempio di Sabarimala. La somiglianza è davvero sorprendente e molti devoti ne hanno sottolineato l’importanza: sia per coloro che si preparano al loro primo pellegrinaggio che per coloro che sono già stati in Kerala, esso rappresenta un supporto visivo che scatena forti reazioni emotive, prepara alla visione del più sacro dei luoghi o ne rinforza nella memoria il ricordo. A differenza di altri templi, dove l’illuminazione è artificiale, in questo caso il garbhagrha è illuminato internamente solo da una serie di lampade di varie foggie e dimensioni, poggiate al suolo o appese, che vengono accese durante la preparazione della pūjā da Guruswāmī o da suo figlio S., gli unici ad avere accesso al più sacro degli spazi del tempio. Esso è quindi unico da questo punto di vista ed è il solo che mi ha fatto tornare alla mente la descrizione che Stella Kramrisch, nel suo celebre studio del tempio hindū, fa del garbhagrha: Una piccola camera, quadrata nella maggior parte dei templi rimasti, e oscura come una caverna nella montagna. È il santuario più interno del Vimāna e di tutto il tempio. All’interno ha quattro muri lisci. Sono massicci e la loro continuità è interrotta solo dall’entrata nel muro frontale. Non vi è altra fonte di luce. Se la porta è chiusa l’interno è buio. (…) questo nucleo rimane, benché spoglio e indistinto eppure celato, il luogo in cui dimora il Principio Supremo, come Dio, Īśvara, nell’immagine o simbolo consacrati. (…) Nel nome e nella forma il Garbhagrha è un luogo di significato primario; è atemporale, antico come il tempio indù ne costituisce la sua parte essenziale oggi come allora. Il nome del Garbhagrha non è però legato in modo intrinseco alla sua forma. Entrambi sono simboli e ciascuno rappresenta un aspetto della stessa realtà. Il nome e la forma del Garbhagrha non coincidono sul piano delle cose visibili. Coincidono nella destinazione. Il Garbhagrha è non solo la casa del Germe o embrione del Tempio come Purusa; si riferisce all’uomo che giunge al Centro e ottiene una nuova nascita nell’oscurità (1976: 172-3).
e continua poco dopo:
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l’oscurità nel Garbhagrha è una condizione necessaria per la trasformazione che si compie nel devoto. Nell’oscurità si effettua il cambiamento e si ottiene nuova vita (1976: 175).
Cosi come descritto dalla Kramrisch, il garbhagrha nel quale è installata la maggiore delle mūrti di Ayyappan, è illuminato esclusivamente dalla luce penetrante dall’apertura frontale e dalle numerose lampade a olio che rimangono accese durante tutta la pūjā: in quest’oscurità l’immagine della mūrti, risplendente e dorata, simboleggia con maggior vigore il Germe d’Oro (Hirayyagarbha), “la luce che brilla dall’oscurità primordiale” (1976: 175). La luce delle lampade, infatti, non fa che aumentare il contrasto tra l’oscurità di una dimora, che è grembo, e la luminosità del divino che vi risiede. La luce, soprattutto nella forma di fiamma, rappresenta un momento e un simbolo fondamentale nel rituale hindū e nella concezione del divino. Se essa è veicolo e manifestazione dell’energia divina, ed è in questo senso che i presenti appongono le mani su di essa per poi portarle agli occhi e alla testa, riveste anche un’altra funzione, basata su una concezione della continuità e fluidità del reale. Ha la funzione di risvegliare per simpatia l’energia divina che è in ognuno di noi o, in una versione più razionale, di stimolare la focalizzazione dell’individuo sul divino, rappresentato dalla fiamma, innescando quindi in lui un processo di crescita spirituale. Tutte queste interpretazioni mi sono state fornite nei templi dai presenti, quando chiedevo spiegazioni a riguardo. Nessuna delle versioni ha prevalso sulle altre e talvolta la stessa persona mi ha fornito diverse spiegazioni in occasioni diverse. Questo perché, credo, esse non si contraddicono a vicenda, ma anzi si completano, in quanto inquadrature diverse della medesima visione. In questo senso anche la luce che, per effetto delle lampade accese tutt’intorno, sembra sprigionare dalla mūrti, è non solo manifestazione della presenza del sacro, ma anche specchio della luce divina che alberga in colui che la guarda. Nelle parole di Fuller: Light (…) is thus an extraordinary potent condensed symbol of the quintessentially idea, implied by its politheism, that divinity and humanity can mutually become one another, despite the relative separation between them that normally prevails in this world where men and women live and must die (Fuller 1992: 73).
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Come in India o in Sri-Lanka anche a Parigi la luce, nelle sue varie espressioni fisiche, continua ad essere simbolo fondamentale, multiforme e fortemente valorizzato.
5.3 Dove regna l’amore non c’è bisogno di regole: la creatività legittimata Il tempio di Ayyappan de La Courneuve può dirsi unico nella frammentata realtà hindū
parigina per più di un aspetto. I devoti spiegano tale unicità come il frutto del
coraggio e della forza della devozione di un uomo, al quale si deve la fondazione del tempio e alle cui decisioni è legata la sua storia futura7. Guruswāmī
è un uomo dalla forte personalità: ambizioso e fortemente carismatico,
deciso e severo quando necessario, è molto rispettato da coloro che frequentano il tempio. Essi ne parlano come di un uomo saggio, giusto, un maestro, un benefattore, talvolta come un uomo che ha realizzato in terra l’unione col divino. Egli è una guida per coloro che si recano al tempio ed è un esempio per tutti, la prova vivente della forza della devozione, grazie alla quale Ayyappan risolleva dalla miseria fino all’ultimo dei disperati. È questo un aspetto fondamentale, dal quale si deve necessariamente partire nell’analisi delle peculiarità di questo tempio, in quanto rappresenta il centro di una giostra di caratteristiche. Nelle mie visite al tempio, come già detto, ho spesso approfittato del pasto comune per discutere con qualcuno dei presenti di alcune questioni riguardanti il tempio. In molti casi chiedevo ai miei interlocutori di parlarmi di Guruswāmī. A parte le virtù sopra menzionate, nessuno di coloro con i quali ho parlato ha mai menzionato con me, neanche in seguito a sottili “provocazioni”, ciò che salta immediatamente agli occhi anche all’osservatore più inesperto: la mancanza, sulla sua spalla sinistra, del cordone sacro, segno distintivo della casta dei Brāhmayi e simbolo della loro formazione. Guruswāmī
non appartiene infatti alla casta dei Brāhmayi, ma il fatto che offici
ugualmente il rito non rappresenta di per sé un modificazione della norma. Come nota 7
Mi riferisco qui all’intenzione dichiarata da Guruswāmī in diverse occasione, di chiudere il tempio entro cinque anni, per trasferire le mūrti in una nuova e “più adatta” dimora in India meridionale.
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Sivathamby (1995) in Sri Lanka molti officianti non sono Brāhmayi ma provengono da famiglie di casta Vellala per cui la funzione sacerdotale è prerogativa da generazioni. Questi seguono le medesimo regole di purezza del primo varna e compiono una lunga formazione che li porta a raggiungere lo stato di ‘kurukkal’, parola tamil costituita da ‘kuru’ (guru in sanscrito) e ‘kal’, suffisso del plurale onorifico. In alcuni templi inoltre i kurukkal provengono da generazioni da famiglie Karaiyar (casta di pescatori). Nonostante questo aspetto quindi non sia di per sé rilevante né tanto meno sia oggetto di osservazioni, la sua importanza è tutt’altro che trascurabile, per le seguenti ragioni: •
l’assenza di una formazione “tradizionale”, lascia alla creatività individuale grande spazio nelle forme del rituale e nella decorazione delle mūrti;
•
nelle rappresentazioni del guru è un elemento che ne esalta il valore, in quanto egli deve non alla nascita in una famiglia di kurukkal ma alle sue capacità e virtù personali la realizzazione di un rapporto diretto col divino;
•
in quanto elemento di rottura con la tradizione, è fonte di diffidenza da un lato, ma anche di maggior attaccamento se questa viene superata. Gli ultimi due elementi sono legati ad una precisa interpretazione della fede e del
rapporto con Dio: ciò che viene valorizzato è la sincerità con cui è compiuto ogni atto e non l’appropriatezza del rituale che è, in fondo, una questione da brāhmayi, da specialisti. Tutti gli altri non hanno gli strumenti conoscitivi per giudicare lo svolgimento del rituale o la correttezza nella recitazione dei mantra. Nonostante questo, uno dei criteri con cui vengono giudicati i templi, a maggior ragione nei vari contesti della diaspora, è proprio la correttezza del rituale e la presenza di brāhmayi che lo “conducono come in India”; spesso la prova è data dalla loro origine, formazione e dall’esperienza precedentemente acquisita in templi in India o in Sri Lanka8. Nel caso in questione invece i gesti si emancipano dalla ferrea legge dell’ortoprassi, 8
Cfr www.murugantemple.com . Sul sito del tempio di Murugan a Lanham in Maryland (Usa) una pagina è dedicata ai ‘temple priests’: dopo una breve descrizione della famiglia di origine, vengono riportati il paramparā (catena maestro-allievo) di appartenenza, il guru e la scuola dove si sono formati, gli studi specialistici condotti e le lingue parlate.
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per trovare legittimità nella sincerità dell’amore che ne guida il volo. Essi sono gesti causali, innescanti conseguenze, in virtù non più della loro esecuzione secondo formule stabilite e trasmesse dai testi, ma di una forza che sprigiona dal cuore di un uomo. La differenza sta nella fonte e nella forma ma il metro di giudizio che viene applicato in fondo rimane lo stesso: la capacità o meno di provocare una discesa del divino nell’umano. Questa permeabilità tra umano e divino, che si basa in definitiva su una differenza che è di ordine quantitativo più che qualitativo, è la chiave di volta dell’Induismo, e si inserisce in una concezione del reale che trova, come spiega Valentine Daniel nel suo Fluid Signs. Being a Person the tamil way, nella categoria di sostanza il suo seme concettuale. È secondo tale chiave che va interpretata a mio avviso l’indifferenza dimostrata dai devoti riguardo la provenienza castale di Guruswāmī e il suo rituale “speciale”: egli riesce, in virtù di una maggiore “coscienza” 9 a rendere effettiva tale permeabilità, dimostrando al tempo stesso l’accessibilità di tale “coscienza”. Questi due elementi, “coscienza” e permeabilità, utilizzati nella frase precedente rispettivamente come causa il primo ed effetto il secondo, sono in realtà legati tra loro in un rapporto complesso in cui la direzione causale non è definita in maniera assoluta, ma contestuale. Da un lato la “coscienza” è essa stessa espressione della permeabilità: essa è la fiamma divina che alberga in ogni uomo e di cui una buona pratica rappresenta il combustibile. Dall’altro un’analisi dei racconti forniti dai più devoti tra i fedeli di Ayyappan, mostra come l’immissione del divino nell’umano non risponda sempre alla medesima legge, anzi come talvolta non abbia leggi. Ognuno di questi racconti, come spiegherò con più precisione nel capitolo successivo, si apre con la descrizione di una situazione di miseria esistenziale, dalla quale il protagonista esce in seguito ad un evento descritto come fortuito, inatteso, sorprendente: un sogno, un incontro o un evento eccezionale, che lo porta sulla strada dell’unione con il divino. In questo senso il miracolo, inteso come modificazione del reale e del corso degli eventi in seguito ad una “intromissione” del divino nell’umano, è ad un tempo, continuando sulla scia della metafora della luce, barbaglio epifanico e scintilla del proprio acciarino. Come dicevo, prima di questa dovuta precisazione, Guruswāmī viene giudicato in 9
Questo è il termine usato dal figlio di Guruswāmī e da molti fedeli. Essa è superiore in virtù di una maggiore esperienza e di una pratica assidua: “mio padre è un ‘veterano’ della cosa, è molto tempo che pratica, è questa la differenza”.
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base agli effetti del suo agire: essi sono positivi, al tempio avvengono miracoli10, e quindi il suo agire è appropriato in quanto appaga la divinità. La creatività che caratterizza tutte le fasi del rituale, dalla decorazione delle mūrti all’apposizione della vibhūti, è legittimata dal rapporto personale che egli ha instaurato con la divinità. Tale rapporto è basato sulla bhakti, sull’amore personale: è un amore di padre, che lava, veste e nutre la sua creatura, le offre cascate di fiori e tessuti pregiati; e ne canta le lodi, la sgrida e parla con lei; la vede crescere e la esorta. Il rapporto del bhakta con la sua divinità è basato su un’affinità che non è scelta ma sentita. L’aspetto affettivo di tale rapporto è sottolineato da diversi elementi: il pianto innanzitutto, manifestazione prediletta delle sofferenze dell’amore; l’unicità del sentimento del bhakta; la sua spontaneità e sincerità. Questo è tutto ciò che conta e soprattutto è ciò che appaga la divinità. Per riassumere quanto detto nelle parole di S. (il figlio di Guruswāmī): Per questo Dio non ci sono regole. O sei fatto per lui o non sei fatto per lui. Ci sono anche stati dei brāhmayi che sono venuti e che non sono rimasti a lungo, perché all’inizio mio padre, vedi, lui era stanco e ha chiesto a dei brāhmayi di sostituirlo, e i brāhmayi
hanno detto ‘non è possibile’ perché, vedi, è un Dio del Sud dell’India, ed è
una cosa piuttosto potente e ci sono dei brāhmayi che sono venuti e che mentre facevano la pūjā hanno cominciato ad avere dei giramenti di testa e … perché la prendevano alla leggera, come se fosse un Dio semplice come quelli con cui hanno a che fare normalmente, come Śiva o…ci sono anche dei brāhmayi ai quali il dhotī ha cominciato a bruciare (…) e poi mio padre ha detto ‘no, non è fatto per loro’ e ha cominciato a piangere davanti a Dio dicendo ‘non è colpa mia, sono stanco, ho provato’.
I brāhmayi che hanno provato ad avere a che fare con Ayyappan non solo hanno 10
È grazie alla diffusione, per passaparola dei primi miracoli, che il tempio si è fatto conoscere nella comunità. A quanto mi è stato riferito ogni settimana arrivano nuove persone, attirate da questi racconti. Se ogni volta che Ayyappan si manifesta attraverso il linguaggio dei fiori può essere considerato un piccolo miracolo, il tempio è stato teatro di eventi ben più stupefacenti. Mi sono stati raccontati diversi esempi. Un cantante francese aveva perso completamente la voce: dopo aver visto molti medici e tentato varie cure, viene consigliato da un amico tamil di recarsi al tempio, dove, a suo modo, prega Ayyappan durante tutta una giornata. La mattina dopo aveva recuperato la voce. Una donna dice di aver visto un ragazzo seduto come Ayyappan aleggiare sopra la cesta dei fiori durante una cerimonia. Una giovane paraplegica è stata portata al tempio per diverse settimane, dopo le quali, per la prima volta, le sue condizioni sono migliorate.
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fallito nel loro compito ma, prendendo la cosa alla leggera, che può essere interpretato come ‘facendo il rituale come sono abituati a farlo in altri templi, formalmente, senza sentire nulla’, hanno scatenato l’ira della divinità, che ha provocato i loro giramenti di capo e ha fatto prendere fuoco al dhotī. Il loro fallimento deriva dal fatto che la divinità con cui si trovavano a che fare è abituata a tutt’altro trattamento, a ricevere cioè prove di sincera devozione. La sua potenza, la forza della sua presenza, deriva dal nutrimento d’amore che Guruswāmī le destina ogni singolo giorno. Solo lui è in grado di soddisfare le sue esigenze, le quali sono proporzionali alla sua potenza e crescono con essa. In quest’ottica i brāhmayi, visti come assenti esecutori di rituali ormai svuotati di significato, non possono che fallire. Con tutta la loro conoscenza non vengono accettati, proprio perché mancano di amore e sincero abbandono. Quale prova migliore della legittimità dell’agire di Guruswāmī?
5.4 La bhakti come cibo impalpabile della divinità L’originalità di alcune componenti del rituale, la quale non solo è legittimata ma anche valorizzata, credo possa essere interpretata come conseguenza di una speciale applicazione della bhakti: la devozione, oltre ad essere espressa personalmente e collettivamente nella forma di canti (bhajana), assume una valenza pubblica11. Il rapporto personale del bhakta con la divinità viene traslato sul piano del rituale attraverso l’introduzione, entro uno schema “classico”, di modifiche sostanziali nello svolgimento della pūjā. È il rapporto personale tra Guruswāmī e il suo Ayyappan il fulcro del rituale e la fonte della sua potenza. La condivisione assume qui un significato ben più profondo e, in un senso esclusivamente religioso, rivoluzionario: ciò che i presenti condividono non è solo il sentimento d’amore espresso attraverso il pianto, il canto e le offerte. Attraverso la mediazione di colui che è ad un tempo figlio e padre della divinità si compie ogni giorno il miracolo della sua manifestazione, che è prova della sua presenza. Ciò che egli condivide è il frutto della sua bhakti, del suo rapporto personale con la divinità, rapporto che egli coltiva da anni e nel quale, a partire dalla fondazione del tempio, può investire 11
“Lui ci mette tutto sé stesso. Il punto è che ciò che ha in lui, ha voglia di condividerlo” [S.].
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tutto sé stesso. Il piccolo Ayyappan che apparteneva, prima di essere installato al tempio, a Guruswāmī,
viene non solo descritto, ma anche trattato e, in definitiva, vissuto da lui
come un figlio. Come già detto, al tempio sono presenti due Ayyappan, i quali sono molto diversi tra loro: tale diversità, esperita e sentita più che spiegata (dai fedeli come da Guruswāmī
e da suo figlio), viene giustificata da una differenza nelle modalità con cui
essi sono stati allevati: Ci sono due Ayyappan e sono diversi uno dall’altro. È questo che tutti ammirano. Normalmente in un tempio ci sono solo 18 scalini, sai i 18 scalini? Una volta sola. Qui ce n’è due. Uno qui e uno li. Quello serve per l’Urushta che facciamo alla fine del mese. Ti ricordi te ne ho parlato...l’Om con le candele, alla fine del mese siamo obbligati a farlo per Lui [l’Ayyappan grande, quello comprato col denaro dei fedeli, in seguito indicato con la lettera a] da quando era piccolo. E Lui [l’Ayyappan di famiglia in seguito indicato con la lettera b] senza i 18 scalini non può stare. È abituato alla Upadhi pūjā [cerimonia in cui su ognuno dei 18 scalini si mette un pezzo di canfora: incendiato il primo in basso, progressivamente il fuoco si propaga agli altri. Rappresenta la distruzione dei 18 limiti dell’ego] che gli facciamo fin da quando era piccolo. Un giorno mio padre ha provato a chiedergli se potevamo smettere di farla o no e lui ha detto di no, ha fatto cadere qualcosa e ha detto di no. Quindi c’era l’idea di fare delle due una sola, ma non abbiamo potuto. Ma normalmente nei templi ce ne deve essere una sola di scalinata e i due [Ayyappan] devono essere insieme. Ma loro… sono diversi. [cioè?] Uno [b] l’abbiamo allevato a modo nostro. L’altro [a] è stato allevato in maniera neutra, nelle norme. Lui [b] ha un carattere piuttosto…sostenuto. Decide a suo piacimento, ad esempio può non dargli i fiori quando li chiede. Ha un suo carattere. Tu non puoi capirlo, ma a volte quando gli parla glielo dice: ‘Sono io che ti ho cresciuto dammi i fiori, sei mio figlio, dammi!’. È dopo questo che Lui dà. L’altro [a] invece dà sempre. È veramente la persona che dà sempre. Perché quello [b], vedi, è stato allevato nella nostra famiglia. L’altro [a] è fatto dall’oro dato dalle persone, che avevano bisogno di qualcosa. Per questo cresce in maniera differente. Se hai notato è sempre sorridente, mentre l’Altro [b]….eh no! Può farti dei brutti scherzi
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e tu vai fuori di testa…Vedi, non posso spiegarti, io sento cose diverse con l’Uno e con l’Altro, perché hanno due personalità differenti. Lui [b] ti fa piangere prima di tutto, ti testa emotivamente. L’altro [a] sorride, niente di più. Lui [b] ha qualcosa in più. Ma vuole qualcosa in cambio. Prima fai qualcosa per lui e poi avrai.
I due Ayyappan vengono descritti come persone con il proprio carattere, il quale dipende dal modo in cui sono stati allevati. Quello che è stato allevato nelle norme si dimostra sempre sorridente, una divinità bonacciona sempre disposta ad ascoltare e soddisfare le richieste degli uomini. L’altro è più caratteriale, ha dei colpi di testa, richiede maggiori attenzioni e cure, insomma non si può prenderlo alla leggera. Sa ciò che vuole e se non lo ottiene ci saranno sicuramente delle conseguenze. La crescita della divinità viene descritta attraverso l’utilizzo di termini che rimandano all’allevamento di un bambino: come l’educazione parentale forgia il carattere del bambino, allo stesso modo le modalità con cui si adora la divinità ne determinano il carattere e la bhakti diviene qui il nutrimento che sostiene tale crescita. “Da quando è al tempio cresce, cresce, cresce” mi ha detto Guruswāmī un giorno al termine della pūjā. Alle mie richieste di spiegazioni ha risposto che la crescita sorprendente dipendeva dal compimento quotidiano dei rituali che lo appagano. Egli si sazia solo delle espressioni dell’amore che Suo padre gli fornisce quotidianamente. Quando questi non c’è non è la stessa cosa: tutti se ne accorgono e c’è molta meno gente. La crescita di cui parla Guruswāmī significa in definitiva l’aumento dell’energia divina albergante nella mūrti. Tanto più forte è la potenza divina tanto più essa è difficile da gestire, pericolosa, rischiosa per chi non la conosce o scherza con essa. È per questo motivo che la presenza di Guruswāmī è fondamentale, direi addirittura essenziale: attraverso di lui essa viene gestita correttamente, incanalata e resa fruibile.
5.5 Il rituale Al tempio vengono condotte due pūjā giornaliere, alle 13 e alle 19. La mattina
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invece le mūrti vengono svestite e lavate con sostanze diverse, tra cui latte, yogurt, succo di agrumi, miele, acqua di rose e tante altre (Abhiseka). Nella sua struttura generale la pūjā
ripercorre le medesime tappe che negli altri templi: le mūrti vengono ornate,
l’incenso viene acceso, gli strumenti del rituale e il cibo offerto purificati, lampade di diversa foggia e dimensione vengono presentate alla divinità, i suoi nomi vengono recitati, fiori multicolori, ghirlande, frutti e dolcetti gli vengono offerti. Ci sono tuttavia alcune tappe di questo percorso rituale in cui si immette un’originalità che, nonostante alcune critiche, viene valorizzata dai fedeli del tempio come positiva, fresca e attirante. Volendo procedere per ordine la prima modifica alla norma è introdotta durante la preparazione delle mūrti. La decorazione delle statue, che include la vestizione e il trucco, viene fatta da S. o da Guruswāmī in persona: Quando ho cominciato avevo 13 anni e in pratica non ho imparato da nessuno, facevo ciò che dovevo fare. Arrivavo al tempio e lo facevo e ci sono state delle persone, dei brāhmayi
che erano stupiti perché facevamo tutto questo senza essere brāhmayi (…)
tempo fa sono venuti dei brāhmayi e vedendo tutto ciò hanno cominciato ad avere dei giramenti di testa e allora mi hanno sfidato. C’erano delle persone che ornavano Gayeśa
e gli altri e non aveva niente a che vedere con quello che facevo io, e questo
li innervosiva. E a un certo punto hanno cominciato a dirmi che ‘questo non si fa, non hai il diritto di farlo così’. È pesante. Ma io ho continuato a fare come facevo e anche loro alla fine mi dicono ‘mi dispiace, ti faccio le mie scuse, non avevo il diritto di dirti quelle cose, eccetera, fate quello che volete, la decorazione è pur sempre decorazione’. Di solito non si ha il diritto di disegnare dei baffi su una divinità, ma io fin da quando sono piccolo, tutto quello che mi succede, lo riproduco. Prima avevo questo (il pizzetto) e facevo questo, ora faccio i baffi e la barba (ride). E ci sono delle persone che dicono ‘beh, ma le statue non sono mica li per giocarci’ e io : ‘faccio quello che mi pare, ce l’ho da quando sono piccolo, quindi è come me’. Il fatto è che non sono abituati a cose del genere, ma è anche questo che fa l’originalità.[S.]
Il contatto che implicano questa serie di atti (la mūrti viene vestita, adornata, ingioiellata) e la contaminazione conseguente richiede ovviamente che a compierli sia qualcuno di puro: in questo caso soltanto Guruswāmī e suo figlio S. sono autorizzati a
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farlo, nessun altro può avvicinarsi ad esse o toccarle. La decorazione della divinità assume però qui una valenza nuova, non solo perché a compierla, come per il rituale nel suo complesso, è un non-brāhmaya12 ma perché essa viene fatta senza seguire le norme, le quali regolano la decorazione come la costruzione delle mūrti, poiché “only an image made in accordance with the canon can be called beautiful” (Eck 1996: 51). Nonostante ciò l’atto è visto come legittimo, in quanto scaturisce da un rapporto diretto con la divinità. Il fatto, a maggior ragione per S., di non aver ricevuto alcuna formazione, permette di lasciare spazio alla creatività in un atto che sarebbe altrimenti guidato da canoni estetici precisi. Secondo elemento di novità, la pūjā viene condotta interamente in tamil e non in sanscrito. La gente sembra apprezzare questa modifica, in quanto rende il rituale comprensibile e condivisibile. Essa non viene vissuta come una deformazione, un allontanamento dalla norma, quanto piuttosto come un mezzo di coinvolgimento maggiore dei presenti. Anche questa modifica ritengo vada interpretata alla luce della specifica provenienza e formazione di Guruswāmī, la quale diviene motivo di modifiche sostanziali: la non conoscenza del sanscrito e dei complessi mantra la cui recitazione accompagna lo svolgimento del rituale non esclude la possibilità di rivolgere complesse e raffinate odi alla divinità. Se si dice che il sanscrito sia la lingua degli dèi, è anche vero che “Dio capisce tutte le lingue”. Purtroppo tra i grandi limiti della mia ricerca, come ho sottolineato nell’introduzione, devo includere la non conoscenza del tamil: non mi è stato quindi possibile analizzare adeguatamente la portata di questa innovazione, la quale sarebbe però un interessante e prolifico ambito di indagine. Tra le originalità di questo tempio infatti essa è, assieme alla caratteristica di cui tra breve, quella maggiormente valorizzata dai devoti: la componente comunicativa verbale della cerimonia viene anch’essa condivisa in quanto comprensibile, a differenza delle formule sanscrite il cui significato rimane un mistero per i più. La terza caratteristica si immette in un momento fondamentale del rituale: l’offerta di fiori o di petali di fiori, che è una pratica abituale e osservabile in tutti i templi di 12
In senso largo, come spiegato a inizio capitolo: qualcuno che non abbia una formazione tale da farne un officiante.
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Parigi. Essa è associata alla recitazione dei nomi della divinità: il gesto ritma la recitazione, in una corrispondenza cino-sonora. Fin qui quindi niente di particolare. Ciò che è speciale è l’abbondanza che caratterizza qui tale atto. Mentre negli altri templi i fiori vengono apposti uno alla volta, talvolta petalo per petalo, qui essi vengono offerti a manciate. Durante questa fase della pūjā essi vengono passati ripetutamente a Guruswāmī su un grande piatto da uno dei suoi aiutanti. Capitando al tempio il sabato mattina ci si può render conto delle quantità di fiori che vengono utilizzati ogni settimana: una metà della sala è occupata da grandi recipienti nei quali vengono smistati, dopo essere stati ripuliti, e nei quali vengono conservati nei giorni successivi. Alcune donne preparano le ghirlande che orneranno il collo delle divinità. Queste vengono circondate ogni giorno da un nuovo giardino profumato e multicolore, del quale “gioiscono”. Il fiore funge quindi da decorazione e da offerta oltre a rivestire un ultimo e importante ruolo: esso è mezzo di espressione del divino. Durante la pūjā infatti, terminata l’offerta dei fiori, che ricoprono in abbondanza la mūrti, Guruswāmī tende la mano destra in avanti, verso Ayyappan. Attende, in silenzio, che Egli si riveli, facendo cadere dei fiori, proprio nella sua mano. Se questo non avviene, se Egli rifiuta di darsi, lo esorta fino a gridare e piangere. Il momento in cui i fiori cadono rappresenta un nuovo climax del rituale. L’attenzione dei presenti è assoluta in questa fase della pūjā, gli sguardi sono tutti concentrati sulla mano tesa ad attendere il miracolo. Un leggero grido si leva quando questo avviene. Questo momento concentra in sé tutto il senso della specificità di questo tempio: solo Guruswāmī può compierlo poiché è il suo rapporto con Ayyappan, i cui frutti egli condivide, a renderlo possibile. Esso è prova di questo rapporto padre-figlio che li unisce e manifestazione “a comando” del divino. L’ultima specificità del tempio, che ne fa un caso unico a Parigi, è il fatto che durante la parte finale della pūjā, prima dell’āratī conclusivo, i fedeli vengono invitati a cantare. È questo un momento molto forte della cerimonia. Alcune donne, le quali a differenza degli uomini rimangono spesso sedute durante la cerimonia, si alzano e, a memoria o seguendo un testo, si uniscono a Guruswāmī e ai suoi aiutanti nel canto delle lodi di Ayyappan. La partecipazione è forte e sentita, la voce diviene mezzo di espressione collettiva della propria devozione. Guruswāmī, che guida e ritma il canto, si
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gira spesso verso i presenti per esortarli con gesti delle mani e la scansione delle sillabe del canto. La partecipazione dei presenti è quindi non solo auspicata ma stimolata, naturalmente entro modalità definite culturalmente. La loro presenza è quindi essenziale al rituale, il quale non solo è fatto a loro beneficio ma da essi dipende nel suo buon svolgimento. Tutte le specificità elencate, al di là del loro valore intrinseco, svolgono anche un’importante funzione pratica. Se durante la pūjā si concentra lo sguardo sui fedeli, si noterà subitamente un’importante differenza nell’atteggiamento dei devoti in questo tempio rispetto agli altri: l’attenzione verso il rituale è quasi totale, in ogni caso sicuramente e palesemente maggiore che negli altri templi. Le originalità, come le chiama S., di questo tempio, la decorazione delle mūrti, l’offerta dei fiori, l’uso del tamil al posto del sanscrito, cosi come i canti, stimolano l’attenzione dei presenti, i quali sono visti non come spettatori ma come attori in questo grande cerimoniale offerto alla divinità: tutti i loro sensi sono appagati e al tempo stesso stimolati all’attenzione sul divino. In un certo senso sono proprio le novità a permettere di raggiungere ciò che è lo scopo ed il senso dell’intero rituale, magnificamente espresso nel commento di Ramanuja alla Bhagavad Gītā:
they may enjoy me [il divino, in questo caso Krsya] by every one of their sense faculties and in all diverse ways (Eck 1996: 49).
Le varie componenti della pūjā sono quindi volte a focalizzare i sensi dei devoti nella loro interezza sul divino, così come la mūrti “is a support for meditation”(Eck 1996: 49): attraverso i sensi si aiuta la mente a focalizzarsi sul più puro dei pensieri, Dio. Ai canti segue l’apposizione della vibhūti da parte di Guruswāmī. Questo atto consiste nell’apposizione da parte di colui che ha condotto la pūjā della sacra cenere (che è simbolo e sineddoche di Śiva in quanto asceta primigenio e distruttore dell’universo) sulla fronte dei presenti. Essa è utilizzata in tutti i templi di Parigi, i quali si possono definire come appartenenti alla corrente Śaiva dell’Induismo. Tuttavia quest’atto,
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compiuto con disinvoltura e spesso disattenzione negli altri templi dove, forse, è puramente simbolico, assume qui una funzione duplice:
benedizione del guru, che
diviene egli stesso, durante la pūjā, ricettacolo del divino, e mezzo, attraverso l’imposizione della mano destra, di un’indagine sensitiva. Attraverso questo gesto infatti egli testa coloro che si recano al tempio. Al termine della cerimonia i presenti, uomini in testa, formano una lunga fila: i primi a ricevere la vibhūti sono coloro che, in virtù della loro particolare devozione, hanno accesso alla zona sacra durante la pūjā, in qualità di aiutanti. Tra di essi figurano i due figli maschi di Guruswāmī, i figli (dall’età puberale in poi) dei membri dell’associazione, e alcuni tra i più “competenti” dei devoti. Una sorta di gerarchia informale e non dichiarata regola i compiti assegnati a ciascuno: essa è basata sull’esperienza (in testa coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio, e quante volte l’hanno compiuto), la frequentazione assidua e l’aiuto fornito al tempio, l’età e la famiglia di appartenenza. Nessuno degli elementi, tranne naturalmente l’età, è necessario né sufficiente: la prima e l’ultima parola è sempre quella di Guruswāmī. Come dicevo essi sono i primi a ricevere la vibhūti, seguiti dagli uomini presenti e dalle donne, le quali superano sempre di gran lunga gli uomini13. I fedeli si avvicinano a Guruswāmī
uno a uno, talvolta la mano destra a coprire la bocca in segno di rispetto, in
quanto il fiato è portatore dell’impurità relativa di ciascuno. Per lo stesso motivo non si spengono le lampade (nella cui fiamma risiede il divino) col soffio ma con un movimento della mano o con un fiore. Gli occhi si chiudono o lo sguardo si abbassa, la fronte viene offerta alla mano che è divenuta mano divina. Guruswāmī assume progressivamente nel corso del rituale uno stato che è extra-normale: “non è più qui” mi è stato detto diverse volte. Progressivamente egli supera la sua natura umana, limitata, trascende sé stesso: diviene Dio e Dio viene in lui. La vibhūti è qui non solo simbolo, ma veicolo concreto del sacro, apposto da colui che è, seppur temporaneamente, il divino. Inoltre l’onniscenza che caratterizzerebbe questo stato è prova concreta della sua realtà. Pare che coloro che si recano al tempio avendo trasgredito le regole di purezza richieste per accedervi (è importante notare che la trasgressione è meno grave se a compierla è qualcuno che non conosce le regole), in particolare avendo mangiato carne o bevuto dell’alcool, vengano individuati e cacciati in malo modo da Guruswāmī nel momento dell’apposizione della 13
Il venerdi e nel weekend il tempio può contenere fino a 150 persone circa. In settimana i fedeli sono decisamente meno. In ogni caso le donne sono sempre il doppio o il triplo degli uomini.
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cenere sacra14. È importante notare anche che tale stato è temporaneo: “dopo si dimentica tutto”, mi ha detto una signora sulla sessantina, srilankese come quasi tutti i presenti, e giunta in Francia recentemente, dopo aver vissuto 15 anni in Tamil Nadu. Egli non agisce quindi in sé: la sua voce e i suoi gesti sono guidati dà Ayyappan. Il fatto che le regole, spiegate come regole di igiene da un lato, e rispetto dall’altro, siano le medesime che negli altri templi, e siano regole di purezza relativa culturalmente definite, non è oggetto di osservazione. Ciò che è speciale qui è la presenza di un vero guru il quale oltre a guidare i suoi allievi, individua i potenziali pericoli: in tal modo è vissuta la presenza di “cuori non sinceri”, di persone cioè che vengono al tempio per fini diversi da quelli religiosi e che non rispettano le regole di condotta, provocando danno all’intera comunità. L’idea di un’influenza negativa forte esercitata da parte di individui di questo genere, attraverso non solo l’impurità fisica, ma soprattutto attraverso i cattivi pensieri e l’invidia, che vengono “inviati” attraverso il medium visivo, è al centro delle preoccupazioni di Guruswāmī:
il ruolo di spicco che egli riveste nella comunità espone lui e la sua famiglia
al malocchio e la santità e potenza del tempio è messa in pericolo da tali presenze. È in tale senso che va interpretata la particolare importanza dell’apposizione della cenere sacra. Quest’atto è compiuto con grande sacralità: la cenere viene apposta con il pollice della mano destra, il quale percorre verticalmente tutta la fronte, nel suo centro, con un certo vigore. Ciò su cui posso pronunciarmi con sicurezza è l’importanza fondamentale dell’apposizione della vibhūti, in quanto atto trasformativo: esso non solo è auspicato, ricercato, in quanto benedizione ma è al contempo necessario atto di purificazione. Non a caso, per i fedeli, l’ingresso nella zona sacra del tempio è ad esso immediatamente successivo. Essi non hanno accesso in nessun altro momento (a differenza di altri templi in cui, per ragioni diverse, le mūrti sono sempre o quasi sempre disponibili al visitatore), e il compimento della pradaksiyā, la circumambulazione rituale in senso orario, durante la quale è possibile toccare le pareti del garbhagrha o la base del suo ingresso, è sottoposto alla previa purificazione che l’applicazione della cenere sacra implica. Ogni contatto infatti comporta una trasmissione-mescolamento di sostanze ed è per questo che la purezza, intesa come concetto relativo e come stato temporaneo, è così valorizzata. 14
Nonostante molte persone mi abbiano parlato di casi simili, non vi ho personalmente mai assistito.
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L’apposizione della vibhūti rappresenta il completamento di un percorso trasformativo che porta all’identificazione temporanea dell’adorante con la divinità. Tutte le specificità del tempio di Ayyappan sopra riportate rappresentano quindi non solo la conseguenza dell’origine ed esperienza di Guruswāmī ma sono anche funzionali e dipendenti da una specifica visione del sacro, che, in definitiva, è quella della bhakti: il rapporto personale del bhakta con la sua divinità (la quale è sentita più che scelta), la componente emozionale di tale rapporto e l’accento posto sulla condivisione ne sono il focus. Entrambe le cose si combinano poi con le possibilità contestuali e con ciò che chiamiamo “eredità culturale”, con quelle concezioni antropologiche, cosmologiche, ontologiche che riuniamo sotto la grande etichetta di ‘cultura’.
5.6 Il cibo: legame e simbolo Per concludere la trattazione relativa al tempio di Ayyappan, la quale richiederebbe una ricerca a sé stante, mi soffermerò su un elemento che non solo è fondamentale per il caso etnografico in questione, ma è di un’importanza ampiamente sottolineata per il rituale hindū nella sua generalità. Come già detto alla base della fondazione del tempio di Ayyappan a La Courneuve sta un desiderio di condivisione. Con-dividere: il termine implica la divisione con altri di un bene che è sentito o che si vuole comune. Tra gli atti sociali che una certa antropologia ha definito universali troviamo sicuramente il consumo di cibo: che il cibo sia un fatto culturale e sociale è assodato, anzi è un fatto sociale totale, per prendere le mosse da Marcel Mauss o, citando Roland Barthes, esso «è in ogni luogo e in ogni epoca un atto sociale» (Guigoni 2004: 13).
Al tempio di Ayyappan grande importanza viene data al cibo, più che in altri templi. La cosa più importante per i suoi devoti è dare, soprattutto nutrire. Per questo ogni giorno, per pranzo e cena viene offerto un pasto, abbondante, a tutti i presenti, senza distinzioni. La qualità del cibo, che viene offerto ad Ayyappan come ai presenti, è molto
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importante. Per questo solo i membri dell’associazione possono prepararlo, mentre alcune persone particolarmente devote, che si recano al tempio quasi tutti i giorni, possono aiutare a distribuirlo o a pulire la sala dopo il pasto. Inoltre alcune regole che si richiede di rispettare al tempio, come, per le donne, tenere i capelli legati, sono volte soprattutto a evitare rischi di contaminazione e inquinamento del cibo. Credo che il cibo (nel caso in questione) racchiuda in sé il senso del tempio come luogo comunitario: è mezzo di trasmissione e affermazione identitaria da un lato, in quanto preparato e consumato “come in Sri Lanka”15; è pasto comune, consumato contemporaneamente e indistintamente da tutti, e in questo senso esprime la peculiarità di questo tempio dove, proprio in quanto luogo del religioso, le gerarchie sociali vengono lasciate da parte16; ed è l’unica modalità “non-spirituale” di aiuto che viene data. Molti sans papiers, letteralmente ‘senza documenti’, immigrati srilankesi tamil senza permesso di soggiorno, vengono al tempio per ricevere un pasto caldo e del cibo al quale sono abituati. “Le persone lo sanno che in questo tempio trovano un sostegno”. L’idea che sta alla base della creazione di questo tempio è la condivisione e il cibo è a un tempo mezzo e simbolo di questa visione. L’importanza del cibo è non solo sottolineata dai responsabili del tempio e da Guruswāmī
in particolare, ma è anche facilmente osservabile, soprattutto se si mette a
confronto l’attitudine verso di esso riscontrabile negli altri templi. Tenendo in considerazione che l’offerta di cibo è uno degli atti fondamentali con cui si onorano le divinità e che l’atto del donare non è unidirezionale, ma implica una reciprocità di dare e ricevere, la quale è espressa nel consumo del prasād, si capirà come la condivisione di questo atto finale rappresenti simbolicamente e fisicamente (da un punto di vista “interno”) il legame tra tutti gli elementi, umani e divini, che prendono 15
Il cibo è anche strumento di differenziazione tra gruppi sociali, etnici e culturali. Come ha sostenuto Mary Douglas, il cibo rappresenta un importante mezzo comunicativo, attraverso il quale l’individuo esprime sé stesso e si differenzia dagli altri: l’analogia tra cibo e codice comunicativo implica una visione del cibo come veicolo di informazioni circa ruolo, status, età, genere e in definitiva di rapporti e gerarchie sociali. Attraverso il cibo cioè vengono veicolati messaggi “utili”, al farsi e rifarsi del sé e delle sue strutture interne, e al suo rapporto di differenziazione con l’altro. I gusti nell’alimentazione sono tra i principali oggetti di stereotipi e ad oggi l’identificazione dell’altro attraverso “i suoi ristoranti” è un dato di fatto. Inoltre il gusto dell’esotico si può dire passi oggi principalmente attraverso l’alimentazione. 16 È importante sottolineare qui quanto tale posizione sia limitata agli affari religiosi e alla vita entro le mura del tempio: siamo tutti uguali di fonte a Dio, ma (all’interno della comunità) nella vita quotidiana la gerarchia castale è sempre presente e senza che questo crei alcuna contraddizione.
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parte alla pūjā. Non solo quindi il legame tra umano e divino, espresso nel consumo dei resti del pasto che è stato offerto a Dio, ma anche il legame tra umano e umano, qui (e solo qui) considerati nella loro componente non-sociale: l’irrilevanza dei ruoli e delle gerarchie sociali espresse nell’appartenenza castale, sta alla base della fondazione del tempio e ne rappresenta l’unicità nel panorama parigino. Il fatto che Guruswāmī condivida con i devoti anche il pasto, sedendo tra loro, a contatto con loro, sottolinea l’uguaglianza (di fronte a Dio!) di tutti i presenti. Il fatto che egli non provenga dalla casta dei Brāhmayi
è ovviamente molto
rilevante, ma, a mio parere, non è sufficiente a rendere conto delle specificità del tempio e della sua gestione: queste rivelano piuttosto una precisa visione del mondo. Egli, nonostante la sua provenienza castale, possiede uno statuto diverso e superiore agli altri, e ciò è fuori discussione: si pensi ad esempio al fatto che tutti i presenti, nessuno escluso, si piegano, dopo aver ricevuto la vibhūti, a toccare i suoi piedi con le mani. È questo un atto di rispetto e una dichiarazione di minorità relativa e raramente l’ho visto compiere negli altri templi. Se egli, in virtù di tale superiorità, sedesse a parte nel consumare il suo pasto o addirittura non prendesse per niente parte ad esso, come fanno i Brāhmayi negli altri templi, non credo che la cosa susciterebbe reazioni particolari da parte dei presenti. Nonostante tale statuto, il quale egli non deve alla nascita ma al suo rapporto diretto e personale col divino e alla sua conseguente santità, egli si siede in mezzo ai presenti per nutrirsi con loro del prasād, esprimendo, ancora una volta, l’importanza del condividere l’amore e la devozione per Dio e il rapporto diretto con esso, di cui il cibo diviene qui strumento e simbolo17. Tradizionalmente il compito di preparare il cibo che viene offerto alla divinità e poi come prasād ai devoti, spetta ad un brāhmaya. Al tempio di Ayyappan esso è affidato alle donne dell’associazione. Una simili modifica della prassi viene documentata da J. Waghorne che riferendosi al tempio di Śiva e Visyu di Lanham, Maryland (USA) dice: When women now make this prashad, sanctified meals eaten by devotees as a 17
Naturalmente è vero anche il contrario: tra i devoti del tempio molto probabilmente alcuni sono di casta superiore a Guruswāmī. Anche per loro questa convivialità rappresenta un importante trascesi delle norme di purezza che regolano le relazioni intercastali. Questi cambiamenti inoltre sono sicuramente influenzati dal nuovo contesto di vita, come si è spiegato nel capitolo II.
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sacrament, they are assuming a priestly role; ther domestic task has expanded (1999: 123).
Tale riflessione può essere applicata anche al caso in questione: nonostante il loro ruolo sia sempre molto limitato, il nuovo contesto permette di rinnovare i compiti che vengono affidati alle donne della comunità: l’importanza del cibo richiede che a preparalo sia una mano non più pura per nascita e “formazione” ma per sincera devozione e profondità di cuore (e regole di condotta, naturalmente, le quali sono richieste a tutti coloro che si recano al tempio). In questo caso, essendo l’associazione composta da cinque donne e un solo uomo, Guruswāmī, sono le donne ad occuparsi di questo importantissimo atto quotidiano, investendo un compito che normalmente è privato, domestico, di un nuovo valore. Il caso riportato dalla Waghorne, nonostante tale punto in comune, rivela però un carattere diametralmente opposto nel momento della fruizione del cibo. Nel Shri ShivaVishnu Temple infatti il momento chiave rappresentato dalla condivisione del prasād è stato desacralizzato e ridotto ad un semplice pasto: la separazione di quest’atto dal suo significato e dal suo “scopo” originario è reso ancor più fortemente dalla divisione spaziale dei locali del tempio, in cui la cucina e l’annessa “sala ristorante” si trovano non solo separati ma al piano inferiore rispetto al tempio. Ciò che viene servito alla grande famiglia dei devoti e che viene mangiato con posate di plastica, è solo l’ombra diafana del prasād,
molto più simile a un pranzo profano che ai resti, carichi di divino, del pasto di
Dio. Al tempio di Ayyappan a La Courneuve invece la consumazione del pasto si svolge di fronte alla magnificenza delle mūrti, circondati dal profumo dell’incenso, incantati dai canti devozionali riprodotti senza sosta da un piccolo stereo. Al termine della pūjā, i presenti si siedono a gambe incrociate in file ordinate, pronti a ricevere il prasād. Nelle occasioni speciali il pasto viene servite su foglie di banano, altrimenti in piatti di carta e si mangia rigorosamente con le mani. La fruizione del pasto quindi avviene temporaneamente e spazialmente a contatto col divino e con l’atto dell’onorarlo appena conclusosi. Esso non è solo momento di socialità, occasione di mangiare come e ciò che si mangiava au pays, ma conserva tutta la sua valenza sacra, la quale viene espressa e
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valorizzata da Guruswāmī stesso il quale considera come irrispettoso colui che partecipa alla cerimonia ma parte senza aver mangiato.
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Capitolo VI IL SRI AYYAPPAN TEMPLE DI SAINT DENIS
6.1 La scoperta del tempio Il Sri Ayyappan Temple di Saint Denis si trova in un grande locale precedentemente adibito a magazzino, in una zona non residenziale della periferia nord di Parigi1, sede principalmente di grandi aziende, e a 15 minuti a piedi dalla stazione della RER, la rete di treni che collega Parigi all’Ile-de-France. A meno di non possedere una macchina quindi, arrivare al tempio è lungo e faticoso, soprattutto nelle fredde e buie giornate invernali. Sono venuta a conoscenza dell’esistenza del tempio casualmente, tramite una locandina affissa vicino al Temple de Mutthumariamman a La Chapelle2, in cui figurava fortunatamente l’indirizzo scritto in francese. La settimana seguente, armata di cartina, sono andata a cercarlo, ma non è stato facile, poiché non c’è alcun cartello che indichi la presenza del tempio, solo sul portone d’ingresso e sulla casella delle lettere è riportato in tamil il suo nome. Dopo aver suonato ripetutamente il campanello, un signore, che successivamente ho scoperto essere il fondatore, è venuto ad aprirmi, dicendomi che il tempio era chiuso e di tornare il giorno dopo, nel pomeriggio. E così ho fatto. Da allora mi sono recata al tempio soprattutto di venerdì per la pūjā serale. Dei tre giorni di apertura infatti il venerdì è quello meno frenetico e in cui c’è meno gente: spesso questo rappresentava per me un vantaggio, in quanto significava più tempo dedicabile alle conversazioni. Solitamente arrivavo al tempio molto in anticipo rispetto all’inizio della pūjā,
quasi contemporaneamente agli uomini che si occupano delle mansioni di routine
come pulire e preparare il cibo. Di fronte ad una calda tazza di zuccheratissimo chai, passavo una o due ore a conversare col fondatore e presidente del tempio, prima di partecipare alla cerimonia.
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Al 285-287 della lunghissima Avenue du President Wilson, 93210 La Plaine Saint Denis-France. Nonostante questo i due templi non hanno alcun tipo di collaborazione o legame.
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6.2 Il koyil e la concentrazione spaziale del sacro: l’importanza del visivo Il tempio è composto da una grande sala principale, dal soffitto molto alto, e da quattro piccole stanzette: l’ufficio del fondatore (che è anche la sua camera da letto), una piccola cucina, un bagno e uno sgabuzzino dove sono stipati tutti gli strumenti rituali. Corrispondente alla zona “profana” del tempio, e sormontante tutte queste stanzette, è stato creato un soppalco, che funge da “camerino” per coloro che necessitano cambiarsi d’abito e indossare i vestiti tradizionali, segno di pulizia e rispetto, in quanto usati esclusivamente al tempio. Come in quasi tutti i templi di Parigi, eccetto il Sivan-Parvathi Temple a La Courneuve e il Temple de Mutthumariyamman a La Chapelle, la grande sala principale è divisa in due zone: l’area delle divinità e l’area profana ad essa speculare. Al Sri Ayyappan temple esse sono separabili da una lunga tenda che però non ho mai visto utilizzare. La separazione di questi due spazi è comunque percepibile grazie alle proiezioni architettoniche della linea lungo la quale corre la tenda, nello spazio verticalmente corrispondente: lo scarto cromatico nel pavimento e la chiusura del soppalco soprastante rendono fortemente percepibile la contigua diversità di due mondi, l’umano e il divino, che trovano uguale dimora nel tempio e ne rappresentano la ragion d’essere. Ne consegue una concentrazione spaziale del sacro in una porzione della sala, il che rende possibile la fruizione visiva simultanea di quasi tutte le mūrti. La disposizione di queste ultime segue una logica di organizzazione gerarchica dello spazio: immediatamente visibili al visitatore si trovano sul fondo della sala le tre mūrti principali, Ayyappan
al centro, Gayeśa a sinistra e Laksmī-Nārāyaya a destra, ciascuna nella propria
cappella. Al tempio vi si riferiscono col termine tamil koyil (tempio). L’uso di tale termine, utilizzato normalmente per il tempio nella sua interezza penso sia dovuto alle modificazioni architettoniche che il contesto francese ha reso necessarie. Di tutti i templi presenti a Parigi nessuno è stato costruito ex-novo, secondo i dettami della scienza architettonica (vāstuśastra). Sono tutti ospitati in sale, più o meno grandi, precedentemente adibite ad attività profane: spesso si tratta di ex-magazzini, atelier d’artigiani, piccole fabbriche, garages3. Nessuno di essi, tranne il tempio di Śiva e Pārvatī 3
Le difficoltà legate alla costruzione di un “vero” tempio sono principalmente economiche e logistiche: i prezzi elevatissimi dei terreni e la necessità di restare in zone ben servite dai trasporti.
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(sulla cui facciata sono state applicate piccole statue, a formare una specie di gopuram bidimensionale) mostra esternamente elementi architettonici che facciano presumere la presenza di un tempio. Ciò a cui ci si riferisce col termine di ‘koyil’ o ‘kovil’ non è più quindi il tempio nel suo complesso ma “il grembo della divinità”, il quale viene sormontato da una struttura che ne fa un tempio in miniatura, all’interno di un luogo privo di elementi che lo rendano riconoscibile in quanto tale. La sovrapposizione di due elementi architettonici altrimenti distinti, il tempio e il suo santuario più interno, grembo della mūrti, è funzionale ad una traslazione, o meglio, ad una concentrazione, di significati ed esperienze visive. Parlando del tempio hindū S. Kramrisch dice: Un tempio indù, diversamente dall’Altare vedico, non esaurisce il suo scopo nell’essere costruito; deve necessariamente essere visto. Darśana, il guardare il tempio, sede, dimora e corpo della divinità, e il suo culto (pūjā) sono il fine della visita al tempio (1976: 162).
La concentrazione in un unico elemento del santuario interno, sede della divinità, e della sovrastruttura, porta alla sovrapposizione dei due fondamentali atti visivi che caratterizzano la visita al tempio: la vista della sua forma esterna, in quanto dimora della divinità stessa e la vista della mūrti. Infatti “la casa di Dio (devālaya) è la manifestazione concreta (mūrti) di Śiva o di qualsiasi altro nome nel quale sia contemplato il Principio Supremo, nello stesso grado della sua immagine corrispondente (mūrti)” (Kramrisch 1976: 158) Come dicevo, quindi, tre kovil, contenenti rispettivamente Gayeśa, Ayyappan e Laksmī-Nārāyaya,
occupano il fondo della stanza. Alla destra del visitatore altre due
piccole cappelle, ospitano la prima Ayyappan nella sua forma mobile (utilizzata per compiere un défilé interno al tempio, non avendo i permessi per farlo in strada) e l’altro tre piccole mūrti di suoi relativi avatāra: Dharmaśasta al centro accompagnato dalle due mogli, Pūna e Puskala, Ayyappan nella sua forma infantile e nella sua forma che uccide Mahisi.
Le mūrti del tempio sono state tutte fabbricate in India, in “giorni di buon auspicio”, 106
sottolinea il fondatore. È per questo, sostiene lui, che risplendono come se fossero fatte in oro, mentre sono costituite dal Pañcaloha, una lega di cinque metalli, con la quale vengono tradizionalmente fatte le mūrti. Sottolineare la loro luminosità è un modo per comunicare in termini visivi la presenza della divinità, il suo risiedere nella concretezza del metallo trasfigurandone le caratteristiche fisiche.
6.3 Divino e umano come identità reciprocamente costruite Il Sri Ayyappan Temple è stato fondato dieci anni fa dal signor Muthukumarasamy, un ex-giornalista srilankese di 69 anni, ormai in pensione. Il signor Muthukumarasamy è un uomo cosmopolita, che grazie al suo lavoro ha potuto viaggiare moltissimo: a quanto mi ha riferito lui stesso, ha scritto non solo per i più importanti giornali srilankesi, ma anche per testate americane e russe, ha partecipato a convegni in tutto il mondo, ha incontrato e intervistato grandi personalità e ha lavorato anche per le Nazioni Unite. Ovviamente parla perfettamente inglese e anche il suo francese è piuttosto fluente. Muthukumarasamy è arrivato in Francia trent’anni fa, ma non sono riuscita a scoprire le ragioni che hanno motivato la scelta di stabilirvisi, qualsiasi questione diretta in tal senso è stata bypassata con eleganza. In ogni caso non credo siano legate a motivazioni politiche, né all’aumentare delle tensioni interetniche in Sri Lanka4: proveniente dall’elite 4
Muthukumarasamy è molto più legato all’India, dove si reca spesso e dove conosce molte persone, che al suo paese d’origine. Tale legame è rintracciabile chiaramente nei suoi discorsi: in tutte le nostre conversazioni solo due o tre volte ha menzionato lo Sri Lanka e i problemi della minoranza tamil, da cui peraltro proviene. Non credo sia forte in lui il senso di appartenenza alla comunità tamil di Parigi, con cui ha rapporti solo grazie al tempio. Egli è invece particolarmente legato all’immagine della “spiritual India”, dove lui e i suoi figli si recano appena possibile per viaggi devozionali e dove viene mantenuta una rete di contatti, amicizie e legami dalle connotazioni spiccatamente religiose. Grazie a queste conoscenze riesce a praticare “a distanza” in alcuni importanti templi. Questi amici fanno celebrare con regolarità delle arcanā per lui e tramite il loro aiuto fa offerte di vario tipo nei principali templi del Sud India: per un tempio dedicato a Krsya ha acquistato una mucca, in modo che dal suo latte possa essere preparato il ghī utilizzato giornalmente per l’abhiseka; regolarmente finanzia degli abhiseka nel tempio di Tirumanavali, per Śiva. Questo legame con l’India, terra sacra dell’Induismo, risponde, con palese chiarezza nel caso di Muthukumarasamy come di altri fedeli di origine non indiana che ho potuto incontrare soprattutto al tempio di Saint Denis e al tempio di Gayeśa, ad un immaginario condiviso che fa dell’India la madre e degli induisti i figli sparsi per il mondo: il legame che si istituisce è principalmente a livello di immaginario e il mito del viaggio verso questa terra sacra rappresenta un tentativo di concretizzazione. Tale visione dell’India non mi è però sembrata presente o forte in molti templi fondati da srilankesi: sono in particolare il Sri Manicka Vinayakar Alayam, dove i Brāhmaya vengono reclutati in India, e il tempio di Saint Denis, con la sua visione spiccatamente neo-advaita ad aver manifestato tale legame.
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tamil cosmopolita e anglofona, e appartenente alla casta dominante, i Vellala, ha condotto i suoi studi in Inghilterra e in Germania. Successivamente è tornato in Sri Lanka, per poi spostarsi nelle Filippine, a Singapore e infine in Francia. Installatosi a Parigi, dopo pochi anni ha perso la sua giovane moglie, ed è rimasto solo a crescere i loro due figli, ancora piccoli. La morte della moglie, poco più che trentenne, pare lo abbia gettato nel più grande sconforto. È qui che entra nel racconto uno dei topoi classici delle storie di vita che ho ascoltato nei due templi di Ayyappan: Muthukumarasamy comincia a bere, ma l’uso di alcool non fa che abbatterlo ancora di più. È solo qualche tempo dopo (il racconto è molto vago) che riesce a risollevarsi da questo periodo buio, proprio grazie alla scoperta di Ayyappan, di cui viene a conoscenza grazie ad un amico incontrato casualmente nel periodo di preparazione al pellegrinaggio in Kerala. Nella sua memoria la durata di tutti questi periodi è piuttosto vaga: avendo fondato il tempio già dieci anni fa deduce aver ritrovato la giusta via almeno vent’anni fa. Ma in fondo i particolari cronologici non hanno una grande importanza. Ciò che è interessante notare è la somiglianza delle esperienze raccontate dai fedeli di Ayyappan, la ripetizione variata della medesima storia. Essa comincia sempre con la descrizione di una condizione di disgrazia, morale innanzitutto e talvolta economica: il protagonista è portato, per cause diverse, a condurre una vita disdicevole, si allontana dalla religione, per altro insegnatagli dai suoi genitori, e si avvicina all’alcool. Poi un giorno, il miracolo: un segno, un incontro, una visione, lo conduce verso Ayyappan e da allora, compiuta la metamorfosi in pio devoto, egli vede la sua vita trasformarsi radicalmente, le sue pene scomparire, le sue richieste ascoltate e il passato allontanarsi. La storia del signor Muthukumarasamy, seppur scarsa nei particolari, risponde al medesimo schema narrativo. Ascoltando Muthukumarasamy nel racconto della sua vita ci si rende facilmente conto di come il tempio rappresenti per lui una specie di sintesi, il culmine di un percorso spirituale e affettivo ad un tempo. I tre koyil principali presenti al tempio uno di fianco all’altro rappresentano tre fasi importanti della sua vita, nella quale i cambiamenti dell’individuo (Solinas 2006) corrono paralleli alle trasformazioni del devoto. Gayapati, alla sinistra del visitatore, è legato alla sua infanzia, allo Sri Lanka, ai ricordi della sua famiglia e alla piccola stanza della pūjā dove per la prima volta è stato miracolato:
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Avevo dieci anni, ero solo a casa, in Sri Lanka. E uno scorpione mi ha morso, ma io ero solo, mio padre era al lavoro e mia madre era lontana. Sai, quando ti morde uno scorpione devi andare subito all’ospedale per avere l’antidoto. Ma non era possibile, ero solo a casa. E allora sono andato nella stanza della pūjā, mi sono inginocchiato davanti a Gayeśa e l’ho pregato, l’ho pregato di aiutarmi. Ho pregato, ho pregato, ho pregato. E allora mi sono addormentato. E quando ti morde uno scorpione non bisogna assolutamente addormentarsi, bisogna restare svegli e andare all’ospedale per l’antidoto. Ma io mi sono addormentato davanti a Lui e l’indomani stavo bene 5. Laksmī-Nārāyaya
alla destra del visitatore è stata invece la coppia divina a cui ha
rivolto maggiormente la sua devozione durante il periodo mondano della sua vita, quando viaggiava in qualità di giornalista in tutto il mondo. Egli ricorda questo periodo con evidente emozione: era giovane, ricco, sempre circondato da personalità importanti, intellettuali e colleghi giornalisti provenienti da tutti i paesi, alloggiava in alberghi sontuosi e conosceva donne bellissime. Veniva trattato, mi ha detto una volta, “come un maharaja”. La coppia formata da Nārāyaya (Visyu) e dalla sua consorte Laksmī, dea della prosperità e della ricchezza, rappresenta il prototipo della vita coniugale, cosi come Laksmī
“personifies the ideal of conjugal trust and forbearance” (Smith 1997: 139). Nella
mitologia hindū essa rappresenta la necessaria controparte femminile del dio Visyu al quale fornisce, come agli uomini, prosperità e ricchezza per il mantenimento e la preservazione del creato. In association with Vishnu, Lakshmi provides a picture of marital contentment, domestic order, satisfying cooperation and beneficial interdependence between male and female. In most iconographic representations of the pair, they are pictured as smiling, happy couple (Kinsley 1995: 65).
La coppia Laksmī-Nārāyaya è quindi strettamente legata alla realizzazione dell’uomo e della donna in quanto uniti nella formazione di una famiglia, per la quale si 5
Le nostre conversazioni si sono svolte, a parte la prima, quasi interamente in inglese. Nonostante parli piuttosto correttamente anche il francese, la comunicazione in inglese è risultata più fluida e, in definitiva, più ricca di possibili nuances.
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auspica e si chiede prosperità e benessere. Baciato dalla fortuna, ricco e con un’ottima posizione sociale, affiancato da una donna “molto intelligente e sensibile” che era anche “un’ottima madre e una moglie perfetta”, si può dire avesse realizzato l’ideale hindū dell’“uomo-nel-mondo”. Tale periodo viene bruscamente interrotto dalla morte della giovane moglie a cui, come si è detto, fa seguito la depressione, la solitudine e l’alcolismo. Ma si tratta solo di una parentesi da cui egli riesce ad uscire grazie ad Ayyappan e al ritrovato interesse per la vita, questa volta in una prospettiva diversa, di ricerca spirituale. La fondazione del tempio in Suo onore gli viene suggerita in sogno dallo stesso Ayyappan qualche anno dopo: dovrà farlo al massimo delle sue possibilità e dovrà farne un “luogo di pace e raccoglimento; un luogo dove coltivare e da dove emanare amore per tutta l’umanità”. In mezzo a Gayapati e a Laksmī-Nārāyaya si trova quindi Ayyappan, divinità principale del tempio. Nonostante Egli sia presente, marginalmente, in altre forme, tra cui quella con due mogli, le due mūrti principali lo rappresentano nella sua forma celibe, di brahmacarya,
la medesima che si trova al tempio di Sabarimala, in Kerala.
Ciò su cui ho concentrato la mia attenzione durante il terreno condotto in questo tempio, il quale si è sviluppato parallelamente alla frequentazione del tempio de La Courneuve, è la modalità in cui il fondatore e suo figlio vivono il rapporto con questa divinità, la quale può essere giustamente definita come un “hyper-male acetic renouncer” (Osella 2003). I punti in questione nell’analisi di tale rapporto sono due: da un lato la preferenza accordata ad una divinità e il rapporto che s’instaura con essa, dall’altro le modalità d’identificazione con l’alterità divina. Per sviluppare la problematica appena accennata e, a mio parere, fornire un’analisi adeguata del tempio cui è dedicato il presente capitolo, mi permetto qui di aprire una breve parentesi di stampo comparativo, sperando che non crei irriducibili fratture nel flusso descrittivo da poco cominciato. I due templi di Ayyappan di Parigi infatti mostrano caratteristiche molto differenti che il loro confronto potrebbe chiarire: il rapporto e l’identificazione col divino di cui sopra sono non solo di natura qualitativamente diversa, ma si sviluppano anche in direzioni dissimili. In un interessante e denso articolo Filippo e Caroline Osella, grandi specialistici del
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Kerala, prendono in considerazione il pellegrinaggio a Sabarimala, sede del primo e più importante tempio di Ayyappan e meta, ogni anno, di milioni di fedeli. Tale pellegrinaggio è ristretto ad un pubblico maschile mentre le donne sono escluse nella misura in cui siano potenzialmente contaminanti: questo significa che solo le bambine in età pre-puberale e le donne in menopausa hanno accesso al pellegrinaggio e al tempio che ne è la meta. Il pellegrinaggio è quindi quasi interamente maschile come iper-mascolina è la divinità cui si rende visita e con la quale si instaura una stretta identificazione durante l’intero percorso e il periodo preparatorio che lo precede. Secondo i due studiosi esso rappresenta “a gender-specific ritual activity involving two separate forms of union. On the one hand it merges individual men with a hyper-masculine deity –himself born from Shiva and Vishnu, two male deities. On the other it merges each mate partecipant with a lager community of men: other male pilgrims with whom one goes to Sabarimala; the mass of pilgrims one encounters en route to, and at, the shrine; and, ultimately, the category of men as a whole” (Osella 2003: 730). Tale comunità è da un lato spiccatamente egualitaria, nella sua componente devozionale (essi si rivolgono reciprocamente con il termine swāmī, termine generalmente usato per rivolgersi ad un guru, un maestro spirituale), dall’altro l’aspetto gerarchico è presente nella misura in cui i devoti si abbandonano alla guida del proprio guruswāmī (ogni gruppo di pellegrini ha il proprio leader) e ad Ayyappan. Quest’ultimo, in quanto eterno asceta, funge da modello e oggetto di identificazione per i devoti, i quali sperimentano nei 41 giorni che precedono il pellegrinaggio e durante lo stesso la vita del rinunciante. “Pilgrimage preparation acts unequivocally as a rite of passage. (…) they lose their social identity and become sannyasis (renouncers) incorporated into a wider undifferentiated community of men, while at the same time ‘becoming like’Ayyappan himself” (Osella 2003: 736). Durante la pūjā
che dà inizio al periodo di astinenze in molti momenti si manifesta un chiaro
simbolismo funerario, funzionale all’avvio di un processo di separazione, trasformazione e incorporazione in un nuovo “universo esistenziale”: ritualmente è “l’uomo-nel-mondo”, il marito e padre di famiglia, a morire e a rinascere a immagine e somiglianza dell’ascetico Ayyappan. Ciò che risulta significativo è che le motivazioni che spingono al pellegrinaggio sono legate proprio alla realizzazione dell’ideale “uomo-nel-mondo”, il padre di famiglia: le richieste che i devoti portano nella loro mente sono quelle dell’uomo
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desideroso di realizzare questo modello di maturità maschile socialmente condiviso. La diade in gioco è quindi costituita da elementi in opposizione, il rinunciante e “l’uomo-nel mondo”, opposizione che rivela però tutta la sua fluidità nel momento in cui i due elementi che la compongono si situano in un rapporto di complementarietà: l’esperienza del pellegrinaggio che trasforma gli uomini in saxnāysin è non solo un’esperienza temporanea ma è funzionale alla pienezza esistenziale dell’“uomo-nelmondo”; quest’ultimo ha bisogno del potere del rinunciante per essere un uomo di famiglia realizzato, così come, significativamente, il saxnāysin Ayyappan ha bisogno del supporto degli “uomini-nel-mondo” per mantenere il proprio statuto di rinunciante e il proprio potere. Quanto detto è ovviamente confinato all’esperienza del pellegrinaggio. Tuttavia gli elementi dell’analisi condotta da Filippo e Caroline Osella risultano utili alla necessità comparativa sopra menzionata. I due templi dedicati ad Ayyappan, infatti, pur includendo entrambi nella loro retorica pubblica l’importanza del pellegrinaggio, il quale è pubblicizzato ed esposto chiaramente attraverso il supporto visivo di immagini canonizzate rappresentanti la storia mitologica di Ayyappan e delle foto del pellegrinaggio stesso, non sono ad esso legati nella medesima maniera. Il tempio de La Courneuve si situa maggiormente entro il modello di Sabarimala, per diverse ragioni: Guruswāmī
ha passato lunghi periodi di “apprendistato” a Sabarimala e il suo guru vi
risiede stabilmente; ogni anno organizza il pellegrinaggio, inizia i kanniswāmī (i ‘novizi’), oltre a condurre al tempio il periodo di astinenze chiamato Vrata e i rituali ad esso associati; arrivati in Kerala guida il proprio gruppo lungo il percorso che attraverso la foresta conduce al tempio. Anche per quanto riguarda i fedeli lo schema interpretativo degli Osella può a mio parere essere applicato: i racconti di coloro che hanno fatto il pellegrinaggio rivelano le medesime caratteristiche sottolineate dagli studiosi, dalla pericolosità del percorso nella foresta, all’importanza del periodo preparatorio condotto a Parigi, in cui: Non si mangia carne, né si beve, non ci si può tagliare la barba né i capelli, non puoi toccare tua moglie, io non ho dormito con mia moglie per tutto il periodo, dormivo per terra senza niente. Si deve rinunciare a tante cose. Ma è un bene. È per
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Ayyappan, bisogna essere pronti per Lui
E di cui vengono sottolineate le conseguenze positive: Da quando sono stato laggiù la mia vita è cambiata, in meglio voglio dire. Non che prima, cioè da quando vengo al tempio, ma dopo il pellegrinaggio tutto va bene, la mia vita è migliore. [R. 38 anni, in Francia dal 1992, frequenta il tempio di Ayyappan a La Courneuve da circa 3 anni e ha compiuto una volta il pellegrinaggio]
Nonostante queste affinità il tempio de La Courneuve è non solo aperto alle donne, ma esse costituiscono la maggioranza dei frequentatori, oltre a rivestire un ruolo importante nella gestione del tempio e nelle attività devozionali che vi si svolgono. L’apertura al femminile, la sua massiccia presenza, non è però motivo di contraddizione: nonostante le evidenti affinità, il tempio si propone come unico e originale, non come copia del tempio di Sabarimala. Inoltre le attività legate al pellegrinaggio, ovviamente aperte solo agli uomini e alle categorie del femminile già menzionate, si svolgono parallelamente alle attività abituali del tempio e, peraltro, in un locale separato, (una grande sala posta al piano terra del medesimo immobile, utilizzata altrimenti per attività varie non necessariamente religiose). Durante il periodo del Vrata, contemporaneamente alla gestione del tempio, Guruswāmī si occupa della formazione dei pellegrini, in particolare dei novizi. Il Vrata di 41 giorni è aperto da una cerimonia simile a quella descritta da Osella (2003) durante la quale Guruswāmī consegna a ciascuno un rudrāksamālā
santificato al tempio: esso oltre a proteggere il pellegrino durante il
viaggio, simboleggia il suo impegno a condurre il Vrata al meglio delle proprie capacità. Il mālā viene portato dai pellegrini fino al loro ritorno: è solo durante la cerimonia conclusiva con cui si spezza il periodo delle austerità che esso potrà essere levato. Al tempio di Ayyappan Guruswāmī dirige un’altra cerimonia molto importante: il “riempimento” dell’Irumudi. Si tratta di una specie di sacco che viene portato sulla testa durante il pellegrinaggio e senza il quale non si ha accesso al Tempio di Sabarimala. Esso contiene tutti i materiali di culto necessari (in particolare una noce di cocco riempita di ghī
che verrà spaccata nel momento in cui si percorrono i 18 scalini del tempio) e generi
di prima necessità. 113
Il tempio di Saint Denis invece ha molte meno affinità col modello di Sabarimala, nonostante, come già detto, il legame con esso sia ampiamente sottolineato: foto del tempio e dei pellegrini in vari momenti del percorso affiancano le immagini che rappresentano il racconto mitico del celibe Ayyappan. Anche il signor Muthukumarasamy e suo figlio mi hanno spesso parlato del pellegrinaggio, cosi come i più assidui frequentatori del tempio. Una grossa differenza risiede nel fatto che il pellegrinaggio non è condotto sotto la guida di un guruswāmī, né alcun “viaggio devozionale” è organizzato dal tempio. Il figlio di Muthukumaraswamy (e finché ne aveva le forze lui stesso) si reca in Kerala in solitario, o accompagnato da conoscenti e frequentatori del tempio, ma senza rivestire il ruolo di guida spirituale. Il periodo di preparazione inoltre è condotto singolarmente e ciò crea evidentemente un diverso approccio, meno comunitario, all’esperienza stessa. Credo, in definitiva, che ciò che della figura di Ayyappan viene trattenuto e valorizzato è la sua natura ascetica, ma senza che questo implichi un processo di costruzione d’identità di genere, come invece penso avvenga, marginalmente, al tempio de La Courneuve. Non è un caso che Ayyappan è qui presente anche in altre forme (tra cui quella che lo vede accompagnato da due mogli). La portata della sua natura ipermascolina è quindi fortemente smorzata, risultando in definitiva riassorbita e bilanciata. La repulsione del femminile è qui totalmente assente ed Egli viene a rappresentare meno conflittualmente il sereno distaccamento dal mondo che conclude tradizionalmente la vita dell’uomo hindū. L’identificazione, come si diceva, è quindi presente in entrambi i casi, ma in modo diverso. Il loro confronto permette, a mio parere, di giungere alla conclusione che, in questo gioco di specchi, l’ordine degli elementi, dell’identificante e dell’identificato, non è unico: è la multiforme divinità che si fa (e si rifà) a immagine e somiglianza del proprio devoto, così come il devoto agisce e trasforma sé stesso seguendo il modello divino. Multiformi e complesse, le divinità vengono raccontate dai loro fedeli in modi diversi: le immagini che ne risultano (cosi come le modalità di culto e le trasformazioni esistenziali che esso provoca) sono il risultato di questo rispecchiarsi di identità eternamente trasformabili e eternamente in trasformazione. Nei due templi messi a
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confronto vengono sottolineati aspetti diversi del culto di Ayyappan: l’accento posto sulla sua natura egalitaria, anticastale, sul carattere onnicomprensivo del suo culto caratterizza il discorso di Muthukumarasamy: il fatto che Ayyappan sia nato da Śiva e Visyu (nella forma femminile di Mohinī) viene citato a conferma della natura “democratica” di questa divinità che accetta tutti e che mette d’accordo, a suo parere, due delle grandi correnti dell’induismo, Śaiva e Vaisyava. A La Courneuve è la potenza della divinità a costituire il focus dei discorsi su di Esso; la crescita della popolarità di questa divinità viene collegata alla percezione del suo forte potere, il quale è indubbiamente superiore a quello delle divinità “classiche” ma anche potenzialmente più pericoloso. Tornando al tempio di Saint Denis e alle divinità che vi trovano dimora, risulta ora chiaro come la corrispondenza, ricercata, coltivata ed elaborata, tra devoto e oggetto della devozione porti ad una sovrapposizione di identità (la divina e l’umana), la quale è espressione del percorso personale e interiore del fondatore del tempio e ad un tempo funzionale al rifarsi incessante delle identità stesse. Le descrizioni che Muthukumarasamy fa di sé e di Ayyappan vedono sviluppare le medesime tematiche: egli descrive la sua vita attuale come una vita semplice entro le mura del tempio, una vita dedicata allo sviluppo delle sue attività e alla meditazione, a beneficio dell’intera umanità. L’apertura e la generosità cui fa riferimento parlando di sé si rispecchiano nell’immagine di Ayyappan, il cui culto permette di trascendere le barriere che la società crea: Già oggi quando due fedeli s’incontrano si salutano con rispetto indipendentemente dalla loro differenza castale, perché siamo tutti esseri umani.
E: Non ci sono caste, razze, differenze dottrinali per Lui. Ognuno è uguale. Di fronte a Dio siamo tutti uguali.
Le tre divinità principali (che, come si diceva, si propongono immediatamente agli occhi del visitatore) vengono quindi a rappresentare tre fasi della vita di Muthukumarasamy così come la sua evoluzione spirituale: l’infanzia, la vita mondana e sociale e l’ultima, il ritiro per condurre una vita di meditazione.
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6.4 Il tempio 6.4.1 Gli aspetti gestionali La gestione del tempio è familiare: se ne occupano il signor Muthukumarasamy e suo figlio minore, celibe e impiegato come contabile. Il figlio maggiore invece è sposato ed è presente esclusivamente in occasione delle festività maggiori, pur contribuendo economicamente al mantenimento del tempio e delle sue attività. Il minore dei due figli è quindi quello maggiormente coinvolto. Se il padre gestisce dal suo ufficio tutti i rapporti con i visitatori del tempio, egli entra maggiormente nelle questioni più spiccatamente religiose e rituali. È presente al tempio il weekend, mentre il venerdì arriva tardi, dopo il lavoro, alla conclusione della pūjā, appena in tempo per ricevere i prasād e mangiare con il padre. Gli altri due giorni di apertura invece partecipa attivamente alle cerimonie, in qualità di organizzatore, aiutante o officiante. A quanto mi è stato riferito da qualche devoto è anche colui che, praticamente, si occupa di attuare le buone azioni di cui parla spesso suo padre: nato e cresciuto in Francia, celibe e con un buon impiego, rappresenta il braccio attivo del paterno donare. Molte delle persone che frequentano settimanalmente il tempio hanno beneficiato, in un modo o nell’altro di tale aiuto. Spesso si tratta di piccole cose, come accompagnare la moglie di un fedele all’ospedale o aiutare un devoto a compilare la dichiarazione dei redditi: piccole cose, che però diventano grandi ostacoli per coloro che non conoscono la lingua o, appena arrivati, sono in attesa dei propri documenti di soggiorno. Attualmente il tempio è aperto solo tre giorni la settimana, due dei quali la pūjā viene condotta da un brāhmaya: i suoi servizi vengono pagati dal fondatore e dai suoi figli i quali non possono permettersi di assumerlo a tempo pieno; la domenica è il figlio minore a occuparsi della cerimonia, avendone acquisito le competenze attraverso lo studio dei testi e il pellegrinaggio annuale in Kerala, dove è stato già dieci volte. Egli porta avanti un percorso di formazione religiosa che ha come fine ideale l’indipendenza rituale del tempio dai brāhmaya, i quali talvolta “prendono i loro soldi e se ne vanno. E noi 116
dobbiamo trovare qualcun altro”.
6.4.2 Generosità, amore ed accoglienza: il tempio nella retorica del suo fondatore A differenza di altri templi, dove abbordare la questione finanziaria è stato difficile e, credo, un po’ mal visto, in questo caso è stato il signor Muthukumarasamy ad introdurre in più occasioni il discorso. Il fine era quello di dimostrarmi quanto fosse irrilevante per lui il denaro. Il tempio è stato fondato “non per fare soldi”, e i fedeli che vi si recano non sono né obbligati né esortati a fare un’offerta monetaria. È questa una caratteristica particolarmente apprezzata dai fedeli, i quali la interpretano come prova di purezza d’intenti6. Le entrate del tempio, sotto forma di offerta libera, sono evidentemente scarsissime, neanche lontanamente sufficienti a coprire le spese di gestione che si aggirano sui 4-5 mila euro al mese. Al tempio di Ayyappan non esistono, come negli altri templi, i classici cestini o le lampade a ghī, acquistabili per cifre che si aggirano rispettivamente sugli otto e cinque euro. Coloro che vogliono far fare al brāhmaya una pūjā
personale (arcanā), familiare, o che, nelle occasioni previste, finanzino un homam,
contribuiscono per quello che possono e vogliono. La mancanza di un “listino prezzi” e la generale disattenzione all’offerta monetaria, favorita dalla segretezza del dono (le offerte vengono inserite in una specie di urna), disincentiva evidentemente le persone dall’offrire le medesime somme che si sentirebbero in dovere di dare in altri contesti, dove lo sguardo collettivo sanziona o esalta le diverse “generosità” individuali. Muthukumarasamy, nonostante la dichiarata non venalità delle sue intenzioni, mi ha spesso fatto notare la pochezza delle offerte, contando di fronte a me le poche monete raccolte. Conseguenza di una precisa “politica” (oltre che di una scarsa frequentazione del tempio dovuta alla sua posizione) la scarsezza delle offerte diviene quindi un mezzo, una prova ulteriore del merito di Muthukumarasamy e dei suoi figli, i quali, soli, lavorano per mantenere attivo un luogo sacro di cui può potenzialmente beneficiare l’intera comunità. Di tali meriti mi ha parlato ogni volta che ne ha avuto l’occasione, come anche dell’importanza del saper accogliere le persone che arrivano al tempio. Spesso questo 6
Tra quelli analizzati nel presente studio solo il tempio di delle offerte e degli arcanā.
Murugan
condivide questa posizione vis à vis
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rappresentava l’inizio delle nostre conversazioni, di cui l’offerta di una tazza di tè caldo, che accettavo con piacere appena arrivata, era lo spunto. Il saper offrire una buona accoglienza a coloro che, come pellegrini, affrontano il freddo e i disagi dei trasporti per venire a rendere omaggio alla divinità, era qualità costantemente rimarcata e contemporaneamente metro di paragone con gli altri templi: “negli altri templi non è così” mi ha ripetuto più volte, “non danno come noi”. La generosità, il dare senza richiedere niente in cambio, la gentilezza, erano queste le caratteristiche messe maggiormente in risalto dal signor Muthukumarasamy nella descrizione del proprio tempio e di sé stesso: “ognuno deve essere gentile e generoso con il prossimo”. Molte delle persone che vanno al tempio hanno problemi di vario tipo, economici, di salute, familiari, personali, e vi si recano con la speranza di trovarvi un aiuto: una buona accoglienza, l’assenza di richieste venali e la generosità di un pasto offerto vogliono fare del tempio un luogo di pace, meditazione e abbandono alla devozione, un luogo familiare in cui trovare sostegno e forza. La gente ha bisogno di simpatia, ha bisogno di compassione, ha bisogno di gentilezza, ha bisogno di affetto, ha bisogno di amore, ha bisogno di così tante cose. È per questo che bisogna dare.
Muthukumarasamy parla di sé come di un benefattore: il fatto di non avere più alcun bisogno, causa e conseguenza di una vita ritirata e dedita alla meditazione, unitamente al fatto di possedere una pensione e del denaro messo da parte negli anni, duranti i quali “guadagnavo molti soldi”, gli hanno permesso e gli permettono di aiutare indirettamente moltissime persone attraverso la fondazione e il mantenimento del tempio: Ho sempre avuto un buon cuore. Io penso solo ad aiutare gli altri. La legge del Signore è che se vuoi aiutare qualcuno, se senti sinceramente che devi aiutarlo, Egli verrà a te, ti aiuterà a farlo.
O ancora: Il mio principio, la mia teoria è che se si possiede molto, bisogna distrubuirlo agli
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altri, non bisogna mangiare soli nella vita. Se si ha qualcosa bisogna condividerlo con gli altri.
Muthukumarasamy è un uomo molto positivo e serba un gran sentimento di gratitudine per la Francia dove dice di aver trovato tantissime persone gentili e generose, che l’hanno aiutato nei momenti di sofferenza e difficoltà, soprattutto dopo la morte della moglie, ed è anche per questo che ora “se qualcuno mi chiede qualcosa non dico mai di no”. Egli si descrive come un uomo che, pur avendo conosciuto e visto tante cose, grazie al suo lavoro di giornalista che l’ha portato a viaggiare in quasi tutti i paesi del mondo, ha rinunciato oggi a vizi e piaceri. A quasi 69 anni, i luccichii della vita mondana non hanno più per lui la medesima attrattiva: “non ho bisogno di nulla” dice, riferendosi alla sua condizione attuale. Da quando ha fondato il tempio 10 anni fa, ne ha fatto anche la sua dimora e oggi la sua vita si svolge quasi esclusivamente entro le sue mura: “sto qui e medito” mi risponde quando gli chiedo delle sue giornate. Descrive sé stesso come una sorta di rinunciante moderno, dedito alla meditazione e alla preghiera. Ogni mattina, dopo essersi lavato, recita i mantra e le canzoni per la divinità, offre latte e acqua, accende le lampade, compie 3 giri intorno ad ogni koyil e poi unite le mani nel namaskāra mudrā (gesto del saluto-prostrazione), gli occhi levati verso il volto della mūrti, in un atto che è compiuto e ricevuto ad un tempo, formula la sua richiesta: “che tutti possano stare bene. Questo è cio che chiedo”. Poi passa alla meditazione. Spesso, nelle descrizioni che mi faceva di sé stesso, sottolineava la sua condotta esemplare: “non bevo, non fumo, non mangio carne”. Tuttavia, soprattutto vivendo nel tempio, una tale condotta è quanto di più normale possa esserci: a parte l’alcool e il fumo, il cui uso, indipendentemente dal contesto e dall’occasione, è culturalmente stigmatizzato, l’assunzione di carne è vietata prima di recarsi al tempio per chiunque. Inoltre il cibo che viene preparato e offerto in qualsiasi tempio è strettamente vegetariano. È probabile che egli pensi che ai miei occhi, in quanto occidentale, tali rinunce siano particolarmente significative, e per questo ne abbia sottolineato la portata. Per quanto ho potuto notare nei giorni di apertura del tempio, egli passa la maggior
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parte del tempo seduto nel suo piccolo ufficio, che condensa in pochi metri quadri le sue passioni e i suoi gesti quotidiani: si tratta di una piccola camera di circa 10 metri quadri occupata da un letto, un armadio in legno, una piccola cassettiera di plastica, una scrivania e due sedie. I muri sono tappezzati di immagini sacre, soprattutto calendari degli anni passati raffiguranti Krsya bambino, Laksmī, Ayyappan, Murugan, Rādhā e Krsya e Gayeśa.
La scrivania, cosi come ogni superficie disponibile, è interamente occupata da
riviste di ogni sorta, in inglese e in tamil, da India Today a riviste di danza, religione, numerologia o gemmologia, la grande passione di Muthukumarasamy. In questo piccolo ufficio egli si dedica alle sue letture e alla redazione in inglese di un libro su Ayyappan, di cui il figlio minore dovrebbe curare l’edizione francese. A quanto pare sono diversi anni che porta avanti questo progetto: destinato al pubblico occidentale tale testo dovrebbe fornire una visione globale di una divinità “poco conosciuta” e che “non riceve sufficiente attenzione”7. Per il momento egli ha curato la pubblicazione di una raccolta di bhajana in tamil, disponibile al tempio, e utilizzato al termine della pūjā dai devoti e dal brāhmaya. Se la gentilezza, la calorosità e la generosità sono le caratteristiche maggiormente valorizzate nella descrizione di sé, dei propri figli e della gestione del tempio, dal punto di vista delle cerimonie ciò che viene messo in risalto è la bellezza e la forza dei canti che i devoti innalzano durante e dopo la pūjā. (…) hai sentito i canti? Sono una suprema forma di espressione: esprimono l’amore per Dio, Dio nelle sue diverse manifestazioni.(…) le persone vengono qui anche per sentire i canti, perché qui sono speciali. C’è persino una signora francese, Isabel: lei viene e canta, ha imparato i nostri canti in tamil. Perché cantare innalza lo spirito, ti porta all’unione con Dio.
Come per l’importanza accordata al cibo, è questa una effettiva specificità che accomuna i due templi di Ayyappan e li differenzia dagli altri. Prima di trattare di questi due temi ritengo però necessario procedere ad un ulteriore comparazione tra di essi, che riveli ancora una volta come queste somiglianze siano in realtà solo superficiali. 7
Muthukumarasamy sostiene che il culto di Ayyappan non sia molto conosciuto in Sri Lanka, in quanto nato e sviluppatosi in Kerala, dove è presente il più importante tempio di Ayyappan, quello di Sabarimala cui si è già fatto riferimento.
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6.4.3 Due fondatori, due templi Come si è detto, in entrambi i templi l’accento è posto sulla necessità e l’importanza di dare, condividere ciò che si ha. Tuttavia ciò che viene offerto è a mio parere di natura molto diversa, come diverse sono le due persone che hanno fondato i templi e ne hanno forgiato l’immagine. Muthukumarasamy non ha il medesimo ruolo che Guruswāmī riveste nel suo tempio: egli è semplicemente colui che l’ha fondato e che ne finanzia le attività, mette cioè a disposizione del prossimo gli averi accumulati durante una vita di lavoro. Nel suo caso l’aiuto è più di natura materiale che spirituale: egli offre un luogo di preghiera e meditazione dove rifugiarsi e trovare la pace dello spirito. Il suo ruolo nelle attività del tempio si riduce al lato economico, al rapporto col pubblico e alla supervisione delle attività religiose. Egli inoltre non prende parte personalmente ad alcuna delle attività, dalla preparazione di cibo alla pūjā, che guarda seduto dal proprio ufficio. La seconda grande differenza riguarda il gruppo dei fedeli: se nel caso de La Courneuve siamo di fronte ad una comunità numerosa e fortemente unita, con la propria guida spirituale carismatica e fortemente presente, a Saint Denis, nonostante l’aspetto devozionale sia valorizzato e sia un importante momento di condivisione, non esiste una simile coesione interna. Le motivazioni di tale differenza sono, a mio parere, principalmente due: 1. la mancanza, a Saint Denis, di una figura di riferimento unica e soprattutto di un leader carismatico: tre diverse persone incarnano ruoli condensati a La Courneuve nella figura di Guruswāmī. Il presidente e fondatore del tempio ha un ruolo direzionale e di “public relations”; il brāhmaya svolge a pagamento un lavoro da specialista rituale, disinteressandosi completamente di qualsiasi altro aspetto della vita del tempio; il figlio di Muthukumarasamy si occupa di aspetti pratici, quali le forniture o il pagamento dell’affitto, oltre a compiere egli stesso alcuni rituali e a portare avanti la sua formazione religiosa. Anche se il fine di tale formazione,
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come mi è stato riferito da lui stesso, è l’assunzione da parte sua dei compiti attualmente assegnati al brāhmaya, egli manca di quel carisma che è il collante principale della comunità di fedeli del tempio de La Courneuve: timido e non molto comunicativo, anche nel caso assumesse effettivamente tale ruolo, non credo che la cosa porterebbe a modificazioni sostanziali nell’atmosfera del tempio. 2. La frequentazione del tempio è quantitativamente e qualitativamente differente: il tempio di Saint Denis è frequentato in maniera più sporadica, difficilmente si incontreranno le stesse persone da una settimana all’altra, a parte evidentemente i volontari che aiutano Muthukumarasamy. Il pubblico è costituito principalmente da famiglie, le quali si recano al tempio in occasioni speciali o perché qualcuno gliene ha parlato. Per quanto ho potuto osservare anche i visitatori più assidui hanno magari un rapporto con il presidente del tempio ma non tra di loro. Comprensibilmente questo crea delle conseguenze sull’attività devozionale comunitaria per eccellenza, cioè il canto dei bhajana, di cui parlerò tra breve, e sul principale momento di socializzazione, ossia il consumo del prasād. Come si è visto per il caso del tempio di Ayyappan a La Courneuve, essi rappresentano potenzialmente momenti di compattamento del gruppo nonché di rafforzamento del senso di appartenenza ad esso.
6.5 Le attività del tempio: bhajana e prasād 6.5.1 I bhajana Come già menzionato, il Sri Ayyappan Temple è aperto al pubblico tre giorni la settimana: il venerdi si svolge una sola pūjā, verso le 19h; il sabato e la domenica la giornata viene aperta da un lungo abhiseka, durante il quale litri e litri di latte vengono riversati sulle mūrti in un bagno rituale la cui abbondanza è oggetto di giudizi molto
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positivi8 e a cui segue la pūjā delle 13. Alle 19 un’altra pūjā chiude la giornata. Come dicevo il rituale viene officiato da un brāhmaya il venerdì e il sabato, mentre la domenica è il figlio minore di Muthukumarasamy a occuparsene. Egli, oltre a compiere annualmente il pellegrinaggio al tempio di Sabarimala e a recarsi appena può in India per visite devozionali, conosce il sanscrito, che ha studiato da autodidatta, e si può dire dedichi la sua vita extra-lavorativa allo sviluppo delle proprie conoscenze religiose. Quando è al tempio il brāhmaya non si occupa di altro che di preparare il necessario e svolgere il rituale. La sua presenza è limitata a questo momento: arriva poco prima della pūjā e parte subito dopo, rivestiti gli abiti profani. Egli è essenziale solo in quanto conosce il modo corretto di eseguire il rituale, quindi per ciò che fa e non per chi è. Facilmente può essere rimpiazzato da un altro brāhmaya senza che questo provochi un cambiamento sostanziale9. Nessun rapporto particolare lega Muthukumarasamy ai brāhmayi
che officiano nel suo tempio, né si creano (per quanto ho potuto osservare)
particolari legami con i devoti. Il brāhmaya è una sorta di impiegato part-time, con un salario e delle mansioni specifiche. La cerimonia non evidenzia particolari originalità, a parte la lunga sessione di bhajana
che conclude la pūjā. I bhajana sono canti devozionali, attraverso i quali si
esprime amore, abbandono e devozione per il divino o per le sue forme particolari. Spesso il testo riporta le caratteristiche della divinità cui è dedicato il canto, le forme che essa assume e i suoi nomi. Il devoto esprime non solo il suo amore, ma formula anche delle richieste e domanda perdono per i propri peccati. Si dice che il canto di bhajana e kirtan (un altro tipo di canto devozionale),
cosi come la ripetizione di mantra, porti, quando
fatto con devozione, all’accumulo di meriti immensi, paragonabili agli effetti di un complesso e lungo rituale e che sia quindi uno dei mezzi più appropriati all’era attuale e al suo stile di vita. Il tempio è teatro di lunghe sessioni di canto, accompagnato, nelle occasioni più importanti, da alcuni musicisti. Solitamente si tratta di uno o due suonatori di thavil 8
Oltre alle parole dei fedeli, ho trovato una conferma di quanto detto all’indirizzo internet www.saranamayyappa.org/List_of_Ayyappan_Temples_in_India_and_Abroad, dove si trova una lista incompleta dei templi di Ayyappan in India e nel mondo e dove riguardo al tempio di Saint Denis si dice “this temple is famous for its milk’s abhishekam”. 9 Nei 6 mesi in cui ho frequentato il tempio si sono susseguiti due brāhmayi.
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(percussione doppia) e uno di nadaswaram (strumento a fiato, simile ad un oboe): questi due strumenti della musica carnatica sono fondamentali e sempre presenti nei matrimoni, nei templi e all’occasione delle grandi festività in tutta l’India del Sud e in Sri Lanka. Qui i templi più importanti hanno all’interno del loro personale fisso anche un certo numero di musicisti e la musica che accompagna le diverse attività del tempio prende il nome di maygalavādya,
musica di buon augurio. A Parigi nessun tempio può permettersi un tale
lusso e i musicisti, che formano un gruppo molto ristretto, forniscono solo occasionalmente i loro servizi senza essere legati a nessun tempio in particolare. Al di là quindi di occasioni veramente speciali, i canti non sono accompagnati da alcuno strumento, a differenza di quanto avviene al tempio de La Courneuve dove l’accompagnamento delle percussioni è sempre presente. Al termine della pūjā, durante la quale le divinità sono state risvegliate, onorate e nutrite, il brāhmaya inforca i suoi occhiali da vista e, libretto10 alla mano, si siede in mezzo ai devoti, in prima fila. Affiancato dai due uomini che si occupano del tempio, uno dei quali aiuta anche il brāhmaya
nella performance della pūjā, dà il via ai canti devozionali. Il tempio è
frequentato abitualmente da due donne francesi, le quali vi si recano principalmente per partecipare alla sessione di bhajana che conclude la pūjā: per esse il presidente del tempio ha trascritto alcuni bhajana in caratteri latini e le due donne cantano, in veste di leader, alcuni di essi. Altrimenti sono il brāhmaya e, a turno, i due uomini a condurre il canto: i bhajana sono canti individuali o corali e nel caso sia un gruppo di devoti ad eseguirli spesso c’è un cantante che guida il gruppo intonando la prima strofa, a cui fa seguito il coro. La sessione di bhajana dura circa una mezz’or,a durante la quale le maggiori divinità vengono onorate: come nella pūjā, la prima divinità cui ci si rivolge è Gayeśa
cui seguono Visyu, Krsya, Murugan, Mariyamman, Ayyappan (cui vengono
dedicati diversi bhajana) e per finire Hanumān. La partecipazione al canto è minore rispetto al tempio di Ayyappan de La Courneuve. Come dicevo sono principalmente i due aiutanti del tempio e il brāhmaya a cantare, talvolta accompagnati dalle due donne francesi e dai fedeli che seguono i testi loro distribuiti. In generale comunque la 10
Come già ricordato il signor Muthukumarasamy ha curato e finanziato l’edizione di una raccolta di in tamil e sanscrito: tale raccolta è disponibile esclusivamente in caratteri tamil Se questo è facilmente spiegabile a partire da ovvie considerazioni sul pubblico cui è rivolta la raccolta, quasi esclusivamente tamil, risulta più sorprendente il fatto che tutte le informazioni al tempio siano scritte esclusivamente in tamil, soprattutto alla luce di quanto detto su Muthukumarasamy e i suoi figli. bhajana
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partecipazione è scarsa e il coinvolgimento è sicuramente minore.
6.5.2 Il ruolo del cibo al tempio: condivisione o filantropia? L’altro elemento rilevante è il consumo del prasād, che conclude la visita al tempio. Al termine della lunga sessione di bhajana i fedeli si recano ordinatamente a ricevere la benedizione del brāhmaya attraverso l’apposizione della vibhūti, compiono una deambulazione in senso orario11 (pradaksiyā) attorno ai tre santuari principali e si prostrano a terra in segno di rispetto e sottomissione: le donne compiono quella che viene chiamata Pañcānga Namaskāra, “adorazione-salutazione su cinque arti” che consiste nell’inginocchiarsi a toccare terra con la testa restando appoggiati con le mani. Gli uomini invece si stendono completamente, la faccia a terra e le braccia allungate in avanti in modo alternato per 3, 5, 7, 9, o 12 volte; anche il viso viene girato da una parte all’altra e il suolo sacro del tempio viene toccato con la fronte o talvolta la bocca. Questa “adorazione-salutazione su 8 arti” prende il nome di Sastānga Namaskāra. A questo punto la cerimonia può dirsi conclusa e i fedeli ritornano poco per volta nella zona anteriore del tempio, quella profana, su cui si aprono la cucina, il bagno e l’ufficio del fondatore: si siedono senza rispettare più di tanto separazioni di genere, le quali peraltro, seppur seguite, non sono oggetto di una particolare attenzione neanche durante la pūjā o i bhajana.
L’unica accortezza è quella di non dare le spalle alle mūrti, le quali “continuano
a guardarti finché sei davanti a loro”. A questo punto il cibo viene distribuito in piatti di plastica: si tratta solitamente di riso accompagnato da verdure al curry, mentre nelle occasioni speciali vengono preparate anche diverse qualità di dolci, in funzione ovviamente ai gusti divini. Anche qui, come altrove, il momento del pasto comune è un momento di socializzazione ma non particolarmente rilevante. Per quanto ho potuto osservare infatti, non siamo qui di fronte ad una comunità di fedeli, quanto piuttosto ad un gruppo eterogeneo di persone che frequentano occasionalmente il tempio senza essere legati da 11
Essa si compie 3, 5, 7, 9, 15 o 21 volte e assume significati opposti secondo il senso in cui la si compie: in senso orario rappresenta la speranza nella gioia mondana mentre in senso antiorario rappresenta la volontà di abbandonarla.
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un particolare senso di appartenenza o affiliazione. Il cibo viene a rivestire quindi un significato molto diverso da quello che assume in altri templi: l’importanza del cibo è qui collegata non tanto al concetto di prasād, o al ruolo sociale e socializzante del pasto collettivo quanto al significato che esso assume per Muthukumarasamy. Nutrire è uno dei tanti modi di dare, è forse il più materno e semplice modo di esprimere un amore disinteressato. Credo che sia questo il suo senso nel contesto in questione: il cibo diviene qui simbolo del dare, concetto che, come si è visto, permea in profondità il pensiero di Muthukumarasamy. La generosità, la volontà di donare ciò che si possiede, poiché “è Dio che mi ha donato tutto ciò e io lo ridò a Lui”, è il fondamento concettuale del tempio, delle attività che vi si svolgono, della visione che il suo fondatore ha della sua vita futura e del suo ruolo nella comunità. L’uso di metafore alimentari che caratterizza spesso il parlare di Muthukumarasamy è significativo dell’importanza simbolica del cibo ed esso è mezzo ed espressione di quella generosità di cui si fa portavoce: Non bisogna inghiottire (avaler) da soli nella vita.
Chi ha deve donare: a quanto dichiara lui stesso, è questo il principio che muove il suo agire, ma questo non genera, a mio parere, un reale senso di condivisione. Significativamente Muthukumarasamy non consuma il suo pasto insieme ai presenti, come non lo fa suo figlio né tanto meno il brāhmaya, il quale, con poca sorpresa, ho visto talvolta mangiare, in disparte, il cibo che si era portato da casa. Più che ad una forma di condivisione siamo di fronte ad una filantropica distribuzione di cibo, la quale, nonostante tutto, è un modo come tanti altri di acquisire meriti spirituali, cosi come i costosi abhiseka
finanziati nei più importanti templi del sud India e la fondazione del tempio
stesso: sono tutte modalità culturalmente definite di giungere allo stesso scopo, la salvezza personale. Nel suo La religion de Shiva, Bhatt riporta a tale proposito la seguente affermazione: Tout d’abord, la construction de nouveaux temples comme la rénovation d’anciens, sont des actes pieux, hautement recommandés dans les textes religieux. Les immenses mérites promis en récompense de tels actes sont un attrait suffisant pour que des personnes ayant un penchant pour la religion s’y engages. Cela explique la
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création de temples de la façon la plus disséminée, jusque dans les villages les plus reculés (2000: 278-279).
6.5.3 La preparazione del cibo: nuove opportunità Cosi come la sua consumazione, anche la preparazione del cibo fornisce interessanti spunti di riflessione nonché conferme di quanto già detto. Esso viene preparato da due uomini, gli stessi che si occupano della pulizia del tempio e che accompagnano con vigore il brāhmaya nel canto dei bhajana. Uno dei due funge anche da assistente durante la pūjā mentre l’altro si occupa talvolta di suonare la campana sacra di cui si è recentemente dotato il tempio. Provenienti dallo Sri Lanka, vivono entrambi a Parigi, nel quartiere de La Chapelle, dove lavorano. Uno dei due è sposato, ma entrambi vengono quasi sempre soli al tempio. I due uomini frequentano il tempio ormai da diversi anni e con estrema regolarità: il venerdì arrivano dopo il lavoro verso le cinque, il weekend vi passano spesso l’intera giornata. È così che hanno progressivamente appreso a svolgere funzioni che sarebbero tradizionalmente riservate ai brāhmayi. Entrambi invece provengono da caste basse, ma non mi è stato possibile scoprire quali: il riferimento alla casta di appartenenza non è un argomento facilmente abbordabile, soprattutto con chi non appartiene alle caste alte. È stato Muthukumarasamy a farvi indirettamente riferimento in più di un’occasione: parlando della sua posizione anti-castale, portava a sua dimostrazione il fatto di aver accolto i due uomini come aiutanti, senza preoccuparsi della loro provenienza castale inferiore e inadatta a certi compiti. Il ruolo che hanno nel tempio è molto valorizzante a livello non solo personale e religioso, ma anche sociale, ed essi vi dedicano tutto il loro tempo libero. Al tempio sono ad un tempo i più devoti tra i fedeli, i più appassionati durante il canto, e contemporaneamente dei veri factotum: preparano il cibo offerto alla divinità, lo distribuiscono ai presenti e affiancano il brāhmaya nella pūjā, preparando e passandogli gli strumenti rituali. Sono quindi le loro mani, in molti altri luoghi non considerate abbastanza pure neanche per accendere una candela, a compiere atti non solo importanti
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ma direi fondamentali allo svolgersi della vita del e nel tempio. Entrambi sono coinvolti nelle sue attività dall’inizio alla fine e sono sicura che, a parte la recitazione dei testi in sanscrito, conoscono ogni più piccolo particolare rituale. Il loro coinvolgimento nelle attività del tempio è stato progressivo ed è cresciuto nel tempo cosi come la devozione per Ayyappan:
entrambi hanno trovato in esso un rifugio e la cura ad una situazione di disagio
e miseria esistenziale, causata dall’esperienza dell’esilio. Il servizio resovi ha un duplice scopo: le espressioni devozionali e il “volontariato” svolto al tempio sono infatti da un lato fonte di meriti spirituali culturalmente definiti e quindi congiuntamente di rispetto e valorizzazione sociale, ma dall’altro, più globalmente, hanno contribuito per entrambi a dare un senso alla propria esistenza, senso che l’esperienza della guerra e dell’esilio aveva alienato.
6.6 I miracoli Nell’India del Nord una donna, sposata e con un bambino, fu investita da una serie di terribili disgrazie che le fecero perdere progressivamente tutti i membri della sua famiglia. La morte ravvicinata di tutti i suoi cari, compresi il figlio e il marito, la resero pazza. Un giorno la donna si recò al Gange, per il bagno mattutino e qualcuno le regalò una statua di Krsya intagliata nel legno. La donna la portò a casa, la lavò, la vestì, le offrì del cibo e la mise a dormire: ogni giorno ripeteva quei primi gesti con amore e devozione. Una mattina arrivò in ritardo al ghāt e qualcuno le chiese il perché. Lei rispose che aveva dovuto occuparsi di suo figlio e che per questo era in ritardo. “Allora un giorno verremo a vedere tuo figlio”, le dissero e così fu: qualche giorno dopo le medesime persone si recarono a casa sua e scoprirono che non c’era nessun bambino, ma solo una statua del divino Krsya trattata come tale. Alla vista della statua, che la donna aveva messo a riposare in una piccola culla, cominciarono a ridere e a prendere in giro la donna: “è una statua, non è il tuo bambino!”. Ma la donna rispose con tranquillità che si sbagliavano e che si trattava proprio del suo bambino. Esortandoli a guardare, svegliò la statua e le offrì del cibo. Fu allora che il miracolo avvenne: la statua si trasformò in un essere umano, in un bambino vero, e accettò grato il cibo dalle mani della madre. I presenti si
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inginocchiarono di fronte al miracolo e cominciarono a pregare il divino Krsya. Questa storia mi è stata raccontata al Sri Ayyappan Temple dal suo fondatore in risposta ad una mia domanda: se fosse, secondo lui, più importante la correttezza ed appropriatezza del rituale o la pura devozione. Egli mi ha risposto: “Dio ascolterà la tua devozione, in ogni forma tu Gliela offra, poiché Egli conosce tutti i linguaggi e legge nel cuore degli uomini”. Subito dopo mi ha raccontato il miracolo appena riportato. La storia, con la sua morale positiva, rivela chiaramente la sua posizione: anche se è pur sempre vero che “Dio gioisce di un buon rituale”, ognuno fa quello che può e che sa fare e questo, se fatto con sincera devozione e sincero abbandono, è compensato dal più alto dono: una relazione personale col proprio dio. Una madre e moglie esemplare è per definizione piena d’amore e di devozione per i propri figli e il proprio marito. Ma nella storia sopra riportata la madre in questione vive la peggiore delle disgrazie, la perdita della propria famiglia e quindi degli oggetti del proprio amore. Non solo quindi un’enorme, indicibile sofferenza, ma anche la perdita della possibilità di realizzarsi in quanto moglie e soprattutto madre. La svolta positiva della storia è rappresentata dal dono che viene fatto alla donna: la mūrti diviene il nuovo destinatario di quell’amore materno che essa porta in sé, e la cui espressione era stata impedita da un infausto destino. Tuttavia non si tratta di un semplice oggetto ma, in quanto mūrti, del ricettacolo della potenza divina. E il divino non ha bisogno per manifestarsi di complessi rituali: se fatti con devozione, semplici gesti di madre, manifestazione e simbolo dell’amore più disinteressato, soddisfano a tal punto la divinità che questa assume forma umana per meglio gioire di tale amore. Questo è solo uno dei miracoli che mi sono stati raccontati al tempio. Con il signor Muthukumarasamy c’è voluto molto tempo per affrontare l’argomento. Tale reticenza da parte sua deriva dalla considerazione che, essendo il fondatore del tempio, il fatto di parlare di miracoli poteva essere scambiato per propaganda. Solo una volta instaurato un rapporto di maggiore fiducia si è sentito libero di parlarne con me. Durante un colloquio, riferendosi a questa sua reticenza, mi ha detto una cosa molto interessante sulla quale ho riflettuto solo tempo dopo: (…) e poi vedi per parlare di queste cose, non è che se ne può parlare così con
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chiunque. Bisogna essere pronti ad ascoltare. Bisogna fare un percorso personale, e non sono cose che si insegnano. Tu devi saper ascoltare e saper vedere se no non vedrai nulla e non capirai nulla di quello che ti dicono.
Quello che mi stava dicendo era cioè che sarebbe stato inutile parlare con me di miracoli finché io stessa non fossi stata pronta ad accettarne l’esistenza, poiché li avrei interpretati come propaganda per il tempio, pubblicità per menti desiderose di “soluzioni divine” ai problemi di questo mondo. Quest’affermazione mi ha messo di fronte a qualcosa cui fino a quel momento avevo riflettuto solo in maniera altamente astratta, al fatto cioè che coloro che costituiscono il cuore della nostra ricerca, i cosiddetti informatori, ci osservano, ci sentono, ci analizzano e ci giudicano; rispondono alle nostre curiosità non solo seguendo degli schemi di interpretazione dell’altro culturalmente stabiliti, ma anche seguendo il proprio istinto e la propria esperienza, e secondo l’idea che si sono fatti di noi. Per questo è a mio parere non solo ingenuo ma anche fallace l’ideale del ricercatore non coinvolto: questo perché i frutti della ricerca sono la traduzione in forma leggibile di un groviglio di emozioni, sensazioni, visioni, dialoghi, in definitiva dei rapporti che il tempo ha permesso di instaurare con alcune delle persone cui ci si è rivolti. Queste persone hanno risposto positivamente alla nostra curiosità non perché fossero lì ad aspettare che qualcuno gli ponesse le giuste domande, ma perché hanno visto in noi qualcosa: la possibilità di rendere pubbliche certe problematiche, qualcuno con cui condividere certe passioni o con cui vantarsi, un orecchio pronto ad ascoltare accompagnato da due occhi pronti a guardare. Il fatto che il giudizio di chi ci sta di fronte sia positivo o negativo, che rispecchi o meno l’immagine che abbiamo di noi stessi, non importa in sé, ma condiziona in modo profondo e soprattutto irrintracciabile il nostro lavoro, dalla direzione che esso prende a tutto il suo sviluppo. La “confessione” di Muthukumarasamy è qualcosa di raro poiché mi ha permesso di rintracciare il percorso mentale e relazionale che ha portato ad affrontare un certo discorso in un certo momento. Anch’essa deriva dal rapporto sopra menzionato e chissà, forse, se egli non me ne avesse mai parlato, sarei giunta alla conclusione che i miracoli non erano per lui qualcosa di importante. Molto più spesso invece non conosciamo il motivo per cui una persona ci parla di alcune e non di altre cose, talvolta non immaginiamo neanche l’esistenza di
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queste altre. Tutto questo per dire quanto sia importante a mio parere riflettere nello stile e nel contenuto di quanto scriviamo il fatto che ciò che si dice non è ciò che è ma ciò che noi abbiamo sperimentato e visto in relazione ad altri esseri umani, complessi e in fieri quanto noi. Torniamo ora al tema centrale di questo paragrafo conclusivo, il miracolo divino, il quale, nonostante le apparenze iniziali, riveste un ruolo molto importante nel tempio di Ayyappan
di Saint Denis.
Il miracolo può essere definito come la discesa del divino nel mondo degli uomini attraverso un avvenimento non spiegabile e non sottostante alle leggi naturali. Tale concetto è parte integrante e fondamentale dell’Induismo, in diretta relazione a quella fluidità tra umano e divino cui si è già fatto riferimento. Tuttavia tale fluidità non è sufficiente a rendere la specificità del miracolo: la presenza del divino nel suo idolo, espressione ad esempio di tale fluidità, non è considerata un miracolo ma piuttosto la conseguenza di determinati rituali. Non è quindi la stretta relazione tra divino e umano ad essere considerato un miracolo in sè, quanto piuttosto alcune modalità, non “naturali”, in cui essa si attua: quando per esempio Gayeśa (la sua mūrti) non solo consuma “la componente sottile” del cibo che gli viene presentato, come d’abitudine, ma comincia a bere il latte che gli viene offerto (come è successo nel settembre del 1995 in diverse parti del mondo, tra cui a Parigi), allora le leggi della natura, del mondo umano e di quello divino vengono sconvolte, generando quella meraviglia che caratterizza il miracolo. La meraviglia è solo uno degli elementi, ma non il più importante. Il fulcro infatti è costituito dall’anormale intervento del divino nel mondo umano, ossia dalla causa di uno specifico sentimento di meraviglia, il quale peraltro può essere provocato da molte altre cause tra cui la magia o la finzione teatrale. Come suggerisce R.Davis (1998), i miracoli sono atti sociali secondo diversi punti di vista. Innanzitutto richiedono la presenza di un pubblico che risponda con meraviglia, sorpresa e gioia all’evento. Richiedono inoltre una visione condivisa di ciò che è normale, naturale in quanto è rispetto ad esso che il miracolo si definisce come deviazione: ad esempio non è “normale” che una mūrti si trasformi in un bambino in carne ed ossa ed è proprio questo a causare stupore, meraviglia e reverenza. Dal punto di vista del credente
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poi essi rappresentano una modalità di comunicazione tra il divino e l’umano, una modalità in cui il divino si manifesta, rinforzando la fede negli uomini attraverso la meraviglia che le manifestazioni del suo potere generano. Riprendendo quanto accennato da Muthukumarasamy sulla propaganda, il miracolo è anche un mezzo di affermazione indiscutibile di autorità religiosa: questo perché i miracoli sono interpretati come atti retorici intenzionali di Dio, il quale manifesta la propria volontà attraverso di essi. Se i primi tre elementi possono essere generalmente applicati, l’ultimo non è a mio parere sempre presente. Sono le differenti relazioni di potere, interne ed esterne all’universo considerato, a generare la necessità o meno di una simile “conferma divina”. Al Sri Ayyappan temple pare siano avvenuti molti miracoli nei dieci anni che sono passati dalla sua fondazione: una donna che non riusciva ad avere figli è rimasta incinta dopo aver osservato un periodo di austerità durante il quale ha finanziato un abhiseka da 1008 litri di latte; un’altra donna in attesa di un figlio maschio si è recata al tempio per 9 settimane durante le quali ha acceso decine di lampade a ghī chiedendo ad Ayyappan di dargli una femmina: alla nascita il sesso del bambino era cambiato; un uomo che non riusciva a trovare lavoro è andato al tempio per pregare Ayyappan di aiutarlo: all’uscita ha incontrato un amico di infanzia che non vedeva da più di vent’anni che gli ha offerto subito un lavoro. La lista naturalmente è molto più lunga. Tuttavia nessuno dei miracoli che mi sono stati raccontati avrebbe potuto (anche non intenzionalmente) accrescere l’autorità religiosa del tempio. Questo perché un’autorità religiosa non c’è: se la si volesse identificare non potrebbe essere che Ayyappan stesso. Come già accennato, infatti, al tempio non esiste una figura che racchiuda in sé poteri e funzioni, autorità e carisma, come invece succede al tempio di Ayyappan de La Courneuve dove infatti avvengono con regolarità “prove di legittimità”, legate peraltro allo statuto non convenzionale di Guruswāmī.
A Saint Denis i miracoli vengono spiegati come una conseguenza di lunghi e costosi abhiseka
o altri rituali ma soprattutto come la risposta alla sincera devozione di un’anima
“che coltiva da molte vite un buon karma”, comunicata a Dio attraverso il linguaggio del cuore. In questo caso essi non accrescono alcuna autorità se non quella di Ayyappan, la cui popolarità dipende da essi, poichè Egli “has the sure power to grant boons, to heal wounds, to cure weakness, to restore potency, to save lives!” (Smith 1997: 223).
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Capitolo VII IL SIVAN-PARVATHI TEMPLE E L’ARULMIHU MUTTHUMAARIAMMAN AALAYAM: QUALCHE DIFFERENZA, MOLTE SOMIGLIANZE
In questo capitolo prenderò in esame due luoghi di culto: il Temple de Mutthumariamman a La Chapelle e il Sivan-Parvathi Temple a La Courneve. La scelta di affiancarli in una trattazione comune ha una duplice motivazione: se infatti da un lato i due templi rivelano molti tratti simili (nell’organizzazione spaziale, nella gestione, nel pubblico), dall’altro in entrambi i casi la ricerca sul campo si è scontrata con una forte resistenza e un generale disinteresse alla comunicazione. Da parte mia ho tentato in molti modi di infrangere questo muro, senza però ottenere grandi risultati. La trattazione che qui prende il suo avvio sarà quindi molto diversa da quelle che l’hanno preceduta, poiché ad averla forgiata è stata più l’osservazione che il dialogo. D’altronde alla varietà delle interazioni umane non può che fare eco una varietà di forme narrative, corrispondenti al loro contenuto. La continuità con gli altri capitoli sarà comunque presente, nella misura in cui anche qui si prenderanno in considerazione le caratteristiche che distinguono i due templi dal resto del panorama hindū considerato, anche attraverso confronti mirati. La struttura del tempio, la frequentazione, la gestione, le finalità dichiarate e i grandi festeggiamenti saranno gli elementi principali di questo quadro. La parte finale del capitolo sarà destinata alla trattazione dei problemi riscontrati durante la ricerca.
7.1 Struttura, fruizione e pubblico: due templi simili Il primo elemento che salta agli occhi entrando nei due templi è la magnificenza degli spazi: le sale in cui sono stati creati non solo sono molto ampie, soprattutto se confrontate agli altri templi, ma sono anche riccamente decorate e popolate da una molteplicità di mūrti di grandi dimensioni. 133
Il tempio di Mutthumariamman si trova a La Chapelle1 in una piccola via di scarso passaggio, a poche decine di metri dal Sri Manicka Vinayakar Alayam. Dalla strada esso è individuabile attraverso una piccola insegna che riporta la dicitura “Temple de Mutthumariamman. Association des hindouistes de France”. Varcato l’ingresso un cartello indica la direzione del camerino dove lasciare scarpe e oggetti ingombranti, come le carrozzine dei bambini o la spesa appena fatta nei negozi tamil del quartiere, e un altro comunica il divieto di fotografare e filmare all’interno del tempio, il quale si trova al piano superiore. Al suo interno esso si sviluppa in lunghezza: si tratta di una sala di circa 150 metri quadri a cui si aggiungono le cucine, un ufficio e una stanza per i brāhmayi in cui sono stipati gli oggetti rituali. Dalla cucina si accede, tramite una scala, ad un’altra grande sala utilizzata per i matrimoni ed altri saxskāra. Le tre mūrti principali “alloggiano” in una grande cappella tripartita posta nella parte anteriore della sala, vicino alla porta d’ingresso. Mutthumariamman al centro è la regina del tempio, affiancata da Gayapati
(il quale si trova alla sua destra, come in tutti gli altri templi, tranne quello di
Ayyappan
a La Courneuve) e Murugan, suoi figli. Essa è infatti associata alla dea Pārvatī,
di cui sarebbe una manifestazione2. Le altre mūrti sono invece ospitate in nicchie ricavate lungo il lato lungo della sala: sono rappresentati Śiva, Pārvatī, Krsya, Hanumān e Visyu. Sul fondo della sala, superati tre scalini, troviamo i nove pianeti e Bhairava, forma terrifica di Śiva. Mutthumariamman
significa Mariamman “come perla” ed è una delle infinite
forme di Amman (madre in tamil). È una dea locale, di villaggio, associata alla fertilità, ma anche al vaiolo e in quanto tale conosciuta in tutto il Sud India e in Sri Lanka, dove le sono dedicati molti luoghi di culto. La presenza di templi dedicati a dee locali in contesto di diaspora viene spiegato in termini sociali come la conseguenza di una diversificazione nella composizione castale (e di classe) dei recenti flussi migratori. In particolare Waghorne (2004) si riferisce a tale fenomeno con la formula ‘globalized localism’: attraverso la diaspora culti locali trovano un’estensione globale. Importanti templi di Mariamman si trovano infatti in tutti i luoghi raggiunti storicamente dalla diaspora tamil: 1
Al 26, rue du Departement. Fuller (1992) parla di “politesismo fluido” per riferirsi al fatto che una divinità possa diventarne tante e tante una. Al tempio di Mutthumariamman, come negli altri templi le divinità femminili sono un esempio particolarmente evidente di questa sovrapposizione: Amman è il termine con cui ci si riferisce alle varie forme iconografiche che possono assumere le divinità femminili. 2
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tra i più antichi e famosi si possono elencare il Sri Mariamman Temple a Singapore e il Sri Mariamman Temple a Penang in Malaysia. Fin dal XIX° secolo quindi questa madre multiforme ha seguito i suoi figli per proteggerli nel loro soggiorno in terre straniere. Le cappelle e le mūrti di cui è dotato il tempio sono riccamente decorate. Un giovane brāhmaya che officia ogni tanto al kovil mi ha riferito che esso è stato allestito secondo le regole dell’architettura sacra. La disposizione delle mūrti, il loro orientamento, cosi come la ricca decorazione, sono stati stabiliti da brāhmayi esperti ed eseguiti da sthapati srilankesi
residenti a Parigi3.
Il tempio di Śiva e Pārvatī a La Courneuve è in assoluto il più grande tempio di Parigi ed anche il più riccamente decorato. Si trova nelle vicinanze del tempio di Ayyappan, in una zona residenziale della comunità molto ben collegata (tramite la metro e la periferica esterna della città). È l’unico tempio
ad
esibire
una
decorazione
esterna, che, come si può vedere dalla foto a destra, si presenta come una sorta di gopuram bidimensionale nel quale sono rappresentate le principali divinità del pantheon hindū: Śiva, Hanumān, Fig. 12 - L’ingresso del tempio etc Lo spazio del tempio si presenta diviso in due zone: anteriormente, varcata la porta
Gayeśa, Pārvatī,
d’ingresso, si accede ad un corridoio le cui pareti sono state adibite a scarpiera e che dà accesso da un lato al kovil dall’altro al negozio del tempio, nel quale si possono trovare articoli di culto di vario genere: raffigurazioni sacre di diverse dimensioni, raccolte di bhajana,
calendari, statue, abiti, lampade. Il negozio è collegato ad una zona leggermente
rialzata rispetto al resto della struttura, dove si trovano degli uffici e da cui si ha 3
Sarebbe interessante scoprire se sono gli stessi che hanno allestito gli altri templi. Vista la preparazione specifica necessaria e la dimensione piuttosto ristretta della comunità la cosa è altamente probabile.
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ugualmente accesso alla sala del tempio. Esso è costituito da una grande sala rettangolare, sulle cui pareti sono dipinte rappresentazioni divine e mondi celesti, in particolare il monte Kailasa, dimora himalayana della sacra famiglia costituita da Śiva, Pārvatī, Gayeśa e Murugan, ma anche Gayeśa che prega Śiva, lo Śiva linga e Hanumān. L’iconografia e il decoro (ad esempio le strisce bianche e rosse) sono quelli tipici dell’arte tamil. Il garbhagrha si trova nella parte posteriore della sala, in posizione centrale. Esso ospita lo Śiva linga ed è fronteggiato dal toro bianco Nandi, vāhana di Śiva: le sue 4 zampe rappresentano la rettitudine, la verità, la pace e l’amore. La parola linga significa innanzitutto segno, emblema, evidenza. Il linga di Shiva è innanzitutto simbolo della sua presenza espressa in termini aniconici. Raramente lo si trova dissociato dal suo ricettacolo e piedistallo, la yoni (vagina, matrice, luogo d’origine), ed è in questa forma che lo si trova al Sivan-Parvathi Temple. Esso rappresenta Śiva nella sua potenzialità generatrice. Ai lati del garbhagrha troviamo, in due piccole cappelle poste sul fondo della sala, Gayeśa
e Murugan a sei facce4, rispettivamente a destra e a sinistra del linga. Il resto del
tempio ospita le altre divinità, rappresentate da mūrti di grandi dimensioni, spesso circondate da divinità minori. Troviamo Hanumān, Krsya, due mūrti di Dūrga, Laksmī, due mūrti di Pārvatī e altre forme di Śiva: Śiva con Pārvatī, Śiva Natarāja e Bhairava. Una
grande
struttura
ospita
poi
i
nove
pianeti
(nava-graha)
rappresentati
antropomorficamente. La grandezza delle mūrti distingue nettamente questo tempio da tutti gli altri. Esso è inoltre l’unico a possedere un kotittampam5, bandiera-pilastro che indica la divinità principale e che nei templi Śaiva si pone tradizionalmente in linea con il toro Nandi e lo Śiva linga.
I due templi presentano quindi nella struttura e nell’organizzazione spaziale del sacro delle forti somiglianze, che li pongono in netta distinzione rispetto agli altri templi, dove, come abbiamo visto, la ristrettezza della sala o il numero ridotto di mūrti determina 4
Nelle sei facce si rappresenta il mito secondo cui Murugan sarebbe stato generato dal seme di Śiva il quale, dopo molti passaggi, viene trasportato dalla Ganga (il fiume Gange) fino alle sei krittikā (personificazione delle Pleiadi) che danno origine a sei bambini, successivamente uniti in uno solo a sei facce da Pārvatī. Egli è infatti chiamato anche Kārttikeya ossia ‘figlio delle Pleiadi’. 5 È l’ultima acquisizione del tempio e nonostante sia già stato posto nella posizione appena descritta è ancora impacchettato. Il 20 giugno si svolgerà una cerimonia d’inaugurazione.
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una diversa strutturazione interna, la quale a sua volta implica una diversa fruizione dello spazio sacro. Entrambi i templi sono aperti tutti i giorni: a differenza del Temple de Mutthumariamman che fa “orario continuato”, al Sivan-Parvathi Temple gli orari di apertura e chiusura si costruiscono sulle tre pūjā giornaliere e il tempio rimane chiuso per qualche ora durante il pomeriggio. Nonostante questo in entrambi i fedeli hanno accesso alla sala prima e dopo la cerimonia, e in effetti molte persone si recano negli orari di minor afflusso per un momento di raccoglimento o per svolgere un po’ di karma yoga al tempio. Nel primo caso si tratterà soprattutto di uomini, nel secondo di donne che, in gruppo o sole, preparano una collana di limoni o una ghirlanda di fiori da offrire alla divinità, oppure puliscono la frutta che andrà a riempire i cestini in vendita per l’arcanā. Queste attività non hanno una natura organizzata, né coinvolgono necessariamente le stesse persone di settimana in settimana. Si tratta piuttosto di abitudini portate con sé dallo Sri Lanka: il contributo volontario alle attività del tempio dà diritto a meriti spirituali, ma può essere anche un modo per attuare un voto, partecipando contemporaneamente ad un progetto comunitario. Coma si diceva, quindi, il tempio è aperto al pubblico anche al di fuori degli orari della pūjā. Le visite extracerimoniali seguono tendenzialmente sempre lo stesso schema e il percorso compiuto dal devoto ricalca quello tracciato dal brāhmaya quando officia il rituale. Questo non deve stupire: la conoscenza della gerarchia divina è un dato culturale acquisito fin dall’infanzia attraverso la pratica al tempio. Se tale gerarchia è comunicata anche dall’organizzazione spaziale delle mūrti, essa non è sufficiente, poiché, in quanto comunicazione simbolica, necessita comunque di un alfabeto culturale per essere decifrata. E, d’altronde, chiunque non sia avvezzo al particolare “consumo” che si fa del tempio, sperimenta immediatamente le conseguenze di questa ignoranza. Il percorso del devoto quindi non è affidato al caso, ma segue regole ben precise, imparate con la pratica e l’osservazione. All’entrata del tempio egli appone innanzitutto con le proprie mani della vibhūti sulla fronte. Tale atto non riveste qui il medesimo senso che si è riscontrato in altri contesti, come al tempio di Ayyappan de La Courneuve: qui esso rappresenta piuttosto una forma di rispetto e un’abitudine. Dopo questo gesto “introduttivo”, il devoto si dirige verso la divinità tutelare del tempio, lo Śiva linga al
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Sivan-Parvathi Temple e Mutthumariamman a La Chapelle, per un saluto silenzioso in cui, ancora una volta, mani e occhi fanno da tramite. La preghiera inizia con Gayeśa, immancabile preludio di ogni atto intenzionale: dirigendosi verso di lui il devoto compie parte della deambulazione rituale in senso orario attorno al garbhagrha. La sosta è breve, la pradaksiyā continua e il devoto si ritrova di nuovo di fronte al garbhagrha.6 La preghiera segue a questo punto un ordine lineare: in entrambi i templi infatti le divinità ausiliarie sono sistemate lungo uno dei lati della sala. Le soste si susseguono mūrti dopo mūrti,
in uno scorrere di volti, simboli, gesti e oggetti divini in cui la durata della
preghiera è affidata alle preferenze individuali. Ultima tappa, i nove pianeti sono anch’essi oggetto di una triplice deambulazione in senso orario, dopo la quale il grande cerchio si richiude nel suo punto di partenza: il garbhagrha. La disposizione spaziale delle mūrti permette in un certo senso una fruizione più tradizionale del tempio, pur entro i limiti imposti dalla mancanza di quella molteplicità di spazi concentrici che caratterizza i grandi templi in India e in Sri Lanka, e di cui si è già parlato nel capitolo II. Questo è un fatto. D’altro canto la possibilità di compiere pradaksiyā
senza aver partecipato alla pūjā è un elemento che distingue nettamente
questi due templi dagli altri. Come abbiamo visto, in molti templi la deambulazione rituale attorno alle cappelle ospitanti le mūrti avviene solo dopo l’apposizione da parte dell’officiante della vibhūti, attraverso la quale si completa la trasformazione temporanea che il fedele compie durante la cerimonia (ai due templi di Ayyappan e a quello di Murugan).
In alcuni casi la zona rituale o le cappelle non solo non sono accessibili al di
fuori di questi momenti, ma vengono anche nascoste agli sguardi attraverso tende o pannelli tra una cerimonia e l’altra (tempio di Murugan e Ayyappan a La Courneuve). In questi templi l’attenzione è diretta ad evitare una contaminazione del luogo e soprattutto della divinità. Quando compiono pradaksiyā infatti, i fedeli si fermano a toccare con le mani o con la testa i limiti esterni del garbhagrha: attraverso il contatto passa la loro impurità relativa ed è per questo che è necessaria una purificazione rituale, la quale si compie durante la pūjā ed è suggellata dall’apposizione della vibhūti. L’impurità può passare anche attraverso lo sguardo naturalmente: il malocchio è una vera e propria 6
Talvolta i giri intorno ad esso sono tre. Tra le molteplici valenze di questo numero sacro e magico, nel caso specifico della circumambulazione esso rimanda ai tre passi “che racchiusero il mondo” compiuti dal Visyu solare (Stutley 1980).
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ossessione dentro e fuori dal tempio. Durante la pūjā anche questo pericolo viene limitato: Durante la pūjā non puoi fare cattivi pensieri, perché la tua mente è concentrata su Lui. Mentre lo onori la tua mente non vaga. Perché tu ripeti nella tua mente: Śiva! Śiva! Śiva! Om
namah Śivaya! E cosi tu diventi Śiva! Tu puoi essere Śiva! Capisci?
La mente è difficile da controllare. Per questo l’immanifesto diviene manifesto, per aiutarci ad avvicinarsi a Lui. L’uomo è fatto di sensi. Attraverso la pūjā i sensi non sono più…cioè non si concentrano più sulle cose, no,…il materiale. Ma i sensi sono uno strumento! Per raggiungere l’immateriale, ciò che trascende le differenze, l’Uno! Che è Dio! Che è Śiva! [conversazione con un devoto durante i festeggiamenti per Mahā-Śivarātrī
al Sivan-Parvathi Temple]
Lo sguardo e il tocco quindi, in quanto medium d’impurità solo temporaneamente controllabili, sono da evitare al di fuori della pūjā. Il fatto che nei due templi qui considerati la fruizione complessiva dello spazio sacro sia possibile in ogni momento, senza che venga effettuata al tempio una purificazione preliminare, lascia alla “buona coscienza” individuale la responsabilità di compierla. Teoricamente questo è possibile nella misura in cui ogni buon fedele rispetta delle regole di condotta: le donne mestruate non possono in assoluto recarsi al tempio e cosi l’uomo se ne è entrato in contatto; per compiere la visita bisogna essersi lavati, indossare abiti puliti, non aver mangiato carne o bevuto alcool. Queste regole sono molto interiorizzate, ma come abbiamo visto, spesso non sono considerate sufficienti, poiché ognuno porta, indipendentemente dal rispetto di queste regole, una certa dosa di impurità, relativa alla sua posizione castale e alla sua attività lavorativa. È il rituale stesso che elimina questa impurità, poiché attraverso di esso si compie l’identificazione tra adorante e adorato e il fedele diviene egli stesso divino: il contatto può avvenire insomma solo tra simili. Nel momento in cui la deambulazione è, come nei due templi considerati, indipendente dal resto del rituale e non suo suggello, tutte le considerazioni appena fatte perdono di valore. Questo perché ciò comporta necessariamente la mancanza di quella trasformazione implicita nella partecipazione ad esso. Ognuno, nel suo stato di “normale umanità”, può avvicinarsi alle mūrti, toccarne la dimora, rivolgervi lo sguardo. Questa
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differenza può essere dovuta alla diversa importanza che si dà alle differenze castali e all’impurità relativa, o semplicemente a considerazioni di tipo pratico: non permettere una simile fruizione dello spazio significherebbe dover chiudere il tempio al di fuori dei momenti cerimoniali e quindi rendere impossibile la visita a molti fedeli. In questa seconda prospettiva bisogna tenere presenti altre caratteristiche che accomunano i due templi e contemporaneamente li distinguono dagli altri. Per la loro grandezza, ricchezza nelle decorazioni e varietà di divinità rappresentate i due templi si presentano come i templi della comunità per eccellenza: essi sono frequentati ogni giorno (e in particolare martedì e venerdì) da centinaia di persone. Durante la pūjā le due sale sono quasi sempre colme di gente, per non parlare dei grandi festeggiamenti, quando l’affollamento è tale che è quasi impossibile muoversi. Inoltre, mentre nei templi con cui si ponevano a confronto, per ragioni diverse e in modalità diverse, esiste un rapporto stretto tra fedeli e gestori-presidenti del tempio, qui tale rapporto è necessariamente assente, per ovvie ragioni numeriche. Ciò comporta tra le altre cose l’impossibilità di esercitare un controllo sul pubblico del tempio, il quale risulterebbe non solo impossibile ma anche controproducente. Bisogna tenere a mente anche un ultimo particolare: i due templi non nascono come espressione di una ristretta comunità (come nel caso del tempio di Murugan) o di spinte devozionali individuali (come i due templi di Ayyappan e quello di Gayeśa): sono templi della comunità, retti da associazioni che contano centinaia di iscritti e gestiti da un consiglio amministrativo elettivo. Se i templi di Gayeśa e di Ayyappan a Saint Denis rappresentano dei casi limite in quanto non solo è assente una comunità di fedeli, ma la direzione del tempio è definita esclusivamente dai loro fondatori, i quali per ragioni socio-economiche possono permettersi di sostenere il tempio solo con le loro forze, il tempio di Ayyappan a La Courneuve e quello di Murugan si presentano uniti intorno ad un ideale condiviso dai fedeli e dai gestori-fondatori-officianti del tempio: questo è possibile perché la comunità del tempio, in entrambi i casi relativamente ristretta, si è andata costruendo proprio intorno a questo ideale. Sebbene anche il Temple de Mutthumariamman e il SivanParvathi Temple siano retti da un’associazione e gestiti da un consiglio elettivo, non vi si ritrova il medesimo spirito comunitario. Essi sono piuttosto templi “di massa”: moltissimi visitatori, grandi festeggiamenti, ricche decorazioni, rituali che si svolgono nel rispetto
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della tradizione ma anche meno regole. Questo perché le regole spesso rispondono proprio ad una visione precisa del ruolo del tempio. L’impressione in questi templi è invece quella che si voglia accontentare un po’ tutti per attirare un pubblico maggiore. Naturalmente un pubblico hindū, e ciò li distingue nettamente dal tempio di Gayeśa. Essi inoltre non presentano caratteri “speciali” nelle attività rituali, le quali si svolgono nel rispetto della tradizione. Le motivazioni alla frequentazione dei fedeli, come in molti altri casi, sono legate proprio ai caratteri che distinguono i due templi dagli altri: Si si conosco anche altri templi, ce n’è tanti. [Viene qui perché abita nel quartiere?] No io abito a Saint-Denis. Ma qui è grande, questo è il più grande tempio che noi tamil abbiamo a Parigi. Vengo qui perché è bello e poi c’è molta gente, come al nostro paese. Lei è devoto particolarmente a Śiva e Pārvatī? Si si Siva, Pārvatī, Kanapathi, Murukan, tutti, tutti, qui ci sono tutti. [devoto all’uscita dal tempio di Śiva e Pārvatī] Si beh, io non è che vada spesso al tempio, perché sai già l’associazione mi prende molto tempo, più c’è l’università, però quando vado, vado sempre al tempio di Śiva perché li fanno dei grandi festeggiamenti. Per esempio per Śivarātrī, ti ho vista, eri li anche tu, hai visto, no, cos’hanno organizzato? È importante partecipare perché è un concentrato della nostra cultura: c’è la religione, la danza, i racconti, la musica. È molto bello. Se no, andare al tempio, boh, io credo, però andare solo per la pūjā non è che mi interessa. La pūjā tanto la faccio a casa con mia madre… tutti i giorni. [conversazione con K. nata in Francia e membro di un’associazione femminile franco-tamil] [Viene spesso qui al tempio? ] Si spesso…abito qui vicino e non è che cammino tanto facilmente e allora vengo qui la mattina, a volte ci sto tutto il giorno [ride], tanto sono vecchia, loro [i nipoti] fanno le loro cose francesi e allora cosa devo stare a casa a fare? Almeno vengo qui e prego, e poi c’è sempre qualcuno, mi fa piacere.
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[Al tempio di Gayeśa ci va, è qui vicino? ] Beh, insomma, si, capita, quando fanno la festa ci vado ma se no è piccolo. [conversazione al tempio di Mutthumariamman con una donna anziana] Io vengo qui perché questo è il nostro tempio, là invece è il tempio di una persona sola e lui…comanda! Qui vieni e preghi senza tanta pubblicità o altro. Questo è un tempio fatto da noi per noi, non è che c’è bisogno della pubblicità, tutti lo sanno che qui c’è un tempio hindū e gli hindū vengono, infatti, a centinaia. I giornalisti vanno di là ma la gente viene qui, perché qui è per loro. [devoto all’uscita del Tempio de Mutthumariamman]
Le motivazioni alla frequentazione sono quindi, in contrasto con altri templi: grandezza e magnificenza del luogo, accesso facile, alta frequentazione e il fatto che sia un tempio della comunità. Un’ulteriore motivazione è l’organizzazione di grandi festeggiamenti, che rendono il tempio più “divertente” e attirano effettivamente una grande fetta della gioventù tamil srilankese di Parigi, la quale, come lamenta Balakrishna, tendenzialmente si disinteressa della religione.
7.2 Mahā-Śivarātrī: una festa per tutti Le grandi ricorrenze religiose sono un ottimo momento per indagare gli aspetti comunitari del tempio: se infatti nella quotidianità ognuno di essi si presenta come un mondo a sé, i festeggiamenti organizzati in occasioni speciali richiamano un pubblico sempre più vasto di quello abituale. L’organizzazione e la partecipazione a questi eventi, soprattutto se messi a confronto con l’osservazione delle medesime variabili in momenti di vita ordinaria del tempio, forniscono molte informazioni utili all’analisi della vita religiosa della comunità nel suo complesso. Si scoprirà soprattutto che essi sono occasione di accostamenti imprevedibili e di addolcimento delle fratture che si sono viste caratterizzare i rapporti tra templi. La prima settimana di marzo è stata un’occasione unica da questo punto di vista: ho infatti potuto assistere alla medesima festa, Mahā Śivarātrī, in tre templi diversi: al Sivan142
Parvathi Temple, al Sri Manicka Vinayakar Alayam e al tempio dell’Associazione Dharma Sangh, il quale però non verrà menzionato poiché esula dal campo d’indagine della presente ricerca. Mahā Śivarātrī
è una grande festa panindiana dedicata al dio Śiva. Come per altre
ricorrenze importanti (Navarātri, Dīpāvali o Pongal ad esempio) ogni tempio sceglie se rifarsi al calendario rituale, oppure posticipare (o avanzare) la data dei festeggiamenti in funzione dei giorni di maggior afflusso. Al Sivan-Parvathi Temple cosi come al Temple de Mutthumariamman viene seguito strettamente il Pañcānga, il quale può essere definito nel modo seguente: [It’s the] “almanac of the five things”, which are the lunar days, solar days, periods of the asterisks, junction of the planets and the zodiac, [it’s] an important source for the study of the socio-religio-cultural life of the Hindu Tamils. Literally the word means “five limbs-units”; they are varam, “day”, titi, “lunar phase”, karanam, “division”, nakshatram, “asterisk” and yokam, “junction”- all these are divisione of time. (…) the Pancankam provides the astrological almanac for the Tamil year (April 14/15 to March 13/14) on the basis of the Tamil months. (…) the Pancankam gives the auspicious and inauspicious days for all the social educational and economic activities ranging from wedding to admitting children to school, to harvesting and to the dates of all the important annual seasonal festivals, days of fasting etc, along with the dates of the annual festivals of the different temples. [Sivathamby 1995: 36-37, grassetto nel testo]
In questa speciale occasione quindi, mi è stato impossibile partecipare ai medesimi festeggiamenti nei due templi. Ho invece approfittato della posticipazione della festa al tempio di Gayeśa: in realtà, anche qui sostengono di rifarsi al calendario rituale, modificandolo però in funzione alla locazione del tempio, per cui la festa è risultata sfasata di un giorno. Come si diceva la festa di Mahā Śivarātrī è dedicata al dio Śiva. Si dice che nella medesima notte, all’inizio dei tempi, si sia svolto il matrimonio di Śiva e Pārvatī e che egli abbia effettuato la danza creatrice del cosmo: in quest’occasione quindi egli viene
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adorato come il creatore dell’universo. Essa può essere descritta come segue: All night vigil during which all efforts by devotees are made to concentrate on Śiva’s mystery to the exclusion of all other thoughts, preceded by a period of fasting, and followed by an elaborate cycle of liturgies directed to the Śiva Linga. It is believed that great merit accrues to one who observes the fast, and that the merit of one who keeps vigil thoughout the night without doping is sure to result in moksa or liberation from rebirth (Smith 1997: 21).
Al Sivan-Parvathi Temple la festa di Śivarātrī è uno dei principali festeggiamenti annuali. I fedeli cominciano ad arrivare numerosi al tempio fin dal pomeriggio e il flusso in entrata ed uscita non si interrompe per tutta la notte, durante la quale si succedono quattro pūjā e diversi spettacoli. Alle sette comincia la prima cerimonia: un abhiseka a base di acqua di rose e latte è compiuto da quattro brāhmayi sullo Śiva linga, dopo il quale segue una lunga fase “a porte chiuse”: durante la vestizione e l’adornamento infatti le porte del garbhagrha nascondono ai fedeli la mūrti per una buona mezz’ora. Nel frattempo una donna prende la parola per raccontare le storie mitologiche che fondano i festeggiamenti, il significato della festa e i benefici legati ad una partecipazione vigile per tutta la notte. La sua voce, attraverso un sistema di altoparlanti, è diffusa in tutto il tempio. Intanto ha luogo anche un disciplinato andirivieni di fedeli che portano presso l’altare i loro cesti delle offerte, comprati per 8 euro all’ingresso del tempio, e che consistono in una noce di cocco, 2 o tre banane, foglie di betel, incensi e un bigliettino con scritti i nomi degli offerenti. I prodotti vengono divisi, gli incensi gettati in una scatola, le noci di cocco raccolte in un lavatoio in cui verranno spaccate, sulle foglie di betel vengono messi della vibhūti, della pasta di sandalo e del kumkum. Tutto è pronto, la gente si alza, le porte si aprono, il pubblico si affolla verso il garbhagrha,
ciascuno tenta di conquistarsi il suo personale darśan. Le mani unite si
levano al di sopra della testa, per essere poi riaperte, i palmi rivolti leggermente verso il viso, nel gesto dell’offerta: offerta di sé e abbandono si uniscono in questo gesto con la disponibilità ad accettare ciò che il divino ha da offrirci. “Om namah Śivaya!”, ripete la folla. Il linga è stato riccamente decorato con ghirlande di fiori e tessuti di seta colorata e 144
su di esso veglia ora un grande cobra dorato. Il complesso è inserito in una cornice mobile, la quale verrà, come il resto della decorazione, rimossa alla fine del rituale. La pūjā
si svolge come d’abitudine7, concludendosi con l’arcanā. I bigliettini contenuti nei
cestini delle offerte, in cui sono segnati nome e naksatra degli offerenti, vengono passati al brāhmaya da un suo giovane assistente, anch’egli dotato di yajñopavīta. La cerimonia si conclude e sebbene qualcuno compia singolarmente il giro della sala, la maggior parte dei presenti si siede: molti di loro resteranno al tempio fino alla mattina successiva. Nel frattempo i volontari, riconoscibili da una benda rossa cinta attorno al braccio, fanno avanti e indietro per il tempio, dirigono i nuovi arrivati, creano corridoi di passaggio in mezzo alla folla, che è sempre più numerosa. Il tempio ha organizzato infatti tra una pūjā e l’altra una distribuzione di cibo e caffé, “per non rischiare di addormentarsi!”, e numerosi spettacoli artistici. Tra la prima e la seconda pūjā è uno spettacolo di danza Bharata Natyam ad allietare i presenti. Si tratta di una danza tradizionalmente associata al tempio e infatti essa ha avuto origine proprio nei templi del Tamil Nadu, dove veniva eseguita dalle danzatrici sacre (Devadasī). “Basata su ritmi tradizionali (tāla) espressi anche vocalmente, attraverso sequenze di sillabe prive di significato, ha una funzione narrativa” (Piano 2001: 43). Attraverso di essa vengono raccontate storie mitologiche e racconti religiosi. Il fatto quindi che il tempio abbia inserito uno spettacolo di danza risponde ad una pratica comune in India come in Sri Lanka, e diffusa in molti dei maggiori templi fondati dalle varie comunità hindū nel mondo8. La seconda pūjā, alla quale partecipa ancora più gente, è più lunga e complessa: dopo un altro abhiseka in cui viene utilizzata una maggior varietà di prodotti, il linga viene nuovamente decorato. Questa volta però esso si presenta come mukha-linga: su di esso infatti i brāhmayi hanno rappresentato un volto, che è quello di Śiva stesso. Il momento centrale del rituale, in cui fiori, foglie e lampade vengono offerte alla divinità, si prolunga per molto tempo, in una complessa adorazione in cui sono coinvolti 8 brāhmayi: 4 di loro circondano il linga nel sancta sanctorum, alzano e abbassano le lampade 7
Si tratta della Pañca Upacāra pūjā, la quale include l’offerta di cinque elementi, come dice il nome stesso: fiori, luce, pasta di sandalo, incenso e cibo, i quali rappresentano spazio, fuoco, terra, aria e acqua. 8 Spesso questi eventi eccezionali vengono fortemente pubblicizzati come si può facilmente verificare nei siti internet dei maggiori templi.
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ripetendo il mahā mrutunjaya mantra, mentre gli altri, fuori dal garbhagrha ne recitano altri. “Om trayambakam yajamahe suganahim pushtivardanam urvarukamiva bandhanan mrityor mukshiya mamritat”: anche i fedeli ripetono il mantra, leggendolo su un foglietto distribuito durante l’abhiseka, nel quale esso è trascritto in tamil e in caratteri occidentali. Una signora, seduta accanto a me, mi dice che va ripetuto tutta la notte. Un concerto di musica carnatica è il secondo spettacolo organizzato dal tempio, che alle tre di notte si presenta ancora pullulante di fedeli. Fuori dal tempio è un gran viavai di famiglie, coppie e gruppi di giovani. La festa è infatti, come accennato, un momento particolarmente atteso e di grande partecipazione anche giovanile. Mentre le ragazze partecipano rimanendo disciplinatamente a fianco delle loro famiglie, i ragazzi arrivano e restano spesso tra loro, tenendosi sul fondo della sala9. Il pubblico è quindi molto più composito che durante le cerimonie quotidiane. Esso si mostra diviso, come vuole l’abitudine: le donne, come sempre più numerose degli uomini, si concentrano nella parte posteriore della sala, più vicine al garbhagrha; gli uomini invece tendono maggiormente a restare in disparte, verso l’entrata del tempio, e a muoversi maggiormente. Anche per questa categoria credo si possa affermare che il coinvolgimento nel rituale è minore. I festeggiamenti si protraggono per tutta la notte, un altro spettacolo di musica intercala le ultime due pūjā, l’ultima delle quali si svolge alle sei del mattino. Nel corso della nottata il pubblico, già maggioritariamente femminile, si caratterizza ulteriormente in questo senso. Essendo in un giorno infrasettimanale, molti uomini avrebbero lavorato l’indomani e questo ha sicuramente influito sulla scelta di prendere o meno parte ai festeggiamenti. Alle 9, in un ritrovato silenzio, i volontari cominciano a pulire la sala: si apre infatti un nuovo giorno in cui, nonostante la notte in bianco e anche se l’afflusso sarò basso, bisogna assicurare le tre pūjā quotidiane. La notte seguente partecipo invece ai festeggiamenti per Śivarātrī organizzati al Sri Manicka Vinayaka Alayam. Iniziati alle 8h si protraggono anche qui fino alla mattina dopo, con 4 pūjā consecutive. Appena arrivata incontro V., una signora tamil srilankese di 9
Alcuni di essi accendono il loro ipod tra uno spettacolo e l’altro. L’attenzione al rituale è quasi nulla.
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38 anni che era lì con la figlia adolescente e un’amica. Il marito C. e le due figlie più piccole erano rimaste a casa, lui perché la mattina va a lavorare alle 5 e le bambine per via della scuola. V. mi mostra, senza darmi troppe spiegazioni, ciò che va fatto: con un euro compro un litro di latte e lo metto da parte, e con un altro euro ho diritto a versare dell’acqua su un piccolo linga posto all’inizio della sala. Ci risediamo e dopo pochi minuti la cerimonia inizia: a turno ognuno porta il suo latte ai brāhmayi che lo travasano in un grande recipiente. Uno dei due si pone poi al lato dello Śiva linga del tempio, e, aiutato dall’altro, dà il via ad un lungo abhiseka, che in questo caso non vuole essere il preludio della pūjā, ma viene a costituire il cuore del rituale. Una volta versato tutto il latte, il linga viene lavato con acqua purificata e il fuoco, nella forma di una fiammella alimentata da purissimo ghī, gli è offerto secondo il tradizionale movimento circolare. L’abluzione viene poi ripetuta con altri prodotti: yogurt, miele, pañcamrita, succo di agrumi spremuti sul linga, latte di cocco, pasta di sandalo diluita, acqua di rose, cenere sacra e kumkum puri e diluiti in acqua. Ad ogni passaggio il brāhmaya appone un po’ di kumkum
sulla parte superiore del linga.
Il resto della pūjā si svolge in forma abbreviata, nelle modalità prescritte dai testi. Anche Gayeśa viene onorato attraverso l’offerta di fiori e dolcetti. La medesima cerimonia viene ripetuta per quattro volte senza variazioni e nei momenti tra una e l’altra viene distribuito del cibo e del tè. La sala del tempio che, come si è detto, è molto piccola, è piena di gente fin verso mezzanotte, andando progressivamente svuotandosi nel corso della nottata: solo una quindicina di persone restano fino all’indomani mattina. Anche qui il pubblico è prevalentemente femminile, ma al contrario di quanto osservato la notte precedente, sono pochi i giovani che partecipano ai festeggiamenti, tutti accompagnati dalla famiglia. I festeggiamenti per la “notte di Śiva” si sono quindi svolti in modalità diverse nei due templi. Queste differenze sono in parte riconducibili al fatto che al Sri Manicka Vinayakar Alayam, Śiva non è la divinità principale mentre al Sivan-Parvathi Temple sì: questo influenza naturalmente la quantità di risorse che vengono ad esso destinate e quindi la grandiosità dei festeggiamenti. A questo si aggiunge il fatto che i due templi non hanno la stessa scala di grandezza:
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nella piccola sala del tempio di Gayeśa non è possibile organizzare alcun grande evento, tanto meno degli spettacoli. I due templi inoltre non hanno sicuramente le stesse possibilità finanziarie: pur ignorando la consistenza del patrimonio di Sanderasekaram e le entrate rispettive dei due templi, dubito fortemente che esse siano anche lontanamente comparabili. Il SivanParvathi Temple è frequentato quotidianamente da centinaia di fedeli, per non parlare delle donazioni fatte dai membri dell’associazione. Da questo risulta che mentre il primo può permettersi di organizzare un unico grande festeggiamento, il secondo può finanziare ogni anno diversi eventi della medesima portata. Detto questo l’osservazione della festa di Śivarātrī, soprattutto se confrontata con il défilé di Gayeśa, permette di giungere a qualche conclusione sulle “scelte di consumo” della comunità tamil srilankese in materia religiosa. Il pubblico dei fedeli, a parte quelle comunità di abitués che si creano in ogni tempio (e includo qui quanto detto nel paragrafo precedente sulle ragioni dell’alta frequentazione dei due templi su cui si concentra il presente capitolo), segue i grandi avvenimenti: il défilé di Gayeśa, evento unico nel suo genere, vede la partecipazione massiccia di tutta la comunità; allo stesso modo quando i due più grandi e ricchi templi di Parigi organizzano dei festeggiamenti, l’afflusso è assicurato. Come rivelano le parole di K. sopra riportate e la presenza giovanile al SivanParvathi Temple, molti frequentano il tempio solo in occasioni speciali, quando il rituale diventa l’occasione per grandi feste in cui anche altri elementi culturali della comunità vengono messi in mostra. In questo senso Śivarātrī e così la processione di Gayeśa vanno interpretati non solo come avvenimenti religiosi, ma più ampiamente come eventi culturali della comunità. Essi basano il loro successo anche sul fatto che la comunità stessa può e deve partecipare alla loro organizzazione: sono eventi gioiosi che rinforzano il senso di appartenenza a questa entità sociale, la quale fonda la sua esistenza sul sentimento di attaccamento ad essa dei propri membri. A questo proposito sono interessanti le parole di uno dei membri del comitato direttivo del tempio di Murugan. In una breve discussione, avevo abbordato con lui il tema della “frammentarietà” che caratterizza il panorama hindū parigino. Egli mi aveva fornito più o meno la stessa spiegazione di Balakrishna: gli altri fanno della religione un business, ciascuno vuole fare il suo e cosi i templi sono in competizione l’uno con l’altro.
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Avendo notato la sua presenza ai festeggiamenti per la notte di Śiva a La Courneuve, gli ho chiesto se frequentasse altri templi. Mi ha risposto di no. Ho riformulato la domanda nello specifico: [non va neanche alle grandi feste, come quella di Gayeśa?] Si si questo si…quando posso…il mese scorso sono andato a vedere Śivarātrī, sa cos’è? È un po’ come per Gayeśa, ma per Śiva, il padre di Murugan… ma lo fanno al tempio. Si, in queste occasioni vado, non tutti gli anni, ma quando posso si, porto anche i bambini. Beh ma che c’entra non è come frequentare un tempio cosi, normalmente. Vai perché c’è la festa. La fanno lì e vai lì, non è che vuol dire che sei d’accordo con loro e le cose che fanno. Poi i bambini sono contenti e anche mia moglie, perché ci sono tante cose da vedere e tanta gente. È una festa per tutti.
Accanto agli aspetti più propriamente religiosi (salvezza, accumulo di meriti spirituali, completamento di un voto) e a quelli ludici (festa e spettacoli), il coinvolgimento di un’ampia fetta della comunità a questi eventi si rivela essere uno dei motivi scatenanti della scelta di parteciparvi. Questa stessa motivazione, unitamente all’oggettiva magnificenza dei posti e alla conduzione tradizionale del religioso che nella sua neutralità mette tutti d’accordo, spiega la frequentazione numerosa dei due templi qui presi in esame. È possibile che un’ulteriore motivazione, di stampo politico, stia alla base di tale successo. Come dicevo, l’impossibilità in cui mi sono trovata, di compiere un’indagine approfondita, non mi permette di inferire niente di sostanzioso a tale riguardo: alla trattazione dei problemi connessi a tale tematica è dedicato il paragrafo seguente.
7.3 Chiusura e diffidenza nei due templi Come si è cercato di mostrare nel percorso effettuato negli ultimi capitoli, ciascun 149
tempio presenta dei caratteri che lo distinguono dagli altri. Molto spesso queste specificità vengono sottolineate da fondatori e fedeli e determinano in gran parte la scelta di frequentarli. Affianco alla partecipazione e all’osservazione delle attività del tempio, il dialogo incrociato con queste due categorie di attori sociali è stato naturalmente fondamentale, non solo per le informazioni raccolte, ma anche per la loro ristrutturazione successiva: è stata l’esperienza sul campo e le reazioni, positive o negative, seguite ai miei stimoli conoscitivi, ad aver definito le direzioni che ha preso la ricerca e di conseguenza la strutturazione del presente elaborato. In generale mi è stata riservata un’ottima accoglienza: in modalità e per ragioni diverse la disponibilità al dialogo ha caratterizzato quasi tutte le mie visite. In alcuni casi questo ha portato all’instaurarsi di relazioni durature, basate sulla condivisione di esperienze e interessi comuni. Spesso ho potuto mettere a confronto visioni molteplici di una medesima questione mentre la varietà degli incontri e dei dialoghi ha reso possibile la raccolta di punti di vista disparati. Tornando alle due principali categorie di attori sociali cui mi sono rivolta, ascoltare da un lato le visioni dei fondatori-gestori e dall’altro quelle dei fedeli si è rivelata particolarmente utile. La retorica dei fondatori ha rivelato l’idea o l’ideale che sta alla base della fondazione del tempio, la considerazione che essi hanno del proprio ruolo al suo interno e di quello del tempio nella comunità; ugualmente importanti sono state le parole dei fedeli, in quanto, combinandosi con quelle dei fondatoriresponsabili, hanno messo in luce l’esistenza o meno di una comunità costruita intorno al tempio, la presenza di visioni discordanti o conflitti interni e in termini più generali hanno rivelato le differenti modalità di consumo del religioso della comunità tamil srilankese nel suo complesso. L’osservazione, spesso partecipante, delle attività del tempio e delle relazioni sociali che vi si instaurano ha fornito altri elementi importanti. Anch’essa si è modificata nel corso della ricerca andando da un lato a sostenere e approfondire questioni già discusse, dall’altro a colmare lacune informative. Gli unici due templi in cui l’esperienza della ricerca non si è svolta nelle modalità appena descritte sono il Temple de Mutthumariamman e il Sivan-Parvathi Temple. In gradi leggermente diversi ho riscontrato in entrambi una generale indifferenza al dialogo e talvolta una vera e propria indisposizione nei miei confronti da parte dei responsabili del
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tempio. Non che non abbia sperimentato una certa dose di “perplessità” alle mie visite anche negli altri templi, ma in un modo o nell’altro sono poi sempre riuscita a conquistarmi la fiducia dei miei interlocutori: involontariamente come al tempio di Gayeśa, attraverso una spiegazione dettagliata del mio lavoro di ricerca o recandomi al tempio con membri della comunità. Spesso è stato sufficiente prendere parte alle cerimonie e in un certo senso affidarmi a loro perché le sottili barriere della diffidenza cadessero. Nei templi in questione invece le barriere sono rimaste, e molto alte. Pur rispettando tale posizione, la quale ha una propria intrinseca legittimità, la domanda ‘perché?’ sorge spontanea. Dal confronto con gli altri templi si possono dedurre alcune motivazioni: •
I due templi considerati sono i più grandi e più frequentati templi hindū di Parigi. Le loro risorse finanziarie superano di gran lunga quelle degli altri templi e tutti li conoscono. Essi non hanno bisogno di pubblicità né vogliono aprirsi ad un pubblico extra-comunitario (come il tempio di Gayeśa).
•
Sono templi “di massa”, che non riposano su alcun ideale condiviso, se non quello di essere un luogo della e per la comunità. I fedeli non sono legati particolarmente ad essi se non per il fatto che sono grandi, riccamente decorati, facili da raggiungere e organizzano spettacoli grandiosi. La profondità devozionale di altri templi, come quelli di Ayyappan, è assente e cosi la passione religiosa che stimola in questi templi la condivisione e il dialogo. Sebbene possano essere valide, queste due motivazioni non riescono a dare ragione
della chiusura che ho sperimentato al tempio. Per quanto riguarda la prima il fatto di essermi recata al tempio con delle famiglie che lo frequentano regolarmente avrebbe dovuto in qualche modo smorzare le posizioni: in un’occasione una di queste persone ha anche proceduto a delle presentazioni ufficiali, spiegando lui stesso di cosa mi occupavo e che ci conoscevamo da molto tempo. Tuttavia alla disponibilità dichiarata sul momento non ha fatto seguito una sua concretizzazione. Nel secondo caso l’esperienza negli altri templi mi ha dimostrato che la disponibilità alla comunicazione non si spiega solo come volontà di condivisione. Spesso
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infatti il modo migliore per avviare una conversazione è stato notare alcune caratteristiche del tempio (i canti, la bellezza del luogo, il rituale, la partecipazione dei fedeli) e quindi in un certo senso lodare i fondatori o responsabili per ciò che avevano costruito. Nessuna di queste tecniche ha invece funzionato nei due grandi templi in esame: al Temple de Mutthumariamman sono riuscita solo ad ottenere una brevissima intervista col più giovane dei brāhmayi che officia al tempio saltuariamente; allo stesso modo al tempio di Śiva
e Pārvatī ho potuto parlare, tramite un interprete, solo con uno dei brāhmayi. Nessun
membro dei comitati che amministrano i templi si è invece fatto avvicinare: mi hanno dato appuntamenti non rispettati, poi posticipati e ancora non rispettati. Troppo presi nell’organizzazione del tempio, la scusa era sempre quella: “adesso non ho tempo, torni tra qualche settimana”. Alcune ‘voci’10 e la lettura di un saggio di Angelina Étiemble, che si è a lungo occupata della rete associativa tamil di Parigi, mi hanno poi spinto a formulare un’altra ipotesi. La chiusura riscontrata potrebbe essere una conseguenza di un legame tra i due templi e le Tigri tamil: seguendo questa tesi, i recenti arresti (aprile 2007) di alcuni responsabili del CCT11, accusati di estorsione a fini terroristici12, avrebbe creato una diffusa diffidenza da parte di tutti coloro che sono direttamente o indirettamente legati al movimento. Le parole dell’ Étiemble serviranno ad inquadrare la questione: Le Comité de Coordination Tamouls, affilié aux Tigres, esiste depuis 1980. Il recueille des fonds pour aider les indépendantistes au Sri-Lanka ou les civils Tamouls, par le démarchage au domicile des Sri-lankais et par les recettes obtenues en organisant des spectacles. Son action auprès des réfugiés a évolué au fur et à mesure que la population srilankaise s’est installée dans la ragion parisienne. Au cours d’une première période en effet, les membres du CCT ont aidé les demandeurs d’asile sri-lankais à effectuer leurs démarches administratives, puis peu à peu les 10
Tali testimonianze non provengono dal milieu dei due templi considerati, per questo le etichetto come ‘voci’. 11 Tra di essi due dei principali rappresentanti del CCT e un vecchio presidente dell’ORT, di cui si parlerà tra poco. 12 Le modalità di raccolta fondi “porta a porta” sono documentati per tutti i paesi della diaspora. “By the mid-1990s, some experts believed that 80 to 90 percent of the LTTE’s military budget came from overseas sources, includine both diaspora contributions and income from international investments and business” Rapporto di Human Rights Watch 2006, disponibile in linea al sito www.hrw.org, col titolo ‘Funding the “Final War”. LTTE intimidation and extortion in the Taimil diaspora’.
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anciens sri-lankais ont pris en charge le nouveaux venus.(…) Le CCT a ainsi mis en place des activités pour assurer le contrôle politico-culturel de la communauté tamoule en exil, s’assurant ainsi de sa participation financière dans le mouvement indépendantiste, voire de son retour au Sri-Lanka. Le CCT a, par exemple, créé un temple dans le quartier de la Chapelle, rue du Département, afin de rester en contact avec la population tamoule et de lui donner un lieu de «ressourcement culturel» pour qu’elle ne perde pas ses «racines». Le temple est un lieu de culte, mais les enfants peuvent aussi venir suivre des cours de tamoul ou de dance traditionelle. (2000: 8)
In quest’ottica quindi il tempio verrebbe a rappresentare una delle tante modalità (vita associativa, scuole di lingua, musica e danza, eventi sportivi, spettacoli culturali) attraverso cui il CCT tenterebbe di “empêcher la dislocation de la culture tamoule en exil” (Étiemble 2004: 153) monopolizzando e politicizzando la vita associativa13 della comunità e assicurandosi al tempo stesso le entrate di queste attività. La studiosa cita soltanto il Temple de Mutthumariamman a La Chapelle. E qui in effetti un elemento porterebbe a sostenere la sua tesi: il tempio è infatti sede dell’ORT, un’organizzazione legata al CCT, che si occupa di raccogliere fondi da inviare in Sri Lanka per azioni umanitarie. L’ORT, Organisation de Réhabilitation Tamoule è l’antenna francese della ong TRO (Tamil Rehabilitation Organisation) fondata nel 1985 come organizzazione di auto-assistenza per i tamil srilankesi rifugiati nel sud dell’India. Attualmente questa Ong, ufficialmente riconosciuta in Sri Lanka, ha sedi un po’ in tutto il mondo e, secondo quanto si legge sui libretti informativi da loro distribuiti, collabora con l’UNICEF e altre Ong. A Parigi l’organizzazione ha sede negli uffici del tempio e da qui organizza tre grandi eventi annuali dichiaratamente finalizzati alla raccolta di fondi: uno sportivo, uno di danza e uno di musica, a cui partecipano quasi tutte le associazioni tamil srilankesi. Le stesse attività sono organizzate dall’ORT anche in altri luoghi della diaspora. In Canada, numerose inchieste, tra cui quelle dell’intelligence canadese, “have found that a significant amount of the funds raised were channeled to the LTTE for its military 13
Tutta la rete associativa sarebbe in qualche modo legata al CCT: “Le schéma associatif suit le modèle des poupées gigognes avec en élément central, le Comité. Cet emboîtement permet sans doute de ne pas être étiqueté trop ouvertement «Tigres» tant par les Tamouls que par les institutions françaises. L’appellation «franco-tamoule», assez commune aux associations, témoigne de cette volonté de discrétion” (Étiemble 2004: 151)
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operations” (HRW Report 2006). Tutti questi elementi sostengono l’ipotesi che vede il tempio controllato, se non espressamente creato, dal CCT per raccogliere fondi a finanziamento della guerriglia. Il tempio non presenta però altri legami visibili con il CCT o le Tigri di Liberazione. Sono assenti ritratti di Prabhakaran, la bandiera dell’LTTE o altri riferimenti al movimento, largamente usati in molti templi controllati dal LTTE in Occidente.14 Personalmente non ho potuto quindi né confermare né smentire le dichiarazioni dell’Étiemble. Ancora meno chiaro è il rapporto che legherebbe il tempio di Śiva e Pārvatī al Comité. In questo caso nessuno studio supporta o smentisce le voci (piuttosto numerose per altro) sul loro legame15. L’unico elemento che li collega è la raccolta di fondi che il CCT organizza al tempio durante le grandi feste. Nonostante il tema della mia ricerca non toccasse il politico, nella frequentazione della comunità e soprattutto in seguito ai problemi della ricerca, mi sono trovata a dover affrontare la questione. Una comunità che da 25 anni deve fuggire dalla propria terra a causa di una guerra civile, non può non avere anche in diaspora stretti legami col politico. Questo è un fatto e la portata delle sue conseguenze va tenuta bene in mente. Ma questo è anche un diritto, il diritto alla memoria: la storia dello Sri Lanka e la lotta del popolo tamil sono parte integrante della sua identità, al di là di qualsiasi affiliazione politica. A questo proposito è interessante riportare ciò che dice Peter Shalk nel suo studio sul tempio di Gayeśa
a Stoccolma:
In Stockholm, he [Gayeśa] is related to the sufferings of the refugees. This also implies a political dimension, as most refugees are political refugees and their sufferings are due to political activism, but as mentioned bifore, their aim is to endure in Sweden with the Remover’s help. The aim is not to change and take up arms against the Lankan governement (…) the armed resistance is supported if regarded 14
Ci si riferisci qui al già citato rapporto del HRW dove una sezione è dedicata al “LTTE control of Hindu temples in the West”. 15 Queste voci vanno dalla denuncia di un uso politico del tempio, nell’organizzazione di cerimonie per il Maaveerar Naal o all’occasione di altri eventi politicamente rilevanti, fino a sostenere che i due templi siano stati creati per avere il controllo sulla maggioranza della comunità e i suoi soldi. Il fatto che i brāhmayi non vengano pagati, cosa che ho potuto verificare, sarebbe una prova del fatto che tutti sono implicati e che “il loro è volontariato per la causa, non per la gente” [fedele al tempio di Murugan].
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necessary not by the koyil, but by the LTTE, that also has its national centre in Stockholm. There is a proper division of labour promoted by both the koyil and the LTTE. The division is, as we shall see, not complete. Many of the worshippers in the koyil are also supporters of the LTTE, and supplication and resistance are not regarded as incompatibile activities, but as complementare one. (2004: 31)
È una complementarietà di prospettive che deve guidare gli studi sulla diaspora tamil, che non può e non deve essere vista solo in funzione della sua storia recente: sebbene la pervasività del controllo ideologico e della propaganda delle Tigri, cosi come la pratica dell’estorsione di denaro e il controllo delle reti associative sia documentato in tutti i paesi della diaspora16, la comunità tamil srilankese non si riduce ad una propaggine del LTTE. Il pericolo infatti è quello di una stigmatizzazione. Nei media, ma anche negli studi che in Francia sono stati dedicati a questa comunità17 si nota infatti lo stesso fenomeno che documenta Jacobsen per la Norvegia: The Sri Lankan Tamils are often considered by Norwegian as a political group (2004: 139)
Sicuramente legati al politico, in buona parte sostenitori del movimento delle Tigri, i tamil srilankesi non si riducono però solo a questo e la ricerca dovrebbe tenerne conto.
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Fuglerud (1999: 76) sottolinea il fatto che all’interno della comunità, avendo a che fare con connazionali c’è sempre la possibilità che parole od eventi abbiano delle ripercussioni in Sri Lanka. Il controllo sui rifugiati all’estero e in particolare sulle informazioni o notizie che potrebbero diffondere, danneggiando il movimento, viene esercitato attraverso un controllo sui familiari rimasti al paese. A partire dagli anni 90 questo controllo è stato istituzionalizzato e l’uscita dai territori controllati dall’LTTE dipende dalla firma di un “contratto” da parte di un garante che resta sul territorio, il quale risponderà degli atti “anti-nazionalisti” del suo “protetto” all’estero. 17 Per un’analisi del problema si veda Dequirez (2002) la quale nota come negli studi ad essi dedicati i tamil siano legati invariabilmente a sostantivi come guerra, conflitto, crisi.
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Capitolo VIII IL TEMPIO IN DIASPORA: UN NUOVO CENTRO
I templi della comunità tamil srilankese sono stati fin qui analizzati focalizzandosi sulle loro specificità: ciascuno ha rivelato infatti caratteri a lui propri, la cui importanza è stata sottolineata da un lato dalle parole dei suoi fondatori e dei fedeli che lo frequentano, dall’altro attraverso il confronto con gli altri templi. Nonostante questa frammentazione, sostenuta dal fatto che i templi non intrattengono rapporti tra loro, una visione d’insieme è non solo possibile ma anche necessaria. Al di là delle sue caratteristiche “interne” infatti, il tempio è innanzitutto un luogo comunitario: la sua fondazione rivela in molti casi una comunione di intenti e nelle sue finalità esso si presenta come destinato alla comunità nel suo complesso. Questo capitolo è quindi consacrato all’indagine del tempio in quanto luogo della e per la comunità: l’analisi dei ruoli, religiosi e sociali, che esso assume, metterà in luce molte questioni. Una caratteristica comune delle comunità in diaspora è la messa in atto di modalità di conservazione della propria cultura. Se il contatto, spesso traumatico, con il nuovo contesto comporta una riflessione cosciente dell’individuo sulla propria identità, messa in discussione dal confronto con l’Altro, spesso questo conduce (nel momento in cui i bisogni di sopravvivenza siano stati soddisfatti) ad una finalizzazione cosciente delle energie e risorse in surplus verso la conservazione di questa identità minacciata. I figli della diaspora diverrebbero insomma più consci e attaccati alla loro tradizione poiché il nuovo contesto in cui vivono non fornisce automaticamente le modalità di viverla: per essere sé stessi bisogna lottare, investire energie e denaro, giungere a compromessi, collaborare con altri membri della comunità. Una delle prime conseguenza della diaspora , in particolare quando la comunità è in via di formazione, è proprio l’abbattimento di quelle barriere sociali, castali e talvolta religiose che caratterizzano la strutturazione della società nel paese d’origine. Un esempio a questo proposito è riportato da Robuchon per la diaspora tamil srilankese in Germania: egli, osservatore privilegiato dei primi arrivi nei primissimi anni ’80, descrive la 156
convivenza di tamil srilankesi appartenenti a caste e religioni diverse (hindū e cristiani). Le nuove, penose, condizioni di vita portano a trascendere molte differenze e a modificare le proprie abitudini di vita: En Allemagne, dans une petite ville de la banlieu de Dusseldorf, une douzaine de Tamouls partagent un quatre-pièce, ancien logement de fonction dans une école, où ils ont été placés par les services sociaux d’accueil aux réfugiés. Trois pièces sont des chambres. Deux lieux rappellent la collectivité obligée: la quatrième pièce qui est aménagée en salon, avec divans et television; et l’étagère unique, installée dans l’une des chambres, où se côtoient les représentations des dieux des occupants qui, tous tamouls, sont les uns hindous, les autre chrétiens. Chacun est amené à accepter la conviction de l’autre dans un même espace, comme chacun doit accepter de manger la nourriture préparée par l’autre, au-delà des préjujés de castes: hindous de hautes et de basses castes, chrétiens de basse caste, tous partagent la même nourriture comme tous doivent la préparer à tour de rôle pour tous, en rupture pour cela avec les tabous alimentaires du pays. L’immigration crée une nouvelle convivialité, par une volonté de dépassement de la promiscuité et des risques de celle-ci pour la survie: la commensalité est la règle commune, et l’étagère en est le reflet. (1993: 8)
Col costituirsi della comunità, la sua installazione e il conseguimento di una relativa sicurezza economica, alcuni di questi “compromessi” forzati vengono abbandonati ed altri si manifestano in modalità diverse. La comunità si differenzia e l’accesso a nuove risorse permette una diversificazione delle modalità di mantenimento della propria cultura. In quanto componente fondamentale dell’identità individuale e collettiva anche la religione è oggetto di simili nuove attenzioni: Living in the diaspora often challenges people to rethink their cultural identity leading to increased awareness of religious identity. The religious identity may become an important cultural marker and the minority situation leads to a new interest in religion as preserver of culture. The minority situation creates increased awareness of religious difference. (Jacobsen: 134)
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Inoltre, come gli altri aspetti della vita sociale della comunità, anche la vita religiosa segue un percorso di “compromessi-adeguamento-diversificazione” che vede le sue espressioni moltiplicarsi e diversificarsi rapidamente col passare degli anni (Baumann 2000, Luchesi 2004). In questo sforzo collettivo per il mantenimento della propria identità, su cui la comunità fonda in parte la propria compattezza, il tempio riveste un ruolo fondamentale. In questo senso esso è simbolo, mezzo e risultato di un processo di (ri)costruzione di riferimenti identitari e della creazione di spazi di espressione ed emancipazione del Sé. Se da un lato esso è segno della rassegnazione di fronte all’impossibilità di tornare al proprio paese, il tempio rappresenta soprattutto l’energia creativa che scaturisce dall’esperienza della diaspora e dalla perdita di riferimenti che la caratterizza. La sacralità dello spazio del tempio, che trova un suo corrispettivo nella sacralità, differente ma parallela, della casa, fa di esso non solo un luogo adatto a ospitare gli dèi e le preghiere degli uomini, ma permette di estendere, oltre i limiti geografici, la terra sacra del proprio paese d’origine. Essere al tempio è come essere a casa, in Sri Lanka: tutto riporta a questa madre dilaniata dal conflitto. Darle vita altrove significa anche, in un senso non necessariamente politico, combattere per essa. Quanto detto si esprime in una varietà di ruoli, vecchi e nuovi, che il tempio viene ad assumere in diaspora. Le pagine che seguono vogliono esserne un compendio.
8.1 Il tempio come centro religioso Il tempio, in diaspora come in Sri Lanka, è innanzitutto un luogo di buon auspicio e di contatto tra il mondo umano e il mondo divino: questo contatto viene stabilito attraverso i primissimi rituali che si svolgono al tempio, tramite cui si induce la divinità a “prendere dimora” nel supporto fisico rappresentato dalla mūrti1. Esso viene inoltre rinnovato quotidianamente attraverso rituali appropriati che rendono la presenza del 1
Sono 4 i momenti principali di questo processo: la statua viene installata, secondo precise regole definite da brāhmayi e sthapati; gli occhi della divinità vengono completati attraverso la perforatura con un ago d’oro; il prāya (soffio vitale) viene installato nella divinità con una cerimonia che prende il nome di Prāyapratistha; infine viene eseguito un abhiseka speciale chiamato mahā kumbha abhiseka.
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divino sempre più potente. Il tempio è quindi una dimora terrena della divinità 2 e farvi visita si presenta innanzitutto come la ricerca di un contatto forte, potente, con il divino, il quale si stabilisce soprattutto attraverso il medium della vista: è il darśan che i fedeli ricercano innanzitutto. Se è vero che questo contatto ha un suo valore intrinseco, i fedeli si rivolgono però al divino soprattutto in momenti di crisi, ansia, malattia o prima di momenti caratterizzati da incertezza (ad esempio prima di un esame o di un importante colloquio di lavoro). In questi casi il pronunciamento di un voto è pratica comune. Il corrispondente termine sanscrito ‘vrata’ significa innanzitutto desiderio, ordine, regola, condotta, maniera e solo in un secondo momento ha assunto la connotazione religiosa implicita nella parola ‘voto’. Bhatt lo descrive nel modo seguente: Du point de vue religieux c’est avant tout un acte méritoire de dévotion avec austérité. C’est un vœu solennel de se livrer à telle pratique sacrée qui comprend souvent le jeûne et la continence. Les textes traitant du vrata l’expliquent comme rite religieux caractérisé par une discipline physique et spirituelle. Comme tous les rites il y en a de deux sortes: nitya obligatoires, kamya dépendants d’un désir particulier et accomplis avec un but personnel. Les dates régulières d’observance des premiers sont fixées et indiquées dans des almanachs publiés chaque année. (2000: 300)
Il voto si rivela prevalentemente nella pratica di austerità fisiche e spirituali, ma non solo. Esso può anche manifestarsi nella promessa di compiere un determinato rituale nel caso il desiderio espresso venga ascoltato. Spesso le due cose sono associate e in entrambi i casi il tempio è fondamentale: dichiarazione e attuazione del voto si svolgono entrambi agli occhi e per la divinità. Inoltre il tempio informa i fedeli sul calendario rituale, di cui spesso su richiesta si può ottenere una copia. Restando sempre nell’ambito della pratica individuale, il tempio è anche un luogo di meditazione e raccoglimento, in cui è possibile sperimentare Śānti, la pace della mente: in questo senso esso diventa una casa spirituale per tutti i figli della diaspora:
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Come comunicano i termini tamil con cui esso viene designato: kovil e alayam stanno infatti sia per tempio che per dimora del re.
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Sai non è che noi siamo obbligati a venire al tempio…è come se, cioè ti faccio un esempio: non è che il prete viene a cercarci a casa come fanno i cattolici. Io ho un amico che se non va alla messa la domenica il prete lo chiama e gli chiede perché. Qui non è cosi. Tu vieni quando vuoi. Puoi anche pregare a casa nella pūjā room ma non è che è la stessa cosa, perché qui è meglio…è più spirituale, capisci? È un luogo fatto per questo, è più spirituale. Vieni per non pensare più ai problemi della vita, al lavoro…[devoto al Temple de Mutthummariamman]
Nella formulazione di richieste e voti e nella pratica meditativa il tempio viene quindi a rappresentare per i fedeli un importante luogo di conforto3 e la pratica religiosa un importante mezzo di interpretazione e gestione del reale, in continuità con la propria tradizione. I cambiamenti strutturali che il tempio ha dovuto subire nell’adeguamento al nuovo contesto, i quali, come abbiamo visto, si sono tradotti in una diversa fruizione spaziale del sacro, non hanno inficiato la sua caratteristica fondamentale (che è anche la sua ragion d’essere) che è quella di rendere possibile la discesa in terra del divino. Il tempio, anche in diaspora è un luogo sacro e gli dèi vi trovano dimora: come i loro fedeli, essi si adeguano alle nuove condizioni di vita e accettano di vivere in luoghi dove le vecchie regole non possono più essere completamente rispettate. Nonostante questo la percezione dell’inadeguatezza del luogo si manifesta spesso: tutti i fondatori con cui ho parlato hanno espresso il desiderio di costruire un grande tempio, nel rispetto delle regole dell’architettura sacra. In questo ambito il sentimento di essere oggetto di un’ingiustizia e di rappresentare una minorità misconosciuta è espresso con molta forza. I tempio è anche un luogo importantissimo per la trasmissione culturale: Religions often function as preservers of tradition inherited from the past especially because their rituals are repetitive and their norms considered eternal or trascendent. Temples often become the central institution for the preservation of cultural heritage in the diaspora (Jacobsen 2004: 137). 3
Il fatto che le persone “vengono al tempio per dimenticare i loro problemi” è una delle maggiori costanti nelle interviste.
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Questo ruolo si manifesta però non tanto nella preservazione di rituali e pratiche religiose, che, come si è visto, non rappresenta sempre la norma: spesso il nuovo contesto richiede degli adeguamenti4, e talvolta la creatività si manifesta in tutta la sua forza. Inoltre l’impossibilità di trasmettere la cultura rituale mi è stata chiaramente manifestata in tutti i templi, innanzitutto in quelli maggiormente legati alla tradizione. Questo è facilmente comprensibile se si pensa che i brāhmayi compiono un lunghissimo percorso di studi prima di poter officiare. In diaspora una simile formazione è impossibile: tutti i brāhmayi
dei templi parigini hanno compiuto la loro preparazione in Sri Lanka (o in India
del Sud) e se i loro figli ricevono una formazione al rituale, essa è sufficiente soltanto a fargli svolgere il ruolo di aiutanti. Anche al tempio di Ayyappan a La Courneuve il passaggio della gestione nelle mani del figlio di Guruswāmī non è considerato un’ipotesi plausibile, almeno fino a che egli non si dedichi completamente, come suo padre, alla pratica spirituale5. Se la trasmissione della cultura rituale è impossibile, il tempio è sede di un altro tipo di trasmissione culturale basata sulla partecipazione al rito. Attraverso di esso infatti è tutto un complesso di espressioni vocali e attitudini corporali ad essere messo in atto, ad essere vissuto e mostrato, innanzitutto ai bambini. È stupefacente vedere la dimestichezza dei bambini, anche molto piccoli, con la pratica religiosa: i gesti, le invocazioni, le posture vengono padroneggiate fin dalla più tenera età. Ricordo un episodio divertente, che mette in luce quanto detto: ad occasione del terzo compleanno di sua figlia, M. (38 anni, in Francia dal 1990) ha organizzato una festa a casa, a cui è stata invitata la famiglia, qualche amico e la sottoscritta. È pratica comune in queste occasioni speciali allestire una sala per farvi le foto: il tavolo della sala da pranzo, addobbato con una ghirlanda di fiori finti, era stato in questo caso spostato sul fondo della parete, e su di esso erano state messe la torta di compleanno al centro e due bottiglie di finto champagne (non alcolico) agli angoli. Dopo le prime pose, la piccola è stata messa in piedi su uno sgabello davanti alla 4
Un’importante conseguenza del nuovo contesto in cui il tempio si inserisce è la variazione parziale del calendario rituale: secondo una valutazione dei giorni di maggiore afflusso (venerdì e weekend) alcune importanti celebrazioni vengono anticipate o posticipate per seguire le nuove necessità dei fedeli. Questo fenomeno si riscontra principalmente nei templi minori, mentre, come già osservato, il Sivan-Parvati temple e il Temple de Muthumariamman sottolineano la loro stretta osservanza del Pañcānga. 5 S. ha espresso più volte con me il desiderio di dedicarsi alla fondazione di un tempio, sulle orme di suo padre, dopo i 50 anni.
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sua magnifica torta: sorridente si faceva fotografare dimostrando una notevole dimestichezza davanti all’obbiettivo. Nel momento però in cui hanno acceso la candelina sulla sua torta, invece di soffiare, vi ha passato sopra le mani, portandosele poi agli occhi. In mezzo all’ilarità generale, sua padre mi ha detto: “Poverina, lei che ne sa, lo vede sempre fare al tempio”. Come mostra quest’esempio, la partecipazione alla vita del tempio è molto importante, in quanto l’apprendimento della religione passa innanzitutto attraverso l’osservazione e la pratica. Da questo punto di vista i bambini mostrano di padroneggiare molto presto la complessità del rituale. Farsi raccontare da un bambino una cerimonia a cui ha assistito è un’esperienza unica: mi è capitato poche volte ma è sempre stato molto istruttivo (e anche molto divertente). Oltre a conoscere le fasi del rituale i bambini sono in grado di mimare i gesti degli officianti e dei fedeli con incredibile precisione, ma la risposta a domande come “e perché fa cosi?” sarà immancabilmente “boh, si fa cosi e basta”, oppure “non lo so, mia mamma fa cosi”. Come sottolinea Logan (1988) citato in Vertovec (2000: 95): The children’s knowledge of myths, the reason for celebrating particolar festivals and theological concepts is weaker than their command of ritual practice (…) Moreover, their greater knowledge of practice merely reflects the nature of much of popular Hinduism
L’osservazione non è tuttavia l’unica forma di trasmissione culturale che si attua al tempio. In alcuni casi infatti vengono tenuti dei discorsi alla fine della pūjā (tempio di Ayyappan
a La Courneuve) o durante i grandi festeggiamenti: in queste occasioni un
membro della comunità prende la parola per raccontare storie leggendarie, spiegare l’importanza di partecipare a determinati rituali o il significato di concetti quali dharma o karma. Attraverso
questi discorsi la comunità condivide, ricorda o apprende un complesso
di norme, valori, concetti religio-esistenziali, ma anche la propria letteratura sacra e la mitologia, il significato delle feste religiose e delle pratiche devozionali. In quanto luogo di trasmissione culturale il tempio ripropone una funzione assunta anche al paese d’origine. Tuttavia in diaspora esso vede accentuare la sua importanza:
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ruolo non nuovo quindi ma reso vitale dalla mancanza di altre occasioni di apprendimento. In particolare bisogna notare qui come la dispersione residenziale che caratterizza le famiglie allargate6 nel contesto parigino, rende più difficile, talvolta impossibile, riproporre i modelli educativi sperimentati al paese d’origine, dove l’educazione religiosa dei bambini, cosi come la loro educazione in generale, non è affidata solo alla madre, ma alle diverse figure femminili della famiglia. Sebbene quindi le madri insegnino la pratica religiosa ai propri figli, nel nuovo contesto le visite frequenti al tempio risultano fondamentali per il suo apprendimento. Un altro elemento importante da tenere in considerazione sono i saxskāra, rituali di consacrazione o di passaggio che marcano le tappe fondamentali della crescita dell’individuo. Essi vengono in gran parte eseguiti al tempio: tra questi abbiamo la cerimonia della nascita, l’imposizione del nome, la prima assunzione di cibo solido, la prima tonsura, la foratura delle orecchie, la cerimonia di pubertà e il matrimonio. In alcuni casi i templi possiedono delle sale espressamente destinate alla celebrazione dei due saxskāra
più importanti, la cerimonia di pubertà e il matrimonio, per i quali vengono
investite enormi risorse.7 Alcuni di questi riti si svolgono anche a domicilio. Da tutti questi elementi risulta chiaro che il tempio è innanzitutto centro religioso della comunità, punto di riferimento in importanti fasi o momenti della vita, luogo in cui vivere appieno la propria cultura religiosa. Il moltiplicarsi dei templi che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni di storia della comunità è un segno chiaro dell’importanza che questi luoghi rappresentano per i suoi membri, importanza accentuata dal fatto di trovarsi in una società laica, in cui i valori e la morale non sono basati sulla religione. Questo aspetto della società francese è fortemente criticato ed è spesso stato oggetto di commenti durante le interviste. In molte conversazioni i miei interlocutori mi chiedevano se fossi francese: 6
Spesso inoltre essa non riesce a riformarsi in diaspora e si ristruttura sul modello occidentale della famiglia nucleare. 7 Una cerimonia di pubertà “ben fatta”, ad esempio, costa circa 3000 euro: bisogna infatti pagare un brāhmaya per svolgere i riti a casa e alla sala del tempio, la quale va affittata e addobbata riccamente (spesso vengono pagate delle donne specializzate in questo); inoltre bisogna pensare ad offrire almeno due pasti agli invitati, che sono nell’ordine del centinaio, e pagare fotografi e cameraman; la ragazza inoltre dovrà cambiarsi d’abito e gioielli quattro volte nel corso della cerimonia. In generale è un momento fortemente atteso e oggetto di infinite discussioni tra amiche.
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la mia risposta di essere italiana spesso induceva da parte loro un confronto della libertà di espressione religiosa nei due paesi. L’idea diffusa è che in un paese fortemente religioso come l’Italia (“perché c’è il Papa”) anche loro potrebbero godere di una maggiore libertà di espressione perché “almeno lì la gente capisce cosa vuol dire credere in un Dio” [devoto al tempio di Murugan].
8.2
Il tempio come centro socio-culturale: socialità, aiuto, costruzione
identitaria e messa in mostra del Sé Il tempio è un luogo saturo di riferimenti culturali e tutto in esso rimanda al paese d’origine: la musica, gli oggetti, la decorazione, la frutta offerta alle divinità, l’estetica. In questo senso lo spazio del tempio è uno spazio addomesticato, un frammento di terra straniera che è stato trasformato in un luogo sacro e ospitale. È su questo addomesticamento, sulla capacità del tempio di essere “qui è li” ad un tempo, che si basa la sua rafforzata importanza come centro di vita sociale della comunità. Oltre ad essere sede della vita religiosa i templi sono infatti, a Parigi cosi come in Sri Lanka, dei luoghi di socialità fondamentali. In particolare sono visti come luoghi di socialità “appropriata”8, soprattutto per le donne, per le quali la visita al tempio rappresenta un’importante, talvolta l’unica, occasione di uscita e incontro al di fuori della famiglia: molte donne infatti non lavorano e, soprattutto per loro, il tempio rappresenta tra le altre cose, anche un momento di svago in cui incontrare amiche e conoscenti, discutere le notizie del paese, conoscere nuovi membri della comunità, esprimersi (attraverso il canto o l’aiuto al tempio), avviare proposte matrimoniali. Spesso le donne sono meno integrate degli uomini, i quali, attraverso il lavoro, si trovano in contatto quotidianamente con la società francese, di cui imparano le norme e le leggi, comprendono i valori, e soprattutto, apprendono la lingua. Le donne, in particolare quando arrivano per raggiungere i propri mariti o già con dei figli, spesso rimangono a casa, non sono stimolate all’apprendimento della lingua e restano escluse da tutta una gamma di 8
e in questo senso si oppone a luoghi dove “non è bene farsi vedere gironzolare”: in particolare pare sia molto mal visto ritrovarsi nei bar de La Chapelle, come fanno molti giovani, in quanto la cosa è associata all’uso di alcool.
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occasioni sociali e di uscita: anche portare i bambini dal medico o parlare con le maestre diventa molto difficile. In una simile situazione il tempio rappresenta un’oasi di cultura tamil in cui ritrovare punti di riferimento e in cui poter vivere una socialità simile a quella che si viveva al paese. Lo stesso discorso vale per i tamil appena arrivati in Francia. Soprattutto per chi non trova ad accoglierlo una famiglia, l’arrivo può essere particolarmente traumatico. Per queste persone il tempio rappresenta un importante luogo in cui trovare sostegno e un pasto caldo, preparato proprio come in Sri Lanka. Abbiamo visto come il tempio di Ayyappan
a La Courneuve (che fornisce ai suoi fedeli due pasti giornalieri) accolga da
tempo dei sans papiers, alcuni dei quali frequentano il tempio quotidianamente, ricambiando l’aiuto con piccoli lavoretti di manutenzione e pulizia. Il fatto di nutrire i bisognosi, i quali, nonostante la comunità sia ben integrata economicamente, sono ancora molti, è uno dei ruoli del tempio maggiormente sottolineato dai fondatori o brāhmayi con cui ho potuto parlare, anche quando questo non avvenga quotidianamente. Il tempio è un luogo sociale anche perchè permette importanti occasioni di espressione di status, innanzitutto e in maniera ovvia per il fondatore o i membri dell’associazione, sulle cui donazioni si basa l’esistenza stessa del tempio. Ma esso è teatro anche di altre modalità, più sporadiche ma diffuse, di messa in mostra di sé. Nel novembre 2007, all’inizio della mia ricerca, ricevo una telefonata inaspettata: M. originario di Jaffna, arrivato a Parigi nel 1987, mi invita ad una cerimonia familiare. È la prima volta che prendo parte ad un’occasione simile. La cerimonia si svolge nel tempio di Mutthumariamman, nel quartiere de la Chapelle. L’ora convenuta per l’appuntamento sono le 5. Al mio arrivo il tempio è stracolmo di gente: le donne a sinistra e gli uomini a destra, ci saranno almeno 200 persone. La grande cerimonia viene fatta in onore di Murugan.
La sua mūrti è stata preparata diversamente dal solito: spostata dalla sua
locazione, è stata messa su un tavolo in metallo sul quale verranno successivamente poste le offerte. La famiglia allargata è riunita e tre brāhmayii officiano la cerimonia, al termine della quale un ricco pasto viene offerto a tutti i presenti. La cerimonia è anche occasione per una breve esibizione di canto da parte delle bambine della famiglia, le quali seguono tutte da anni un corso a domicilio. Prima e dopo la cerimonia non ho occasione di parlare
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con M. Lo rivedo solo qualche giorno dopo e la prima cosa che mi chiede è se mi era piaciuta la cerimonia, aggiungendo “Hai visto? Erano tutti contenti. Ma ci vogliono molti soldi per tutto questo”. Nelle sue parole si riassumevano così i vari sensi della cerimonia: essa era stata da un lato un’occasione importante di convivialità e un modo di esprimere la propria appartenenza alla comunità, dall’altro, proprio perché tutti sanno che “ci vogliono molti soldi per tutto questo”, un’affermazione del proprio status sociale. L’organizzare una cerimonia del genere, aperta a tutta la comunità, significa innanzitutto assumere un ruolo di spicco, far conoscere il nome della propria famiglia, far mostra di sé, delle proprie possibilità finanziarie come della buona educazione dei propri figli. Il ruolo del tempio in quanto marcatore sociale non è assolutamente una novità (per lo Sri Lanka cfr Sivathamby 1995) ma esso subisce in diaspora una modifica sostanziale, assumendo al contempo una rinnovata importanza. Abbiamo già menzionato l’impossibilità di un’analogia rituale-sociale: in diaspora le differenze di casta e provenienza sociale vengono stravolte dal nuovo contesto e dalle diverse possibilità di ascesa sociale che la nuova società offre. Le caste assumono una diversa importanza, non strutturano più né la società né la comunità, ma rimangono importanti marcatori di status influenti soprattutto sulle politiche matrimoniali. In questo senso il tempio riflette e sostiene questi cambiamenti sociali. L’esperienza stessa della diaspora porta a trasformare vecchie promiscuità in nuove convivialità e il tempio riflette questo cambiamento: le differenze castali e il concetto di “intoccabilità” non hanno più diritto di cittadinanza al suo interno. Nonostante quindi il kovil non rifletta più le divisioni castali della comunità, esso resta teatro di espressioni di status: la sua importanza in questo senso è accentuata dalle nuove condizioni di vita e soprattutto dalla dispersione urbana che caratterizza la comunità. Nella quotidianità è impossibile affermare agli occhi della comunità la propria posizione sociale-castale, la quale per altro ha spesso subito una traslazione notevole a causa dei lavori che si è costretti a svolgere. Una famiglia di casta Vellala, come quella di M. non solo punterà sull’educazione dei propri figli, ma utilizzerà il tempio come teatro di messa in scena delle proprie capacità finanziarie, in una sorta di compensazione simbolica. Inoltre, come si è già notato (in particolare nel capitolo VI) l’investire denaro ed energie nel tempio, attraverso donazioni o il finanziamento di cerimonie, è anche
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(naturalmente) motivo di meriti spirituali, il cui valore non è determinato solo dalla, presunta, approvazione divina: ciò che il fedele ricerca è anche la valorizzazione della sua figura agli occhi della comunità, a cui egli mostra non solo la propria ricchezza9 ma anche la propria devozione. La comunità cui ci si rivolge, cui ci si mostra, cui si dimostra qualcosa, la comunità di riferimento nel farsi e rifarsi sociale dell’individuo, è quella dei propri connazionali tamil, poiché in questo mostrarsi sono implicite norme, valori e strutture sociali che solo essi possono comprendere. Il tempio rappresenta quindi un importante spazio di messa in scena di sé e di costruzione dell’individuo come membro integrante della sua comunità. Il tempio è anche un luogo in cui forze diverse collaborano per uno scopo comune. In questo senso la sua fondazione, cosi come le sue più complesse ed importanti attività, rappresentano un’occasione molto importante di partecipazione creativa e costruzione identitaria. Quest’unione di forze è spinta innanzitutto dalla necessità e, come si è visto, chi può fonda il proprio tempio senza ricercare la collaborazione di nessuno (tempio di Gayeśa
e Ayyappan di Saint Denis); questi casi rappresentano però una minoranza. Su sei
templi quattro sono nati dall’associazione di decine, talvolta centinaia di persone. Nella loro fondazione si è messo in atto un percorso di elaborazione collettiva di paure ed intenti, visioni del reale, della società e del divino e un processo di definizione delle modalità di azione, organizzazione e divisione di ruoli in cui sono implicate decine di famiglie. In questo senso la fondazione di un tempio implica la creazione di una comunità come suggerisce Diana Eck: “For hindu immigrants (…) the process of building a temple is simultaneously the process of building a community” (citato in Reddy 2006: 13). Anche i grandi festeggiamenti implicano la collaborazione di centinaia di persone: l’organizzazione dell’evento (dall’accoglienza, alla decorazione, all’offerta di generi alimentari), i rituali lunghi e complessi (che implicano la presenza di un numero maggiore di brāhmayi), gli spettacoli culturali, tutto ciò coinvolge moltissime persone, in ruoli e funzioni diverse ma interdipendenti. È dalla collaborazione e partecipazione di tutti che dipende la grandiosità e riuscita dell’evento. Come mostrano il défilé di Gayeśa o la festa di Śivarātrī descritte nei capitoli precedenti, in questi momenti si uniscono aspetti ludici, 9
Tra le tante modalità di esprimere il proprio status e la propria ricchezza infatti il finanziamento di luoghi o attività religiose è sicuramente quello meglio considerato.
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sociali e spirituali: la processione di Gayeśa ad esempio, è innanzitutto una grande festa della comunità nel suo complesso, ma anche un’occasione per attuare un voto in modalità normalmente indisponibili (il kavadi, per gli uomini e il vaso con la canfora incendiata per le donne), un momento ludico per i giovani e un’occasione in cui partecipare ad un grandioso progetto comunitario. Questi grandi eventi collettivi mostrano non solo una comunità nella creazione di un evento culturale, ma anche una comunità che costruisce sé stessa e rivestono quindi un ruolo fondamentale in diaspora. Essi mostrano da un lato l’importanza fondamentale della comunità nella costruzione della propria religione, dall’altro l’importanza della religione per la comunità. In quanto luogo della comunità il tempio, cosi come i grandi festeggiamenti da esso organizzati (soprattutto quando prevedono manifestazioni pubbliche), è anche un importante mezzo che la comunità possiede per mostrare alla società, all’Altro (agli Altri), la propria compattezza, le proprie capacità e, non ultimo, l’orgoglio e l’attaccamento alla propria religione. Tale comunicazione implica un importante processo di riflessione della comunità su sé stessa e sulla propria cultura: il mostrarsi implica una scelta di elementi e forme, è condizionato dall’immagine che si vuol dare di sé, dalla presunta reazione del proprio interlocutore e dalle regole della nuova società. Tutto ciò rappresenta un’importantissima nuova funzione del tempio che si riflette nel fatto che anche per la società che lo circonda esso diventa un luogo privilegiato per avvicinare la comunità. Esso è un punto di contatto, un ponte tra identità in costruzione.
8.3 Il tempio: un nuovo centro Le funzioni che il tempio assume in diaspora sono quindi molteplici: luogo religioso e luogo di socialità per la comunità, esso diviene inoltre “istituzione” di riferimento per la società in cui si inserisce e interlocutore privilegiato in un dialogo tra culture. Dopo aver esplorato i casi etnografici e aver tratto delle conclusioni generali sul ruolo del tempio sarà forse a questo punto possibile rispondere alla domanda che aveva aperto la trattazione: esso è ancora, nonostante tutte le modifiche che si trova ad affrontare 168
in diaspora (nella struttura, nelle attività, nei ruoli), centro ontologico in cui si riassumono le potenzialità relazionali dell’uomo col macrocosmo di cui è parte? Credo che la risposta a questa domanda sia ‘si’, ma in un senso nuovo. In diaspora, come al paese di origine, il tempio è un centro. Se non è più geograficamente il nucleo attorno a cui si costruisce il villaggio, esso continua a rappresentare, almeno per i membri della comunità, il centro ontologico in cui si uniscono la linea verticale che unisce il mondo divino e il mondo umano e la linea orizzontale che unisce il mondo degli uomini: quest’ultimo tuttavia non è quello che si conosceva, è un mondo nuovo, costituito da frammenti del vecchio sparsi in nuovi cosmi, con cui interagiscono e da cui vengono modificati. Ma la frammentarietà è solo una delle prospettive: guardato dall’interno questo nuovo mondo si presenta unito, poiché ad abitarlo è una comunità, e tale unione trova nel tempio un sostegno. Esso è infatti centro di un’altra linea, quella che unisce il passato e il futuro, la tradizione e la creatività. Il tempio quindi è ancora il centro in cui si riassumono le potenzialità relazionali dell’individuo con il macrocosmo di cui è parte: qui egli entra in contatto con il passato e le sue eredità, la sua storia personale e la terra da cui proviene, una comunità di uomini in cui si riflette e che si riflette in lui; entra in contatto con il divino, che è conforto, modello e specchio; entra in contatto con le regole di mondi diversi, che deve imparare a far convivere e quindi, per finire (e reiniziare), entra in contatto con le potenzialità del futuro. Il tempio non rappresenta più il cosmo nella sua totalità, perché questo cosmo è ormai composto di frammenti in movimento. Ma rappresenta ancora gli individui che lo popolano. Essi, nutrendosi dei suoi frammenti, li ricompongono in una digestione collettiva in cui l’unione di risorse e creatività forgia le realtà del futuro. In questo senso lo studio del tempio in diaspora contiene enormi potenzialità: esso può infatti rappresentare un’importante chiave di lettura di queste realtà in formazione.
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GLOSSARIO
Abhiseka
Abluzione rituale della mūrti con sostanze diverse.
Alankāra
Decorazione
Añjali-mudrā
Gesto dell’offerta: le mani sono accostate con i palmi rivolti verso l’alto a formare una specie di coppa. È il gesto con cui si dona e con cui si riceve. Attraverso di esso ci si relaziona alla divinità.
Āratī
Offerta di luce (fiamma) ad una divinità.
Arcanā
Omaggio individuale alla divinità, compiuto dal brāhmaya in nome del devoto.
Avatāra
Incarnazione o discesa di una divinità sulla terra per ristabilire il dharma.
Bhajana
Canto devozionale.
Bhakti margā
Via dell’amore devozionale. Implica un rapporto personale con la divinità.
Bhakta
Colui che pratica la bhakti.
Brāhmaya
Bramino, sacerdote, cui spetta per appartenenza castale lo studio dei testi sacri e l’esecuzione dei riti. Nella scala ontologica sono i più puri tra gli uomini.
Darśan
Visione diretta del sacro dimorante in una persona o una mūrti. Implica uno scambio, un contatto tra adorante e adorato attraverso il medium degli occhi.
Devadasī
Letteralmente ‘schiave del Dio’, danzatrici sacre dei templi.
Dhārana
Concentrazione
Garbhagrha
‘Casa dell’embrione’, il santuario più interno del tempio, nel quale è contenuta la mūrti della divinità principale.
Ghī
Burro chiarificato, utilizzato nel rituale ma anche nella cucina indiana. Torre d’ingresso riccamente decorata tipica dei templi del Sud India.
Gopuram
Mestro spirituale, la cui guida è indispensabile al percorso spirituale
Guru
del discepolo. Oblazione di sostanze e materiali diversi nel fuoco sacrificale.
Homam
Termine tamil per indicare il tempio.
Kovil o koyil
Polvere rossa, utilizzata per decorare le divinità.
Kumkum
Letteralmente ‘segno’, ‘emblema’, è la forma aniconica di Śiva.
170
Linga
‘Rosario’, composto solitamente di 108 grani.
Mālā
Letteralmente ‘musica di buon augurio’, è la musica suonata nei
Mangalavady
templi.
a
Ciascuno dei versetti dei Veda. Più in generale formula sacra in sanscrito, utilizzata per la preghiera e la meditazione. La loro
Mantra
corretta recitazione è ritenuta fondamentale, poiché al di là del significato, il loro potere è legato al suono. Gesto o atteggiamento delle mani e del corpo dal valore simbolico e narrativo. È usato nell’iconografia sacra e nella danza.
Mudrā
Letteralmente 'forma’. Supporto fisico della divinità, che prende dimora nella statua dopo determinati rituali. È attraverso di essa che
Mūrti
si attua il rapporto devoto-divinità mediato dallo sguardo (darśan). La mūrti può essere ricavata da legno, metallo, pietra o costruita di materiali effimeri. Stella di nascita. Lega di cinque metalli (oro, argento, ferro, rame e ottone) con cui
Naksatra
vengono costruite le mūrti.
Pañcaloha
Da pañca (cinque) e amrita (nettare degli dei). Mix di banane, mango, cocco, melograno e miele, offerto alla divinità durante la
Pañcamrita
pūjā. Indica uno stabilirsi, la sede di ciò che vi si è stabilito e che in essa ha preso forma concreta. È un termine polisemico: utilizzato in molti
Prasād
testi per riferirsi al tempio è oggi più comunemente e diffusamente utilizzato per riferirsi all’offerta che, donata alla divinità durante il rituale, viene recuperata dal devoto al suo termine: essa, in quanto resto del pasto della divinità (che ne ha consumato la componente sottile) è considerata intrisa di energia divina. Indica la circumambulazione rituale intorno alla mūrti. È un atto di venerazione della divinità che vi risiede e si esegue in senso orario.
Pradaks iyā
Rito di venerazione ed ossequio della divinità, che prende dimora nel supporto fisico della mūrti e viene onorata come un ospite attraverso
Pūjā
16 atti di servizio (upacāra). Rito di consacrazione o di passaggio che segna le tappe della crescita dell’individuo hindū.
Saxskāra
Rinunciante.
171
Pace interiore. Saxnāysin
Artigiano che affianca l’architetto nella costruzione del tempio
Śānti
secondo le regole dell’architettura sacra.
Sthapati
Letteralmente ‘maestro di sé stesso’. Appellativo rivolto al guru, in segno di rispetto e venerazione.
Swāmī
Letteralmente ‘atto di servizio’, indica le fasi della pūjā. Cenere sacra ottenuta dallo sterco di vacca.
Upacāra
Voto.
Vibhūti
Cordoncino sacro consegnato ai membri dei tre dvija varna (nati due
Vrata
volte) durante un’importante cerimonia d’iniziazione.
Yajñopavīta
Processione.
Yātrā
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