MERCATO
RICERCA E IT, FATTORI DI SVILUPPO DEL SISTEMA ITALIA L’Italia cresce meno di altri paesi industrializzati e l’incremento di competitività a livello internazionale, in particolare nelle economie emergenti, impone di individuare velocemente quali siano i settori in grado di trainare lo sviluppo
di Luca Gargiulo* PREMESSA Tra gli economisti è noto che esistono mercati in grado di anticiparne altri. Si ritiene, ad esempio, che l’andamento del mercato dei cuscinetti a sfera possa annunciare, e con largo anticipo, le fluttuazioni dell’intero settore Industria. Così come sussiste una relazione di “necessità” tra la fabbricazione e la fruizione di un determinato fattore produttivo, è altresì dimostrabile l’esistenza di una correlazione diretta tra l’andamento degli investimenti, soprattutto nei settori cosiddetti “trainanti”, e la creazione di ricchezza di un’intera nazione. In particolare, da molti anni gli analisti evidenziano lo stretto legame esistente tra l’incremento degli inveLuca Gargiulo
stimenti in ricerca e sviluppo e la crescita del prodotto interno lordo (PIL) di una nazione. Inoltre, non dimenticando che la tecnologia informatica funge oramai da elemento trainante di tutte le attività di ricerca e di produzione, le variazioni del PIL sono, a fortiori, correlabili all’andamento degli investimenti effettuati nell’information technology (IT). I paesi che hanno saputo cogliere e far proprio lo stretto legame esistente tra investimenti IT, ricerca e crescita economica, ravvisandone anche la loro intrinseca capacità di apportare miglioramenti in ambito sociale, hanno avviato da tempo politiche specifiche per la creazione, laddove necessario, e il consolidamento, laddove già in atto, di questo circolo virtuoso. Altri paesi, invece, tra i quali l’Italia, che non hanno saputo reagire prontamente alle sollecitazioni dei mercati, stanno iniziando ad accumulare un ritardo considerevole, che sarà sempre più complesso recuperare. ANALISI DEL CASO ITALIA Per poter applicare queste considerazioni al Sistema Italia occorre innanzitutto effettuare un breve excursus sui valori di alcuni indicatori che contraddistinguono il nostro paese, raffrontandoli con quelli delle altre nazioni industrializzate, per analizzarne gli scostamenti, le cause sottese e, infine, le possibili azioni correttive. Relativamente agli investimenti IT, esaminando i consuntivi Assinform del 2004 (vedi http://www.iter.it/
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iged-online.asp, n. 1, marzo 2005, pag. 20), l’Italia conferma per il terzo anno consecutivo il trend negativo per il quale, a partire dal 2001, ha progressivamente perso circa sei punti percentuali sui volumi di spesa per l’informatica (rispettivamente -2,2%, -3,2% e -0,4% dal 2002 al 2004), attestandosi definitivamente sui 19,3 miliardi di Euro. Analizzando in dettaglio i dati del 2004 si scopre che, dal punto di vista delle tipologie di spesa, il decremento rispetto al 2003 è stato guidato dalla contrazione del mercato dei servizi professionali (-1,2%), che costituiscono il 50% del totale spesa IT italiana, e dalla riduzione dell’assistenza tecnica (-3,2%), con impatto sul 5% del mercato; tale decremento è stato tuttavia moderato da una timida ripresa dei consumi hardware (+1,0%) e software (+0,4%), che valgono rispettivamente il 25% e il 20% degli acquisti. Osservando le variazioni di spesa per categoria di clientela si riscontra, inoltre, che le aziende di medie e di grandi dimensioni, responsabili di circa il 75% dell’intera spesa IT italiana, presentano incrementi marginali (+0,1%), le piccole imprese, che pesano per circa il 20% degli acquisti, continuano a contrarre significativamente i propri investimenti informatici (-3,3%), mentre l’unico vero segnale di ripresa è evidenziato dal segmento delle famiglie (+4,4%), che, però, assorbe solamente il 5% del mercato IT italiano. Tali evidenze dipingono uno scenario piuttosto grigio, per il quale la
mercati regolamentati. Ciononostante, se la considerevole presenza estera nel mercato IT italiano di per sé non rappresenta aprioristicamente una caratteristica negativa, un vero campanello d’allarme deve essere la scarsa presenza nel nostro paese di presidi di ricerca informatica. Prendendo in considerazione le prime cento aziende operanti in Italia nella commercializzazione di hardware, software e servizi professionali IT, meno di una decina mantengono presidi di ricerca e sviluppo degni di nota. Ciò lascia intendere che quasi tutte le aziende IT straniere operanti in Italia hanno sul nostro territorio solamente unità marketing, commerciali e di assistenza tecnica, mentre la maggior parte delle aziende italiane, tranne rare eccezioni, si posizionano sostanzialmente come follower degli sviluppatori di tecnologia. Sebbene il contenimento del decremento della spesa IT sul 2004 possa essere visto come un piccolo segnale positivo e una prima debole inversione di tendenza su alcuni gruppi merceologici, il raffronto delle performance italiane in termini di investimenti informatici con quelle di altri paesi tecnologicamente avan-
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zati dimostra il considerevole ritardo che l’Italia sta accumulando rispetto all’Europa e, in generale, rispetto al resto del mondo. Se si considerano, ad esempio, sei fra i maggiori paesi industrializzati, ovvero gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania, l’Inghilterra, la Francia e la Spagna, tutte queste nazioni nel 2004 hanno incrementato i propri investimenti informatici, con crescite che oscillano dal 1,4% (Germania) al 4,4% (Stati Uniti), confermando, inoltre, un trend positivo già iniziato a macchia di leopardo a partire dal 2003 (per Stati Uniti, Giappone, Inghilterra e Spagna). L’Italia, che, a differenza dei suddetti paesi, nel 2004 vede ancora contrarre la propria spesa IT, non può quindi eludere la correlazione esistente tra crescita economica e investimenti informatici. Per questo motivo, anche relativamente alla crescita del PIL, secondo i dati OCSE, l’Italia risulta essere ancora ultima tra il campione di stati presi in considerazione. Osservando gli incrementi registrati sul PIL dai singoli paesi nel 2004, gli Stati Uniti guidano la classifica (con una crescita del 4,4%), seguiti dal Giappone (4,0%), l’Inghilterra (3,2%), la Spagna (2,6%), la Francia (2,1%), la Germania (1,7%) e
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domanda di spesa informatica è sostenuta solamente: • se si considerano le tipologie di spesa, dall’incremento degli acquisti hardware, quasi esclusivamente dedicati ai personal computer, con obiettivo di rinnovo di un parco macchine obsoleto, a causa di investimenti volutamente procrastinati nel tempo; • se si considera la clientela servita, dal piccolo boom dell’informatica personale trainata dal segmento dei privati, in cui vanno a confluire essenzialmente investimenti a scopo ludico-ricreativo. La contrazione del mercato dei servizi professionali testimonia che, al momento, in Italia non esistono progetti di ampio respiro, sia nelle amministrazioni pubbliche, sia nelle aziende private, siano esse di piccole, medie o grandi dimensioni. Ciò conferma che il ricorso all’innovazione quale fattore di sviluppo, soprattutto in periodi di reflusso economico, stenta a farsi spazio nella cultura imprenditoriale nazionale. La riduzione dell’assistenza tecnica, inoltre, avviene anche per effetto dei minori investimenti hardware e software degli anni 2002 e 2003. Si può osservare, infine, che dal lato delle istituzioni non sia stata ancora compresa appieno la necessità di ricorrere ad un piano di sviluppo del comparto IT, che, con azioni focalizzate e coordinate fra i vari dicasteri, consenta di rilanciare gli investimenti informatici, dando impulso all’economia. Se quanto detto rappresenta l’effetto che la domanda italiana d’informatica ha avuto sul mercato, dal lato dell’offerta IT il panorama è altrettanto complesso e poco rassicurante. Analizzando le aziende IT che operano in Italia si osserva che quelle con dimensioni rilevanti sono soprattutto multinazionali estere e, laddove si riscontrino eccezioni nazionali di dimensioni comparabili, queste risultano riconducibili, attualmente o nell’immediato passato, a realtà informatiche a servizio di
ALTRE VARIABILI INFLUENTI La stagnazione della domanda IT e lo scarso presidio nazionale dell’offerta non sono tuttavia le uniche variabili ad influenzare il ritardo che l’Italia sta progressivamente accumulando, tanto da intaccare fortemente le proprie aspettative di crescita economica e la propria capacità di competere a livello europeo e mondiale. L’ultimo rapporto OCSE sulle scienze e le tecnologie descrive le singole variabili indicatrici del livello di sviluppo delle nazioni e le raggruppa in tre macrocategorie: la ricerca e sviluppo, l’istruzione (pubblica e privata) e i brevetti. L’Italia, che è attualmente il 6° paese OCSE in termini di ricchezza prodotta, spende solamente il 2% del proprio PIL in investimenti per la ricerca e sviluppo, l’istruzione superiore e il software, collocandosi al 22° posto della classifica con le altre nazioni. Inoltre, se si analizzano le iniziative a sostegno e le agevolazioni fiscali concesse dagli stati alle aziende che effettuano sul territorio nazionale investimenti specifici in attività di ricerca e sviluppo, l’Italia si colloca all’ultimo posto dei paesi presi in considerazione. Con riferimento alla formazione, solamente il 9% circa della popolazione italiana possiede un’istruzione superiore, collocando il paese al 27° posto della classifica OCSE. Anche relativamente ai possessori di un’istruzione post-universitaria l’Italia si posiziona nelle zone basse della graduatoria, ovvero al 25° posto, mentre è addirittura ultima tra i paesi industrializzati per capacità di attrarre studenti stranieri ai propri corsi di dottorato. Il rovescio della medaglia è ravvisabile nella forte presenza negli Stati Uniti di cittadini italiani possessori di master o PhD: in questo caso l’I-
talia è al 5° posto, dopo Inghilterra, Canada, Germania e Giappone. Se si considera, infine, la numerosità di brevetti registrati annualmente, per i quali l’OCSE ha elaborato una speciale metodologia di comparazione, classificando come “triadiche” le invenzioni protette contemporaneamente dall’European Patent Office, dal Japanese Patent Office e dallo US Patent Office, l’Italia occupa l’8° posto in graduatoria, scendendo però al 20° se si considera il numero di brevetti rapportati alla popolazione residente. In particolare, se si rapportano i brevetti strettamente attinenti l’informatica e le telecomunicazioni al totale brevetti registrati, l’Italia scende al 27° posto. Relativamente ai medesimi paesi presi in considerazione nella Tavola A, la Tavola B confronta l’incremento del PIL con un “indice dello sviluppo”. Tale indice (che può assumere valori compresi tra 0 e 100) è ricavato ponderando il posizionamento dei singoli paesi nelle categorie ricerca e sviluppo, istruzione e brevetti, mentre la dimensione delle sfere indica la spesa per ricerca e sviluppo, istruzione e software. Sebbene le graduatorie possano sicuramente essere soggette ad errori e non tener conto di alcune punte di diamante esistenti a livello nazionale, sia nelle istituzioni, sia nel privato, il posizionamento dell’Italia descritto dalle analisi OCSE non lascia spazio a dubbi circa il ritardo accumulato e il potenziale declino futuro: il nostro è un paese che investe poco in ricerca e formazione, partecipando, conseguentemente, in modo marginale all’innovazione mondiale, soprattutto nei settori legati all’informatica e alle telecomunicazioni. Questo scenario non può che peggiorare ulteriormente, se calato in un mercato molto competitivo, in cui le crescite parossistiche di alcune economie emergenti iniziano ad erodere velocemente le posizioni che i paesi industrializzati avevano lentamente consolidato. Nei prossimi quindici anni, se sa-
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ranno confermati i tassi di crescita previsti, Cina ed India vanteranno un PIL via via superiore a quello della Francia, dell’Inghilterra e della Germania, incidendo pesantemente sui mercati delle materie prime e dei prodotti finiti. Il boom dei paesi asiatici, inoltre, sta modificando velocemente anche la domanda e l’offerta di istruzione. Se è vero che i campus americani pullulano attualmente di studenti asiatici, la risposta ad una così pressante esigenza di istruzione ha portato le università americane a valutare di servire in loco l’utenza orientale, aprendo sedi autonome o gemellandosi con gli atenei locali, mettendo a disposizione i propri docenti. Per questi motivi occorre ripensare rapidamente le attuali politiche economiche a supporto della ricerca e degli investimenti IT, elaborandone di nuove, che possano essere foriere di una crescita economica e di un nuovo posizionamento dell’Italia tra i paesi esportatori di conoscenza ed innovazione. POLITICHE DI INTERVENTO Dal 1970 ad oggi la composizione del PIL italiano è notevolmente variata: l’agricoltura e l’industria hanno visto diminuire drasticamente la propria contribuzione (rispettivamente, dal 7,6% al 2,0% e dal 52,4% al 40,5%), lasciando notevole spazio alle attività del terziario (che sono cresciute dal 40,0% al 57,5). Se è vero che l’Italia è divenuta progressivamente una nazione dedita ai servizi, e quindi un paese con maggiori capacità/necessità di utilizzo di ricerca e di tecnologie informatiche, le iniziative politiche a sostegno e per lo sviluppo delle stesse sono state sinora piuttosto generiche, poco coordinate con le imprese e tra i dicasteri e, soprattutto, non incastonate in un unico piano programmatico di ampiezza temporale coerente con le caratteristiche del problema da indirizzare. Attualmente, però, lo scenario competitivo internazionale, come det-
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l’Italia (1,3%). La Tavola A sintetizza graficamente la relazione esistente tra gli incrementi di PIL e di spesa IT, riportando anche il valore di quest’ultima nella dimensione delle sfere.
to in precedenza, si è complicato. Le economie emergenti stanno mettendo a dura prova le realtà produttive dei paesi maggiormente industrializzati e gli stati che subiscono massicci processi di delocalizzazione, nonché consistenti crescite delle importazioni a scapito della produzione interna (agricola e industriale), utilizzano, o iniziano a valutare, politiche economiche di sovvenzione e/o di protezione. In tal modo si sottragono importanti risorse economiche ad iniziative a supporto della ricerca e dell’informatizzazione, che darebbero sicuramente un ritorno economico maggiore. Le naturali leggi del mercato impongono inesorabilmente che l’imprenditore massimizzi il proprio profitto, e, secondo questo principio, si localizzi laddove vi siano le migliori condizioni socio/economiche per produrre; così come il consumatore compri ciò che maggiormente lo soddisfa in termini di qualità e di prezzo. Le politiche di sovvenzione e di protezione, sebbene producano effetti positivi nel breve periodo (mirando principalmente a preservare l’occupazione in determinati settori), sicuramente sottraggono i beneficiari alle leggi di mercato, con un doppio effetto negativo sui consumatori finali/utilizzatori intermedi, costretti a pagare prezzi maggiori, e sulle aziende produttrici, che, non più assillate dalla corsa all’innovazione, riducono ulteriormente la loro capacità a competere. Per analogia, laddove un buon padre di famiglia, dotato di un insieme finito di risorse, sia costretto a scegliere quale spesa privilegiare, allo stesso modo, uno stato che voglia raggiungere obiettivi di crescita certi e duraturi è costretto a concentrare i propri sforzi sulle migliori iniziative che garantiscano il ritorno maggiore, evitando l’attuazione di politiche economiche ondivaghe, con interventi indiscriminati e a pioggia, ogni qual volta sia sollecitato ad agire. Sicuramente, in un contesto caratterizzato da tensioni sociali crescenti ed alta impulsività politica,
non è cosa semplice proporre, deliberare ed attuare un piano economico che sappia privilegiare solamente alcune iniziative a discapito di altre, così come sarebbe presuntuoso da parte di chi scrive immaginare di conoscere l’esatto mix di interventi da effettuare per rilanciare immediatamente l’economia. Tuttavia, appare sicuramente chiaro che, stante lo scenario competitivo internazionale, l’Italia, che storicamente ha visto mutare il proprio volto da paese agricolo a paese industrializzato, e da paese industrializzato a paese dedito al terziario, non potrà certamente puntare a competere sulle produzioni agricole ed industriali, bensì sulla ricerca e sulle tecnologie, per far migliorare ulteriormente il proprio posizionamento nel settore dei servizi. Le politiche di intervento a favore della ricerca, della formazione e delle tecnologie possono essere di varia natura, e basta attingere alla vastissima gamma di iniziative adottate da altri paesi per ottenerne una casistica completa. Piuttosto che procedere alla disamina di tali iniziative, valutiamo quindi di maggior interesse soffermarci su alcuni principi ispiratori, cui le politiche di intervento dovrebbero strettamente attenersi:
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• Pianificazione. Le iniziative di politica economica non dovrebbero mai essere stimolate dall’insorgere dei problemi, ma nascere sempre in un’ottica di prevenzione. Secondo questo presupposto le istituzioni dovrebbero essere in grado di produrre un piano complessivo degli interventi economici a supporto della ricerca, della formazione e delle tecnologie, dando una visione d’insieme sulle azioni e sui progetti da intraprendere, indicando le correlazioni esistenti e le priorità di attuazione. Tale piano potrebbe avere una durata quinquennale ed essere rendicontato e rivisto annualmente; • Coordinamento. Gli interventi su ricerca, formazione e tecnologie dovrebbero essere sempre coordinati tra loro, tenendo conto del fatto che, tra le tre categorie, esistono forti interdipendenze; ogni azione non coordinata non sarà mai in grado di produrre effetti positivi, così come non vi può essere ricerca senza un’adeguata formazione delle risorse umane e non si può trarre beneficio dall’investimento in tecnologie se non vi siano donne e uomini adeguati alla loro utilizzazione; • Concorrenza. Le politiche economiche dovrebbero sempre evitare qualsiasi forma di protezionismo. Le rendite di posizione create artificio-
samente allocano risorse in modo improduttivo e alterano la concorrenza. Occorre piuttosto favorire le iniziative private e gli investimenti esteri, di chi ha capitali e tecnologie da condividere, e attirare le risorse maggiormente qualificate, negli atenei così come nei centri di ricerca, evitando clientelismi e nepotismi; • Territorialità. Occorrerebbe favorire le alleanze con atenei, aziende produttrici di tecnologia e altre istituzioni estere, nonché dedicare parte del territorio nazionale alla creazione di parchi e distretti tecnologici, in cui l’interazione tra università, aziende ed istituzioni sia concentrata e coordinata su obiettivi/progetti comuni; • Tassazione. In ultimo, il regime fiscale delle iniziative riconducibili alla ricerca, alla formazione e alla informatizzazione dovrebbe essere il più leggero possibile, in modo tale da favorirne lo sviluppo.
Competere sulla produzione agricola e industriale non sembra essere la strada da seguire, mentre il potenziamento della formazione, della ricerca e dell’informatizzazione può innescare una nuova e duratura stagione di crescita economica CONCLUSIONI L’Italia, con le proprie persone, è sempre stata tra i protagonisti della crescita della conoscenza e dell’innovazione mondiale; solo negli ultimi anni, da quando la ricerca è diventata particolarmente capital intensive, il ruolo italiano si è affievolito progressivamente, dal dopoguerra, nei confronti di altri paesi industriali e, attualmente, anche al co-
spetto delle economie emergenti. Il ritardo accumulato, tuttavia, può essere corretto e colmato, a condizione di attuare delle politiche di intervento mirate e selettive. Il nostro Paese, sollecitato dalla crescente competizione internazionale, si trova effettivamente ad un bivio, dovendo scegliere tra il difficile mantenimento dell’attuale status quo e la via del cambiamento, quel cambiamento che l’aveva trasformato da Paese sostanzialmente agricolo a nazione industrializzata e che, attualmente, potrebbe collocarlo tra le principali potenze del terziario, riappropriandosi del ruolo di innovatore e di esportatore di scienza e tecnologia.
*Laureato in Economia e Commercio, è Senior Manager di Bain & Company
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