Punto Omega 18 - Dialoghi Di Bioetica E Biodiritto 2005

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Remo Andreolli Editoriale

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Introduzione

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salutE E culturE: la socIEtà Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 3 giugno 2005

Ilario Rossi 10 salute, società e cultura Cinzia Piciocchi 21 Il diritto possibile Licia Scantamburlo 26 la salute della popolazione immigrata Giulio Donazzan 32 Pluralismo culturale e professioni sanitarie Elisabetta Cescatti 37 Donne immigrate e maternità

anno otto numero diciotto

Violetta Plotegher 74 la salute delle donne 79 salutE E INForMaZIoNE Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 7 ottobre 2005 Giovanni Martini 80 la comunicazione come determinante della salute

Giampaolo Rama 40 storie di immigrati e del loro accesso ai servizi sanitari

Andrea Gianinazzi 89 la morte è inevitabile

49 salutE E culturE: la DoNNa Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 16 settembre 2005

Vittorio Curzel 99 Marketing sociale, autoresponsabilizzazione e scelte di salute

Patrizia Borsellino 50 le mutilazioni genitali femminili

Mauro Bertoluzza 107 salute e dintorni... mediatici

Michela Berlanda 60 Maternità e culture

Marco Clerici, Greta Sona 123 Dal DIaloGo allE IPotEsI DI rIcErca sul caMPo Considerazioni conclusive del Gruppo di lavoro

Gaia Marsico 67 una salute pensata con sguardo di donna

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“Serrati gli uni contro gli altri dalla crescita del loro numero e dalla moltiplicazione dei collegamenti, accomunati dal risveglio della speranza e dell’angoscia per il futuro, gli uomini di domani lavoreranno per la formazione di una coscienza unica e di una conoscenza condivisa”. Pierre Teilhard de Chardin “Punto Omega”, nel pensiero di Teilhard de Chardin, filosofo e teologo vissuto tra il 1881 e il 1955, è il punto di convergenza naturale dell’umanità, laddove tendono tutte le coscienze, nella ricerca dell’unità che sola può salvare l’Uomo e la Terra. “Punto Omega” è anche il titolo scelto per la rivista quadrimestrale del Servizio sanitario del Trentino ideata nel 1995 da Giovanni Martini, poiché le sue pagine vogliono rappresentare un punto di incontro per tutti coloro che sono interessati ai temi della salute e della qualità della vita.

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L

a bioetica, cioè quella branca dell’eti­ ca che studia i valori morali all’inter­ no delle scienze biomediche, si sta evolvendo anche come risposta allo sviluppo e ai progressi della scienza e della tecnologia in campo biologico e medico laddove si propongono in continuazione problemi nuovi, riferi­ bili non solo alle “zone di frontiera” dell’esistenza umana, come la nasci­ ta, la morte, le malattie, ma anche alla vita quotidiana di ciascuno. Il tema della salute non è molto pre­ sente nel dibattito bioetico che soli­ tamente privilegia le situazioni estre­ me, come la fecondazione assistita, i trapianti di organi, le condizioni di sopravvivenza terminale, trascuran­ do il fatto che la salute e la malattia sono per ciascuno di noi elementi di esperienza, di riflessione e anche di scelte di carattere morale.

Editoriale

Mi ha quindi fatto molto piacere che il Comitato Scientifico, che ha programmato i “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” per l’anno 2005, abbia scelto proprio il tema della salute come filo rosso delle 7 giornate che hanno visto la partecipazione di im­ portanti ed autorevoli relatori. Il fatto di ribadire la centralità della salute e di coinvolgere fra i relatori e i partecipanti a questa serie di “Dialoghi” non solo professionisti della salute, ma anche persone che, a vario titolo, si occupano di salute, costituisce un aspetto di assoluto rilievo in quanto le manifestazioni e le difficoltà della vita sono molteplici e articolate e non si possono esau­ rire all’interno di una sola scienza, la medicina, o di un solo settore, la sanità. La medicina e le professioni sanitarie infatti non possono essere conside­ rate come l’unico modo possibile per mantenere, tutelare e miglio­

rare la salute degli individui e delle comunità. Talvolta le informazioni a cui tutti noi siamo esposti tendono ad orientare la domanda di salute in termini di merce da acquistare, lasciando in secondo piano i fattori di salute che dipendono da scelte collettive o personali, che vanno sotto il nome rispettivamente di determinanti socio-economici e di stili di vita. Succede spesso che da parte del cittadino vi sia la delega di parte di sé verso un potere esterno, mentre da parte del medico vi sia l’assunzione di una delega sulla vita altrui sempre più ampia. Questo aspetto va necessariamente riequi­ librato anche attraverso momenti di discussione, dibattito e formazio­ ne che consentano ai cittadini e ai professionisti della salute di poter interagire sulla base di una cultura condivisa che comprenda non solo gli aspetti tecnici propri della medi­ cina, ma anche quella costellazione di valori che sono parte intrinseca di ciascun essere umano e di ciascuna comunità. È proprio per questo che i profes­ sionisti della salute, ma anche i professionisti in un’accezione più vasta, nonché l’intera popolazione devono avere sempre di più la pos­ sibilità di dibattere e discutere i temi della bioetica perché questi temi, talvolta nuovi e poco conosciuti, che si legano ai progressi scientifici e all’evoluzione dell’umanità, possono consentire una maggior compren­ sione reciproca fra professionisti della salute e cittadini per costruire una forma di alleanza terapeutica e relazionale contro la malattia. Tale alleanza deve costituire anche la base per relazioni interpersonali più positive fra professionisti e pazienti nella logica che i servizi sanitari non siano solamente luoghi di competen­ za tecnica, ma divengano sempre di più luoghi di buona accoglienza.

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Questo è uno degli obiettivi che la Giunta provinciale ed io personalmente ci siamo dati ed è per questo che ho voluto proporre che il 2005 sia, per la sanità, ”anno del cittadi­ no”, l’anno cioè nel quale tutti gli operatori della sanità, nessuno esclu­ so, devono mettere in atto buone pratiche e strategie di relazione e di accoglienza orientate a valoriz­ zare la centralità delle persone che utilizzano i servizi. L’iniziativa dei “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” si è ben inserita in questo progetto e mi auguro che i frutti che ha prodot­ to facciano sì che la sanità trentina oltre al buon funzionamento che la caratterizza e che le è riconosciuto, possa connotarsi sempre di più in termini di “sanità amica”. dott. Remo Andreolli Assessore alle politiche per la salute

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Introduzione

Il termine “bioetica”, che deriva dall’anglo-americano bioethics, è un neologismo che risale agli inizi degli anni ‘70. Il suo campo di inte­ resse è costituito dall’applicazione dell’etica alla vita, nello specifico l’etica in quanto relativa ai feno­ meni della vita organica, del corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia, e della morte. La bioetica non è una disciplina autonoma e indipendente, ma co­ stituisce un punto di collegamento e di raccordo interdisciplinare fra Medicina, Giurisprudenza, Biologia, Psichiatria e Filosofia Morale. La bioetica, pur rivendicando la sua novità e la sua dignità all’in­ terno delle discipline etiche, non può, sicuramente, essere elevata al rango di “scienza”. Infatti, pur attingendo alle no­ vità e agli aggiornamenti, specie quelli più rilevanti sotto il profilo del loro utilizzo tecnologico, delle scienze empiriche, la bioetica è una disciplina di carattere prescrittivo

e normativo, e non semplicemente descrittivo come le altre scienze sperimentali. In questa logica si colloca lo stretto collegamento con il bio­ diritto. Ci si sta infatti rendendo sempre più conto che le proble ­ matiche che si è soliti ricondurre alla bioetica sono estremamente stimolanti, nel senso che pongo­ no al diritto interrogativi molto concreti e sempre nuovi ed essi non sono facilmente inquadrabili nelle categorie giuridiche con cui si è abituati a ragionare. Per fare un esempio, una fase di fine vita altamente medicalizzata spinge ad interrogarsi sulle definizioni di morte e di vita, sul principio di disponibilità o indisponibilità delle stesse, sulla reazione dell’ordina­ mento nei confronti di imposizioni contro la volontà individuale. In quest’ottica il biodiritto spin­ ge alla verifica della validità e del­ l’utilità delle categorie giuridiche tradizionali, alla luce dei mutamen­ ti sociali e scientifico-tecnologici tipici del nostro tempo. È in questo contesto che è nata l’iniziativa formativa “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto”, organizzata dal Dipartimento di Scienze Giu­ ridiche della Università di Trento, dall’Ordine dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri della provincia di Trento e dall’Assessorato provin­ ciale alle Politiche per la Salute e progettata da un apposito Comitato Scientifico cui hanno dato il proprio contributo rappresentati dei tre Enti organizzatori 1. 5

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Attraverso tale iniziativa, che nell’anno 2005 è stata realizzata per il terzo anno consecutivo, gli organizzatori si sono posti l’obiet­ tivo di analizzare, approfondire, discutere e dibattere i principali problemi con cui si devono con­ frontare, anche nell’attività quoti­ diana, le persone che si occupano dell’assistenza sanitaria. Va opportunamente precisato che una importante caratteristica dei “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” è quella di essere rivolti all’intero am­ bito, diversificato e complementare, delle professioni sanitarie e sono sempre stati collocati all’interno del programma di Educazione Continua in Medicina (ECM).

Introduzione

I primi quattro dialoghi del 2005 sono stati proposti anche agli studenti della Facoltà di Giurispru­ denza sotto forma di “laboratorio applicativo”.

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Per quanto riguarda la parte valutativa del programma dei “Dia­ loghi di Bioetica e Biodiritto” nel contesto dell’Educazione Continua in Medicina, si è ritenuto di pro­ porre ai partecipanti non tanto la compilazione di un test, bensì la descrizione di esperienze personali dirette o indirette contenenti com­ menti, osservazioni, valutazioni attinenti ai temi trattati. Il materiale raccolto, costituito da ben 413 casi vissuti e raccontati dagli operatori sanitari partecipanti agli incontri, è stato analizzato da un Gruppo di lavoro coordinato dalla dottoressa Greta Sona, laureata in

Scienze Giuridiche, e composto da 9 operatori sanitari e da un dotto­ rando in Giurisprudenza 2. I casi sono stati analizzati e commentati sotto il profilo giuridi­ co, etico e deontologico, nel corso di apposite riunioni che si sono svolte parallelamente ai “Dialoghi di bioetica e biodiritto”. Alcuni casi che sono stati ogget­ to di discussione vengono riportati nella presente pubblicazione. La pubblicazione successiva che completerà la documentazione dei “Dialoghi di Bioetica e di Biodiritto” dell’anno 2005, oltre ai casi specifici relativi alle temi che ver­ ranno riportati, conterrà anche la sintesi e il commento dell’attività svolta dal Gruppo di lavoro sopra descritto. Le sette giornate in cui si sono articolati i “Dialoghi di Bioetica e Biodiritto” hanno visto una parte­ cipazione numerosa sia di profes­ sionisti della salute sia di studenti. Di seguito è riportato, per ciascun “Dialogo”, il numero dei parteci­ panti e i contributi raccolti: 4 marzo 2005 LA SALUTE Al dialogo hanno partecipato 84 persone, che hanno prodotto 57 contributi. 1 aprile 2005 SALUTE E COnFInI: nUOVI FEDERALISMI SAnITARI Al dialogo hanno partecipato 124 persone, che hanno prodotto 91 contributi.

13 maggio 2005 SALUTE E GLOBALIzzAzIOnE Al dialogo hanno partecipato 105 persone, che hanno prodotto 73 contributi. 3 giugno 2005 SALUTE E CULTURE: LA SOCIETà Al dialogo hanno partecipato 86 persone, che hanno prodotto 58 contributi. 16 settembre 2005 SALUTE E CULTURE: LA DOnnA Al dialogo hanno partecipato 91 persone, che hanno prodotto 67 contributi. 7 ottobre 2005 SALUTE E InFORMAzIOnE Al dialogo hanno partecipato 82 persone, che hanno prodotto 67 contributi.

sità di Trento), Marco Clerici (Ordine dei Medici), Michela Fedrizzi (Ordine dei Medici), Giovanni Martini (Assessorato alle Politiche per la Salute), Cinzia Piciocchi (Università di Trento), Loreta Rocchetti (Ordine dei Medici). [2] GRUPPO DI LAVORO Michela Berlanda, ostetrica; Roberta Calza, farmacista; Ada Clementi, infermiera; Marco Clerici, medico di medicina generale; Fabio Cembrani, medico legale; Michela Fedrizzi, funzionario presso l’Ordine dei Medici della provincia di Trento; Maria Rosanna Gorza, medico; Federica Merz, infermiera; Simone Penasa, dottorando in Giurisprudenza; Federica Rosa, infermiera.

4 novembre 2005 AnCORA LA SALUTE Tavola rotonda conclusiva, alla quale hanno partecipato 50 persone. A ciascuno dei primi quattro “Dialoghi” hanno partecipato, inol­ tre, circa 80 studenti della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento. NOTE [1] COMITATO SCIEnTIFICO Franca Bellotti (Assessorato alle Politiche per la Salute), Fabio Branz (Ordine dei Medi­ ci), Carlo Casonato (Univer­ 7 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

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salute e culture: la società Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 3 giugno 2005

Le concezioni di vita, morte, corpo e salute cambiano da una cultura all’altra e talvolta il confronto su questi concetti è difficoltoso, ostacolando la comunicazione tra operatori sanitari e pazienti. L’immigrazione, ad esempio, pone quotidianamente in evidenza queste problematiche, di fronte alle quali si manifesta sempre più la necessità di una preparazione specifica unitamente all’intervento di personale preparato a superare le difficoltà culturali della comu­ nicazione. Tuttavia, la diversità culturale emerge anche in un’ottica più am­ pia, perché da un lato le diversità

nell’interpretazione delle problema­ tiche attinenti la sfera della salute non derivano solo dalla provenienza da contesti geo-culturali differenti, ma emergono anche all’interno di contesti sociali sempre più etero­ genei. D’altro lato, l’approccio dei si­ stemi sanitari a queste problema­ tiche può essere esso stesso indice di diversità, caratterizzando gli orientamenti delle diverse realtà sanitarie. L’incontro è volto ad analizzare i diversi profili (medici, sociologici e giuridici) dell’incontro tra medicine e culture differenti. (G.S.)

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salute, società e cultura Ilario Rossi

Tra le pratiche della razionalità medica e i percorsi terapeutici dei pazienti si è instaurata una discrepanza che impone la redifinizione del concetto di terapia.

Dobbiamo cercare di comprendere come, in un mondo che ci vede testimoni di trasformazioni e muta­ zioni importantissime, sia possibile contestualizzare la problematica della salute, partendo da un pre­ supposto antropologico. L’obiettivo principale dell’an­ tropologia è quello di osservare ciò che succede concretamente, in termini di pratiche e legami sociali, e successivamente di mettere in luce il senso delle pratiche che si osservano. Oltre a questo l’antropologia tenta di costruire dei legami tra delle logiche macrosociali e delle traiettorie personali, esistenziali. Inizierei cercando di illustrare le trasformazioni sociali che oggi stiamo vivendo e che stanno mo­ dificando sensibilmente le nostre società. Il termine mondializzazione giustifica e dà senso a queste tra­ sformazioni. La mondializzazione non è un fatto recente: molti autori la situano all’epoca delle grandi scoperte geografiche indotte 10 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

dall’Occidente a cavallo tra il XV e XVI secolo. Oggi siamo arrivati alla fine delle scoperte. Abbiamo preso coscienza dei limiti del territorio del pianeta Terra e del fatto che siamo 6 miliardi di persone. Infine ci siamo resi conto che la coabi­ tazione di questi sei miliardi di persone ci induce a riflettere sulle strategie, le modalità e i valori che dobbiamo introdurre in maniera trasversale per permettere appunto la coabitazione. La mondializzazione oggigiorno ha assunto contorni molto specifici: ci sono fattori che contribuiscono a costruirla e a definirla. Uno di questi fattori è quello delle migrazioni generalizzate. Le migrazioni sono sempre esi­ stite, ma fino a poco tempo fa era­ no limitate nello spazio geografico, concernevano solo alcuni luoghi e tragitti specifici. Oggi invece siamo di fronte a un fenomeno migratorio generalizzato; vi è stata un’esplo­ sione di spostamenti dal Sud del mondo verso il nord e dall’Est verso l’Ovest, sulla spinta della ricerca di nuovi e migliori stili di vita. L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, che ha sede a Ginevra, nel cercare di analizzare questi fenomeni ha ricavato dei dati che sono rivelatori della por­ tata di questo irreversibile processo storico. Oggi siamo in presenza di: – 130 milioni di persone che sono nate in un Paese e vivono defi­ nitivamente in un altro; – 150 milioni di persone che vi­ vono la maggior parte dell’anno

in un’altra società e rientrano solo per qualche mese nella loro società d’origine; – 30 milioni di rifugiati; – 4 milioni di persone vittime della tratta di esseri umani; – 700 milioni di persone che ogni anno si spostano dal loro Paese d’origine per motivi turistici o professionali. Se fino a ieri avevamo l’abitudi­ ne di considerare le nostre società come relativamente omogenee, nel senso che condividevano nel bene o nel male norme, pratiche, valori e comportamenti, oggi stiamo scivo­ lando irreversibilmente verso socie­ tà plurali, eterogenee, multiple. Penso che siamo la prima gene­ razione a doversi confrontare con questo dato di fatto irreversibile, che accompagnerà l’intera umanità nel corso dei prossimi secoli. Da ciò nasce l’esigenza di riflet­ tere su come “fare società” in un contesto di pluralità. Un altro fattore che contri ­ buisce alla mondializzazione è la globalizzazione economica, che sta producendo un cambiamento fon­ damentale in termini di identità dell’essere umano. Due sono i principi motori della globalizzazione economica: la rin­ novabilità e la competizione nel proprio ambito professiona­ le, ciascuno di noi, in fondo, è un prodotto del mercato . Oggigiorno, il proprio percorso formativo non dà più a nessuno la garanzia di poter lavorare nel cam­ po in cui ha sviluppato le proprie competenze.

Ciascuno di noi è obbligato a rinnovare continuamente le pro ­ prie conoscenze per poter fornire le migliori prestazioni nel proprio ambito professionale. Gli antropologhi dicono che ormai l’identità di un individuo è condannata a costruirsi e a rinno­ varsi incessantemente nel tempo. non abbiamo più le garanzie di stabilità che probabilmente ac­ compagnavano le generazioni che ci hanno preceduto. Un terzo fattore che contribui­ sce all’affermarsi della mondializza­ zione è la rivoluzione tecnologica. Umberto Galimberti, nel suo libro dal titolo Psiche e techne, afferma che l’uomo si è sempre servito della tecnologia. In fondo, possiamo definire l’oggetto tecnolo­ gico come il risultato della capacità del nostro intelletto di costruire oggetti che sono estensioni del nostro corpo e che ci permettono di migliorare le condizioni di vita. Il grande problema attuale è che con la rivoluzione informatica (iniziata alla fine degli anni ’80) e microelettronica abbiamo assistito a un’accelerazione nella comparsa di oggetti tecnologici. Quest’esplosione sta disegnan­ do una nuova tendenza nel rap ­ porto tra essere umano, società e tecnologia. Se fino a oggi la tec­ nologia è stata considerata come un mezzo per poter migliorare le nostre condizioni di vita, ora la tecnologia sta diventando l’am­ biente, il contesto in cui l’essere umano dovrà evolvere. L’essere umano sarà costruito ed educato 11

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Salute e culture: la società

per fare funzionare un mondo tecnologico. L’informatica ha inciso molto anche sulle professioni sanitarie, facendo sorgere la necessità di dover formalizzare con dati sempre più precisi e dettagliati ogni pre­ stazione che l’operatore sanitario fornisce, mettendo in secondo piano la sofferenza dei pazienti. Dunque la tecnologia sta tra­ sformando ineluttabilmente l’iden­ tità degli esseri umani.

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Un quarto fattore è la traspa­ renza sociale, cioè la tendenza del privato a introdursi sempre più nel pubblico e il pubblico nel privato. Pensiamo, per esempio, ai reality show: perché si sente il bisogno di mostrarein modo tanto esplicito le proprie emozioni? E perché i poteri pubblici hanno bisogno di sempre più informazioni per essere operativi e per finalizzare le proprie pratiche professionali? Stiamo assistendo a una per­ meabilità sempre maggiore tra lo spazio del privato e lo spazio del pubblico. Un ultimo fattore è quello dei rischi potenziali, concetto che uti­ lizziamo ogni giorno nell’ambito della salute. Il sociologo tedesco Ulr ich Beck, nel libro La società del ri­ schio, afferma che, sin dagli albori dell’umanità, tutte le società sono nate per tentare di gestire al meglio i rischi naturali. nel corso della nostra evoluzione storica siamo arrivati a costruire una società che è per sua natura produttrice di

rischi, che non concernono solo la salute ma anche il clima, la società, l’educazione... La “società del rischio” obbliga ciascuno di noi ad anticipare i ri­ schi potenziali che potrebbe incon­ trate nel suo percorso di vita. La logica dell’anticipazione ci porta a costruire il presente in funzione di un futuro potenzialmente negativo, mentre il presente, in quanto tale, ci sfugge. Anche questo, in termini antro­ pologici, costituisce una trasforma­ zione sostanziale della concezione dell’identità umana. La medicina, nel suo progredire, si è sempre riferita alla scienza come a uno strumento e come a un elemento di rigore nella evolu­ zione delle sue conoscenze e delle sue pratiche. Questa fedeltà della medicina alla scienza non può mai essere dissociata dalla mentalità delle varie epoche storiche. La medicina scientifica è un dato recente nella storia dell’uma­ nità perché è nata a metà del XIX secolo. La mentalità di un secolo e mezzo fa non è certo la stessa dei nostri tempi. Le spinte della modernità stan­ no mostrando sempre più i loro limiti e i loro paradossi, che inte­ ragiscono anche con il mondo della medicina. Stiamo assistendo all’inversione del processo secolare di concentra­ zione delle competenze della salute nelle mani della classe medica. Quella classe medica che è nata nel Rinascimento con le prime au­ topsie, che si è trasformata con la

nascita dei primi ospedali nel XVIIXVIII secolo, che si è cristallizzata col paradigma scientifico nel XIX secolo, oggi è in crisi perché non è più l'unico attore a decidere cosa bisogna fare nell’ambito della salu­ te e come lo si debba fare. Ci sono altri fattori che inter­ vengono, come quello economico e politico. La salute è diventata un mercato con tutte le implicazioni che ciò comporta. Ma non solo: c’è una valoriz­ zazione impor tante delle cure paramediche. Il mondo infermieri­ stico non è più sottomesso a una gerarchia rigida rispetto alla classe medica, ma le competenze mediche ed infermieristiche divengono com­ plementari e sono chiamate a col­ laborare in una nuova prospettiva e attraverso nuove strategie. Un altro problema è legato alla riattualizzazione di quello che in termini antropologici viene chia­ mato pluralismo medico. Accanto al paradigma scientifico e alle pro­ fessioni mediche e paramediche si osserva sempre più frequentemente il ricorso a pratiche terapeutiche complementari che sta modificando anche il senso strutturale che noi diamo alla salute. La salute è un valore della so­ cietà estremamente importante. Alcuni antropologi non esitano a mettere in relazione la crisi delle religioni tradizionali con l’emergere della salute come valore in seno alla nostra società: se ieri i valori di riferimento parlavano di vita eterna, oggi parlano di longevità; se ieri parlavano di anima, oggi parlano di corpo.

Ci dobbiamo dunque confrontare con un cambiamento semantico nella costituzione dei valori che caratterizzano la nostra società. La salute sta diventando un valore e nella salute s’inscrivono simultaneamente dei concetti, delle pratiche, delle competenze e delle indicazioni che hanno a che vedere con i diritti e i doveri di chi fornisce le cure e di chi le domanda, con scienza e morale, economia e umanesimo, pubblico e privato. Per parlare di salute dobbiamo sì parlare di medicina, ma non solo, perché oggi la salute coinvolge la società civile nella sua totalità. Un’altra problematica è legata ai cambiamenti epidemiologici. A ogni epoca storica corrispondono determinate malattie. nell’epoca della mondializza­ zione gli esperti di epidemiologia constatano che i tipi di patologie da affrontare si modificano. C’è innanzitutto una riattualizzazione molto forte delle malattie infettive (TBC, AIDS), ma la grande novità epidemiologica è data dalle c.d. malattie da civilizzazione, costi­ tuite da sindromi psicosomatiche, da malattie di adattamento, dalla depressione, dalla sofferenza psi­ chica, dalle malattie degenerative, dalle sindromi legate alla geriatria, ma soprattutto dalle malattie croniche, che stanno aumentando vertiginosamente. Le malattie croniche hanno una caratteristica in comune: le risposte mediche e scientifiche non sono definitive, risolutive, l’unico mandato è quello di accompagnare 13

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Salute e culture: la società

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nel tempo un individuo. La medi cina si deve confrontare con nuovi problemi, nuove malattie, per le quali non ha sempre le migliori soluzioni terapeutiche. In quest’ambito constatiamo come, sempre più, le persone che soffrono di malattie della civi lizzazione non consultino solo la medicina tradizionale, ma si rivol gano ad altre offerte terapeutiche (agopuntura, medicina ayurvedica, shiatsu, medicina tibetana, omeo patia, sofrologia…). I pazienti sollecitano contemporaneamente il mondo della medicina occiden tale tradizionale e altre tecniche complementari.

i caso

M. è una signora sulla cin quantina. Vive sola e lavora come impiegata. Da esami di laboratorio di routine è emerso un valore piuttosto elevato di colesterolo. In seguito a ulteriori accertamenti, è stata fatta dia gnosi di ipotiroidismo. All’inizio ha assunto la classica terapia sostitutiva con ormone tiroideo (levotiroxina). Tempo dopo, me la sono ritrovata in ambulatorio con la richiesta del dosaggio de gli ormoni tiroidei redatta da un noto omeopata. Da un anno ha abbandonato la terapia classica e si cura con prodotti omeopatici con graduale ripristino dei valori ormonali normali. Puntualmente, ogni tre mesi, arriva con la solita richiesta. Il mio atteggiamento nei con fronti dell’omeopatia è andato

mutando negli anni. All’inizio provavo stizza nel trovarmi di fronte a dei “concorrenti” che influivano pesantemente sugli as sistiti, propinando teorie stram palate senza alcun fondamento scientifico. Non ho mai voluto comunque denigrare palesemen te ciò che non conoscevo, ma mi limitavo a raccomandare di rivolgersi a professionisti della massima ser ietà, perlomeno verificando il possesso della laurea in medicina degli stessi. Nel frattempo mi sono accorta che, con il passare degli anni, cresceva notevolmente il numero dei transfughi, dei pazienti che si rivolgevano altrove, in particolare agli omeopati. È un dato di fatto: M. fa parte della larga schiera di chi si rivolge alle altre medicine. Inutile ignorarlo. In seguito, per mio interesse per sonale, ho approfondito la teoria di Samuel Hanemann, fondatore dell’omeopatia. Sono rimasta affascinata dai principi su cui si basa. Trovo interessante in particolare la modalità dell’anam nesi e la personalizzazione della terapia. Credo che questo possa gratificare maggiormente il pa ziente in quanto individuo unico con patologie del tutto peculiari. Da allora mi interesso alle storie dei miei pazienti che per vari motivi hanno scelto questo tipo di medicina. Cerco informazioni sulla terapia, tento di instaurare un dialogo per capire le motiva zioni di questa scelta. A questo punto sorge un proble ma, un conflitto interiore in cui

mi dibatto. Sono un medico di medicina generale. La mia pro fessione si basa su assunti teorici ben chiari. L’EBM (Evidence Based Medicine – medicina basata sulle prove di efficacia) dovrebbe esse re il faro che illumina tutto il mio operato. Il codice deontologico all’art. 5 afferma che “il medico nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche […]”, all’art. 12 “Le prescrizioni e i trattamenti devo no essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scien tifiche […]. Sono vietate l’ado zione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scienti fica, nonché di terapie segrete”. L’art. 13 lascia aperto uno spi raglio: ”La potestà di scelta di pratiche non convenzionali nel rispetto del decoro e della digni tà della professione si esprime nell’esclusivo ambito della diretta e non delegabile responsabilità professionale, fermo restando, comunque, che qualsiasi terapia non convenzionale non deve sottrarre il cittadino a specifici trattamenti di comprovata effi cacia e richiede l’acquisizione del consenso”. L’omeopatia rientra fra le medici ne non convenzionali, a tutt’oggi non è supportata da studi che ne dimostrino valenza scientifica. Questo perché lo stesso tipo di sperimentazione viene applicato a modelli teorici molto diversi. Da qui le difficoltà a porre sullo

stesso terreno sperimentale due pratiche diverse come la medicina ortodossa e l’omeopatia. Intanto M. continua ad assumere i suoi granuli e io a prescrivere i dosaggi ormonali... [Medico] ii caso

Nel servizio presso il quale lavoro ogni settimana viene programma ta una giornata in cui i pazienti del reparto di oncologia, che ne abbiano necessità per le cure, vengono sottoposti a un piccolo intervento per l’impianto di un catetere venoso centrale a per manenza. In questa circostanza io incontro pazienti dei quali conosco poco e che rivedrò solo qualora tornino per l’espianto del presidio. Alcuni mesi fa mi sono fermata a parlare con uno di questi pazienti, un signore di circa 50 anni che ha sempre goduto di ottima salute ma al quale da pochi mesi era stata diagnosticata una neoplasia per la cura della quale doveva sottoporsi a chemioterapia. Il paziente era spaventato, mi è sembrato depresso, ma allo stesso tempo risoluto nella sua intenzio ne di guarire. Mi ha raccontato che oltre la chemioterapia aveva iniziato di sua spontanea ini ziativa ad assumere una terapia omeopatica e a sottoporsi a mas saggi energetici. Mi ha anche det to che il suo oncologo gli aveva detto di ritenere tali trattamenti complementari del tutto inutili. Nella situazione sopra descritta ho provato un certo imbarazzo. 15

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Salute e culture: la società

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Ho ritenuto che la libertà del pa­ ziente dovesse essere considerata prevalente rispetto al resto e che la sua scelta di ricorrere a terapie complementari dovesse essere rispettata. L’individuo è, a mio avviso, libero di curarsi come di rifiutare la cura, ed è altrettanto libero di affidarsi alle tecniche che ritiene più opportune. Il paziente in questione, nel raccontarmi la sua storia, mi ha fatto capire quanta fiducia ripo­ nesse nelle terapie alternative a cui si era affidato, e io, pur con l’imbarazzo che mi derivava dal dare un messaggio contrastante con quello del suo oncologo, mi sono sentita di rinforzarlo rispet­ to alle sue scelte. Del resto lui non aveva rifiutato la chemioterapia, ma aveva, a mio avviso, individuato dei metodi che, quantomeno sotto il profilo psicologico, lo mettevano nella condizione di credere maggior­ mente a una riuscita positiva della terapia scientifica. [Infermiera] iii caso

E., donna di anni 35, impiegata. Non ha precedenti significativi. Sposata da 5 anni, non ha avuto figli. Da 4 anni ha smesso di fumare. È donatrice di sangue. Riferisce da un mese dolore e tumefazione alle mani e ai piedi, con scarsa risposta all’aspirina e a vari FANS. Cinque mesi fa aveva avuto una otosalpingite, gli esami di labo­ ratorio correnti erano negativi,

compresi VES e proteina C-reatti­ va; vi era una positività IgG (ma non IgM) degli anticorpi EBM, CMV e toxoplasmosi. L’obiettività dimostra solo dolore provocato alla pressione delle metacarpo-falangee e metatar­ so-falangee, senza tumefazioni. Nessuna risposta a paracetamolo, naproxene e coxib. VES 28, proteina C-reattiva e fattore reumatoide negativi. Positivi ANA (di tipo omogeneo, alto titolo), anti-DNA nativo, e poi, degli ENA, positivi anti-RNP e anti-SSA; negativi gli altri. Avevo discusso con la paziente e con la madre dell’opportunità di approfondire gli accertamenti e della probabilità di dover im­ postare una terapia di maggiore impegno. La paziente si mostrava riluttante; infine decideva di prendere tempo. Dopo dieci giorni di silenzio, telefona riferendo di avere ini­ ziato una dieta macrobiotica su consiglio di una amica, e di avere anche intrapreso cure omeopati­ che con delle “polverine” di cui non conosce la composizione. Si dichiara, per ora, invariata quan­ to ai disturbi. Cerco di spiegare che quella probabilmente non è la strada giusta, dichiarandomi ulteriormente disponibile. La paziente non si è più presentata e, dalla madre, apprendo che sta continuando i trattamenti alternativi, che è più o meno invariata, e che segue i consigli delle amiche e non della madre. Questo caso, a giudicare le cose dal punto di vista di un medico

che segue la medicina ufficiale, cioè quella che cerca di applicare nozioni e metodi scientifici, rap­ presenta chiaramente un insucces­ so professionale. Alla nostra medicina si imputa spesso di trascurare il colloquio con il paziente. Se è vero che que­ sta accusa è spesso giustificata (ma io imputo ciò semplicemente a cattiva pratica della medicina, e non a un difetto insito nella medicina scientifica), non credo che lo sia in questo caso. La pa­ ziente è stata seguita, non esito a dire, amorevolmente, spiegando e discutendo di volta in volta i ragionamenti e i passaggi. A posteriori devo dire che forse la paziente può avere avuto la per­ cezione che nel primo mese in cui l’avevo seguita non avessi ancora messo a fuoco, con una diagnosi definitiva, il suo caso. Penso che, specialmente quando ci sono in ballo diagnosi pesanti, discutere a lungo possa ingenerare questa sensazione in qualche paziente. D’altra parte, in questo caso l’at­ tenzione si focalizza in primo luo­ go sui comportamenti alimentari suggeriti da pratiche alternative che mescolano assurdità scientifi­ che a norme di buon senso, risul­ tate, queste ultime, accattivanti, ma delle quali, per la loro ovvietà, la paziente non aveva alcun bi­ sogno. Si può rendersi conto del successo di queste pratiche presso gente di scarsa cultura scientifica, o con capacità di giudizio limitata da situazioni personali emotive o, in altri casi, dalla conoscenza di episodi che, a torto o a ragione,

creano sfiducia nelle procedure della medicina tradizionale. La madre della paziente mi riferiva che, non mangiando la frutta durante i pasti, evitando la car­ ne, mangiando cereali integrali e altri prodotti particolari (tra parentesi, molto costosi), la figlia digeriva meglio. A nulla serviva l’obiezione mia, ritrasmessa alla figlia, che così facendo le sue difficoltà digestive (del resto ba­ nali, e irrilevanti rispetto al suo problema clinico) sarebbero nel tempo aumentate. Al contrario, la paziente attribuiva alla dieta possibilità di cura della sua ma­ lattia. Appaiono evidenti le aspettative ingiustificate generate da distor­ sioni divulgative, e in definitiva anche le spinte al consumismo, supportato da elucubrazioni pseu­ do-scientifiche e teorie attraenti per il loro aspetto esotico, con ricorso agli alimenti “naturali”, “non inquinati” dall’industria e dai trattamenti chimici: zucchero grezzo, sale marino senza addi­ zione di iodio, farina di grano intero, cereali non raffinati, con costo mediamente ben più elevato e potere nutrizionale inferiore rispetto ai prodotti comuni. E, per quanto riguarda le pratiche omeoterapiche, la fiducia in esse portava la paziente a trascurare il fatto che i suoi disturbi articolari rimanevano invariati e le prospet­ tive future del tutto incerte. Vi sono diverse altre considerazioni che si possono fare: l’accettazione di pratiche alternative è spesso facilitata dal gusto dell’esotico 17

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e dell’orientale, più radicato nei giovani e in circoli ambientalisti, spesso con un contenuto di conte­ stazione verso i poteri costituiti, e facilitato probabilmente dalla scarsa attenzione che nelle nostre scuole viene dedicata all’insegna­ mento scientifico. Ma anche presso persone di buon livello culturale, il ricorso alla pratiche alternative può esprimere il rifiuto di aspetti della medicina ufficiale quali l’accanimento terapeutico, le contraddizioni, spesso solo ap­ parenti, tra specialisti di branche diverse, o anche la percezione di un consumismo farmaceutico; quando questo ricorso non rap­ presenti addirittura un inconscio sottrarsi alla pressione del rapido svilupparsi delle conoscenze e dei cambiamenti. È vero che con i pazienti che ri­ corrono alle medicine alternative l’atteggiamento migliore è quello di mostrare molta pazienza, evi­ tando le rigide opposizioni; certo è però che, in casi di malattie serie, quando il paziente si rav­ vede e torna a noi, spesso si sono perse delle buone opportunità di remissione o di guarigione. [Medico] Dobbiamo parlare dunque di bipo­ larismo formato da un lato dalla medicina scientifica (ortodossia) che comprende: – la medicina di base; – le specializzazioni mediche; – le scienze infermieristiche; – la psichiatria;

– la psicologia medica; – le tecniche psico-corporee. Dall’altro dalle medicine e dalle cure complementari (eterodossia) che comprendono: – le medicine e le cure non con­ venzionali (per esempio l’omeo­ patia, un sistema medico che propone una visione dell’essere umano radicalmente diversa rispetto a quella proposta dal paradigma scientifico). Esse garantiscono una personaliz­ zazione della presa a carico, in un mondo in cui tutto è stan­ dardizzato e uniformizzato (da ciò si può dedurre il fascino che queste pratiche esercitano sul paziente di oggi); – le medicine e le cure extraeu­ ropee: la riflessologia plantare (che deriva dalla medicina egi­ ziana di 4.000 anni fa), la sofro­ logia (tecnica di introspezione sciamanica che permette di con­ trollare il dolore), l’osteopatia, la chiropatia, l’agopuntura, la medicina ayurvedica, ecc.; – le cure popolari. È un campo che dovrebbe interessare chi si occupa di alleviare la sofferenza altrui. In termini di efficacia ho potuto verificare personalmente miglioramenti sensibili a segui­ to di tali pratiche. naturalmente è necessario fare attenzione ai ciarlatani. Perché le persone si rivolgono a questo pluralismo medico? Io direi che ci sono due livelli interessan­ ti: uno è ovviamente quello della ricerca dell’efficacia terapeutica,

l’altro è quello della ricerca di signi­ ficati nella terapia (“dimmi come curi e ti dirò che concezione hai di me”). Il pluralismo medico è una sorta di autoregolazione sociale di certe tendenze monolitiche indotte dalla tecnologia e dalla “chirurgiz­ zazione” della vita. Questi aspetti non vengono rinnegati, ma ci si rende conto che non possono dare un senso a tutto. Da ciò deriva la ricerca di itinerari terapeutici complessi e sovente paradossali e la constatazione, per lo meno in una prospettiva antropologica, che sa­ lute e malattia sono sempre più dei luoghi di costruzione identitaria. L’identità e i saperi delle per­ sone in una società plurale come la nostra, si pluralizzano sempre più. nelle varie ricerche che ab­ biamo condotto, abbiamo potuto constatare come ai riferimenti professionali che sono compresi e interiorizzati, le persone abbinino almeno altri due livelli, uno legato alle credenze e alle concezioni appartenenti alle reti sociali comu­ nitarie in cui sono inscritte, l’altro di natura idiosincratica. Concludendo, il legame tra medi­ cina e società ci spinge a constatare che esiste una discrepanza tra le pratiche della razionalità medica e i percorsi terapeutici dei pazienti. Le strategie terapeutiche attraverso cui lavora la medicina non sono esclusive, sono parte di ciò che la gente mette in pratica per trovare delle risposte ai propri problemi. L’episodio malattia si riferisce a una molteplicità di forme, tra le quali la razionalità medica occupa

una posizione relativa. La condotta terapeutica del paziente è colle­ gata alla logica interpretativa alla quale aderisce, e questa logica non è unicamente medica, scientifica. Ma allora quale significato dare al concetto di “terapia”? Supponiamo che nella cura di un paziente si riescano a fare interagi­ re più forme di terapia (chemiote­ rapia, agopuntura per rinforzare il sistema immunitario, pranoterapia per alleviare gli effetti collaterali della chemioterapia, omeopatia per rinforzare l’organismo: sono tutte strategie che appartengono a diver­ si sistemi medici, ciascuno dei quali ha una sua finalità terapeutica). In questa società in continua trasformazione anche gli individui si trasformano. Il vero potere di decisione sta passando dalle mani dei medici alle mani dei pazienti. I pazienti diventano il labora­ torio in cui si sperimenta la conci­ liazione dell’inconciliabile (prescri­ zioni terapeutiche della medicina tradizionale con strategie delle medicine complementari). Il corpo diventa un luogo di sperimentazio­ ne di queste grandi trasformazioni sociali e culturali. È necessario, quando si parla di salute, prestare attenzione alle pratiche sociali esterne a quelle della medicina. Perché tutto ciò? Perché la me­ dicina moderna è laica. Tuttavia le categorie laiche non rispondono a interrogativi propri dell’essere umano in tempi di crisi e di mu­ 19

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tazioni (chi sono, che cosa faccio, dove vado, cosa significa la mia sof­ ferenza, che cos’è la mia vita?). Si tratta di interrogativi di carattere metafisico. Spesso le tecniche tera­ peutiche complementari veicolano significati spirituali – non forzata­ mente religiosi, ma spirituali – che vanno al di là della povertà e della rigidità di una lettura strettamente scientifica della vita.

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In un mondo in mutazione la salute è un campo in cui gli esseri umani contemporanei elaborano le proprie identità; constatiamo come la salute riguardi un corpo, ma questo corpo nella società contem­ poranea non è riducibile alla sola biologia. Il mondo delle cure deve essere temperato da una critica razionale che tenga conto delle dimensioni socio-culturali della società nella quale viviamo.

Ilario Rossi è antropologo presso l'Uni­ versità di Losanna

Il diritto possibile Cinzia Piciocchi

L´ordinamento giuridico deve confrontarsi con la pluralità delle culture sia nell´ambito sociale che in quello medico.

Quando parliamo di pluralismo me­ dico e pluralismo sociale, facciamo riferimento a un valore: la pluralità è un dato di fatto, mentre il plu­ ralismo mira a tutelare la pluralità, intesa come valore. Ritengo che il diritto si debba occupare delle problematiche del pluralismo, con particolare riferi­ mento alla diversità culturale, sia in ambito medico sia in ambito sociale. A livello giuridico, quando par­ liamo di cultura parliamo di feno­ meni tra loro diversi: i documenti di natura internazionale, sovra­ nazionale e nazionale utilizzano questo concetto in accezioni tra loro diverse. Il termine “cultura” può essere riferito all’istruzione, ai beni culturali, all’identità nazionale di un popolo, così come ai prodotti audiovisuali. In quest’incontro parliamo della cultura in relazione alla salute e questo restringe il campo d’inda­ gine, poiché la nozione di cultura che s’interseca con la scelta tera­

peutica porta a riferirsi al sistema assiologico individuale che detta le scelte esistenziali di ciascuno di noi nel campo della salute; un sistema nel quale le scelte indi­ viduali hanno un valore spesso letteralmente esistenziale, poiché può essere in gioco la vita stessa. Che vi sia una pluralità di culture è un dato di fatto e lo si può notare in modo tangibile nei “luoghi della pluralità”, ad esempio nelle scuole o nei luoghi di lavoro. Le diverse identità culturali chiedono spesso un riconoscimento giuridico. Quando si fa riferimento alla pluralità culturale si pensa general­ mente al fenomeno dell’immigrazio­ ne. Questo perché l’Italia, da terra di emigrazione, è divenuta terra di immigrazione, con un contesto so­ ciale in continua trasformazione. Il concetto di cultura al quale mi riferisco oggi è in realtà più etero­ geneo, poiché le scelte terapeutiche possono essere determinate dalla provenienza da contesti geo-cultu­ rali lontani, ma anche dall’adesione a una particolare filosofia di vita, oppure da precetti di natura religio­ sa che non dipendono necessaria­ mente dalla diversità etnica. Per comprendere perché il diritto si debba occupare della diversità culturale, è necessario chiedersi: “Diversità rispetto a che cosa?” Il fatto stesso che un giurista percepisca la diversità culturale, mi fa pensare che, in qualche misura, gli ordinamenti abbiano essi stessi un’identità, una sorta di DnA cul­ 21

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turale che le norme presuppongono e che viene percepito proprio nel momento in cui ci confrontiamo con qualcosa di diverso da noi. Tale confronto ci permette di capire molto dell’altro, ma, soprat­ tutto, ci permette di comprendere molto di noi stessi. Un esempio è dato dalle fe ­ stività; credo che non a caso un grande costituzionalista, Haberle, abbia scelto di occuparsi di que­ st’aspetto. Ogni ordinamento prevede de­ terminate festività, alcune delle quali sono legate alla storia dei diversi Paesi, altre sono feste re­ ligiose. Siamo soliti pensare alle regole giuridiche relative alle festi­ vità in termini neutri, ma quando gli ordinamenti giuridici si trovano dinanzi alle richieste di inclusione della diversità in quest’ambito, si comincia a percepire che anche in quest’aspetto (apparentemente marginale) sussiste un’identità culturale precisa. In Francia si sono avuti casi di studenti di fede ebraica che chie­ devano di poter osservare il sabato anziché la domenica come giorno di riposo scolastico; nell’ambito della Comunità europea persone di fede ebraica hanno chiesto che fosse riconosciuto loro il diritto a partecipare ai concorsi per l’acces­ so agli impieghi pubblici in data diversa da quella stabilita, perché quest’ultima coincideva con quella di una festa religiosa; l’ordinamento britannico si sta confrontando con le richieste di lavoratori musulmani di poter osservare le loro festività religiose.

Ogni ordinamento ha dato rispo­ ste diverse. Ad esempio, nel Regno Unito si è dato avvio a un dibattito su che cosa siano criteri quali l’et­ nia, la religione, la razza e quali tra questi definiscano le identità giuridicamente rilevanti. Il dato importante è che nel momento in cui i giuristi si confron­ tano con la diversità, cominciano a percepire l’identità culturale degli ordinamenti giuridici. Questo spie­ ga perché i giuristi debbano occu­ parsi delle problematiche relative al pluralismo culturale. Quindi, alla domanda se l’ordi­ namento giuridico debba confron­ tarsi con le culture, la risposta è sicuramente affermativa. E l’effetto principale generato da questo con­ fronto consiste nella possibilità di conoscere meglio noi stessi (il nostro ordinamento). Va poi analizzata la reazione dei vari ordinamenti di fronte alle ri­ chieste di riconoscimento giuridico della diversità culturale. L’ordinamento può escluderla, può includerla o può aprire una ne­ goziazione, cominciare un dialogo. Il nostro diritto esclude quando sono in gioco valori che vengono percepiti come fondamentali, in quanto costituiscono l’essenza stessa della tradizione giuridica occidentale. Di fronte a una richie­ sta di riconoscimento di diversità che metta a rischio tali valori, gli ordinamenti scelgono di rifiutare il riconoscimento. Questo avviene ad esempio quando sono in gioco la vita o l’in­ tegrità fisica degli individui; anche

se, nell’ambito delle scelte terapeu­ tiche, il dialogo con la diversità culturale si svolge nel confronto non semplice tra due poli: il diritto alla salute, da un lato, e il diritto all’autodeterminazione, dall’altro. Il confronto con la diversità culturale nell’ambito della salute ci dice moltissimo sull’identità, non solo degli ordinamenti giuridici, ma anche dei sistemi sanitari (che hanno, a loro volta, una precisa identità culturale). Tale confronto evidenzia poi un altro aspetto: il concetto di diver­ sità culturale in quest’ambito non si correla solo alla provenienza da contesti geo-culturali lontani (con­ seguentemente all’immigrazione), ma anche e soprattutto con il plu­ ralismo etico, che è ciò che solleva i problemi maggiori. A questo proposito, constatiamo il fatto che i nostri sistemi sanitari hanno un’identità quando parliamo di medicina “ufficiale”. Se chiediamo al cittadino italia­ no quale sia, secondo lui, la medi­ cina “ufficiale”, ci risponderà che è quella che egli trova negli ospedali, quella che gli viene somministrata dal suo medico curante, ecc. Se facciamo la stessa domanda a un cittadino indiano o cinese, avre­ mo la stessa risposta, ma spesso con riferimento a medicine che da noi sono definite “alternative”. Le diverse concezioni sono quindi relative e i problemi sor­ gono quando esse s’incontrano, s’intersecano e, talvolta, si scon­ trano. Questo accade, ad esempio, quando un paziente chiede di poter usufruire di quella che per lui è me­

dicina “ufficiale” nella cura di una patologia che, secondo la medicina occidentale, non ha speranza di guarigione se non seguendo altri metodi terapeutici. Di fronte a ciò come reagisce l’ordinamento giuridico: include, esclude o dialoga? Dipende, come dicevo, dai valori che sono in gioco. La richiesta di essere lasciati liberi nella propria scelta terapeu­ tica è generalmente rispettata sulla base del principio d’autodetermina­ zione (garantita nell’ordinamento italiano dall’art. 32, comma 2, della Costituzione). La risposta è più complessa quando siano coinvolti dei minori, ad esempio nel caso di genitori che decidono di curare con la sola preghiera i propri figli (il c.d. faith healing) o nei casi in cui sia dif­ ficile appurare se la scelta possa veramente definirsi tale. Ma la vera sfida, relativamente al riconoscimento della diversità nella scelta terapeutica, non viene tanto dalla richiesta di poter scegliere, quanto dalla richiesta di avere un supporto nella propria scelta. Mi riferisco, ad esempio, alle medici­ ne “alternative” delle quali alcuni chiedono l’inclusione nell’ambito del SSn. Va notato, al riguardo, che in questo campo il diritto ha in un certo senso prevalso sulla scienza, poiché spesso sono state le sentenze a chiarire quali medicine “alternative” possano essere prati­ cate dai soli laureati in medicina, (ad esempio, l’agopuntura). È necessario dunque che gli or­ 23

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Salute e culture: la società

dinamenti prendano coscienza del loro DnA culturale e in quale misura questo sia imprescindibile: quanto, cioè, esso possa lasciare spazio alla diversità o quando, essendo tale di­ versità in contrasto con i suoi valori fondamentali, non possa ammetter­ ne alcun riconoscimento.

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L’illustre giurista Paolo Cendon parla della scelta terapeutica come “identità progettuale del malato” (I malati terminali e i loro diritti, Giuffrè, Milano, 2003, pag. 337). Questa espressione evidenzia come nella scelta terapeutica di ciascuno di noi si manifesti una parte della nostra identità, la nostra persona­ le visione del mondo. La diversità culturale che chiede riconoscimento giuridico è una manifestazione d’identità. Quando questo avviene gli ordinamenti a volte escludono, a volte includono, a volte dialogano, a volte rispondono differenziando i diritti proprio in ragione della diversità culturale. Talvolta, ad esempio, a favore di determinati gruppi si creano veri e propri diritti d’esenzione rispetto all’osservanza di alcune norme giuridiche. I sikh, che chiedono di poter rispettare il precetto religio­ so che impone loro di indossare il turbante, hanno talvolta ottenuto con legge l’esenzione dall’obbligo di portare il casco protettivo in moto­ cicletta o in alcuni luoghi di lavoro. Le macellazioni rituali secondo le religioni ebraica e mussulmana sono oggetto di regole specifiche, che creano un’esenzione rispetto a nor­ me giuridiche che rimangono valide tranne che per gli appartenenti a

quei gruppi. Alcuni Stati americani garantiscono esenzioni rispetto agli obblighi di vaccinazione per i minori sulla base del credo religioso o delle convinzioni filosofiche dei genitori. L’analisi giuridica comparata attesta che in molti casi gli or­ dinamenti giuridici assumono la diversità culturale a fondamento dell’attribuzione di diritti, attri­ buendole rilevanza giuridica.

iv caso

Recentemente siamo stati chiama­ ti di notte per eseguire un taglio cesareo a una donna algerina, la quale, per convinzione sua e per la grande insistenza del marito, si rifiutava di togliere il velo. Le regole della sala operatoria impongono che i pazienti entrino privi di alcun indumento perso­ nale e che indossino un camice ospedaliero e una cuffietta che raccolga i capelli, per garantire l’igiene e ridurre così al minimo i rischi di infezione. La necessità di intervenire d’ur­ genza ha fatto sì che nessuno si sia messo a discutere il fatto che la paziente non volesse togliere il velo, peraltro visibilmente poco pulito. Sempre in ambito di diversità culturali, ultimamente da parte dei Testimoni di Geova c’è stata la richiesta di far entrare in sala operatoria un loro ministro del culto durante l’intervento chirur­ gico di un correligionario, allo scopo di vigilare sull’operato dei medici, affinché venga rispettata

la volontà di non subire trasfusio­ ni di sangue. Per quanto riguarda la paziente del taglio cesareo, ho notato un grande disagio da parte di tutta l’equipe chirurgica, soprattutto da parte degli anestesisti. La situa­ zione d’urgenza ha permesso di non rispettare le normali regole; ma la cosa potrebbe ripetersi in situazioni di non urgenza, e in questo caso come ci si dovrà comportare? È giusto rispettare la volontà del paziente che non vuole assoggettarsi alle regole di una struttura sanitaria, quando la loro violazione può determinare com­ plicazioni al paziente stesso? Nel caso dei Testimoni di Geova, fino a ora la direzione dell’ospe­ dale ha negato la possibilità di ingresso in sala operatoria al mi­ nistro del culto, ma non è escluso che tali richieste non vengano reiterate o che non ne arrivino altre da altri gruppi religiosi. Come conciliare le soggettive esigenza di tutela con il normale svolgimento dell’attività di un ospedale italiano? [Infermiere] nell’ambito del diritto alla salute, e in particolar modo della scelta terapeutica, gli ordinamenti giuri­ dici spesso si rivolgono alla scienza chiedendo certezze su questioni che non sono scientifiche ma etiche (ad esempio: in che momento inizia e in che momento finisce la vita?), in modo da poter poi includere queste “verità” in regole che impongono una visione sulle altre, negando

la diversità. Il dibattito attuale ci fa capire che manca quell’aspetto fondamentale del riconoscimento da parte della propria identità culturale. Gli ordinamenti giuridici, infat­ ti, in molti casi, non accolgono, non dialogano, ma semplicemente escludono la diversità senza una presa di coscienza della propria identità culturale, che spesso è rap­ presentata da più anime. Spesso si considera unitaria la cultura quando essa unitaria non è, perché su uno stesso argomento (per esempio, quando abbia inizio e quando finisca la vita) possono coesistere diverse visioni culturali.

Cinzia Piciocchi è dottore di ricerca pres­ so il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Trento 25

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la salute della popolazione immigrata Licia Scantamburlo

I determinanti e le caratteristiche delle manifestazioni di disagio psichico nelle persone immigrate.

Con il termine “immigrato” ci rife­ riamo a una “categoria” in cui in­ cludiamo tutte quelle persone che vengono da Paesi “altri” rispetto al nostro e che per questo hanno un carattere di “estraneità”. È un

termine che livella la vasta gamma delle esperienze umane riferite a un processo tanto vario e complesso come quello della migrazione. All’interno della categoria “im­ migrato” abbiamo poi le sottocate­ gorie dei “regolari”, degli “irregola­ ri”, degli “extracomunitari”, ecc. Questo ci predispone agli ste­ reotipi e ai pregiudizi con cui quotidianamente abbiamo a che fare nella relazione con i pazienti. Ritengo che sia importante averne consapevolezza, perché tale con­ sapevolezza ci aiuta, come medici e come operatori sanitari, a inter­ rogarci e a metterci in discussione nella relazione con il paziente. Anche quando parliamo di “di­ sturbo psichico” è impor tante ricordare che ci riferiamo a delle categorie (in questo caso, psichia­ 26 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

triche) assunte come omogenee, che fanno parte del sistema di clas­ sificazione occidentale, del nostro apparato bio-medico. In queste categorie facciamo rientrare espressioni di sofferenza e di malessere che molto spesso richiederebbero anche altri livelli di lettura, al di là degli schemi prettamente medici. Il rischio è di pensare come universalmente valide le nostre definizioni su che cosa è o non è un disturbo mentale. Fatte queste premesse, dobbia­

mo chiederci: quando parliamo di

sofferenza mentale, a quali tipi di

disturbi facciamo riferimento in

relazione alle persone immigrate?

Innanzitutto è necessario di­

stinguere vari livelli sanitari che

si occupano di tali disagi:

– il Territorio;

– la Medicina di base e la Medicina ospedaliera; – i Servizi di Salute Mentale (inte­ so come servizio specialistico). Le persone immigrate che giun­ gono ai Servizi di Salute Mentale solitamente non presentano sin­ dromi “strane”. Come, a livello internistico, sono rare le patologie esotiche di importazione, così, in ambito psichiatrico, gli operatori non si trovano di fronte a sindromi c.d. culturalmente correlate. La sindrome culturalmente cor­ relata più diffusa e trattata nei nostri Servizi, è quella riconosciuta come sindrome “occidentale” e riguarda i disturbi del comporta­

mento alimentare come l’anoressia e la bulimia. Gli immigrati visitati nei Servizi di psichiatria ricevono le stesse diagnosi degli italiani e vengono trattati per disturbi depressivi, sindromi ansiose, scompensi psi­ cotici. Ma questi pazienti rappresenta­ no però solo la punta dell’iceberg di un disagio e di una sofferenza psichica più allargata, che rimane sommersa e non arriva agli opera­ tori della salute mentale. nelle strutture di medicina di base e ospedaliera, si riscontrano più frequentemente le c.d. sindromi da somatizzazione, manifestazioni di un disagio psichico che trova espressione in sintomi corporei. Esse sono caratterizzate – dalla preponderanza di sintomi corporei che non riflettono un danno organico; – dall’assenza di un’alterazione funzionale di organi giustificata da un processo somatico. I principali sintomi riguardano: – sindromi addominali poco spe­ cif iche (ad esempio, dolor i addominali diffusi); – gastriti; – sindromi dolorose aspecifiche (ad esempio, nevralgie, mialgie, lombalgie); – cefalee. In uno studio condot to da medici del Poliambulatorio per immigrati dalla CARITAS di Roma (vedi “Studi Emigrazione/Migration studies”, XLII, n. 157, 2005) le somatizzazioni rappresentano il 38% dei casi.

Quando le sindromi da soma­ tizzazione non sono identificate possono: – evolvere in disturbi cronici; – compromettere la qualità della vita delle persone; – determinare un utilizzo impro­ prio di farmaci. Anticamera delle sindromi da somatizzazione e di altri disturbi psichici è il c.d. disagio sommerso, che, pur essendo frequente, non ar­ riva alla soglia dei servizi sanitari. Se si riesce a intercettare questo disagio, correlato alle particolari situazioni psicologiche e sociali in cui si ritrovano gli immigrati (in particolare se irregolari), e a rispondervi in modo appropriato e adeguato, si evita che evolva in disturbi più gravi. Ciò significa intervenire per migliorare la qua­ lità di vita delle persone, con una conseguente limitazione dei costi a carico dei servizi sanitari. Gli immigrati, soprattutto quelli in condizione di irregolarità, sono esposti a quelle che l’OMS defini­ sce “disuguaglianze evitabili dello stato di salute”, che li rendono vulnerabili e maggiormente a ri­ schio di ammalarsi e di sviluppare disturbi psichiatrici. Su queste disuguaglianze si può intervenire, poiché riguardano la situazione di povertà, di emarginazione sociale e di degrado ambientale in cui gli immigrati spesso si trovano a vivere. nell’approcciare la salute e i di­ sturbi psichici dei migranti è utile servirsi di una griglia a quattro 27

Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

Salute e culture: la società

variabili (cultura, storia personale, percorso migratorio, contesto), grazie alla quale è possibile una

lettura basata su variabili comuni e nel contempo sulle peculiarità individuali di ogni immigrato.

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Cultura Ognuno di noi è portatore della cul­ tura in cui è cresciuto. Ogni società ha un proprio modello culturale, che condiziona anche la percezione e la visione della propria salute, il rapporto con il proprio corpo, la malattia e la cura. Ma non è detto che il nostro modo di pensare la malattia valga anche per persone provenienti da altri Paesi. Al riguardo, basti prendere in considerazione il dolore, che è un sintomo importante per i medici nella valutazione delle condizioni di un paziente (ad esempio, è un aspetto importante per capire il punto del travaglio). In alcune culture l’espressione del dolore è molto contenuta, quindi essa non potrebbe essere un affidabile variabile di riferimento per capire la gravità o meno di un disturbo. Storia personale Conoscerla ci aiuta a capire quali sono gli eventi traumatici che una persona ha vissuto, a comprendere il peso dell’esperienza soggettiva. Ad esempio, i rifugiati spes­ so non parlano delle esperienze traumatiche che hanno vissuto; la ricostruzione paziente della loro storia e della possibilità che possa­ no averne subite può rendere com­

prensibile alcuni quadri di disagio,

di malessere e di sofferenza.

Percorso migratorio

Ha delle ripercussioni molto forti

sulla salute psichica delle perso­

ne immigrate. Quanto più alto è l’obiettivo del progetto migratorio, t anto più alto è l’investimento emotivo della persona in questo progetto. Se questo fallisce o non va secondo le aspettative, possono manifestarsi conseguenze molto importanti sulla salute psichica. Si pensi ad esempio a molte donne moldave, ucraine, alle “ba­ danti” che per venire a lavorare in Italia contraggono debiti che si aggirano tra i 1.000 e i 2.000 euro, prestati con interessi altissimi. La realizzazione del loro progetto è condizionata dal riuscire a pagare i debiti contratti, ad affrontare la condizione di clandestinità, a vive­ re in condizioni di emarginazione, a resistere alla lontananza dei propri cari, ecc. nel progetto migratorio possia­ mo distinguere tre fasi: 1) La preparazione del viaggio e la partenza. Partire fa parte di un progetto pensato e pianificato all’interno della famiglia. So ­ litamente si compie una scelta ponderata di quale componente del nucleo familiare partirà. La partenza può essere contras­ segnata da momenti di euforia per la speranza di andare verso una condizione migliore, ma anche da sentimenti di appiatti­ mento, di demoralizzazione per la perdita ciò che si lascia. Poi c’è il momento del viaggio,

un momento importante perché è un fattore di stress, quando non diventa una vero e proprio evento traumatico. Basti pen­ sare ai viaggi sui barconi, in pullman straripanti di persone o in veri e propri carri da tra­ sporto merci. 2) L’arrivo, seguito dalla fase di impatto e, se tutto va bene, dal processo di adattamento e di integrazione. Il confronto con una lingua e una cultura nuove, con abitudini di vita e con un’or­ ganizzazione sociale diverse da quelle conosciute, con istituzio­ ni pubbliche, con regole e con autorità non note. Un’alta percentuale di immigrati inizialmente vive in clandestini­ tà (questa è una condizione che ha riguardato, o riguarda, quasi tutte le “badanti”). Clandesti­ nità significa illegalità, signi­ fica guardarsi attorno quando si cammina per strada, essere pronti a cambiare direzione se si intravvede una divisa, essere sempre sul chi va là. Molti immigrati, non sapendo che il SSn fa espresso divieto di denunciare gli irregolari al­ l’autorità, evitano di rivolgersi ai servizi sanitari.

v caso

Arriva al nostro Servizio una signora proveniente dall’Ecuador, che ha una figlia di un anno nota al nostro Servizio perché è stata seguita dalla pediatra del Consultorio. La signora dice di avere un ritardo

mestruale e quindi ha il dubbio di essere incinta. In merito a questa possibilità, mi comunica di non desiderare un’altra gravidanza. Le propongo di eseguire il test di gravidanza e lei acconsente. Il risultato del test è positivo. La signora dice che la gravidanza è frutto di un ultimo rapporto sessuale con il compagno, col quale ha poi avuto una lite molto grave e che è fuggito lontano in un’altra città. Lei non desidera la gravidanza e la vorrebbe inter­ rompere, ma dato che non è in re­ gola con il permesso di soggiorno, la gravidanza le darebbe modo di sistemare la sua situazione (per il periodo della gravidanza e poi fino al compimento di sei mesi da parte del figlio). Alla signora vengono date tutte le informazioni sia rispetto a un’eventuale procedura di inter­ ruzione della gravidanza che di proseguimento della stessa. Le si offre la possibilità di sostegno psicologico e/o sociale. La signora chiede del tempo per riflettere e dice che ci ricontatte­ rà. In seguito ci richiama dicendo di aver deciso di proseguire con la gravidanza. Viene alla prima visita, portando con sé il disa­ gio/sofferenza di aver scelto quella strada solo per rimanere in Italia. Non accoglie la proposta di aiuto psicologico. Passa un lungo periodo e la signora ritorna, dopo circa tre mesi, per un controllo pediatrico della figlia. In questa occasione vengo a conoscenza che ha abortito spontaneamente. La signora continua a venire qui 29

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Salute e culture: la società

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con la figlia e non ha ancora sistemato la sua condizione di clandestina. Rispetto alla situazione descritta mi sono sentita a disagio, perché la signora non aveva la libertà di scelta rispetto ai suoi valori eti­ co-morali, essendo condizionata dalla situazione di straniera non in regola con il permesso di sog­ giorno. La signora mi ha portato a contatto con la sua condizione di donna che non ha e non può avere lo stesso empowerment di un’altra donna in una situazione adeguata, per cui portava una grave sofferenza psicologica. Questo caso dimostra che la con­ dizione sociale di disuguaglianza nella quale vive l’individuo in­ fluenza fortemente la sua salute fisica e psicologica e le sue scelte di vita individuale e collettiva Di fronte a richieste di IVG causate da necessità sociali o economiche sarebbe necessario mettere a punto una rete sociale di sostegno che supporti la donna nelle sue scelte. [Ostetrica e infermiere] 3) Il ritorno al paese di origine. La maggior parte degli immigrati lo include nel proprio progetto migratorio. non sempre avviene come era stato immaginato e aspettato; spesso si realizza al di fuori dei tempi progettati e non sempre a obiettivi raggiunti. Contesto Gli immigrati sono obbligati a confrontarsi con la realtà socia­

le-ambientale del posto in cui si ritrovano a vivere e a lavorare, con le disponibilità e con le difficoltà che incontrano. Tra queste ultime vanno ricor­ date le condizioni abitative (molto spesso di sovraffollamento e sca­ denti dal punto di vista igienicosanitario), le situazioni lavorative di precarietà, l’emarginazione, la solitudine, la lontananza dagli affetti. Gli immigrati vanno incontro a una perdita di diritti: anche quelli in possesso di un regolare permesso di soggiorno godono dei diritti fino a quando hanno un lavoro. C’è una perdita di ruolo e di sta­ tus rispetto al Paese di provenienza. Vengono inoltre a mancare le reti interpersonali di sostegno e si rende necessaria una ridefinizione della propria identità. C’è poi la negazione degli af­ fetti: gli immigrati sono privati della vicinanza delle persone care, condizione spesso aggravata dal mancato riconoscimento dei loro affetti da parte delle persone dello “Stato di arrivo”. Una donna ucraina mi ha raccontato che la signora per cui lavorava, non comprendendo le sue motivazioni affettive, le dava della matta perché si dava da fare per ottenere il ricongiungimento con il figlio. Istituzioni e servizi non sempre sono in grado di cogliere i bisogni e di dare delle risposte adeguate Occuparsi della salute degli immigrati e pensare alla risposta dei nostri servizi ai loro bisogni si traduce in un miglioramento dei

servizi anche per i cittadini ita­ liani, perché ci permette di porre attenzione ad alcune variabili che nella pratica quotidiana la nostra medicina ha perso. Qui a Trento siamo nella terza fase dell’immigrazione, quella in cui gli immigrati hanno cominciato a stabilirsi, ricongiungendosi con le famiglie che avevano lasciato nel Paese d’origine o formandone di nuove. I loro figli si trovano a vivere lo scontro generazionale e a fare da cuscinetto tra famiglia d’origine e la società d’accoglienza; probabilmente sono anche coloro che pagano il prezzo più alto del­ l’immigrazione nuove problematiche e nuove richieste cominciano a presentarsi alle nostre istituzioni sanitarie, tra le quali la salute materno-infantile, la salute dei minori e degli anziani, la salute dei rifugiati e degli esuli, le problematiche delle vittime della tratta di esseri umani.

Licia Scantamburlo è psichiatra a Trento 31 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

Pluralismo culturale e professioni sanitarie Giulio Donazzan

In Alto Adige, le problematiche sanitarie dovute alla coesistenza delle due differenti culture sono ulterioremente complicate dalla recente ondata migratoria.

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lingua per poter lavorare nel servi­ zio pubblico. nell’attività sanitaria la comunicazione è essenziale: fiducia ed empatia svolgono un ruolo importante nella gestione dei problemi di salute. Cercherò di evidenziare alcuni elementi che forse possono sembra­ re degli stereotipi di quello che è il concetto di vita, salute e malattia all’interno dei due gruppi etnici, ma che mi sembrano utili per capire le difficoltà esistenti in relazione alla diversità di culture.

In Alto Adige vi sono due differenti culture, che continuano a restare a contatto da ottant’anni senza che nessuna delle due assorba l’altra. La cultura d’origine caratterizza ancora molto i rapporti delle perso­ ne con le istituzioni. Ci sono diverse valutazioni della vita, della morte, del corpo e della salute a seconda della cultura di appartenenza. Anche la formazione culturale degli operatori ne risente. nel reparto ospedaliero che dirigo alcuni collaboratori si sono formati in area culturale tedesca e altri in area culturale italiana. Vi sono delle differenze evidenti di approccio nei confronti della salute. nell’ultimo decennio c’è stato un fenomeno modesto d’immigra­ zione che mi sembra molto limi­ tato rispetto ad altre esperienze nazionali.

Il paziente italiano percepisce la vita come “stare bene”, presta grande attenzione all’aspetto fisico, segue la moda e ha un minor senso di appartenenza sociale. È carat­ terizzato da una forte adattabilità alla realtà che gli sta attorno (e questo si riflette anche nel rapporto con la salute). Il paziente tedesco manifesta maggiore sobr ietà e maggiore organizzazione sociale, nel senso che trova più facilmente una serie di supporti costruiti nel tessuto sociale che lo portano ad avere un rapporto diverso con le strutture sanitarie. negli “altri” (intendendo con “altri” i gruppi etnici diversi da quelli italiano e tedesco) predomina la necessità di soddisfare i bisogni essenziali della vita: la casa, il lavoro, ecc.

Il primo problema che si pone nel venire a contatto con pazienti di un’altra cultura è un problema di conoscenza linguistica. È richiesta una discreta conoscenza dell’altra

Anche verso la morte c’è un atteggiamento diverso, dipendente dalla cultura di appartenenza. nel gruppo etnico italiano la percezione della morte varia in relazione alla

provenienza delle persone dal nord o dal sud Italia (diversa partecipa­ zione individuale e sociale). nel gruppo etnico tedesco la diagnosi infausta viene vissuta in modo più fatalista; si prende atto che la vita finisce; c’è una solidarie­ tà sociale molto sviluppata anche se meno manifesta rispetto al gruppo italiano. Per quanto riguarda gli “altri” non ho un modello a cui riferirmi. In relazione alla percezione del proprio corpo, c’è una maggiore at­ tenzione nel gruppo etnico italiano alle variazioni di stato, al dolore, alla ricerca di una soluzione per ogni problema, anche piccolo, e c’è sempre un atteggiamento critico verso le decisioni riguardanti il proprio corpo. nel gruppo etnico tedesco c’è una maggiore tolleranza verso i disagi del corpo (qui ha un ruolo anche la discriminante città/cam­ pagna; le persone che vivono in campagna si rivolgono meno fre­ quentemente alle strutture sani­ tarie). Comunque, per le decisioni importanti, la ricerca dei riferimen­ ti culturali e linguistici sicuramente è molto forte. Gli “altri” appaiono meno cri­ tici, più rassegnati di fronte alla situazione. L’interesse per la salute, bisogno primario fortemente sentito dall’in­ dividuo, si manifesta spesso come richiesta di trattamenti e terapie nuove, altamente specialistiche, in centri di riferimento avanzati. nel gruppo italiano a volte c’è

difficoltà ad accettare il fatto che determinate terapie possano es­ sere svolte in loco; molto spesso dobbiamo rispondere alla richiesta di rivolgersi a centri che “ne sanno di più”. nel gruppo etnico tedesco, invece, si verifica una maggiore tendenza a percorrere la via delle terapie naturali. Culturalmente, in questo gruppo, il legame con la natura, con il non-sintetico, è molto più forte. Per gli “altri” è più difficile identificare la ricerca della salute come bisogno primario. La salute deriva anche dalle abitudini di vita e può essere difficile capire perché si debba sottoporsi a una terapia quando non si soffre. Per quanto riguarda la forma­ zione degli operatori sanitari, nel mondo tedesco la formazione medica tende a essere più pratica, meno teorica, con periodi di fre­ quenza più lunghi negli ospedali e negli studi dei medici di medicina generale (nel corso degli studi). L’abilitazione all’esercizio della professione e le specializzazioni mediche sono conferite dalla Pro­ fessione. È quest’ultima che valuta l’immissione sul mercato dei nuovi prestatori d’opera. Questa è una situazione molto diversa rispetto a quella italiana. L’Ordine dei Medici è garante anche dell’educazione continua in medicina. C’è un maggiore orientamento verso le attività tecnico-chirurgi­ che, mentre le specializzazioni me­ diche sono meno sviluppate perché considerate a complemento di una 33

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Salute e culture: la società

formazione generica in medicina interna. nell’organizzazione sociale della salute l’assicurazione di malattia ha un ruolo importante nel mondo germanico. Vi sono Casse separate, non un Servizio sanitario unico. Sono le assicurazioni di malattia a decidere la rimborsabilità delle diverse prestazioni (ad esempio, viene rimborsata l’agopuntura). È stata istituita da tempo la possibilità giuridica di valutazione extragiudiziale dell’errore medico.

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In futuro andremo verso la for­ mazione, l’abilitazione, la specia­ lizzazione e la creazione di un’etica medica comune a tutte le nazioni europee? Sicuramente c’è già, e conti­ nuerà ad esserci, una migrazione di pazienti e di personale sanitario all’interno della UE. non è detto però che si proceda anche verso un’uniformità di prestazioni e trattamenti, di modelli sanitari, di cultura medica. È certamente un grosso problema politico, che dovrà essere necessariamente affrontato nei prossimi anni. La coesistenza di due differenti culture all’interno della società altoatesina pone dei problemi pra­ tici, che riguardano anche il campo sanitario. Ad esempio, vi è la questione della traduzione degli atti e dei referti medici. Al momento non è obbligatorio redigere le refertazio­ ni nella lingua del paziente, ma la traduzione deve essere fornita su richiesta: è un diritto del paziente

essere messo a conoscenza del proprio stato di salute nella lingua meglio compresa. Un altro problema è legato alle istruzioni per l’uso farmaci, che dovrebbero essere tradotte in più lingue per essere comprese dai vari pazienti. La comprensione delle comu­ nicazioni verbali è un’ulteriore problema, non solo nei rapporti con i pazienti ma anche nei confronti del personale sanitario proveniente dall'estero. Ad esempio, nel reparto che dirigo operano 28 infermiere: 12 sudtirolesi di lingua tedesca, 10 sudtirolesi di lingua italiana, 2 pe­ ruviane, 1 panamense, 2 polacche, 1 ungherese. I nostri pazienti sono abituati a essere approcciati da operatori sa­ nitari appartenenti all’altro gruppo linguistico, ma il rapporto non è sempre privo di difficoltà. All’interno dell’Azienda gli atti amministrativi sono bilingui per favorire la comprensione della re­ golamentazione dell’attività medica a tutti i livelli. nell’ospedale è stato attivato da circa un anno un servizio di intermediazione culturale. Recen­ temente è stato inoltre istituito un servizio volontario di assistenza agli immigrati clandestini, finanzia­ to dall’Assessorato alla Sanità. Un’ultima considerazione va fatta rispetto all’influenza dei cambiamenti sociali e culturali sulle scelte sanitarie. Ritengo che sia cambiato il rap­ porto medico-paziente, che non è più un rapporto fiduciario di tipo

paternalistico. È cambiata la mo­ dalità di comunicazione, è aumen­ tato l’aspetto relazionale. I nostri pazienti sono ora molto più attenti nei confronti del proprio stato di salute e delle prestazioni sanitarie che ricevono. La possibilità di infor­ marsi attraverso l’accesso a Inter­ net o ad altri supporti informativi porta talvolta alla richiesta di una comunicazione medico-paziente più tecnica di quella praticata tradizio­ nalmente. È problematico anche il rap ­ porto tra la struttura che eroga i servizi sanitari e l'utente che li fruisce: molto spesso il paziente ha la sensazione di affidarsi non a un medico, ma a una struttura. La salute diviene così un problema di organizzazione sociale e aziendale in cui il cittadino vuole essere coinvolto. Assumono una notevole impor­ tanza anche alcune figure di tipo amministrativo, come l’economato, l’Ufficio relazioni con il pubblico, i direttori generali e l’assessorato alla Salute. Ritengo che vi sia la necessità di un codice deontologico anche per queste figure professio­ nali. Attualmente, soltanto in Gran Bretagna i direttori generali delle Aziende Sanitarie hanno un codice deontologico, che è stato imposto dal governo.

riflessione

La medicina tradizionale tec­ nologica non risponde a tutti i bisogni per cui si ricercano per­ corsi alternativi, quindi esiste una discrepanza tra le pratiche della

razionalità medica e i percorsi terapeutici dei pazienti; le deci­ sioni sulla salute stanno passando dalle mani dei medici a quelle dei pazienti. Non tutto ciò che è alternativo è da considerarsi positivo, non sempre è da incoraggiarsi il “fai da te” e è necessaria una costante vigilanza degli Ordini professiona­ li su ciarlatani e pratiche mediche prive di qualsiasi fondamento scientifico. Questo non vuol dire occuparsi solo del farmaco e della medici­ na ufficiale. Personalmente, mi sono posto come obiettivo pro­ fessionale l’educazione sanitaria, occupandomi dell’informazione sull’uso corretto dei farmaci, pro­ muovendo corsi di erboristeria e di nozioni basilari di omeopatia (in collaborazione con altri farma­ cisti, sia pubblici che privati) per fornire le conoscenze scientifiche sull’uso delle piante medicinali e favorire un approccio all’omeopa­ tia semplice, ma scientificamente rigoroso, occupandomi dell’edu­ cazione alimentare (del lattante, del bambino, della gestante, dell’obeso, dell’anziano, del diabe­ tico, dell’iperteso, dello sportivo) come fattore di prevenzione e ricerca di nuovi stili di vita. Un altro impegno professionale che mi sono posto è stato quello della scelta dei prodotti da ven­ dere in farmacia. Ritengo infatti che sarebbero devastanti le con­ seguenze sulla professione far­ maceutica se si allentassero quei vincoli di rigore e correttezza che giustificano il ruolo di garanzia e 35

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Salute e culture: la società

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di tutela del nostro servizio: non possiamo comportarci come dei qualsiasi negozianti. Dobbiamo selezionare accuratamente i pro­ dotti venduti in farmacia, dove non dovrebbero trovare ospitalità “rimedi“ o integratori che nulla hanno a che vedere con la dignità di un esercizio professionale posto a tutela della salute collettiva. Consapevoli che il loro uso può causare gravi effetti indesiderati, che possono essere prodotti anche da un’interazione con i farmaci convenzionali o etici (come de­ nunciato dall’OMS e dall’ISS, e in conformità con il Decreto Legisla­ tivo 169/04, entrato in vigore il 30 luglio 2004, che recepisce nel nostro ordinamento la direttiva europea 46/2002 sugli integratori alimentari), per evitare questi rischi nella scelta dei prodotti parafarmaceutici, per attivare efficaci metodi di sorveglianza e per rendere disponibili informazio­ ni esaurienti, abbiamo nominato un comitato tecnico di farmacisti che si occupa di tali scelte. In particolare è previsto che eti­ chettatura, presentazione e pub­ blicità non devono attribuire agli integratori proprietà terapeutiche e capacità di prevenzione o cura delle malattie, né devono fare riferimento a simili proprietà. È vietato, inoltre, inserire in etichettatura, presentazione e pubblicità, diciture che affermino o sottintendano che una dieta equilibrata e variata non è gene­ ralmente in grado di apportare le sostanze nutritive in quantità sufficiente. Inoltre, non devono

indurre a credere che i compo­ nenti degli integratori a base di sostanze naturali o di estratti ve­ getali siano necessariamente privi di eventuali effetti collaterali. Tutto questo per far notare che anche un farmacista che si occupa essenzialmente di farmaci della medicina scientifica è attento alla persona e all’etica, e per sfatare quel conformismo mentale che ri­ tiene che solo i cultori di pratiche alternative siano impegnati nella cura e nel conforto dei pazienti. Conosco personalmente molti medici, di base e ospedalieri, che si dedicano con non solo con professionalità, ma anche con umanità e disponibilità alla loro missione. Le medicine alternative meritano comunque rispetto e attenzione: il diritto all’autonomia e alla libertà di cura è infatti un diritto primario di tutti i cittadini, che in ogni caso devono essere informati corret­ tamente e tempestivamente dal medico di medicina alternativa. [Farmacista]

Giulio Donazzan è primario ospedaliero ed ex presidente dell'Ordine dei Medici della Provincia Autonoma di Bolzano

Donne immigrate e maternità Elisabetta Cescatti

Gli aspetti del rapporto della popolazione femminile immigrata con le istituzioni sanitarie.

Generalmente non riscontro diffi­ coltà particolari, né linguistiche né culturali, nel rapporto con le mie pazienti perché in sala parto il rapporto fra donne facilita la com­ prensione e l’incontro sul terreno istintivo della maternità. Le donne straniere si rivolgono al nostro Servizio per partorire o per interrompere la gravidanza. nella maggior parte dei casi sono pluri­ pare, più giovani delle partorienti italiane e partoriscono spontanea­ mente (il taglio cesareo incide sui ricoveri in misura minore che per le italiane). I dati dei raggruppamenti dia­ gnostici dei pazienti dimessi(DRG) per il 2003 riportano che nel nostro reparto il 19% delle italiane è sta­ to ricoverato per taglio cesareo a fronte del 12% delle straniere. La frequenza di questo intervento è comunque in crescita anche per le donne straniere. La fecondità media delle donne straniere è più elevata di quella delle donne italiane: i dati ISTAT iferiscono una media di 1,8 figli

per le straniere e di 1,2 per le ita­ liane. La fertilità è molto diversa a seconda delle nazionalità delle immigrate: quella delle donne marocchine è molto elevata (3-4 figli per donna), mentre le donne ucraine e moldave hanno livelli di fecondità molto bassi, addirittura inferiori a quelli della popolazio­ ne italiana. Quest’ultimo dato è correlato alle modalità della loro presenza in Italia e all’età media piuttosto elevata. Il nostro lavoro riceve un grande arricchimento dalla collaborazione con le mediatrici culturali. Il loro intervento è possibile, quando richiesto dagli operatori sanitari, grazie a una convenzione stipulata tra l’Azienda Sanitaria e le associa­ zioni dei mediatori. Con l’aiuto delle mediatrici ab­ biamo approfondito il vissuto della maternità e il rapporto madre-bam­ bino nelle varie culture dei cittadini immigrati. Grazie a loro abbiamo potuto renderci conto della proble­ maticità del vivere da migrante e delle difficoltà incontrate da queste donne nei Paesi di provenienza. Ad esempio, abbiamo preso coscienza del vissuto di sofferenza che talvolta portano con sé le donne provenienti dai Balcani (ex Jugoslavia), vittime di repressioni razziali e di violenze sessuali durante la guerra. Abbiamo capito perché è diffi­ cile per noi instaurare un rapporto di fiducia con le donne albanesi e macedoni, abituate all’inaffidabilità delle strutture pubbliche da loro frequentate nei Paesi di prove ­ nienza. Ci sono stati riferiti dei 37

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Salute e culture: la società

casi di donne che avevano dovuto pagare l’ostetrica per poter avere un’assistenza al parto adeguata. Sono esperienze che segnano pro­ fondamente le donne che le hanno vissute, obbligando noi operatori sanitari a costruire con esse rap­ porti diversi.

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nel corso di un incontro a tre con una mediatrice e una paziente, in occasione di una richiesta di inter­ ruzione volontaria di gravidanza, ho potuto apprendere le difficoltà economiche che incontrano queste donne, che devono corrispondere un “pizzo” elevatissimo alle organizza­ zioni clandestine tramite le quali sono arrivate in Italia. Si tratta di cifre che riusciranno a mettere da parte solo dopo anni di lavoro in Italia, addattandosi a qualsiasi condizione. Capire questa proble­ matica mi ha dato la possibilità di comprendere le donne nigeriane, al­ banesi, tunisine che si prostituisco­ no e hanno un progetto migratorio ben diverso da quelle che arrivano in Italia per un ricongiungimento familiare, come le marocchine. Per non parlare delle donne ucraine o moldave, che, per attuare il loro progetto migratorio, si al­ lontanano dai loro figli per lunghi periodi, pagando un costo sul piano affettivo. Anche loro si trovano a ri­ chiedere spesso l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) ai nostri servizi: c’è quasi un andamento ciclico, legato ai periodi di perma­ nenza in Italia dei mariti. Abbiamo una forte richiesta di IVG da parte di donne dell’Est Eu­

ropa (dove l’IVG era diffusa come mezzo di controllo delle nascite) e del Centro-Sud America. nel 2003 l’IVG ha rappresentato il 32% dei ricoveri in Ginecologia delle donne straniere, rispetto al 17% delle italiane. Questo ci porta grossi problemi organizzativi per­ ché la programmazione delle sale operatorie riserva un limitatissimo numero di posti per l’IVG (4 alla settimana nel nostro reparto, 4 alla settimana nell’Ospedale di Rovere­ to); a questo si aggiunge il fatto che c’è un alto numero di operatori sanitari che esercitano l’obiezione di coscienza. Le donne straniere si rivolgono più tardivamente delle italiane al nostro servizio per l’IVG, con il risultato che abortiscono più tardivamente (il 25% delle donne straniere abortisce oltre la decima settimana, rispetto al 14% delle donne italiane). Questo fenomeno ha una grande ripercussione sul no­ stro operare perché, prima di tutto, siamo oberati da richieste di IVG urgenti per lo scadere dei termini di legge (90 giorni) e, in secondo luo­ go, gli interventi effettuati dopo la decima settimana sono più rischiosi per la salute della donna. Il fenomeno della ripetitività delle interruzioni di gravidan ­ za è molto frequente. Le donne provenienti da Paesi a economia avanzata hanno dichiarato di aver già abortito in passato, ma con la stessa percentuale delle donne italiane; le donne provenienti da Paesi più poveri abortiscono più frequentemente. Sta cambiando il modo di migra­

re ed è importante monitorare que­ sto fenomeno: mentre fino al 2002, in Trentino, erano le marocchine a costituire la percentuale maggiore delle straniere che utilizzavano i nostri servizi, oggi sono le albanesi, le rumene e le ucraine le donne che incontriamo più frequentemente nei nostri reparti. Generalmente le marocchine sono entrate in Italia per un ri­ congiungimento familiare, hanno una situazione familiare stabile e conducono la loro vita soprattut­ to nell’ambito familiare. Invece le donne rumene e ucraine hanno un’età più avanzata, sono venute in Italia da sole e quindi hanno bi­ sogni e aspettative molto diverse; è probabile che in futuro dovremo affrontare grossi problemi di salute in questa fascia di popolazione. Troviamo tuttora strati di po­ polazione che non sono mai stati sottoposti a uno screening, donne che non conoscono la sanità pub­ blica e i suoi benefici. Stiamo assistendo a un aumento di ricoveri per patologie gineco­ logiche (tumori, fibromi, malattie infiammatorie pelviche in donne portatrici da 15 anni di spirali, mentre una spirale da noi si cambia ogni 5 anni). Osserviamo anche un incremento dei ricoveri urgenti per metrorragie in donne portatrici di fibromi, affette da anemie gravis­ sime, mai diagnosticate. Spesso queste donne non possono inter­ rompere il loro impegno lavorativo, per lo più legato all’assistenza ad anziani. nel campo dell’ostetricia riscontriamo problematiche che

qui in Italia non osservavamo più da tempo, ad esempio l’isoimuniz­ zazione RH. Ritengo che sia auspicabile l'estensione delle campagne di screening al tutte le immigrate e non solo alle donne che risiedo ­ no in Trentino da più di tre anni, onde prevenire un peggioramento generale della salute della popo­ lazione. Considero importante anche l’aggiornamento degli operatori sa­ nitari, a fronte di un panorama sani­ tario che cambia di giorno in giorno e nel quale le donne immigrate rappresentano ormai il 15% delle nostre pazienti. Di ciò dovrebbero darsi sollecita cura le istituzioni, in particolare l’Azienda Sanitaria, perché come operatori sanitari incontriamo queste problematiche quotidianamente e dobbiamo essere posti nelle condizioni di saperle affrontare nel modo più efficace.

Elisabetta Cescatti è ginecologa presso l'Ospedale Santa Chiara di Trento 39

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storie di immigrati e del loro accesso ai servizi sanitari Giampaolo Rama

Alcune esperienze di contatto con persone appartenenti a diverse culture presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Provinciale.

Esporrò alcune riflessioni sulle esperienze di contatto con immi­ grati appartenenti a diverse culture incontrati durante gli anni di lavoro presso il Pronto Soccorso dell’Ospe­ dale Provinciale, e sui riflessi che le diverse concezioni di salute e di malattia hanno avuto nel rapporto assistenziale. Da parte del personale del Pronto Soccorso è stato compiuto un sincero ancorché sporadico sfor­ zo di capire, nell’ambito di alcuni gruppi di immigrati, le peculiarità culturali che hanno un riflesso su salute e malattia e sulle modalità assistenziali. Ci siamo dotati di alcuni strumenti organizzativi di comunicazione – come i moduli di istruzione tradotti in varie lingue – ed è nata una prima sperimenta­ zione su un modello di intervento con l’utilizzo di mediatori culturali nei servizi. Ma la vita quotidiana del Pronto Soccorso è caratterizzata dalla fre­ nesia e incalzata dall’urgenza, non dall’ascolto attento delle peculiarità della persona-utente che vi si ri­ 40 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

volge. Gli operatori che vi lavorano risultano di fatto più attenti alla situazione patologica contingente o all’organo da trattare, piuttosto che all’individuo inteso globalmente come corpo, psiche, spiritualità, cultura e aspettative. Per queste ragioni dobbiamo considerare l’attenzione agli aspet­ ti più propriamente culturali dei pazienti non come un’esperienza attuale e consolidata, ma piutto­ sto come un’importante ambito di ricerca nel quadro di un necessario approfondimento futuro della capa­ cità di risposta propria del Pronto

Soccorso.

Mi limiterò a riferire sintetica­

mente la mia esperienza di medico.

Ho assistito alcuni immigrati che,

per varie ragioni, mi hanno colpito

e mi offrono ora lo spunto per fare

alcune riflessioni in ordine non agli

aspetti dell’incontro tra culture,

ma piuttosto all’organizzazione dei servizi sanitari. Halina Ha 36 anni, è moldava e assiste una persona anziana di Trento nella cui casa risiede e abita, senza permesso di soggiorno. In patria ha il marito e due figli minorenni. Giunge al Pronto Soccorso una domenica mattina manifestando agi­ tazione, crisi di pianto, irrequietezza. Dopo un certo periodo di attesa (co­ dice bianco), viene accolta nell’am­ bulatorio medico, dove si rifiuta di riferire l’indirizzo del domicilio. Dopo vari minuti di dialogo, limitato dalle difficoltà linguistiche e anche da un certo timore che la signora manifesta nel confidarsi, si riesce a capire la

ragione della sua preoccupazione: nel lavarsi ha notato da vari giorni un nodulo alla mammella sinistra. La madre è deceduta per neoplasia mammaria. È terrorizzata. Si cerca di tranquillizzarla, spiegando che solo raramente la sua patologia è maligna, ma sembra inutile. Dice di essere libera solo la do­ menica mattina per fare controlli medici. Si cerca di indirizzarla al cor­ retto utilizzo dei servizi sanitari (è improprio recarsi al Pronto Soccorso per un problema di quel tipo!), ma con una certa difficoltà. non ha un medico di famiglia e conosce poco la città e i servizi a disposizione. Le prescrivo ansiolitici e, alterando le procedure del Pronto Soccorso, le do un nuovo appuntamento per un giorno non festivo nel quale il centro senologico è aperto. La signora torna al Pronto Soc­ corso, meno ansiosa, riesco a pre­ notarle un controllo senologico con difficoltà, dato che non è in posses­ so della tessera sanitaria. Commento La condizione di immigrata che non conosce l’organizzazione sanitaria del Paese, che deve lavorare in nero, che può usufruire solo di brevi pe­ riodi di pausa dal lavoro irregolare, con la paura del rimpatrio forzato e della perdita del lavoro, oltre alla preoccupazione per la sua condizio­ ne fisica e per il fallimento del suo progetto migratorio, devono averle creato una situazione di grave ansia che il Pronto Soccorso non è in grado di valutare approfonditamente né di risolvere. Quale medico potrà essere in grado di “tenere le fila”

della sua situazione e consigliare adeguatamente la signora? Come garantirle le prestazioni essenziali cui avrebbe diritto? Yeng Ha 23 anni, è cinese, fa l’operaio in una cava di porfido e risiede ad Albiano, con regolare permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Arriva al Pronto Soccorso accom­ pagnato in auto da un connazionale, è molto sofferente a una spalla, al torace sinistro, al bacino, al collo. non è in grado di deambulare. I parametri vitali sono buoni, eccetto una lieve tachipnea. Gli viene attri­ buito il codice verde. È timoroso e impaurito da ogni cosa gli possa venir detta. È in Italia da venti giorni e non vi è nessuna possibilità di comunicare con lui perché non comprende l’italiano, né io, ovviamente, parlo il cinese. non solo è difficile effettuare la visita, ma anche fargli capire man mano a quali accertamenti viene sottoposto. Grazie all’aiuto dell’ac­ compagnatore si riesce a ricostruire la storia del trauma: a causa di un’incomprensione col padrone della cava è stato dallo stesso sollevato con la pala dello scavatore a un’al­ tezza di vari metri e lasciato cadere a terra. Poiché è un ragazzo robusto i danni sembrano limitati, la diagnosi è di frattura costale. È necessario trasferirlo al centro traumatologico per approfondimenti specialistici. Commento Mi sono trovato nella difficoltà di capire la dinamica dell’incidente e 41

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Salute e culture: la società

nell’imbarazzo di non poter spiegare al paziente, evidentemente scosso e impaurito dall’accaduto, i procedi­ menti e le manovre sanitarie a cui veniva sottoposto.

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Dondo Ha 27 anni, è congolese, disoccupa­ to e domiciliato presso la residenza del fratello in un comune del Tren­ tino, dal quale per ordine dei Cara­ binieri non deve allontanarsi (ha l’obbligo di firmare quotidianamente al Comando). È senza permesso di soggiorno. Arriva al Pronto Soccorso ac­ compagnato dal fratello, avendo ottenuto dai Carabinieri un per­ messo apposito per recarsi all’Ospe­ dale, ma dovendo ripresentarsi al Comando in giornata. Accusa da alcuni giorni dolori addominali, epi-mesogastrico, artralgie diffuse. Presenta epatomegalia modicamen­ te dolente. Effettua alcuni esami di laboratorio che risultano normali. La situazione clinica non è tale da giustificare un ricovero, ma merita un approfondimento diagnostico. non ha copertura assistenziale sa­ nitaria, né medico di riferimento. Prescrivo una serie di esami di labo­ ratorio e un’ecografia addominale, ma non so se e quando li effettuerà e se avrà modo di farli ricontrolla­ re da un medico. Mi spiega che è complicato ottenere il permesso e avere qualcuno che lo accompagni. Capisco che sta chiedendo aiuto ma mi trovo nell’impossibilità di pre­ starglielo. non so come uscirne. Gli comunico il mio numero di telefono offrendogli di rivederlo in Pronto Soccorso (altra cosa anomala dal

punto di vista dell’Organizzazione del Servizio). Dopo circa un mese mi telefona, ci accordiamo per vederci al Pronto Soccorso durante un mio turno. Gli esami risultano normali, eccetto per una conferma dell’epatomegalia di causa non determinata (comun­ que non sembra preoccupante). I disturbi sono migliorati ma non regrediti. Gli presento in fretta i risultati degli esami perché sta perdendo l’autobus. Consiglio una terapia antiacida dello stomaco e di rivolgersi a un medico più vicino alla sua residenza. non ne ho più saputo nulla. Commento È ipotizzabile, anche se non ne ho la certezza, che il signor Dondo fosse affetto da un disturbo psicosoma­ tico o da una patologia transitoria non virale. Di certo il percorso da lui seguito è stato inadeguato oltre che inefficace. D’altronde non esisteva nella nostra organizzazione sanita­ ria un percorso corretto e utile, in particolare per l’individuazione di chi avrebbe potuto farsi carico del suo problema sanitario sia in primis, che dopo le dimissioni dal Pronto Soccorso e di come Dondo avrebbe potuto effettuare accertamenti sanitari utilizzando una copertura assistenziale e non ricorrendo a espedienti o alla elemosina di qual­ cuno per pagare le prestazioni. Manuel Ha 35 anni e proviene da un Paese dell’Europa dell’Est. Giunge al pronto soccorso af­ fetto da polmonite bilaterale con

setticemia, grave stato generale con compromissione della coscienza: si è proceduto all’immediato ricovero in rianimazione. Il caso è interessante perché il soggetto, domiciliato in Val di Cembra, senza permesso di soggiorno, si è presentato nei pressi dell’ambulatorio di un medico di medicina generale, dove il medico, constatata la gravità, l’ha raccolto, caricato in ambulanza e accompa­ gnato d’urgenza in Pronto Soccorso. Oltre al medico non c’era alcun altra persona di riferimento. Commento È eccezionale osservare un quadro di polmonite così grave complicato da uno stato setticemico secondario. Probabilmente ormai ciò può acca­ dere solo in categorie svantaggiate di popolazione. Mi è capitato però più volte di visitare in Pronto Soccorso pazienti immigrati o indigenti affetti da patologie che si consideravano su­ perate in Occidente. Questi scenari di vita ci inter­ rogano dal punto di vista umano e culturale, e, in particolare, dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi. Se l’immigrazione, come è evidente, è un fenomeno irrever­ sibile e destinato ad aumentare, è necessario capire come adeguare i nostri servizi a una realtà che sem­ bra sfuggire al nostro controllo. Lo scorso anno, in una ricerca, mi ero chiesto, e avevo chiesto al personale del Pronto Soccorso, di individuare quali fossero i problemi principali che si presentavano loro nel dover assistere pazienti immi­

grati, e ad alcuni immigrati come vivessero l’esperienza di ricorso al Pronto Soccorso. Presento qui di seguito i risultati. Quali sono i problemi più comuni avvertiti dal personale sanitario del Pronto Soccorso nell’assistere gli immigrati? 1. Difficoltà di comunicazione per la mancanza di conoscenza della lingua; 2. Difficoltà, da parte del perso­ nale, a capire e comprendere le manifestazioni di malattia o la dinamica del trauma; 3. Timore diffuso dei pazienti immigrati di venire sottosti­ mati o abbandonati. Spesso gli immigrati somatizzano o espri­ mono diversamente i sintomi, a volte li esprimono in modo più eclatante, a volte sembrano nasconderli; 4. Difficoltà di identificazione del problema o della malattia per la quale si è ricorsi al Pronto Soccorso. Spesso gli immigra­ ti presentano una situazione complessa che sfugge ai nostri parametri culturali, perché non riusciamo a capire esattamente il nucleo del problema; 5. Pretese di tempestività e gra­ tuità degli interventi; 6. Mancanza di un medico di base come punto di riferimento sa­ nitario, per cui non si sa dove appoggiarli e inviarli alla dimis­ sione per proseguire le cure o effettuare i controlli; 7. Manifestazioni di esasperazione dei problemi e necessità di ras­ sicurazioni; 43

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Salute e culture: la società

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8. Pregiudizi sulla qualità e tem­ pestività del trattamento che ricevono; 9. Manifestazione di richieste improprie, come, ad esempio, dolori, raffreddori, influenza, sospetto di gravidanza; 10. Difficoltà di comunicazione per appartenenza a culture diverse; 11. Difficoltà di soddisfare la richie­ sta di ginecologhe donne; 12. necessità di ricorrere al marito delle pazienti per comunicare con le donne, per cui si assiste all’au­ mento di accessi al sabato; 13. Ignoranza del contesto sani­ tario, familiare e sociale del paziente.

vi caso

Vedo S. per la prima volta in Medi­ cina. È solo un ragazzo, potrebbe essere mio figlio. È ricoverato da tre giorni per “tu­ mefazione calda, molto dolente delle dimensioni di un melone rispettivamente, del ginocchio e del gomito destri”. Quando arri­ vo, tento un approccio con il mio povero inglese, ma la collega di turno mi dice: “Non ti sforzare! Non capisce altro che il cinese!” Per arrivare alla diagnosi di emar­ tro in emofilia A grave (evento assolutamente comune per questi pazienti) sono serviti tre giorni e una serie di esami, comprese TAC e risonanza magnetica: la comu­ nicazione era infatti impossibile. Sono fortunata, in quel momento è presente la sorellastra, a Trento da diversi anni, che lavora nel settore della ristorazione: capi­

sce l’italiano e un po’ lo parla. S. vive con lei e il marito, ha un permesso di soggiorno regolare e lavora come aiutante in cucina. Vive con loro. La sorella dice che la diagnosi era già stata fatta in Cina (provengono da una remota provincia) e afferma che non è mai stata eseguita terapia sosti­ tutiva, ma che S. ha ricevuto, solo ogni tanto, un’imprecisata terapia per bocca. Il ragazzo pare un po’ diffidente. Cerchiamo di spiegare, anche mediante la mediatrice culturale, raggiungibile solo telefonicamen­ te, cosa facciamo, chi siamo, come deve comportarsi in caso di altri emartri, ecc. Inoltre viene loro detto di andare al Distretto per la tessera sanitaria. Dopo appena una settimana, S. è in Pronto Soccorso, questa volta accompagnato dal cognato, per un altro emartro: il messaggio di accedere direttamente al Centro Emofilia è caduto nel vuoto. Per mezzo di un vocabolarietto, cerchiamo di capirlo e di capirci, specie per l’appuntamento succes­ sivo. Anche questa volta è colpito il gomito, per cui raccomando di tenere l’articolazione a riposo. Abbiamo avuto alcune altre oc­ casioni di incontrare S. nei mesi successivi, tanto che vorrei met­ terlo in regime terapeutico profi­ lattico: la gravità dell’emofilia e la frequenza clinica degli episodi giustificherebbero completamente questa scelta. Non riesco però a spiegarmi: lui non arriva più accompagnato, non ha imparato nulla di italiano e ci registra con il

telefonino, probabilmente per far ascoltare alla sorella le indicazioni che cerchiamo di trasmettergli con l’ausilio delle poche pagine di vocabolario cinese/italiano di cui disponiamo. Comincio a do­ mandarmi anche come giustificare l’uso dei farmaci che sono molto costosi. Lui, pur essendo regolare, non è andato a registrarsi al Di­ stretto. Alla fine decido, dopo aver inter­ pellato il funzionario dell’APSS, di attivare un STP in Pronto Soccor­ so, ma il responsabile del Servizio Spedalità mi dice che non va bene e “alla prossima occasione, di ca­ ricarlo in macchina e di portarlo al Distretto” (sic!). Gli faccio notare che la terapia che utilizziamo è di tipologia salvavita. Intanto S. non si fa più vedere; ricompare solo dopo qualche mese con il peggior emartro del gomito che abbia mai visto. Ha l’aspetto un po’ trasandato e sembra an­ che un po’ spaventato. Capiamo che non vive più con la sorella; ha cambiato città (e lavoro?). Da quella volta non abbiamo più avuto occasione di incontrarlo. Riflessioni: - S. potrebbe essere mio figlio e mi domando ora dove sia e se abbia trovato il modo di curarsi in un’altra città (gli avevo dato solo gli indirizzi di tutti i Centri Emofilia in Italia). - Ho avuto il timore che sollecitare la regolarizzazione della sua posi­ zione per l’Azienda Sanitaria possa aver contribuito ad allontanarlo, anche se penso che aver perso il lavoro sia dipeso soprattutto dalla

patologia, che non gli permetteva di sollevare oggetti pesanti. - Il problema della comunicazio­ ne è fondamentale: solo in età adulta ho frequentato un corso di inglese, che si rivela comunque assolutamente inadeguato rispet­ to all’eterogeneità delle persone immigrate che abbiamo occasione di incontrare oggi. - Anche la mediazione culturale era assolutamente insufficiente, di difficile accesso e solo telefonico, e mi è rimasto anche il dubbio che la traduzione non fosse esat­ tamente puntuale. - Sapevo che per la legge italiana è possibile prestare assistenza agli stranieri in tutti i casi, specie per interventi urgenti, ma non ho mai ricevuto offerta o notizia di occa­ sioni formazione per saperne di più: trovo che siano indispensabili vista la realtà multietnica in cui ci troviamo a operare. - Penso che la posizione di chiu­ sura del funzionario addetto al problema si commenti da sola e, fra le altre cose, sottolinei come ci si trovi sempre soli nelle scelte per dare risposte etiche e deonto­ logicamente corrette. - Devo però anche rilevare come, a differenza di approcci con persone di altra origine, in questo caso ab­ bia vissuto talvolta un sentimento di “disagio” per la sensazione di diffidenza e l’atteggiamento di chiusura colto nella relazione con il paziente e i suoi accompagna­ tori, (forse per l’origine cinese?); o erano in gioco miei pregiudizi? [Medico] 45

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Come gli immigrati vivono il Pronto Soccorso? (Questa domanda è stata rivolta direttamente a pazienti im­ migrati)

1. Soprat tut to nei maschi la malattia è vissuta con paura e come segno di debolezza e fallimento; 2. La situazione di lontananza da famiglia e Paese d’origine aumenta l’insicurezza; 3. La non comprensione di una spiegazione (soprattutto per il sistema dei codici) aumenta l’incertezza e la frustrazione per l’attesa, che a volte viene vissuta come abbandono; 4. La relazione umana, fondamen­ tale per aver fiducia, è talora insufficiente; 5. La lingua è un ostacolo; 6. Il Pronto Soccorso è vissuto come la porta d’ingresso del­ l’ospedale; 7. Quando dal Pronto Soccorso si viene mandati in altri reparti per accertamenti c’è un vissuto di abbandono; 8. Al Pronto Soccorso gli immi­ grati sentono il bisogno di un rapporto più tranquillo e meno frettoloso; 9. Poca informazione sui servizi sanitari (su cosa si può chiedere e su cosa offrono); 10. Richiesta di avere un’interme­ diazione culturale. Credo che l’affrontare e l’appro­ fondire i punti critici emersi, ci potrà aiutare a creare le condizioni per superarli. Concludo con tre considerazioni che sottolineano quelli che, a mio

avviso, sono tre punti chiave per

avviare una più efficace organizza­

zione dei servizi sanitari:

1. Attenzione all’individuo. Il nostro impegno deontologico e professionale ci obbliga a farci carico del singolo individuo, ca­ ratterizzato dalle sue specificità organiche, psichiche, culturali, spi­ rituali e dalle sue aspettative, non solo al fine di rispettarne le scelte ma anche per procedere e proporre interventi che abbiano possibilità di essere efficaci. Per comprendere il nostro assi­ stito dobbiamo riuscire a superare le barriere linguistiche e a poter tenere in conto il background cul­ turale, al fine di individualizzare l’intervento. Questo deve essere fatto pur in un sistema che cerca, invece, sempre più di “procedura­ lizzare” tutti i nostri interventi professionali 2. Contesto socio-culturale e acces­ sibilità. Le problematiche sanitarie, come abbiamo visto negli esempi dati, si intrecciano strettamente con la cultura dell’individuo e con proble­ matiche sociali. ne consegue che i nostri in­ terventi devono essere coordinati in una rete di servizi educativi, preventivi, sociali, sanitari, che comprendano i vari aspetti deter­ minanti sulla salute. Inoltre per attuare un interven­ to efficace è necessario mettere l’immigrato nelle condizioni di conoscere l’esistenza dei servizi, di sapere con precisione quali risposte

essi sono in grado di dare e quindi di potervi accedere correttamente e consapevolmente. 3. L’organizzazione dei servizi. Essa può favorire o impedire l’ac­ cesso ai servizi e il loro corretto utilizzo da parte degli immigrati, ad esempio attraverso l’offerta di opportunità che rispettino caratte­ ristiche individuali specifiche (orari di apertura, disponibilità di moduli in varie lingue, mediazione cultu­ rale, rispetto, quando possibile, di esigenze specifiche dovute alla religione e alla cultura, ecc.). Si devono inoltre considerare i non secondari aspetti amministrati­ vi come: modalità del tesseramento sanitario, validità della tessera sa­ nitaria, assistenza degli immigrati irregolari, possibilità di beneficiare dei LEA (livelli essenziali di assi­ stenza).

Giampaolo Rama è medico presso il Grup­ po Immigrazione e Salute di Trento 47 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

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salute e culture: la donna Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 16 settembre 2005

La posizione della donna nell’in­ contro fra concezioni diverse di medicina e salute è spesso para­ digmatica di aspetti relativi più in generale alla posizione della donna nei diversi contesti sociali. Questi aspetti culturali si tra­ ducono spesso in difficoltà nei momenti in cui la donna è chiamata a compiere scelte fondamentali relative alla propria salute: dal mo­ mento iniziale della visita medica, agli ambiti complessi e delicati del­

la sessualità e della maternità, sino alle problematiche più drammatiche riguardanti le mutilazioni genitali femminili. Partendo da una ricostruzione più ampia del ruolo della donna nella società e in rappor to al concetto di salute, l’incontro si propone l’analisi di una serie di problematiche che coinvolgono ormai quotidianamente molti ope ­ ratori sanitari. (G.S.)

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le mutilazioni genitali femminili Patrizia Borsellino

In che misura possono essere giustificate e accolte le richieste e le scelte degli im­ migrati che confliggono con la cultura di accoglienza?

Intendo proporre alcune riflessioni sulla questione delle sfide che il c.d. multiculturalismo pone alla medicina. La presenza sul nostro territorio nazionale di soggetti che appar­ tengono a comunità le cui culture e tradizioni non sono solo diverse, ma in taluni casi in palese contrasto con valori per noi irrinunciabili, sol­ leva la questione dell’adeguatezza e dell’applicabilità di un modello di relazione terapeutica che è incentra­ to su nozioni di salute e di malattia e su principi come quelli di libertà e uguaglianza, che spesso sono estranei ai soggetti appartenenti a queste culture. Per altro verso, tale connotazio­ ne culturale costringe a interrogarsi sulla solidità delle proprie posizioni etiche. Ciò dovrebbe essere fatto soprattutto da coloro che guardano al principio di autonomia come a un irrinunciabile criterio di riferimento per giustificare scelte, decisioni e linee d’azione in campo bioetico. Credere nel principio di autono­ mia significa infatti considerare il 50 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

rispetto del diritto dell’individuo di vivere secondo i propri principi morali (con l’unico limite del danno che ne possa derivare ad altri) come una condizione necessaria per la coesistenza, all’interno di società pluraliste dal punto di vista etico, di soggetti portatori di valori diver­ genti tra loro.

Il modello di relazione medico­

paziente e di assistenza sanitaria,

nel quale il principio di autonomia assume il ruolo di criterio decisivo per la giustificazione delle prassi sanitarie, porta a rispettare il più possibile le scelte relative alle cure convenute dai soggetti interessati, anche se si tratta di scelte talora divergenti rispetto a quelle appro­ vate dalla maggioranza dei soggetti appartenenti alla stessa comunità nazionale o rispetto a quelle degli stessi operatori sanitari. I movimenti migratori, che negli ultimi tempi hanno accentuato il carattere multietnico delle società, hanno posto le premesse per una diversificazione ulteriore dei sistemi etici e culturali, in nome dei quali i destinatari dell’assistenza sanitaria possono rivendicare il loro diritto a compiere scelte e ad avanzare richieste.

i caso

La mia esperienza si riferisce al periodo di tirocinio ospedaliero nel reparto di chirurgia generale. L’ho vissuta in prima persona in quanto, da tirocinante, seguivo un chirurgo che svolgeva le fun­ zioni di tutor. Una mattina viene mandata in reparto dal Pronto

Soccorso una signora che accusa­ va dolore addominale. La signora, di nazionalità pachistana, non sapeva parlare la lingua italiana ed era accompagnata dal marito. In ambulatorio il chirurgo si stava apprestando a visitarla, ma il marito si oppose, dicendo che la moglie non poteva essere visitata da un uomo. Il chirurgo disse che in reparto non era presente alcuna dottores­ sa per cui poteva visitarla solo lui. Il marito della donna rifiutò cate­ goricamente la visita alla moglie. Il chirurgo a quel punto decise di rimandare la paziente al Pronto Soccorso senza averla visitata. La signora era sdraiata sul lettino sofferente, impotente. Avrebbe accettato lei di essere visitata da un uomo in quel momento? Ma lei non poteva decidere perché la cultura del suo Paese d’origine lo impedisce. Cultura talmente forte da impedire di alleviare la sofferenza. E il medico cosa doveva fare? Ri­ spettare questa cultura o imporsi e visitare la paziente, magari dopo aver allontanato il marito? Incontrando culture così diverse non basta più la preparazione professionale e anche l’etica e la deontologia non riescono a trovare dei compromessi tali da portare a una soluzione diagno­ stico terapeutica [Medico] ii caso

Un pomeriggio, durante il mio turno, giunge dal Pronto Soc ­ corso una coppia che richiede

un ginecologo femmina perché la paziente già proviene da un ospedale dove ha rifiutato le prestazioni assistenziali richieste in quanto il ginecologo di turno era maschio. Fortunatamente nel nostro turno sono presenti ginecologi di entrambi i sessi, e la paziente in questione viene visitata e le vengono prestate le cure necessarie. La signora, extra-comunitaria come il marito, non necessitava di cure particolarmente urgenti o di alta gravità assistenziale, ma alla luce di quello che si è detto durante il corso di aggiornamento e relativamente a questo caso, mi si sono poste delle domande: Si può garantire sempre la presen­ za di una ginecologa femmina, visto che questa esigenza viene espressa anche da altre pazienti extra-comunitarie? La scelta fatta è specifica della donna o è una esigenza imposta dal marito per diffidenza, religione o gelosia? Fino a che punto è quindi accet­ tabile venire incontro a una simile esigenza, posta da una minoranza culturale? Se la paziente assistita fosse stata in pericolo di vita sarebbe stato lecito dal punto di vista etico, morale e profes­ sionale permetterle di vagare di ospedale in ospedale alla ricerca a ogni costo di una ginecologa per una convinzione, una credenza culturale o altro, mettendo a repentaglio la sua stessa vita? Io proporrei che, quando ciò sia possibile, la visita venga effettua­ ta da una ginecologa, nel rispetto del desiderio della coppia; ma che 51

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tale richiesta venga elusa nel caso in cui si rendano necessarie pre­ stazioni urgenti o di emergenza. [Infermiere]

Salute e culture: la donna

iii caso

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Tempo fa è stata ricoverata nel reparto in cui lavoro una ragazza straniera di 25 anni. Nel corso del­ la degenza la paziente ha avuto sempre accanto i suoi tre figli. Du­ rante il giorno il marito lavorava e i bambini rimanevano in ospedale con la madre, anche quando stava poco bene. Tutto ciò con disagio da parte della paziente (anche se, a dir la verità, non lo esprimeva molto), degli altri pazienti e del personale del reparto. Anche alla sera, quando il marito o il fratello giungevano in reparto, i bambini erano comunque sempre accuditi dalla madre, e non è stato sem­ plice spiegare alla paziente e alla parentela che alla sera i bambini se ne dovevano tornare a casa perché non potevano rimanere a dormire con la madre. Il suo quadro clinico prevedeva la necessità di un intervento chirurgico in anestesia generale, con la relativa preparazione fisica della paziente: doccia, tricoto­ mia, ecc. La comunicazione fra personale e paziente inoltre era resa difficoltosa a causa del suo italiano stentato. Il giorno dell’in­ tervento il marito era presente e ha cacciato a male parole un mio collega uomo che si accingeva alla preparazione fisica della pazien­ te. Ho dovuto quindi, in quanto donna, sostituire io il mio collega. La preparazione della paziente al­

l’intervento chirurgico non è stata semplice sia per le difficoltà di comprensione della lingua, sia per la continua presenza dei figli. Anche al ritorno dalla sala ope­ ratoria la madre dolorante si trovava a dover accudire i figli, quando non eravamo noi opera­ tori sanitari a occuparci di loro nei ritagli di tempo. Sotto continue pressioni del mari­ to, la moglie ha firmato la cartella clinica per essere dimessa e poter tornare al più presto al suo ruolo di madre e di moglie. Questo fatto mi ha dato molto da pensare. Quella ragazza, pur avendo dei problemi di salute, non aveva la possibilità di ab­ bandonare nemmeno per qualche giorno il suo ruolo di moglie e di madre. Tutto ciò avveniva non solo durante il giorno, mentre il marito era al lavoro, ma anche alla sera quando l’uomo era presente. I figli dovevano sem­ pre essere accuditi dalla madre. Ho provato a discuterne con la paziente e con il compagno, per valutare la possibilità di allon­ tanare i figli dall’ospedale. La risposta che ho ricevuto è stata che loro erano da poco in Italia e l’unico parente accanto a loro era un fratello, e sia quest’ultimo che il marito, in quanto uomini, non si potevano certo occupare dei figli, anche perché durante il giorno lavoravano. Mi ha anche colpito il fatto che quando si rivolgevano delle do­ mande alla moglie era sempre il marito a rispondere per lei, ed è sempre stato l’uomo a insistere

per una dimissione anticipata della donna, chiaro segno di sot­ tomissione. Ora io mi chiedo: Come è possi­ bile che una donna non possa esprimere il suo pensiero in piena libertà? Come è possibile che una donna ammalata non abbia la possibilità di abbandonare il suo ruolo di madre e moglie anche solo per alcuni giorni? Come è possibile che una donna non pos­ sa essere assistita da un operatore dell’altro sesso? Come donna, ho provato compas­ sione e pena per quella ragazza che viveva una situazione del genere e che si trovava in una condizione psicologica e ambien­ tale difficile, senza rete sociale di supporto. Come operatrice ho cercato, per quanto possibile, di aiutarla, standole moralmente vicino, cercando di rispettare le convinzioni e le tradizioni ap­ partenenti alla loro cultura, e di sollevarla dal peso di accudire i figli. [Infermiere]

contrasto con i fondamentali princi­ pi della società liberale, della libertà e della dignità personale? E ancora: distinguere tra pratiche ammissibili e non ammissibili in nome di nostri principi, significa inevitabilmente negare alle mi ­ noranze la loro identità culturale, incorrendo in una sorta di imperia­ lismo etico? Per poter dare risposta a queste domande, un osservatorio privile­ giato è rappresentato dai problemi relativi alle donne in ambito assi­ stenziale. Questo non solo in ragio­ ne della consistenza numerica della presenza femminile e del prevalente ricorso alle strutture sanitarie per questioni attinenti alla riproduzio­ ne, ma anche per il fatto che molte delle donne straniere presenti sul territorio nazionale appartengono a culture nelle quali operano limiti e tabù che amplificano le difficoltà de­ gli operatori sanitari nel raggiunge­ re un adeguato livello di assistenza e nel garantire la loro salute.

iv caso

Ma qui si pone una domanda: in che misura, e fino a che punto, tali scelte e richieste possono apparire giustificate e, quindi, possono ri­ cevere accoglimento in nome del valore dell’autonomia? Si possono considerare accoglibi­ li, in quanto eticamente giustificate, richieste di intervento fatte in nome di un preteso diritto all’incondizio­ nato rispetto della cultura minori­ taria del richiedente, soprattutto quando tali pratiche sono in palese

Il caso clinico di F., magrebina di 35 anni, nel reparto di Gine­ cologia e Ostetricia dove lavoro è ricordato quale modello di storia ostetrica complicata ed esplicati­ vo di tutte le difficoltà che una donna incontra se condizionata dalle tradizioni culturali. F. parla bene l’italiano ed è stata seguita dal mio reparto in occa­ sione delle sue quattro gravidanze nell’arco di circa dieci anni. È sposata con un connazionale, molto più vecchio di lei; racconta 53

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di essersi sposata per procura. La prima gravidanza è complicata da una severa eclampsia con crisi epilettiche e si conclude con un taglio cesareo d’urgenza. Nasce una bambina. La seconda gravidanza evolve in maniera fisiologica e, con taglio cesareo a termine, nasce la secon­ da femmina. A venti settimane dall’inizio della terza gravidanza, il feto appare, ecograficamente, malformato. La coppia decide di interrompere la gestazione con un aborto terapeu­ tico. L’aborto si complica a causa della rottura dell’utero. I medici consigliano un intervento di asportazione uterina, ma la pa­ ziente rifiuta e firma un consenso per un’operazione di riparazione della breccia uterina. Nonostante il rischio e il parere contrario dei curanti, F. affronta una nuova gravidanza, che evol­ ve senza problemi fino alla 35° settimana, termine per il quale è stato programmato il taglio cesareo. Nasce un maschietto. Questo caso mi ha colpito molto, perché le scelte fatte da questa paziente sono state condizionate dal proprio contesto sociale di donna araba, senza tenere conto dei rischi per la salute. Infatti, come confidatoci, il suo matrimonio, nato come un con­ tratto, per essere valido doveva essere suggellato dalla nascita di un erede maschio. Nel suo Paese le donne che non hanno gene­ rato figli maschi possono essere ripudiate, e sempre più spesso suo marito minacciava di farlo,

le metteva fretta, anche perché più vecchio di lei. Il ripudio, già pesante da subire nel suo Paese d’origine, diventava insostenibile per lei lontana dagli affetti della famiglia d’origine, in un Paese vissuto come ostile. Per la nostra cultura occidentale è impensabile affrontare la mater­ nità come un dovere e rischiare la vita per salvare un matrimonio non proprio ideale. Nonostante le conoscenze mediche sconsi­ gliassero un’altra gravidanza, la paziente ha deciso di rischiare e noi le abbiamo fornito tutto l’aiu­ to psicologico e assistenziale utile a evidenziare tempestivamente eventuali problemi. [Infermiere] All’interno di un multiculturalismo dalla connotazione così spiccata­ mente “femminile”, vi è una sorta di surplus di problematicità, dovuto in primo luogo alla circostanza che per molte donne straniere, nei Paesi di provenienza, non è ancora iniziato o è solo agli inizi un processo di emancipazione, e in secondo luogo alla connessa circostanza che nume­ rose credenze, caratteristiche delle culture di appartenenza, sembrano finalizzate a tutto fuorché al benes­ sere delle donne stesse. A questo proposito la pratica delle mutilazioni genitali femminili (MGF) risulta emblematica. Tali pratiche coinvolgono un numero sempre più crescente di adolescenti appartenenti a famiglie immigrate e sono un esempio pa­ radigmatico dal quale si può trarre

spunto per ridisegnare i confini di un modello di assistenza sanitaria incentrato proprio sul principio di autonomia, di cui si è precedente­ mente parlato. È necessario infatti sgombrare una volta per tutte il terreno dagli equivoci circa alcune implicazioni permissivistiche che ta­ luni ritengono collegate all’adozione di quel modello. nel mio intervento cercherò di addurre argomenti etici, giuridici e deontologici, a sostegno della tesi secondo cui tale pratica non è né legittima, né ammissibile; da ciò consegue che affermarne l’inammis­ sibilità non indebolisce per nulla il modello di relazione terapeutica in­ centrato sull’ampio riconoscimento dell’autonomia. Vediamo gli argomenti che pos­ sono essere addotti contro le MGF. 1) Le MGF non sono un trattamento sanitario, non avendo nessuna delle finalità che l’etica, la deontologia e il diritto considerano oggi idonee a legittimare gli atti medici. Assumiamo come punto di riferimen­ to il codice di deontologia medica, che all’art. 50 vieta espressamente le MGF. Al di là di questa disposi­ zione, tuttavia, si può prendere in considerazione un’ampia serie di articoli di carattere generale, con­ tenuti nel codice deontologico, gli artt. 3, 5, 12 e 18, che circoscrivono gli atti medici. Da queste disposizioni risulta chiaramente che gli atti al cui com­ pimento è tenuto il medico sono atti di natura preventiva, diagno­ stica, terapeutica in senso stretto, riabilitativa, medico-legale, e sono

finalizzati alla tutela della vita, della salute fisica e psichica, nonché al sollievo della sofferenza. L’esplicita menzione al sollievo della sofferenza, unitamente al rife­ rimento alla salute psichica, consen­ tono di intravedere la ricezione da parte della deontologia medica delle istanze di cui si è fatta portatrice la riflessione bioetica, nel momento in cui ha messo in evidenza i limiti della concezione meramente biolo­ gistica e organicistica della terapia e ha suggerito la messa in atto di una sorta di controtendenza rispetto alla tradizione assai radicata, che riconosceva nel sedare dolorem un obiettivo solo secondario rispetto a quello primario del serbare vitam. Se tutto questo è vero e se è vero che ci sono state aperture che hanno portato a un allargamento rilevante degli atti di pertinenza medica, ritengo che sia altresì sostenibile che a nessun titolo si possa operare un’estensione tale da includervi i trattamenti di cui stiamo parlando. Tale allargamento non può essere operato né con riferimento alle c.d. forme intermedie di riduzione del danno (che, se attuate in ambienti adeguati, si rivelerebbero molto meno devastanti), né con riferimen­ to a interventi mutilatori giustificati dalla volontà di evitare il disagio e la sofferenza psicologica che alle bambine, una volta divenute donne, potrebbero derivare dalla stigmatiz­ zazione della loro comunità sociale di appartenenza. Ritengo che le c.d. soluzioni intermedie (anche volendo tacere del loro contrasto con il rispetto di valori quali la libertà, l’uguaglianza 55

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o con disposizioni specifiche del nostro codice penale che sanzionano le lesioni personali), presuppongono l’attribuzione al medico del potere di procurare all’individuo una sofferen­ za minore, al fine di prevenire una sofferenza maggiore che potrebbe essergli causata da altri soggetti. Tale attribuzione risulta del tutto priva di giustificazioni etiche. Per quanto riguarda poi la soffe­ renza psicologica che potrebbe de­ rivare dalla mancata sottoposizione alla pratica, essa risulta essere non attuale e difficilmente presumibile per donne che non trascorreranno interamente la loro vita nel contesto chiuso della loro civiltà. Si parla inoltre di una sofferenza futura e radicalmente incerta per evitare la quale si infligge una sofferenza attuale e certa. Concludo questo punto osser­ vando l’impossibilità di far leva sul concetto di sollievo o di prevenzione della sofferenza, dal momento che le preadolescenti destinatarie di tali pratiche non vengono mai prese in considerazione come soggetti alle cui condizioni psicologiche (biso­ gni, desideri e volontà) si attribui­ sce la benché minima rilevanza. Esse compaiono invece nel ruolo di oggetti passivi di scelte e decisioni riguardanti la loro salute, assunte in loro vece da altre persone. 2) I genitori sono legittimati a com­ piere una simile scelta al posto delle proprie figlie? Sebbene a tutt’oggi perdurino diver­ se concezioni giuridiche del minore, si può affermare con una certa sicurezza la prevalenza dell’orien­

tamento che considera il minore preadolesecente come soggetto di diritti e libertà personali, alla con­ quista di una sempre più ampia sfera di autonomia di pari passo con la sua crescita fisiologica. L’affermarsi di tale orientamento ha posto le premesse per un ripensamento cri­ tico della stessa incapacità di agire che il nostro codice civile attribui­ sce ai soggetti minorenni, e per la ridefinizione dell’estensione della rappresentanza legale che la legge conferisce di regola a entrambi i genitori. Per quanto riguarda l’incapacità di agire del minore, se ne è sot­ tolineata sempre più l’ispirazione patrimonialistica; si è cioè osservato che l’incapacità di agire riguarda più l’ambito dei rapporti patrimo­ niali che non quello dei rapporti personali. Si profilano innovazioni signifi­ cative a questo riguardo: nel luglio 2004 è stato infatti approvato un disegno di legge dal titolo “Dispo­ sizioni in materia di consenso infor­ mato e di manifestazioni anticipate di trattamenti” che all’art. 6 prevede l’abbassamento ai 14 anni dell’età minima per prestare il consenso ai trattamenti sanitari. Per quanto riguarda la rappre­ sentanza legale affidata ai genitori, essa si configura come potere-dove­ re (non come diritto-potere) attri­ buito ai genitori non certo nel loro interesse personale, né tanto meno nell’interesse della comunità, bensì solo nell’interesse dei figli. Le decisioni relative alla salute e agli interventi sul corpo ricadono nell’art. 33 del Codice di Deontolo­

gia medica. A livello deontologico, infatti, già oggi si ritiene che la potestà genitoriale incontri un li­ mite preciso nel dovere dei medici di informare l’autorità giudiziaria in caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore del minore. La rappresentanza dei genito­ ri appare dunque rigorosamente finalizzata non solo all’interesse del minore e alla tutela della sua salute, ma anche alla tutela e al rafforzamento della sua libertà di scelta. In quanto tale, essa non può essere invocata a sostegno della le­ gittimità di interventi e trattamenti incompatibili tanto con la tutela della salute quanto con il rispetto e la promozione della libertà delle minori. 3) I medici hanno diritto di rifiutare l’attuazione di trattamenti e di in­ terventi la cui idoneità a perseguire scopi di prevenzione, cura e sollievo dalla sofferenza non sia scientifica­ mente provata. nonostante sia tramontata l’era paternalistica e si sia affermato un modello di relazione medico-pazien­ te bipolare, cioè caratterizzato dalla rivalutazione del paziente o di chi lo rappresenta come soggetto che ha un ruolo imprescindibile nelle decisioni dei trattamenti, non si può certo affermare che sia venuta meno l’autonomia del medico e che questi sia dunque obbligato ad accogliere qualsiasi richiesta. In capo al medico è rimasto quindi il dovere di proporre strategie terapeutiche circoscritte, ispirate ad

aggiornate e sperimentate acquisi­ zioni scientifiche. 4) L’erogabilità a carico del SSN trova limiti nella necessità di allocare le risorse sanitarie secondo criteri di equità e di appropriatezza. Questo rilievo porta a escludere dal­ la legittima destinazione le risorse pratiche mediche che non soddisfa­ no la c.d. certezza scientifica. Giunta a questo punto mi ren­ do conto che gli argomenti finora proposti potrebbero andare incon­ tro all’obiezione di essere viziati dall’adesione unilaterale a un’etica, a una deontologia e a un diritto eurocentrici che, come tali, ap­ presterebbero strumenti normativi per la tutela e la promozione dei diritti fondamentali degli individui senza prestare alcuna attenzione alla circostanza che le convinzioni occidentali in tema di diritti umani non trovano corrispondenza in altre culture. L’estensione degli istituti a soggetti che, pur vivendo nelle società occidentali, appartengono a diverse culture, potrebbe pregiu­ dicare il rispetto del diritto alla sal­ vaguardia e al mantenimento della loro identità culturale. Secondo tale prospettiva, sia in sede di valuta­ zione etica che di progettazione politica, si dovrebbe attribuire il riconoscimento alla specificità di ogni cultura, per non incorrere in una sorta di imperialismo etico. È necessario dunque interrogarsi sulla portata e sul significato degli argomenti relativistici con cui si mette in dubbio l’applicabilità, a civiltà diverse dalla nostra, dei 57

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principi delle società a impronta liberal-democratica. Io sostengo che le MGF non tro­ vano giustificazione e supporto nelle pretese implicazioni relativistiche sul piano dell’etica normativa, del multiculturalismo e del pluralismo dei valori. Innanzitutto è necessario ca­ pire a cosa ci si riferisce quando si parla di relativismo. Quando si pone l’accento sulla molteplicità delle concezioni etiche e se ne sot­ tolinea il condizionamento a opera dell’ambiente sociale e culturale, ci si fa sostenitori di una teoria che potremmo definire “relativismo culturale”. Si tratta di una teoria de­ scrittiva, psico-socio antropologica, secondo la quale l’etica dei valori sarebbe influenzata dalla cultura di appartenenza. A suo sostegno possono senz’altro essere addotti buoni argomenti. Questa teoria empirica tuttavia non implica affatto l’adozione di una teoria normativa (non descrittiva) denominabile con l’espressione “re­ lativismo etico”, intendendo con ciò la teoria normativa che fa dipendere l’approvabilità di un comportamento dalla conformità alle tradizioni e ai valori diffusi nella cultura cui appar­ tengono i soggetti che pongono in essere tali comportamenti. Si tratta di due teorie ben distin­ te: la prima si limita ad accertare che i valori e le convinzioni sono influenzati dalla società di apparte­ nenza, la seconda invece arriva ad affermare che tali valori, in quanto conformi a una determinata cul ­ tura, debbano considerarsi sempre e comunque giustificati sul piano

etico. E ancor meno il relativismo culturale implica l’adozione di quel c.d. scetticismo morale secondo cui, una volta escluso che si possa fon­ dare razionalmente un unico punto di vista morale, non resterebbe altra alternativa che ritenere che nulla faccia differenza, che qualsiasi po­ sizione etica vada bene. Credo che oggi si debba fare uno sforzo importante per sostenere che dal riconoscimento descrittivo dell’inerenza alle diverse culture di appartenenza delle convinzioni morali, non discende affatto che sul piano giustificativo tutte le posizioni etiche siano equivalenti e debbano considerarsi quindi ugual­ mente meritevoli di accoglienza. Alla luce di queste precisazioni è necessario chiedersi se gli organi e le istituzioni investite di respon­ sabilità e poteri politici possano distinguere tra pratiche ammissibili e pratiche (come le MGF) non am­ missibili. Io mi dichiaro a sostegno della possibilità di distinguere tra pratiche, appartenenti ad altre culture, ammissibili e altre non ammissibili, alla luce del principio di autonomia precedentemente ap­ profondito. Sulla base di tale principio si deve senz’altro dare accoglienza ai c.d. diritti delle culture compa­ tibili con il rispetto della libertà e dell’autonomia individuale dei sog­ getti. Ciò implica, al contrario, che si debbano ritenere inammissibili, all’interno del Paese di accoglienza, le pratiche la cui attuazione non è scelta, bensì è imposta dal gruppo di appartenenza agli individui ai quali non è riconosciuto il diritto

di esprimere la loro volontà e quindi un eventuale dissenso. A chi obietta che questo significa costringere a riorganizzarsi, secondo principi liberali, intere comunità che vedo­ no nella restrizione della libertà di alcuni il proprio carattere distintivo, si può rispondere che bisogna avere il coraggio politico di affermare l’intollerabilità di tutto ciò che si traduce in abusi tra individui, ideando strategie utili a far sì che tali abusi cessino. Queste strategie sono: – le strategie repressive. Si tratta sicuramente di una strada percor­ ribile, tuttavia non può costituire l’unico strumento di opposizione agli abusi. Ritengo però che sia comunque necessario adotta­ re un atteggiamento di ferma opposizione alle pratiche muti­ latorie, evitando di consentire pratiche intermedie di riduzione del danno, che porterebbero ad avvallare e a rafforzare le con­ cezioni culturali di soggezione della donna, che stanno alla base delle mutilazioni stesse; – lo sviluppo dell’attenzione verso i bisogni e i timori degli appar­ tenenti alle culture minoritarie. Senz’altro occorrono iniziative internazionali volte a supportare incisivi cambiamenti culturali nei Paesi di provenienza. È necessa­ rio quindi creare le condizioni idonee a far sì che la stessa fa­ miglia che, per ossequio alla tra­ dizione, mette in atto abusi nei confronti delle giovani figlie, non debba, da queste stesse, essere vista come l’unico contesto in cui possono trovare protezione;

– la difesa dei diritti fondamen­ tali e l’affermazione della loro inviolabilità costituiscono la condizione per la sopravvivenza delle culture a cui gli individui scelgono di appartenere, condi­ videndone i valori e i principi ispiratori. Questo nella convin­ zione che i diritti fondamentali efficacemente definiti da un importante teorico del diritto, Luigi Ferraioli, come leggi dei più deboli contro le leggi dei più forti, valgono a proteggere gli oppressi dalle loro culture e famiglie.

Patrizia Borsellino è professore di Fi­ losofia del Diritto presso l’Università dell'Insubria 59

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Maternità e culture Michela Berlanda

Gli aspetti della gravidanza e del parto legati alle caratteristiche culturali e alle condizioni socio-ambientali.

La gravidanza e il parto sono, sotto il profilo biologico, uguali in ogni parte del mondo; ciò che li caratte­ rizza e li diversifica sono per lo più gli aspetti culturali. Genericamente si può distinguere la modalità occidentale, abbastanza omogenea e caratterizzata da un massiccio utilizzo della tecnologia, ritenuta fondamentale per una buona sorveglianza della gravidanza (basti pensare alla fecondazione assistita, alle indagini genetiche, alle ecografie, alla registrazione elettronica delle contrazioni uterine, alla modalità del parto (fino a poco tempo fa espletato prevalentemente in posizione orizzontale), al numero dei tagli cesarei (compreso tra il 30 e il 50% dei parti). nel resto del mon­ do le modalità nell’affrontare una gravidanza sono variegate, spesso caratterizzate da maggior fatalismo e nelle quali la tecnologia, quando è presente, resta marginale. Organi autorevoli come l’OMS e l’ISS (Istituto Superiore Sanità) raccomandano ai Paesi occidentali un uso più oculato della tecnologia 60 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

(che quando viene usata impropria­ mente diventa causa di problemi iatrogeni), mentre suggeriscono di fornire più aiuti sanitari ai Paesi più poveri, dove la prima causa di morte per le adolescenti è proprio il parto. Per paradosso, l’uso improprio delle tecnologie genera ansia e apprensione nelle donne occiden­ tali, facendole vivere la gravidanza come una continua verifica, nell’at­ tesa del responso di ogni esame di controllo. Le donne non appartenenti alla nostra cultura affrontano la gravidanza e il parto con maggior fiducia. Anche se residenti nel nostro Paese, alcune trascurano i controlli periodici in gravidanza, o per lo meno non li percepiscono come fondamentali: la gravidanza è considerata un evento naturale, che quindi non necessita di una particolare vigilanza medica. È senz’altro più probabile che una immigrata africana a medio­ bassa scolarità acceda fedelmente ai controlli ecografici piuttosto che alle visite periodiche: l’ecografia in gravidanza esercita un grande fasci­ no su tutte le donne del mondo. Tendenzialmente, quando si avvia una gravidanza, le donne occidentali avvertono un senso di inadegua­ tezza. La scelta di avere un figlio avviene spesso senza una prepara­ zione derivante da esperienze vicine o dalla trasmissione di competenze; questo genera solitamente ansia, apprensione e paura. Invece, per le donne africane e medio-orientali la maternità è un aspetto fondamentale della loro

vita, imprescindibile per il rico ­ noscimento sociale del loro ruolo. Le donne sposate appartenenti a queste culture, se non hanno figli, vanno incontro a una disapprova­ zione sociale. È pur vero che anche in Africa si riscontrano molteplici realtà socio­ culturali. Ad esempio, la diversità tra centri urbani e periferia può essere sostanziale: un conto è vivere a Casablanca e un altro è vivere in zone più periferiche del Marocco. Tuttavia in tutte queste culture il ruolo di madre ha sempre un peso maggiore di quello che ha nella so­ cietà occidentale, dove le donne non si sentono e non sono emarginate se non formano una famiglia. Esiste anche una diversità di aspettative: nelle donne occiden­ tali i numerosi esami in gravidanza inducono ad aspettarsi il bambino “perfetto”, poiché gli strumenti diagnostici, sempre più sofisticati, vengono ritenuti infallibili; nelle donne extracomunitarie questa aspettativa è indubbiamente meno presente. Le donne extraeuropee che vivo­ no nel mondo occidentale devono inevitabilmente fare i conti con due culture, quella di origine e quella di accoglienza. Questo fatto genera in loro insicurezza: che cosa mantenere vivo del proprio mondo e che cosa far proprio del mondo in cui vivono? Le donne immigrate in Trentino provengono prevalentemente dal­ l’Africa e dal Medio-Oriente, realtà per noi distanti dal punto di vista culturale. Questo richiede, da parte degli operatori sanitari, un’alta professio­

nalità e una grande sensibilità verso le specificità di altre realtà culturali. I saperi oggi presuppongono una competenza maggiore rispetto al passato, un atteggiamento di aper­ tura anche nelle situazioni difficili. Il Consultorio familiare, insieme ad altri servizi dell’APSS, sperimenta ormai da anni il contatto con donne e con coppie straniere. I motivi più frequenti per cui tali soggetti si rivolgono a questo servizio sono: – gravidanza; – corsi di preparazione alla nascita; – contraccezione; – consulenze psicologiche; – consulenze sociali; – consulenze legali; – consulenze genetiche; – visite ginecologiche. L’istituzione del Consultorio è avvenuta con la legge 405 del 1975. L’attività della struttura è re­ golamentata dalla legge provinciale 20 del 1977, che denomina questo servizio “Consultorio per il Singolo, la Coppia e la Famiglia”. Il Consultorio familiare costi­ tuisce un importante strumento, all’interno del Distretto, per attuare gli interventi previsti a tutela della salute della donna più globalmente intesa e considerata nell’arco della sua vita, nonchè a tutela della salute evolutiva, dell’adolescenza e delle relazioni coniugali e familiari. Le attività consultoriali rivestono un ruolo fondamentale nel territorio, grazie soprattutto all’utilizzo del lavoro di equipe, che le rende uniche nella rete delle risorse sanitarie e socio-assistenziali esistenti. 61

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Salute e culture: la donna

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L’attività prevalente delle ostetri­ che di questo servizio con le donne straniere consiste nella conduzione dei corsi di preparazione alla nascita (CPn), nella visita domiciliare e nel­ l’assistenza durante il puerperio. Dagli ultimi rilevamenti risulta che l’incremento delle nascite in Trentino è prevalentemente dovuto alle famiglie extracomunitarie che vi risiedono. Spesso le donne immigrate al momento della maternità si tro ­ vano sole, non supportate dalla famiglia di origine, e vanno quindi incontro a difficoltà nella gestione di questa esperienza. La mancanza di sostegno della famiglia d’origine comporta l’assenza di trasmissione di competenze e può facilmente portare all’abbandono dell’allatta­ mento al seno. Un’indagine campionaria condot­ ta in Trentino nel 2002 dall’Osser­ vatorio Epidemiologico dell’APSS di Trento, ha evidenziato che il 41% delle donne in gravidanza frequenta un CPn; di questa percentuale il 72% sono alla prima gravidanza. Dai dati raccolti nell’intera pro­ vincia nel 2001, il 31% di donne in gravidanza ha frequentato un CPn, di cui il 55% al primo parto. Presso il Consultorio di Trento accedono circa l’80% delle donne che frequentano un qualsiasi corso pre-parto. Di tutte le donne in gra­ vidanza che frequentano un CPn il 6% sono donne immigrate. Di questa percentuale lo 0,1% sono donne afri­ cane; la loro scolarità è medio-alta e hanno un buon inserimento sociale; la loro frequenza media si aggira sul 70-80%, con una discriminante

riferita alle donne nordafricane, che invece raggiungono il 10-15%. La nazionalità delle donne im­ migrate è molto varia: rumena, polacca, slovena, croata, russa, te­ desca, austriaca, spagnola, cubana, colombiana, brasiliana, tunisina, marocchina e del centroafricana. Le donne provenienti dall’Europa e dall’America centro-meridionale hanno una buona conoscenza della lingua italiana e la loro cultura è molto simile alla nostra. Un fattore deterrente a iscriver­ si e a frequentare costantemente un corso CPn è la difficoltà nella comprensione della lingua italia­ na, che si aggiunge alla diversità culturale. Oltre all’educazione sanitaria, i corsi hanno come obiettivi: – lo sviluppo dell’empowerment (potenziamento) delle donne e delle coppie, come responsabi­ lizzazione del cittadino verso la propria salute; – il coinvolgimento diretto di que­ sti soggetti nella produzione di salute; – il miglioramento dell’outcome (esito) della salute della donna e del bambino. È dimostrato che se una donna ha sviluppato un comportamento attivo nel proprio travaglio, nel parto e nel dopo parto, partecipa con maggior consapevolezza a ogni scelta, esponendosi meno al taglio cesareo e mostrandosi più propensa ad allattare al seno. Per una donna la maternità è un’esperienza che la mette di fronte a sensazioni mai provate prima; il coinvolgimen ­

to emotivo la lega fortemente al proprio bambino, dando inizio a quell’attaccamento che, se “sicuro”, diviene un fattore positivo per la salute mentale del figlio nel corso dell’infanzia e dell’età adulta. Le donne straniere, che potreb­ bero trovarsi senza il sostegno di familiari stretti e senza il supporto di una rete sociale, sono più espo­ ste a difficoltà nella gestione della maternità, soprattutto dopo la na­ scita del figlio. nel loro caso, i CPn possono costituire un’opportunità per costruire rapporti amicali con altre donne. Il Consultorio, come luogo di una serie d’iniziative prima e dopo la nascita del figlio (come i CPn e gli incontri nel dopo parto, tra cui i corsi di massaggio infantile), offre una possibilità di condivisione con altre donne dell’esperienza della maternità. Bisogna considerare che una donna immigrata in Italia, rispetto alla vita che conduceva nel Paese d’origine, può andare incontro a un cambiamento drastico, dove soli­ tudine e invisibilità rappresentano le difficoltà maggiori. È possibile infatti che, non essendo supportata da reti femminili di aiuto, nell’espe­ rienza della maternità si trovi ad affrontare una condizione di forte vulnerabilità, dovuta al conflitto tra le diverse rappresentazioni culturali, alla perdita di sicurezza ed efficacia del proprio ruolo di madre, alla mancanza di familiari, di amiche e di un contenitore culturale che le permetta di vivere la riproduzione non solo biologicamente, ma anche culturalmente e simbolicamente.

D’altra parte, gravidanza, parto e puerperio sono momenti comuni a tutte le donne, legati ai vissuti, ai saperi, alla stessa identità fem­ minile. Infatti l’esperienza della maternità accomuna tutte le donne del mondo, avvicinando tra loro anche le generazioni; ogni donna nell’affrontarla si avvicina alla pro­ pria madre, sentendo di condividere un’esperienza che è stata anche la sua. Le donne straniere possono essere private di questa vicinanza e dunque percepire la mancanza di un supporto importante in un momento della vita così delicato. È necessario attivarsi per favo­ rire le occasioni nelle quali poter costruire una rete di conoscenze che faciliti l’abbattimento del senso di solitudine che queste donne vivono lontane dai propri cari. Gli obiettivi generali dei CPn sono: – offrire un territorio sociale che valorizzi l’esperienza; – offrire saperi ed esperienze par­ tendo dalle donne; – promozione attiva della salute e della qualità della vita; – promozione del piacere in gravi­ danza e nel percorso maternità; – promozione dell’accoglimento e dell’allattamento materno; – promozione della capacità di porsi come soggetto attivo; – creare nella donna motivazioni nei confronti del parto fisiolo­ gico, nell’affrontare il dolore, nell’accogliere il suo bambino, perché un parto naturale ga ­ rantisce maggiori probabilità di salute. 63

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I CPn aperti alle donne straniere devono avere l’obiettivo di: – ridurre la condizione di isolamen­ to sociale; – ridurre il senso di perdita del proprio contenitore culturale; – favorire il passaggio da una cul­ tura all’altra; – preparare alla maternità e alla paternità; – dare valore ai saperi altrui; – rafforzare le competenze materne; – dare informazione pratica; – permettere di costruire una rete di rapporti (conoscenze); – dare continuità alla gravidanza, parto e dopo-parto. nel dopo-parto le cure al neonato richiedono molto impegno fisico e spesso sono accompagnate da una brusca alterazione del ritmo sonnoveglia della madre, con la continua sensazione di fatica e a volte di ten­ sione nervosa. L’intenso sentimento d’amore e di indispensabilità rispet­ to al nuovo nato può consumare molta energia emotiva, soprattutto all’inizio, quando questa relazione d’amore tende a essere esclusiva. I ritmi del bambino sono distanti da quelli dell’adulto e questo rischia di disorientare la donna, almeno fino alla crescita di un adattamento che permetta di far fronte all’impegno. Senza un adeguato sostegno la donna, lasciata sola, può costruire un sentimento di frustrazione do­ vuto alla percezione di un senso di inadeguatezza. La scelta di avere un figlio è irreversibile e senza ritorno e richiede una ricostruzione del sé, di un nuovo equilibrio, di un riadat­ tamento generale. Tale scelta apre sicuramente nuove prospettive, ma

può comportare la rinuncia ad altri progetti di vita; qualche volta addi­ rittura si ha l’impressione di essere fagocitate dal figlio, di smarrirsi nei suoi bisogni. La mamma può essere messa di fronte a una dimensione di costante insicurezza nella ridefini­ zione della nuova famiglia. La ricom­ posizione dei propri spazi mentali, attraverso il riconoscimento della distinzione fra sé e il figlio non è sempre facile. nella donna straniera, essendo tutto ciò aggravato dalla solitudine e dalla lontananza dai familiari a lei più cari, è urgente il bisogno di accompagnamento v caso Effettuo la mia visita domicilia­ re a una famiglia marocchina, in seguito alla segnalazione di una infermiera professionale del distretto. La segnalazione riguar­ dava una donna che in prossimità della fine della gravidanza era andata incontro a una gestosi grave sfociata in eclampsia. La sindrome è caratterizzata da iper­ tensione, albuminuria ed edemi; in questo caso erano comparsi anche accessi convulsivi, seguiti da uno stato comatoso che aveva richiesto il ricovero in terapia in­ tensiva. Dopo le cure ospedaliere la donna era stata dimessa e consegnata ai servizi territoriali. Trovo la neo-mamma a letto, in una stanza semi-buia, con evidenti segni di stanchezza at­ tribuibili ai postumi della gestosi. Entrambi i genitori hanno una discreta conoscenza della lingua italiana, e questo mi facilita nel

mio intervento. Noto che i vetri della stanza sono bagnati di umi­ dità (è inverno): una situazione insalubre, e particolarmente in questo caso, date le condizioni di salute della donna. Sappiamo che in molte culture l’allevamento dei figli è un com­ pito esclusivamente femminile. Le cure del neonato richiedono molta energia e la neo-mamma, nello stato in cui si trovava, non era certo in grado di occuparsene da sola. Mi confronto con il marito, cer­ cando di spiegargli che in questa particolare circostanza sua moglie ha bisogno di essere aiutata nell’accudimento del bambino e nelle faccende di casa. Nel nostro Paese le donne africane sono spesso aiutate da altre donne, ma in que­ sto caso non era possibile per la lontananza di loro connazionali. Raccomando al marito di areare gli ambienti, di fare entrare nelle stanze luce naturale e alcune norme igieniche. Sembra che il marito capisca, ma quando gli dico che dovrà provvedere lui al bagnetto del figlio, mi comunica che non è in grado di farlo. Mi rendo subito disponibile a inse­ gnarglielo, ma sembra preso in contropiede, assumendo un atteg­ giamento tra il serio e il faceto. A quel punto, pur rendendomi conto di interferire nelle loro distinzioni di ruoli, in tono scherzoso, ma deciso gli dico che non si può fare diversamente. I pensieri che mi frullavano in testa in quel momento erano tanti: da un lato ero presa dalla

tenerezza nei confronti di quella donna che, pur piena di volontà, esprimeva chiaramente, senza parlare, di non riuscire a farcela da sola, dall’altro ero turbata dall’impatto con aspetti culturali così diversi dai miei. Mi sono però anche detta che di fronte al bisogno non c’era alter­ nativa. A quel punto riuscii a far preparare a quell’uomo tutto l’oc­ corrente per il bagnetto, assisten­ dolo nel lavaggio del bambino. Ogni tanto incrociavo lo sguardo dell’uomo, che sogghignando mi guardava come per dirmi “Non so come hai fatto a convincermi”. Anche lui probabilmente incerto, combattuto tra la difesa del suo ruolo e la consapevolezza della situazione che non gli lasciava scelta. Sorrido ripensandoci, ma ho ben compreso la condizione di solitudine in cui vivono queste donne, che al loro Paese avreb­ bero sicuramente il sostegno e l’aiuto di altre donne. [Ostetrica] I servizi quindi devono essere presenti e capaci di organizzare attività di sostegno da un lato e pedagogiche dall’altro, finalizzate a facilitare l’esperienza della ma­ ternità e a sviluppare le capacità genitoriali, tenendo conto anche della multiculturalità. In Trentino, per colmare un vuoto assistenziale nel dopo-parto, viene offerta, anche se in modo disomo­ geneo, l’assistenza domiciliare in puerperio dalla rete consultoriale dell’APSS, attraverso le ostetriche. 65

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Gli interventi domiciliari consistono nella visita nel dopo-parto. Tale visita, oltre a fornire informazioni in ambito sanitario, ha lo scopo di potenziare le competenze materne, sviluppando il riconoscimento delle competenze del bambino, attraverso un’azione di sostegno. È vero che il puerperio caratterizza fisiologi­ camente nello stesso modo tutte le donne del mondo (la condizione ormonale è la stessa e i bambini sono uguali dappertutto), ma è anche vero che le nostre comunità sono segnate da forti differenze culturali, e ciò deve essere tenuto ben presente nel momento in cui si attiva un intervento domiciliare. Le madri occidentali nei primis­ simi mesi hanno un compito molto difficile: vivono l’ansia di un’espe­ rienza che non conoscono, portano con sé la rappresentazione interiore dei propri genitori, e quella dei genitori ideali, confrontandosi con una realtà che è fatta anche di com­ promessi, sentendo di tradire quanto si erano programmate. Vivono un momento di forte fragilità, ritro­ vandosi in contatto con sentimenti ambivalenti; se il bambino potesse parlare chiaramente, la mamma si aspetterebbe da lui di essere ras­ sicuratata rispetto all’essere una buona madre. Con le donne straniere deve es­ sere valorizzata la cultura di origine. Si può trovare, in qualche famiglia, l’applicazione di tradizioni che le fa sentire un pò più vicine alle loro terre, come il colorarsi con l’hennè e il condividere con le amiche questo momento festeggiando la nascita del figlio. In alcuni casi ci capita di

trovare il bambino fasciato da capo a piedi perché si ritiene che questa pratica tranquillizzi il neonato; oppure bambini rasati sulla base di pratiche rituali. Solo attribuendo valore a questi comportamenti è possibile stabilire un rapporto di fiducia, fondamentale nell’azione di supporto e di collegamento con la donna. A questo scopo, da circa un anno l’APSS di Trento ha avviato una spe­ rimentazione con mediatori culturali al fine di facilitare il confronto con realtà culturali diverse e di permet­ tere di capirsi meglio laddove esista una difficoltà di comunicazione. L’accompagnamento nel primo mese di vita del bambino ha una funzione rassicurante, sdramma­ tizzante, di allentamento delle tensioni, e favorisce l’emersione delle competenze materne e del bambino. Se la mamma acquista fiducia rispetto alle proprie capacità potrà avviarsi più facilmente verso il consolidamento del suo ruolo genitoriale. Fintantoché non si sia sviluppata una reale integrazione degli stranie­ ri, attraverso un’armonizzazione di culture differenti che renda possibile l’assunzione di una doppia identità etnica, l’azione dei servizi è da ri­ tenersi necessaria.

Michela Berlanda è ostetrica presso l'Ospedale Santa Chiara di Trento

una salute pensata con sguardo di donna Gaia Marsico

Nelle attività sanitarie occorre riflettere su quale sia il concetto di salute per la donna e quanto essa venga costretta a subire la spinta alla medicalizzazione.

L’universo femminile è sempre più oggetto di indagine e sempre meno soggetto di ricerca. Forse, tale uni­ verso non si fa carico di portare avanti dei progetti sui problemi di salute specifici della donna. Penso che ormai tutti siamo stati “medicalizzati”, in particolare la donna, che a causa di questa medi­ calizzazione spinta si ritrova meno libera nella gestione della propria salute. Ed è una medicalizzazione che ormai, oltre a essere evidente a tutti, non vuole essere messa in discussione: quando si ha verso di essa un atteggiamento critico o di rifiuto, si viene subito tacciati di irresponsabilità. Sono stati medicalizzati il parto, la menopausa, il tumore al seno. Per esempio, da quando è stato intro­ dotto il test BRCA1-2, che indica la predisposizione al tumore al seno, si è dato avvio a una prassi molto preoccupante: sulla base di un test che dà una risposta comunque parziale e discutibile, si è arrivati a proporre alla donna interventi (come la mastectomia bilaterale o

la chemioterapia preventiva) che comportano una medicalizzazione estrema di donne ancora sane e che probabilmente non si ammaleranno mai.

vi caso

Tempo fa è venuta in farmacia una signora distinta, che ha chiesto di parlare con una dot­ toressa. Ha iniziato a esporre il proprio problema, raccontando il suo disagio rispetto al climaterio. Questo disagio non era però riferito ai soliti disturbi caratteristici di questo periodo, ma piuttosto alla perplessità riguardo alla possibilità di iniziare o meno una terapia ormonale sostitutiva. Dal discorso della signora è emerso il fatto che lei non accusava al­ cun fastidio e tollerava benissimo le vampate, tuttavia era preoccu­ pata dalla diversità rispetto alle sue amiche, che facevano tutte uso di cerotti o fitopreparati: la signora non aveva bisogno di nul­ la, eppure sentiva la necessità di assumere farmaci per non essere diversa dalle proprie coetanee. Personalmente ho cercato di farle capire che non tutte viviamo la menopausa allo stesso modo e, soprattutto, che non si tratta di una malattia, ma di una tappa della vita che può essere affron­ tata e superata anche senza alcun disagio fisico. La condizione della signora era certamente una condizione particolare, che però non doveva essere né colpevolizzata né curata. Assieme, abbiamo ripercorso il 67

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modo di vivere il climaterio da parte di sua nonna e alla fine anche la signora ha concluso che, nel suo caso, non c’era necessità di farmaci. Questo caso dimostra come alcuni passaggi naturali della vita della donna vengano strumentalizzati a favore del mercato. La donna non è più in grado di ragionare con oggettività sulla propria salute. Viene a tal punto bombardata da messaggi circa la necessità di assumere farmaci a qualunque costo, che si sente quasi a disagio nel non farlo. A tal proposito sa­ rebbe necessario riconsiderare la figura femminile come soggetto di una cura e non come oggetto. [Farmacista] Ritengo che sia urgente pensare alla salute della donna con occhi di donna. Occorrono riflessioni al femminile, per capire quanto la donna subisca certi tipi di proposte “terapeutiche”. Pensiamo anche al campo della diagnostica prenatale, che impone un carico pesantissimo sul corpo e sulle scelte delle donne, che a que­ sto carico, credo, non sono ancora preparate. Il grande peso è dato dal fatto che le risposte che arrivano dalla diagnosi prenatale non ammet­ tono altra scelta se non quella tra il portare e il non portare a termine una gravidanza. Tutto ciò ha reso l’attesa un periodo di forte stress per la donna, che diventa il destinatario inconsapevole di informazioni non sempre corrette. Una volta sotto­ postasi alla procedura standard di

esami e indagini prenatali, la donna risulterà indubbiamente rassicurata, senza però aver chiaro che le rispo­ ste che si hanno dalla diagnostica prenatale sono caratterizzate da un ampio margine di incertezza.

vii caso

Il caso clinico da me riportato vuole essere una parziale risposta alla domanda posta dalla dotto­ ressa Marsico: “Quanto subisce, la donna, le proposte di medica­ lizzazione?” Un lunedì mattina di quattro anni fa, all’ambulatorio di diagnosi prenatale, in una giornata dedi­ cata all’esecuzione degli esami invasivi (villocentesi e amniocen­ tesi) precedentemente prenotati, una signora alla diciassettesima settimana di gravidanza arriva per eseguire l’amniocentesi per un tritest (test di probabilità) patologico. Rimango un po’ per­ plessa, perché noto in lei una certa esitazione; quindi, fatta una breve anamnesi, le chiedo se è a conoscenza della finalità di tale esame. La signora mi risponde: “Il mio ginecologo [maschio] mi ha detto che devo farlo”. Al che ten­ to approfondire un l’argomento, chiedendole: “Ma, signora, perché vuole effettuare il tritest?”. La signora inizia ad agitarsi, “Il mio ginecologo mi ha detto che dovevo fare il tritest”. A questo punto, combattendo contro il tempo (la seduta è lunga ed entro le ore 11:30 tutti gli esami devono essere termi­ nati), e contro l’insofferenza del

personale paramedico (abituato a veder eseguire gli esami sen­ za alcun preliminare), tento di spiegare il senso di tali esami, ma naturalmente devo desistere per non agitare ulteriormente sia la signora che il personale, ormai decisi a effettuare tale procedura: “Era prenotata”. Dopo un paio di settimane arriva l’esito dell’amniocentesi: cariotipo 47 XX, sindrome di Down. Purtroppo tocca a me rivedere la signora e darle notizia: rimane sconvolta, ma lei non aveva mai pensato a un’interruzione della gravidanza. Non ho più notizie della signora per diversi mesi, finchè un giorno si presenta nell’ambulatorio dove svolgo la mia attività come libera professionista e mi racconta: “Mia figlia è nata, ma è deceduta dopo poco tempo. Io mi sono colpevo­ lizzata per l’esame eseguito, che mi ha creato ansia e che forse non ha permesso a mia figlia di nu­ trirsi bene nell’utero. Ho ripensato a quanto lei mi ha detto: che la scelta dell’amniocentesi spettava a me e non al mio ginecologo. Sono ritornata per raccomandarle di continuare nel suo modo di pro­ porre gli esami senza imposizione, perché è più corretto e permette anche a noi di fare delle scelte; cosa che io, purtroppo, quel gior­ no ormai all’ultimo minuto non ero in grado di capire”. Come ho vissuto io questo epi­ sodio? Quel lunedì, terminati gli esami, mi è venuta una gran rabbia, come purtroppo mi succe­ de spesso quando mi scontro con

questa realtà di esami imposti. Vedevo confermata la correttezza del metodo di lavoro che avevo organizzato altrove nei sei anni precedenti, con colloqui preli ­ minari che permettessero alle donne di comprendere gli esami e di poter fare una scelta loro, in base alla loro ideologia, alla loro sensibilità, alla loro morale, alla loro,etica e non a quella del medico, di solito dettata dalla preoccupazione della propria tutela legale. Infatti, la piccola statistica che mi ero creata in quegli anni metteva in evidenza un calo nel numero di donne che eseguivano l’esame rispetto a quelle che venivano a prenotarlo: ci avevano ripensato dopo una spiegazione semplice, comprensi­ bile e che non indirizzava a una risposta obbligata. Quando ho dovuto riconvocare la signora per riferirle l’esito dell’amniocentesi, la rabbia è aumentata ancor di più ed era rivolta anche verso me stessa, perché avevo perfettamente intuito che quella donna non avrebbe mai fatto la scelta di interrompere la gravidanza, ma io non ero riuscita a permetterle di ragionare e di scegliere con la sua testa. Sì, c’erano il tempo tiranno, l’ansia del personale paramedico e l’agitazione della signora che aumentava... ma co­ m’è possibile che l’organizzazione medica attuale debba vincere e sopraffare anche chi vorrebbe lavorare in modo più giusto, con la sensibilità di noi donne? Quando infine ci siamo ritrovate 69

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Salute e culture: la donna

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nel mio ambulatorio, da una parte ho provato compiacimento perché, se pur con effetto tardivo, vedevo compreso e sollecitato un modo diverso di lavorare, di dare spiegazioni, dall’altra, ho sentito amarezza per la sofferenza che non ero riuscita a evitare. Questa mamma ha altri figli, è molto felice e ogni anno viene per un controllo, sorridente. Questo è un esempio semplice, purtroppo molto frequente, di quanto la salute della donna sia stata medicalizzata dalla società maschilista. La gravidanza stes­ sa, un evento fisiologico splendi­ do e irripetibile, ha reso la donna completamente dipendente dalla figura del ginecologo. Che questo espropriazione sia nata da un’invidia, dall’impos­ sibilità maschile di vivere un fenomeno così complesso e appa­ gante? Il fatto è che la disciplina ginecologica, anche adesso che è nelle mani delle donne medico, non si discosta molto dal compor­ tamento precedente. La maggior parte di noi donne ha inteso la parità di diritti tra uomo e donna come un’eguaglianza della donna all’uomo e non è riuscita invece a esprimere quel ruolo diverso che la natura ci ha assegnato, in grado di permettere una nuo­ va relazione tra uomo e donna basata sulla collaborazione e sull’integrazione di due mondi diversi. Forse, quando si comprenderà questo anche nella medicina po­ trà entrare un’etica femminile [Medico]

viii caso

M., 34 anni, in attesa del primo figlio, vive con gioia ed emozio­ ne questo evento: e una donna tranquilla e serena, che vede realizzarsi un suo progetto im­ portante. All’ecografia del quinto mese, il medico rileva una lieve riduzione nello sviluppo degli arti del bam­ bino: è leggermente più piccolo rispetto ai parametri standard. Questo risultato innesca una trafi­ la senza fine. Si ripete l’ecografia dopo due settimane: viene detto alla signora di stare tranquilla, ma escono parole come “nani­ smo” e “alterazione genetica”. Procedono gli accertamenti, nuove ecografie, analisi geneti­ che, visite specialistiche a fuori provincia, dove viene fatta una ecografia “tridimensionale” per una miglior analisi morfologica del viso del bambino, per indi­ viduare qualche anomalia rara. Il carico di ansia è notevole, la mente della mamma già precorre i tempi, spera che sia “solo” nano, in modo da poterlo aiutare con interventi di allungamento degli arti, e che non ci siano danni neurologici. Finalmente arriva il momento del parto: il bimbo è piccolino, ma bello e proporzionato. Gli accertamenti di “scrupolo” prose­ guono con esami del sangue, nella ricerca di malattie metaboliche o altre alterazioni... qualche esame risulta alterato e quindi deve essere ripetuto... si applicano i protocolli... Il bambino ora ha tre anni, è cresciuto bene, è sano,

vivace e chiacchierone. Il periodo nero della sua nascita è solo un ricordo, ma per la mamma quelle paure non si cancelleranno facil­ mente. Gli stimoli dati dal Dialogo sono stati molti e sono molte le “sto­ rie” che tornano alla mente: volti di donne speciali, talvolta fragili, ma poi sorprendentemente forti e determinate quando le esigenze lo impongono. Mamme, mogli, figlie, sorelle... l’universo fem­ minile ha molte sfaccettature e molte ricchezze. La maternità è sicuramente l’evento che più influisce sulla vita delle donne, trasformandola nel profondo. È il momento in cui la donna affronta tutta una serie di trasformazioni fisiche e psicologiche. Attualmente la me­ dicina aiuta molto la maternità, fornendo assistenza e sicurezza, ma talvolta presenta degli eccessi e crea degli ingranaggi che pro­ cedono poi in modo autonomo, perdendo di vista l’obiettivo reale e anche la razionalità. Per M., a posteriori, la sereni­ tà è tornata e il commento è, ovviamente, “Meglio aver fatto tante indagini per nulla, che...” Questo è sicuramente vero, ma quelle indagini, quell’eccesso di medicalizzazione hanno comun­ que lasciato dei segni, hanno riempito di incubi i sogni di una mamma che poteva affrontare con serenità un momento magico della sua vita, hanno tolto a M. la voglia di dare un fratellino al suo bambino... Non è un danno da poco!

La nostra società ci fa credere di poter avere il controllo su tutto e ci rende incapaci di gestire le incertezze e le attese, ci spinge a voler sapere tutto di un bambino non ancora nato, fa prevalere la nostra curiosità sul suo bene. Gli eccessi non sono mai positivi: dobbiamo rispettare ogni gravi­ danza, aiutando le donne con razionalità e serenità e non iriem­ piendole di paure e lasciandole sole con il loro carico di ansia una volta uscite dall’ambulatorio. [Medico] L’idea che più la medicina è tecno­ logicamente avanzata più la donna è libera, è molto discutibile. È più verosimile immaginare che, molto spesso, la medicalizzazione la renda più dipendente da decisioni altrui: più la medicina è tecnologica, e quindi poco accessibile alle pazien­ ti, più si verifica un fenomeno di espropriazione della salute. La donna, anziché accettare di essere ridotta a oggetto di indagine, avrebbe bisogno di riflettere se è questo il modello di medicina che vuole e se questo modello contri­ buisca davvero a un progresso nel campo sanitario. È necessario dunque prendere la parola su problematiche apparen­ temente molto tecniche, ma che di tecnico hanno davvero poco. Tutti abbiamo il diritto di di­ scutere se la menopausa, con i sintomi che comporta, sia o meno un problema medico; o di chiederci se l’astensione dal fare diagnosi pre­ natali sia o meno un atteggiamento 71

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Salute e culture: la donna

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da irresponsabili, ma in fondo è un problema di scelte personali. Si prenda ad esempio la procreazione medicalmente assistita: c’è stato un ampio dibattito, soprattutto nell’ul­ timo periodo, ma sarebbe necessario che esso continuasse, in modo che le donne possano portare la loro storia e il loro punto di vista. Sarebbe inoltre indispensabile riflettere su uno stereotipo ancora molto forte, che è quello della ma­ ternità. L’idea che la donna debba essere agganciata al ruolo di madre è ancora dominante nel nostro con­ testo sociale. È stata evidenziata la violenza fisica e psicologica esercitata sulla donna dalle mutilazioni genitali femminili. Ma ci sono altre violenze più sottili, come la chirurgia esteti­ ca, in merito alla quale ci si chiede se essa sia frutto unicamente di scelte personali della donna o se alla base vi siano delle pressioni culturali che spingono ad aderire a un certo modello di bellezza. Anche il concetto di “cura”, che è sempre stato associato alla salute della donna, è senza dubbio frutto di un’oppressione culturale e di una delega forzata. E ritengo che tale concetto non debba essere visto solo in una prospettiva positiva, ma che debba anche venire rivisitato in maniera critica. Ma veniamo alla domanda cen­ trale: esiste un concetto femminile di salute? Credo che la natura femminile non sia sostanzialmente differente da quella maschile, ma che sia stata storicamente molto condizionata.

Questa diversità tradizionale che ci portiamo dentro come donne, si traduce, rispetto alla salute e alla medicina, in particolari punti di vista che dovrebbero essere presi in maggiore considerazione: nella bioetica, ad esempio, le donne hanno sottolineato aspetti effetti­ vamente diversi e originali; le donne tendono non tanto a domandarsi se una pratica sia giusta o sbagliata in sé, ma piuttosto a soffermarsi su altre problematiche, ad esempio sulla sostenibilità o meno del nostro modello di medicina (una pratica medica potrebbe essere accettabile in astratto, ma discriminante nella pratica perché generatrice di una medicina insostenibile). Una salute pensata con sguardo di donna potrebbe dare un grande contributo alla medicina. Una bioeticista australiana, ri­ flettendo sul valore e il significato della Evidence Based Medicine (che è ormai il nostro paradigma di rife­ rimento) ha affermato che non basta essere sicuri dell’efficacia di un farmaco per giustificarne l'utilizzo, ma che è necessario chiedersi anche il motivo per cui si cura una data malattia e rifletere sul modo in cui la si sta curando. Vi sono, cioè, delle domande imprescindibili di senso: è possibile immettere nel mercato un farmaco senz’altro efficace, che però va a curare un problema che non necessita di cura (ad esempio, la menopausa). Lo scopo della medicina non è solo quello di dimostrare il bisogno di farmaci e la Evidence Based Me­ dicine dovrebbe essere un metodo, non il fine. La domanda fondamen­

tale che invece dovremmo porci è: “Che cosa stiamo cercando di curare”? Per quanto riguarda le mutila­ zioni genitali femminili, credo che tutti concordino nel ritenerle con­ trarie ai diritti umani; il problema vero è individuare le strategie per combatterle. Anche in questo caso è neces­ sario che siano le donne a rendersi promotrici di tali iniziative. Sarebbe un atteggiamento paternalistico, da parte nostra, voler portare avanti progetti al posto delle donne diret­ tamente interessate; è necessario invece che esse stesse si rendano protagoniste in prima persona di adeguati progetti culturali, in modo tale da acquisire autonomia decisionale. Una nota di linguaggio. La medi­ cina spesso usa termini di chiara derivazione maschile e militare. Il fatto che si usi spesso un gergo di sapore militare, rende accettabile tutto, perché in guerra tutto è per­ messo: la metafora della guerra alla malattia e del corpo come campo di battaglia rende lecita qualsiasi cosa; è la ben nota metafora di cui parla Susan Sontag. Anche in ambito linguistico la medicina è molto aggressiva e in­ vadente: basti pensare ai protocolli di sperimentazione in cui si parla di “reclutamento”, di “arruolamento” delle persone. Questo linguaggio è da considerarsi inaccettabile, perché il paziente viene immediatamente posto in una condizione di soggezio­ ne, passando da soggetto a oggetto del trattamento.

Gli esempi non mancano: an­ che l’espressione “chemioterapia palliativa” è carica di ambiguità, confonde il paziente rendendolo poco autonomo. Prestare attenzione al linguaggio nella relazione medico-paziente e depurarlo degli attuali caratteri di aggressività è uno dei tanti inviti che arrivano dall’universo femmi­ nile.

Gaia Marsico è professore di Bioetica presso l’Università di Padova e membro della Commissione Regionale di Bioetica della Regione Toscana 73

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la salute delle donne

statistica potrebbe sostituirsi alla conoscenza che può derivare dalla relazione diretta tra curante e pa­ Violetta Plotegher ziente. Si potrebbe quindi finire col trascurare informazioni essenziali non solo per il successo terapeuti­ La strada verso l´affermazione di pari diritti co, ma anche per la capacità della e di prospettive migliori per la salute della medicina di capire se stessa come donna passa attraverso l´eguaglianza con scienza. Da ciò consegue che la l´altro genere. medicina è veramente scientifica nel momento in cui trova la mediazione specifica, per quel dato paziente, tra le conoscenze disciplinari e la persona con la sua storia unica e irripetibile (non è indifferente La medicina ha a che fare con gli essere uomini o essere donne, né esseri umani, e sappiamo bene che dal punto di vista psicologico né da non esiste un essere umano uguale quello emotivo). Oggi la medicina soffre non di all’altro e che quindi nessuno rea­ un eccesso, ma di un difetto di gisce allo stesso modo agli stimoli scientificità. Questo succede tutte ambientali a cui viene posto di fron­ te. Reagire agli stimoli ambientali le volte in cui si è incapaci di avere è infatti strettamente legato allo accesso alla ricchezza di saperi che è contenuta nel rapporto terapeu­ sviluppo natale e post-natale rela­ tivo alle stimolazioni dell’ambiente, tico. La ricchezza di questo sapere alle dinamiche sociali, affettive è accessibile solo se si mette al e relazionali con cui entriamo a centro dell’attenzione la relazione terapeutica. Io sono convinta che le contatto. Da un lato la medicina deve tener relazioni terapeutiche efficaci siano tantissime, ma sono altrettanto conto dell’unicità di ciascuna per­ sona, dall’altro, come ogni scienza, convinta che in questo momento, ha bisogno di criteri generali che per il modo in cui è organizzata la chiaramente non possono essere sanità, non siamo capaci di utiliz­ applicati direttamente al singolo. zare questi saperi: è una ricchezza La medicina deve quindi tentare una che non circola, che non ha modo mediazione tra questi due estremi. di codificarsi per essere riconosciuta La qualità della medicina oggi e valorizzata. La domanda di senso è cruciale: è fondata per molti soprattutto se il terapeuta e il paziente si in­ sull’uso della statistica. nella sta­ tistica le particolarità individuali contrano intorno alla domanda di divengono fluttuazioni intorno a senso, la loro relazione si struttura un valore medio. Si tratta dunque a un livello alto. Quante volte invece di una soluzione efficace sui grandi è l’infermiera a compilare la cartella numeri, ma il sapere fornito dalla e poi il medico non fa altro che met­ 74 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

terci le note finali? Una procedura di questo tipo impedisce la possibilità di conoscenza della storia della persona, elemento essenziale nella relazione terapeutica. Il corpo della donna è, ancora oggi, più oggetto che soggetto di cura. Se dico di “essere” un corpo posso raggiungere una situazione di benessere, ma se dico di “avere” un corpo posso al massimo benestare. Finchè il corpo femminile non sarà oggetto di diritti anche in ter­ mini di salute, questa sostanziale differenza esistente tra i due generi non si potrà svincolare dalla volontà di controllo. La strada verso l’affer­ mazione di una soggettività, di pari diritti, di prospettive migliori per la salute della donna, passa attraverso ragionamenti di eguaglianza con l’altro genere. Se il corpo è una realtà pensante, un corpo diverso dal mio conosce in modo diverso, e conosce anche un mondo diverso dal mio. Questo vale per ogni soggetto portatore di alterità. nella “Guida alla salute della donna: la mente, il cuore, le braccia”, pubblicata dalla Commissione nazio­ nale per le Pari Opportunità durante la presidenza di Laura Balbo, vengo­ no fatte alcune interessanti osserva­ zioni; vi viene notato che ci sono dei pregiudizi enormi sulla salute delle donne, due in particolare: 1) Considerare l’osservazione scien­ tifica del corpo maschile come valida anche per il corpo fem­ minile. numerose studiose che hanno collaborato alla stesura

di questo testo affermano che è necessario che le donne siano oggetto di osservazioni scienti­ fiche autonome, perché esiste un cuore che lavora al maschile e uno che lavora al femminile, esistono metabolismi maschili e metabolismi femminili... 2) Considerare la salute delle donne come essenzialmente riprodutti­ va e la salute maschile come es­ senzialmente produttiva. Questo produce una particolare disparità di trattamento scientifico: la me­ dicina viene orientata a spiegare i fenomeni patologici nella donna in modo diverso da come spiega quelli negli uomini, guardando principalmente al suo apparato riproduttivo-ginecologico. C’è una possibilità di orienta­ mento per i medici che vogliono un corretto modo di guardare alla diffe­ renza di genere nel loro operare? C’è la possibilità di una differen­ za di genere da valorizzare come cri­ terio metodologico nella valutazione dello stato di salute della donna? Il modo corretto è quello di guar­ dare al corpo femminile partendo da esso per come è, e non in relazione al corpo maschile. È scorretto se noi guardiamo al corpo e alla salute femminile utiliz­ zando strumenti indiretti tratti dalla conoscenza del corpo maschile o focalizzati sullo studio dell’attività ormonale-riproduttiva. È corretto studiare il corpo femminile integrando la visione della specificità del suo sistema riproduttivo con quella degli altri sistemi e apparati, in relazione con 75

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Salute e culture: la donna

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il sistema nervoso; a questo si deve aggiungere l’interazione con l’am­ biente esterno e con i determinanti sociali e affettivi. È scorretto guardare al sistema riproduttivo come sistema leader del corpo femminile. Si studiano gli organi e gli apparati, trascu­ rando così la loro specifica storia e sovrascrivendovi la storia del sistema riproduttivo. Un esempio emblematico è rappresentato dalla proposizione delle terapie ormona­ li-sostitutive come preventive delle patologie cardiovascolari. Un’altra dimensione corretta di valorizzare la differenza di genere in medicina è quella di studiare il rapporto tra la salute femminile e gli stress ambientali, guardando ai modelli e ai compiti di ruolo che agiscono specificatamente sulla donna e la indirizzano verso stili di vita non sempre favorevoli al suo benessere. È scorretto invece valutare lo stato di salute-malattia della donna come ormone-correlato. Oltre ai determinanti sociali di salute legati alla povertà, vi sono altri ambiti nei quali la salute della donna non è così attentamente valutata. Ad esempio, in campo psichia­ trico, la depressione: c’è una grande percentuale di donne, soprattutto tra i quaranta e i sessanta anni, che ricevono dal medico una diagnosi di depressione e che utilizzano farmaci per curare tale disturbo. Molte volte la diagnosi è affrettata; raramente c’è un accompagnamento rispetto al segnale che la malattia dà. La

depressione è spesso legata a situa­ zioni di vita della donna. Questo se­ gnale non va represso, ma utilizzato per conseguire un cambiamento. Un altro esempio è dato dall’am­ bito della sessualità e dei rischi legati alle malattie sessualmente trasmissibili; raramente si dice esplicitamente che sono le donne a essere le destinatarie di una sempre più frequente possibilità di incor­ rere in una malattia sessualmente trasmissibile. Rispetto alla menopausa, certa­ mente, con la caduta del livello degli estrogeni, c’è un’accelerata perdita vitale della donna, ma poche volte viene detto che: a) l’osteoporosi ha la sua genesi nel corso della giovinezza, nel tipo di alimentazione, di attività fisica e di stili di vita che hanno accompagnato la donna fino a quel momento; b) molti studi dimostrano che l’attività fisica, l’esposizione al sole e all’aria aperta sono molto spesso più efficaci paragonati della terapia ormonale sostitu­ tiva, e a lungo termine danno più benefici. Altri esempi possono essere trovati nell’ambito della violenza domestica: una donna su dieci la­ menta di aver subito, nella corso dela sua vita, violenze in famiglia o da parte di persone conosciute. Questa dimensione va ricordata anche nella raccolta panamnestica. La donna ha piacere se le si chie­ dono informazioni rispetto alla sua storia personale, indispensabili per interpretare la sua salute. Infine va accennata la questio­

ne del lavoro che, con tutte le sue dinamiche di stress e di fattori di rischio, incide fortemente sulla salute della donna. Anche il prendersi cura come realizzazione di sé è un fattore di rischio; è necessario che le donne siano protette da questo sovracca­ rico e rese consapevoli e coscienti che sono soprattutto soggetti di cura per se stesse. nelle situazioni di depressione post partum questa dinamica è cruciale. Si otterrebbe già una buona prevenzione se nei corsi di preparazione al parto si trasmettesse un’idea un po’ più realistica di quello che è il compito materno, unitamente al consiglio di non essere eccessive nelle cure. Concludo proponendo alcuni spunti di riflessione: – Esiste una differenza di genere nel fare l’operatore sanitario. Tale differenza consente un po­ sitivo e arricchente scambio di competenze di cura tra uomo e donna. – Ci sono dei rischi nell’avere ec­ cessive competenze femminili all’interno della sanità e del sociale. Il rischio principale è quello di creare dipendenze: se la cura diventa per la donna che opera nei servizi alla persona una realizzazione di sé, può innescare un pericoloso meccanismo di dipendenza che può privare la/il paziente della sua autonomia. – Esiste sia una salute di gene­ re che un modo femminile di prendersene cura. Spero che si arrivi, con il tempo, a valorizzare questa differenza.

Oggi stiamo assistendo a un par­ ticolare fenomeno sociale: le donne emancipate dal ruolo tradizionale, che si inseriscono nel mondo del lavoro e che non riescono a conci­ liare i tempi del lavoro con i tempi della famiglia, hanno creato delle debolezze nella dimensione di cura dei più deboli, soprattutto degli anziani e dei bambini. In presenza di un’evidente carenza di servizi, c’è anche la tendenza a chiamare altre donne, più povere, a sostituire quelle che prima stavano in famiglia a prendersi cura dei propri cari. Il livello di benessere della nostra popolazione non aumenterà solo introducendo nuova tecnologia, ma anche migliorando la cultura del­ la salute e la capacità di relazione tra medico e paziente

Violetta Plotegher è ginecologa e asses­ sore alle Politiche sociali del Comune di Trento 77

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salute e informazione Dialogo di Bioetica e Biodiritto del 7 ottobre 2005

Il momento della comunicazione e dello scambio di informazioni fra medico e paziente è condizionato da numerosi fattori di carattere cul­ turale e psicologico. Una difficoltà particolare, ad esempio, deriva dal tecnicismo che inevitabilmente con­ nota le informazioni che il medico deve fornire al paziente. Tutti questi aspetti sono condi­ zionati, a monte, dalle informazioni che il paziente può direttamente ottenere da media quali trasmissioni televisive o internet. Si può quindi ritenere che i media (così come

altri fattori, ad esempio i gruppi di interesse) possano influenzare le decisioni del paziente al di fuori della comunicazione tra medico e paziente. Questi fenomeni possono essere meglio compresi anche alla luce dell’uso dell’immagine per descrivere e diffondere modelli di salute. Attraverso la testimonianza di alcuni esperti del settore, l’incontro si propone una disamina delle prin­ cipali problematiche del rapporto tra salute ed informazione. (G.S.)

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la comunicazione come determinante della salute Giovanni Martini

Comunicazione e informazione fanno parte dei determinanti fondamentali che consentono di migliorare lo stato di salute e di benessere della popolazione.

I grandi cambiamenti sociali, che caratterizzano la nostra epoca evi­ denziando una transizione dall’era industriale all’era dell’informazio­ ne, stanno estendendo il proprio impatto anche nei confronti dei sistemi sanitari e, in particolare, al rapporto fra offerta e domanda dei servizi sanitari. Ciò risulta particolarmente evi­ dente nell’affermarsi di un atteg­ giamento sempre più “proattivo” da parte dell’utente (o meglio, del cit­ tadino), che dal tradizionale ruolo di paziente (passivo “oggetto” nelle mani del medico) sta assumendo un ruolo di soggetto, non solo caratte­ rizzato da diritti precisi, ma anche sempre più competente e partecipe sia alle fasi di diagnosi che alle strategie terapeutiche, lungo l’in­ tero processo di guarigione e verso nuovi spazi di salute, che (secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e anche nella percezione di ciascuno) si configura più come benessere complessivo che non semplicemente come as­ senza di malattia. 80 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

Peraltro la scienza e la medi­ cina si stanno evolvendo in modo sempre più accelerato e non hanno la capacità, da sole, di definire gli indirizzi applicativi: pertanto è sempre più necessario che l’etica e la politica assumano un ruolo importante nella determinazione degli indirizzi e degli obiettivi. In tal modo non solo la politica, ma anche tutti i soggetti in grado di produrre opinione (dai media alle istituzioni laiche o religiose, ai vari attori del mercato) concorrono, insieme alla comunità scientifica, a definire uno scenario in cui si va a collocare l’assistenza sanitaria. L’evoluzione verificatasi nel campo dei media, dai giornali alla radio, alla televisione e a Internet, sta facendo esplodere le conoscenze in campo medico, anche a beneficio delle persone che non hanno una preparazione specifica, ma sono ugualmente interessate al problema. In particolare, l’irruzione di Internet nella società ha aperto al grande pubblico, in questi primi dieci anni, l’accesso a molte informazioni precedentemente disponibili esclu­ sivamente a specifiche categorie di persone. Questo fatto ha contribuito in modo rilevante a sgretolare il mo­ dello paternalistico della relazione fra medico e paziente. non a caso la maggior parte delle ricerche che viene fatta su Internet è relativa al reperimento di informazioni medi­ co-sanitarie o comunque inerenti la salute. Superati gli eccessi e gli squilibri che caratterizzano l’intro­ duzione di innovazioni relazionali, organizzative o tecnologiche, ci si

sta avviando verso una situazione in cui il rapporto fra medico e pazien­ te è basato sulla condivisione dei percorsi, su una forma di alleanza terapeutica in cui il malato non è più identificato con la sua malattia o addirittura colpevolizzato per essere stato colpito da un male. A ragione si può quindi affermare che la comunicazione e l’informazio­ ne vengono a costituire degli impor­ tanti determinanti che consentono al pari di altri ed insieme ad essi (patrimonio genetico, ambiente fisico, sistema sanitario, stili di vita e condizioni socio-economiche) di migliorare lo stato di salute e di benessere della popolazione. La parola “comunicazione” deri­ va dal greco koinonéo che vuol dire “partecipare”. Essa rinvia all’idea della comunità cioè ad un luogo di interscambio di relazioni tra perso­ ne. nel concetto di “interscambio” è implicita la bidirezionalità, nel senso che ciascun comunicatore è allo stesso tempo emittente e ricevente. Il verbo comunicare trova radici anche nella lingua latina ed in particolare nel verbo communicare che significa “mettere in comune, condividere”. La comunicazione può essere definita in vari modi, uno dei più interessanti, produttivi e completi è il seguente: “La comunicazione è un processo di partnership e parte­ cipazione basato sul dialogo a due vie, in cui c’è uno scambio interatti­ vo di informazioni, idee, tecniche e conoscenze fra coloro che emettono e coloro che ricevono le informazioni sulla base di un rapporto paritario

che conduce al miglioramento della comprensione, alla condivisione delle conoscenze, a un maggior consenso e all’individuazione di possibili azioni efficaci”. nel definire la comunicazione per la salute va tenuto in conside­ razione il fatto che gli individui non costituiscono più un “bersaglio”, ma sono i protagonisti fondamentali nel recepimento e nell’accettazione dei messaggi che fanno riferimento alle loro condizioni. Anche alla luce di quanto detto, la comunicazione per la salute può essere definita come “l’arte e la tecnica di informare, influenzare e motivare gli individui, le istituzioni e le comunità sui temi più importanti relativi alla salute. Il suo ambito comprende la preven­ zione delle malattie, la promozione della salute, la politica sanitaria e il miglioramento della salute degli indi­ vidui all’interno della comunità”. La comunicazione per la salute è diventata un’area importante e in forte espansione che si fonda in particolare sul fatto che la ricerca continua a validarne e dimostrarne l’efficacia. Inoltre la disponibilità di nuove tecnologie sta estenden­ do l’accesso all’informazione sulla salute sollevando, nel contempo, una serie di problemi sull’equità nell’accesso, sull’accuratezza dell’in­ formazione stessa e sulle modalità per utilizzare in modo più efficace i nuovi mezzi disponibili. Per comunicare in modo efficace è indispensabile essere consapevoli di ciò che la comunicazione per la salute, considerata come utile 81

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Salute e informazione

strumento per promuovere o mi­ gliorare la salute, può o non può fare. La comunicazione può essere

utilizzata da sola o in combinazione con altre attività. Spesso sembra che la comuni­ cazione da sola possa far molto, tuttavia vale la pena tenere distinti gli impatti che può avere quando viene usata autonomamente e quando viene agita in sinergia con altre modalità di informazione e di azione.

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Da sola la comunicazione è in grado di: – migliorare la conoscenza e la consapevolezza sulla salute, sui relativi problemi e sulle possibili soluzioni; – influenzare la percezione, le con­ vinzioni e gli atteggiamenti che a loro volta possono cambiare le norme sociali, in quanto le norme sociali sono costruite sulla base dei convincimenti della comunità di riferimento; – suggerire azioni; – dimostrare o illustrare pratiche orientate alla salute; – rinforzare conoscenze, atteggia­ menti o comportamenti; – mostrare i benefici dei cambia­ menti comportamentali; – dare sostegno a posizioni su problemi o strategie di salute; – migliorare la domanda nei con­ fronti dei servizi sanitari; non basta, infatti, che i servizi sa­ nitari si strutturino in base alla domanda, ma è importante che anche la domanda interagisca con l’offerta di servizi sanitari; – respingere miti o idee sbagliate;

– rafforzare le relazioni organiz­

zative.

In combinazione con altre stra­

tegie la comunicazione per la salute

è in grado di: – provocare un cambiamento pro­ lungato in cui gli individui adottano e mantengono nuovi comportamenti in relazione alla salute, ovvero un’organizzazione adotta e mantiene un nuovo indirizzo politico; – superare ostacoli o problemi strutturali come l’insufficiente accesso ai servizi sanitari.

i caso

Anche il medico del lavoro, come gli altri colleghi, fornisce quotidianamente informazioni in tema di salute; parte di queste informazioni sono anche “nor­ mate”, nel senso che la legge a tutela dei lavoratori prevede una serie di informazioni che il me­ dico deve fornire agli operatori (ad esempio, il significato degli esami effettuati). Il medico del lavoro ha però la particolarità di rivedere periodi­ camente gli operatori non solo in ambulatorio, ma anche sul posto di lavoro, negli incontri dedicati alla sicurezza, nell’am­ bito dei corsi di formazione, nel momento dei pasti quando il medico è in sopralluogo, nella partecipazione a gruppi di lavoro finalizzati a scelte organizzative per la massima riduzione dei ri­ schi (acquisto di macchinari, di dispositivi di protezione, ecc.);

può costruire con gli operatori un rapporto che definirei par­ ticolare, probabilmente diverso da quello che riesce a costruire il collega medico di famiglia nei confronti dei lavoratori sani (di cui spesso vede le mogli). In queste molteplici e diverse occasioni di incontro il medico del lavoro può adottare varie strategie per comunicare la salu­ te: colloquio in visita, confronto su dati specifici (come nel caso del monitoraggio biologico o di quello ambientale), formazione tramite la proiezione di filmati (che riportano, ad esempio, come gli operatori agiscono sul campo), confronto con gli operatori nelle scelte per il mas­ simo contenimento del rischio. È proprio la comunicazione tramite varie strategie che per­ mette di provocare cambiamenti prolungati negli individui, ma a questo aggiungerei un altro fattore determinante che è il coinvolgimento degli operatori. Il coinvolgimento permette una più rapida crescita della cultu­ ra della salute, una facilitata condivisione degli obiettivi di salute che ci siamo dati e per­ mette anche di affrontare con più serenità le incertezze. Non nascondo che il coinvolgimento degli operatori richiede anche parecchie energie. [Medico] È necessario e utile individuare anche i limiti della comunicazione. non possedendo caratteristiche tau­

maturgiche, non ha la possibilità, né da sola né in combinazione con altre strategie, di: – produrre cambiamenti pro ­ lungati nei confronti di com­ portamenti complessi, senza il sostegno di programmi più ampi e articolati che possono anche includere strategie nei confronti dell’offerta dei servizi e delle tecnologie sanitarie, e nemmeno produrrecambiamenti nelle norme e nelle politiche. È infatti logico che situazioni di tipo strutturale non possano essere modificate da semplici interventi di tipo funzionale, quale può essere considerata la comunicazione; – essere ugualmente efficace nell’affrontare tutti gli aspetti o nel ripetere tutti i messaggi, sia perché il problema affrontato o il comportamento suggerito possono essere complessi, sia perché la popolazione-target può avere dei pregiudizi sul tema o, infine, perché il tema affrontato è controverso. Le tipologie in cui la comunica­ zione per la salute si struttura, sono varie e diversificate e talvolta si sovrappongono o si aggregano. Alcune si basano sulla popo­ lazione e si rivolgono ad intere comunità o a specifici gruppi al­ l’interno delle stesse, altre invece si focalizzano sugli individui. Le attività di comunicazione più dif­ fuse e conosciute sono: – l’educazione alla salute, che cerca di promuovere comportamenti sani educando ed informando gli 83

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individui mediante l’uso di mate­ riali e di attività strutturate; il marketing sociale, che pro­ muove o sostiene cambiamenti comportamentali positivi appli­ cando le tecniche di marketing agli interventi di comunità, di solito con il coinvolgimento dei mass-media; l’advocacy, cioè una forma com­ binata di sostegno e di pressione in cui si utilizzano i mass-media per promuovere strategie, norme e programmi di miglioramento della salute; la comunicazione del rischio, che coinvolge le comunità in dibattiti sui rischi per la salute (ad esempio, di tipo ambientale) e sugli approcci alternativi per affrontarli; la comunicazione al paziente, che comprende l’informazione agli individui con problemi di salu­ te, con l’obiettivo di facilitare la guarigione o di mantenere i regimi terapeutici (comunica­ zione professionista-paziente, comunicazione peer-to-peer); l’informazione alla popolazione, che aiuta gli individui a com­ prendere le proprie condizioni di salute e a prendere adeguate decisioni in merito alla salute propria, dei propri famigliari o del gruppo di riferimento.

In aggiunta, le nuove tecnologie della comunicazione, quali Inter­ net, combinando le caratteristiche delle comunicazioni di massa e quelle della comunicazione inter­ personale, stimolano la crescita di idee di comunicazione per la salute

fondate sull’utilizzo delle tecnolo­ gie e comprendono: – la telesalute (telehealth), cioè l’applicazione delle tecnologie delle telecomunicazioni alla sanità pubblica e alla medicina; – la comunicazione per la salute interattiva, che è l’interazione a livello individuale con tecnologie di comunicazione per ricevere e trasmettere informazioni sulla salute o per avere consigli su temi legati alla salute; – l’informatica sanitaria, cioè la co­ municazione interattiva in tema di salute rivolta agli individui; – la telemedicina, cioè l’applica­ zione delle tecnologie delle tele­ comunicazioni e dell’informatica all’assistenza clinica. Si è visto come la comunicazione serva a modificare comportamenti considerati e valutati in modo negativo. I soggetti interessati o interessabili al cambiamento sono: – Gli individui - Il livello inter­ personale è fondamentale per la comunicazione sulla salute perché il comportamento indi­ viduale influisce sullo stato di salute. La comunicazione può avere influenza sulla consape­ volezza, sulla conoscenza, sugli atteggiamenti, sull’efficacia, sulle abilità e sull’impegno al cambiamento comportamentale individuale. Anche le iniziative rivolte al pubblico hanno effetti sull’individuo; – I gruppi – Sono aggregazioni di persone che per ragioni profes­ sionali od occasionali si trovano a interagire in modo prolungato.

I gruppi informali a cui le persone appartengono e i contesti comu­ nitari che frequentano hanno un importante impatto sulla salute. Per esempio, iniziative orientate alla salute in contesti dove si svolgono relazioni fra dipendenti e clienti, fra persone che frequen­ tano la stessa palestra, studenti della stessa scuola, colleghi di la­ voro, pazienti e operatori sanitari in un ambulatorio, possono trarre grande beneficio dall’informalità dell’ambiente; – Le organizzazioni – Sono gruppi strutturalmente definiti (asso­ ciazioni, club, gruppi, ecc.). Con questo termine si intendono anche le imprese private, gli enti pubblici e la sanità privata. Le organizzazioni possono diffonde­ re messaggi orientati alla salute, offrire sostegno ai programmi di comunicazione per la salute e implementare politiche in grado di incoraggiare i cambiamenti individuali; – Le comunità - Gli opinion leader e i policymaker possono attiva­ re alleanze efficaci attraverso cambiamenti nelle politiche, nei prodotti e nei servizi che orien­ tano le azioni dei cittadini. Me­ diante l’impatto sulle comunità, i programmi di comunicazione per la salute possono accrescere la consapevolezza su un certo argomento, cambiare gli atteg­ giamenti e le credenze nonché il tipo di sostegno informale o isti­ tuzionale a favore della salute; – La società – nel suo complesso, condiziona i comportamenti indi­ viduali attraverso norme e valori,

atteggiamenti e opinioni, leggi e politiche nonché la creazione di ambienti fisici, economici, cul­ turali e informativi. I programmi di comunicazione per la salute rivolti alla società, cambiando gli atteggiamenti e/o i compor­ tamenti individuali, modificano le norme sociali. Sulla base di questa ripartizione, i canali comunicativi che vengono più comunemente utilizzati sono: – I canali interpersonali – Sono costituiti da medici, amici, membri della famiglia, ecc. e pongono i messaggi sulla salute in un contesto familiare. È pro­ babile che tali canali siano più affidabili e più influenti di altre forme di comunicazione. Sono gli strumenti più efficaci per il fatto che coinvolgono atteggiamenti e comportamenti. Il loro impatto risulta più efficace quando gli individui hanno familiarità con il messaggio che viene trasmesso (essendo già stati, per esempio, esposti a messaggi provenienti da mass-media. Allo stesso modo i messaggi provenienti dai mass­ media sono più efficaci quando sono sostenuti da comunicazioni interpersonali); – I canali di gruppo – Le attività che vengono svolte in gruppo sono in grado di facilitare la trasmissione dei messaggi ai destinatari voluti, mantenendo alcuni degli effetti caratteri­ stici dei canali interpersonali. I messaggi per promuovere la salute possono essere prodotti in funzione delle caratteristiche 85

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particolari che accomunano i membri del gruppo. Similmente ai canali interpersonali, lavorare utilizzando i canali di gruppo richiede uno sforzo notevole. L’efficacia della comunicazione attraverso i canali di gruppo è notevolmente maggiore quando i membri hanno già acquisito familiarità con i messaggi, tra­ smessi con altre modalità. – I canali organizzativi e di co­ munità – Gruppi di questo tipo possono disseminare materiali (per esempio, newsletter), orga­ nizzare eventi e offrire momenti di discussione e di spiegazione collegate ai messaggi che si intendono diffondere; – I canali dei mass-media – Sono costituiti da radio, TV, riviste, giornali, ecc. e offrono molteplici opportunità per la dissemina­ zione di messaggi, compresa la possibilità di includerli nei notiziari, nei programmi di in­ trattenimento, nei talk show, nelle trasmissioni dal vivo, negli editoriali (radiofonici, televisivi, giornalistici), negli articoli dedi­ cati alla politica e alla salute, in poster, brochure e campagne di servizio pubblico. naturalmente si possono utilizzare strumenti e media diversi scegliendoli in funzione della massima efficacia in termini di raggiungimento dei destinatari desiderati. Le ricerche hanno dimostrato che l’utilizzo dei mass-media mostra un elevato livello di efficacia: - nell’aumentare la consapevolez­ za nei confronti di una condizio­ ne o di un problema di salute;

- nello stimolare i destinatari a cercare informazioni e/o servizi; - nell’aumentare la conoscenza; - nel cambiare gli atteggiamenti e perfino nel conseguire il cambia­ mento di comportamenti. In ri­ ferimento a quest’ultimo aspetto, va precisato che i cambiamenti comportamentali sono di norma associati a campagne articolate di lungo periodo più che a pro­ grammi comunicativi singoli; – I canali dei media interattivi digi­ tali – I siti Internet, le bacheche elettroniche, i newsgroup, le chat room, ecc. costituiscono un fe­ nomeno in evoluzione che avrà un impatto sempre maggiore nel tempo. Sono media che consen­ tono a chi comunica di trasmet­ tere messaggi personalizzati ai soggetti target e di ricevere, da questi, utili informazioni di ritor­ no. Questi canali sono in grado di produrre sia comunicazioni di massa che interazioni interper­ sonali. Vengono prevalentemente utilizzati per: - inviare messaggi personali tramite posta elettronica; - segnalare indirizzi di siti rag­ giungibili da un grande numero di utenti; - creare e diffondere messaggi pubblicitari; - raccogliere ed analizzare infor­ mazioni inviate dagli utenti; - coinvolgere i destinatari in atti­ vità interattive personalizzate; - scambiare idee all’interno di gruppi di pari e di partner. L’informazione e l’educazione svolgono un ruolo importantissimo

nella promozione della salute, nella prevenzione e nella gestione delle malattie e nell’assunzione di deci­ sioni appropriate nel contesto della promozione della salute, dell’educa­ zione e dell’assistenza. nei confronti degli individui un’efficace comunicazione per la salute può essere di aiuto per ac­ crescere la consapevolezza dei rischi per la salute, per fornire motivazioni e abilità per limitarli e offrire utili collegamenti con coloro che si tro­ vano in condizioni analoghe. nei confronti della comunità, la comunicazione per la salute può aiu­ tare a stabilire le priorità, dare soste­ gno a politiche e programmi orientati alla salute, promuovere cambiamenti positivi a livello socio-economico e nel sistema sanitario, nonché propor­ re norme sociali intese a migliorare la salute e la qualità della vita.

– –

– –



– Perché una comunicazione rag­ giunga l’effetto desiderato deve essere efficace; tale efficacia può es­ sere conseguita grazie alle seguenti caratteristiche: – disponibilità di informazioni: i contenuti devono essere tra ­ smessi dove i destinatari possono accedere; – ripetizione: la trasmissione del contenuto deve essere ripetuta nel tempo sia per rinforzare l’impatto nei confronti dei de­ stinatari specifici, sia per rag­ giungere le fasce di popolazione desiderate; – accuratezza: il contenuto deve essere valido e presentato accu­ ratamente; anche la forma può contribuire alla trasmissione



efficace del contenuto;

affidabilità: ci deve essere credi­

bilità della fonte che diffonde il

messaggio;

penetrazione: il contenuto deve

essere disponibile per il maggior

numero possibile dei destinatari voluti; coerenza: il contenuto deve ri­ manere coerente rispetto ad altre fonti accreditate; tempestività: il contenuto deve essere reso disponibile quando l’audience è maggiormente ricettivo e quando ha la neces­ sità di disporre di informazioni specifiche; equilibrio: per essere appropria­ to, il messaggio deve contenere i benefici e i rischi di azioni potenziali ed esporre le diverse, purché valide, prospettive riguar­ do all’argomento trattato; sensibilità culturale: i processi di progettazione e di implemen­ tazione devono affrontare temi specifici per gruppi specifici di popolazione, per livelli culturali e per specifiche caratteristiche; multidimensionalità: la ricerca ha dimostrato che il livello di maggiore efficacia si riscontra quando una costellazione di at­ tività comunicative si integrano con attività non comunicative.

Va opportunamente precisato che, da sola, la comunicazione non è in grado di risolvere i problemi strutturali, come, ad esempio, la povertà o la mancanza di assistenza; non è in grado di ridurre la malattia o la morbilità in una popolazione, a meno che non sia sostenuta da 87

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interventi in grado di modificare i fattori comportamentali, biologici, socio-economici e ambientali. Per fare in modo che la comu­ nicazione migliori la salute degli individui e delle comunità, è ne­ cessario identificare le opportunità che ci offre in relazione a specifici problemi di salute, rafforzare e qua­ lificare l’infrastruttura comunicativa e, infine, promuovere un’analisi critica della sua efficacia. È altresì necessario individuare e applicare strumenti di valutazione per riconoscere i bisogni e i contesti dei diversi stakeholder e utilizzare le migliori tecnologie disponibili.

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Sulla base di quanto detto, i de­ cisori pubblici dovranno affrontare due sfide: garantire la privacy degli interscambi informativi relativi alle tematiche della salute che vedono coinvolti i cittadini e assicurare l’equi­ tà nell’accesso all’informazione. RIfERImENTI bIblIOgRafIcI

salute.net/context_biblioteca. jsp?area=44&ID_LInK=459) [4] Fondazione CEnSIS, Comuni­ cazione e Informazione per la Salute, 2001, (http://www. censis.it/277/372/4974/511 4/5152/5153/content.ASP) [5] J. Jacobson, Changing commu­ nication strategies for repro­ ductive health and rights: an overview in Working Group on Reproductive Health and Fami­ ly Planning – Report from the meeting on Changing Communi­ cation Strategies for Reproduc­ tive Health and Rights (10-11 Dec. 1997, Washington DC), new York: Population Council [6] S.C. Ratzan, n.S. Stearns, J.G. Payne, P.P. Amato, M.A. Madoff, “Education for the Health Com­ munication Professional: A Colla­ borative Curricular Partnership”, in American Behavioral Scien­ tist, 32 (2), nov. 1994, p. 368

[1] R. Brodie, Virus della mente, [7] S.C. Ratzan, “Health Communi­ Ecomind, 2000 cation”, in Challenges for the 21st Century - Special issue, [2] U.S. Department of Health & American Behavioural Scientist Human Services, CDC - Making 38 (2), 1994 Health Communication Programs Work (Pink Book), (http://www. [8] World Health Organization, The cancer.gov/pinkbook), 1989 Pen Is Mighty As The Surgeon’s Scalpel - The Nuffield Trust, [3] V. Curzel, a cura di, Comuni­ 1999, (www.euro.who.int/do­ cazione pubblica e marketing cument/e68240.pdf) sociale per la sicurezza e la salute sul lavoro, Provincia Giovanni Martini è dirigente del Servizio Autonoma di Trento, 2005, Innovazione e formazione per la Salute parte I, (http://www.trentino­ della Provincia Autonoma di Trento

la morte è inevitabile Andrea Gianinazzi

La pletora di informazioni indirizzate al paziente ne aumentano l'insicurezza e alimentano una visione mitica dell'efficacia della scienza medica.

Ogni sistema sanitario è caratteriz­ zato da una pluralità di attori: – i pazienti, che sono anche cittadini, assicurati e clienti a seconda del contesto in cui s’in­ seriscono e fanno delle scelte; – i fornitori di prestazioni, che, avendo risorse, vendono beni sul mercato della salute; – i produttori di tecnologia; – i politici, che devono decidere la pianificazione sanitaria. Oggi, in ciascun paese, una quota sempre maggiore di ricchez­ za è destinata alle spese sanitarie (attualmente quasi il 10 %). Il paziente diviene destinatario di un’ampia serie di informazioni che anziché determinare competenze e certezza generano sempre più insicurezza.

ii caso

Sono ormai un medico “maturo”, quindi ho pazienti che seguo ormai da più di 20 anni e che normalmente accedono a un controllo presso l’ambulatorio gi­

necologico. Sulle schede, oltre che la descrizione della visita, tengo anche brevii appunti del colloquio per superare le difficoltà di me­ moria che stanno incombendo. È per questo che posso raccontare questo breve episodio pertinente

all’argomento.

Circa dieci anni fa effettuo il con­

trollo annuale a una signora qua­ rantenne, donna in carriera, quin­ di attiva, fisicamente ben tenuta. Finita la visita, che non metteva in luce assolutamente nulla di irregolare – anche la domanda “Come le vengono le mestruazio­ ni” aveva avuto come risposta “Come un orologio, regolari ogni 28 giorni” – la piacente signora mi dice: “Dottoressa, facciamo qualche esame per vedere se sono in menopausa”. Cerco di spiegarle che non ne vedo la necessità, non c’è nemmeno familiarità per menopausa precoce, non ha sin­ tomi e quindi non è indicato fare nessun accertamento. “No, sa, perché io assolutamente voglio fare la terapia sostitutiva, perché, capisce...”, e mi elenca tutte le lodi che in quegli anni appariva­ no sulle riviste al riguardo della terapia ormonale sostitutiva. È ritornata poco tempo fa, or­ mai cinquantenne, con iniziali irregolarità mestruali. Questa volta inizio io a parlarle di pos­ sibile perimenopausa, a esporle l’eventuale necessità di utilizzare qualche terapia per ridurre il relativo stato d’iperestrogenismo che la porta ad avere metrorragie e conseguente anemia. Ma la signora sempre “assolutamente”, 89

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non vuole fare nessuna terapia, né ora né quando sarà in totale amenorrea; caso mai, si curerà con l’omeopatia, perché “Mi vuol far venire un cancro al seno? E l’infarto?” In questi ultimi due anni, infatti, sono apparsi nume­ rosi articoli, anche su quotidiani ad alta diffusione, con allarmismi in tal senso. Parlo del problema “informazione e mass media” perché sarebbe stato troppo lungo trattare la problematica “informazione tra medico e paziente”. Inoltre, i mass media non fanno altro che amplificare i nostri errori, le nostre incertezze o le nostre certezze di comunicazione con il paziente, creando una cassa di ri­ sonanza che può essere oltremodo pericolosa perché impedisce alla maggioranza delle persone l’uso del ragionamento o l’utilizzo delle proprie capacità cognitive. Eravamo stati noi ginecologi, dieci anni, fa a elogiare in modo inopportuno (o era opportuno per le proprie entrate economiche?) i benefici di una terapia ormonale, per altro in precedenza usata, che non era ancora sicura e ben docu­ mentata nei suoi effetti a lungo termine. Ricordo perfettamente come ai nostri congressi venissero invitate la stampa e belle signore dello spettacolo in età appro­ priata per stimolare le donne ad assumere ormoni, facendo capire che tutte sarebbero rimaste come quelle dive se... Ricordo una conferenza di consen­ so proprio nella nostra provincia, ben ripresa dalla televisione e

dalla stampa, dove si faceva ca­ pire e si trasmetteva anche a noi medici prescrittori, che la terapia andava iniziata subito e protratta il più possibile: “negli Stati Uniti si usa anche a settanta anni”. Sono passati pochi anni, hanno iniziato a essere pubblicati i primi studi, si è capito che tutto l’otti­ mismo dei primi anni doveva esse­ re ridimensionato, che come tutte le terapie anche questa va usata solo se c’è una patologia, un di­ sturbo, ma non in prevenzione di ciò che non c’è. Nei nostri corsi si sono portati questi primi risultati non ottimistici, e la stessa stampa che aveva dato tanto entusiastico rilievo al “boom ormonale”, ha trovato un articolo, pubblicato su una rivista scientifica seria (an­ che se, purtroppo, lo studio non lo è) di notevole allarmismo; e così sono apparsi su quotidiani e riviste articoli di terrorismo vero e proprio. Articoli che, ovviamente, sono stati pubblicati in estate (i mass media conoscono meglio di noi le caratteristiche di una comunicazione efficace), quan­ do, comodamente spaparanzata su una sdraio, la maggior parte delle donne ha il tempo di dare un’occhiata ai giornali e di far partire il tam tam con la vicina d’ombrellone. Che dire? Dieci anni fa ero uscita dalla sala durante una conferenza di aggiornamento sulla meno­ pausa perché, in modo palese ed inequivocabile, un relatore – stimato professore –, aveva presentato l’argomento come un vantaggio economico per il nostro

ambulatorio, visto che era in calo il numero delle donne gravide da seguire. Come metodo di lavoro, avevo cercato di smitizzare le meraviglie attribuite alla terapia ormonale sostitutiva, ritenendola, appunto, una “terapia” e quindi da utilizzare, come tutti i farmaci, solo in caso di necessità e non come “elisir di lunga vita”. Perciò, ora che le mie idee sono confermate dai dati della lette­ ratura medica, non mi è difficile continuare su questa strada; ma continuo ad arrabbiarmi per il modo in cui, quotidianamente, i media diffondono le notizie riguardanti la salute. Mi rendo conto che, per forza di cose, que­ sta società consumistica non ci permette di capire che siamo solo degli esseri umani, che vorremmo essere onnipotenti, ma che non sappiamo invece salvaguardare nemmeno ciò che abbiamo in prestito: la natura, l’ambiente che ci circonda, la nostra stessa vita. [Medico] nel mercato della salute le informa­ zioni sono diffuse soprattutto da coloro che producono beni e servizi medico-sanitari. Questi produttori hanno tutto l’interesse a diffondere informazioni che vadano a mas­ simizzare il profitto della propria attività. In Svizzera vi sono dei Cantoni in cui vi è stato un forte aumento del PIL dovuto al corrispondente aumento, da parte del sistema sa­ nitario, del proprio volume di affari in ambito sanitario. I profitti che

ruotano attorno alla sanità sono dunque in grado addirittura di mo­ dificare il PIL interno di un piccolo Stato come il Cantone Ticino. Le attese nei confronti della salute sono in continua crescita, so­ prattutto in società avanzate come la nostra dove la medicina appare sempre più come una scienza esatta e infallibile. Tali attese dovrebbero essere senza dubbio ridimensionate perché spesso superano ogni ragio­ nevole evidenza. Tuttavia la visione mitica del­ la salute e la convinzione circa l’onnipotenza dei sistemi sanitari sono continuamente rinforzate e avvalorate dalla diffusione di co­ municazioni mediatiche finalizzate a tenere desta l’attenzione della popolazione con mezze verità, più che a dare informazioni corrette e veritiere in tema di salute. Si pensi ai sempre più diffusi tentativi di anticipare la conoscen­ za circa la possibile insorgenza di una malattia. Oggi sono sempre più pubblicizzati, e di conseguenza richiesti, screening e test geneti­ ci in grado di prevedere malattie future, anche qualora esse siano incurabili. Il sistema sanitario assorbe il 95% delle risorse di uno Stato de­ stinate alla salute, ma costituisce solo il 10% -15% dell’intero pro­ blema-salute. L’aspetto riparatorio ha dei costi notevolmente maggiori rispetto a tutti quegli interventi che potrebbero essere attuati per salvaguardare e migliorare la salute di una popolazione. Da un’indagine fatta in Svizzera, l’80% del campione di popolazione 91

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intervistato ritiene che la medicina sia una scienza esatta. Tale convin­ zione diminuisce considerevolmente per gli internisti e ancor più per gli epidemiologi, che sono lungi dal credere nell’infallibbilità della scienza medica proprio perché la conoscono più da vicino. Richard Smith, che fino a qualche anno fa è stato il direttore respon­ sabile del British Medical Journal, definisce il rapporto medico-pa­ ziente come una sorta di “follia a due” nella quale il paziente si sente incerto, ma è convinto che il medico sia certo, mentre il medico sa di non essere certo, ma è sicuro che il paziente non sappia di questa sua incertezza. Ci troviamo di fronte a una forte e insanabile asimmetria di conoscenze tra medico e paziente che arriva a generare incertezza in entrambi. Ecco alcuni esempi molto elo­ quenti di ciò: – il 50% delle donne americane a cui è stato asportato il collo dell’utero continuano a fare il pap test; – il 73% degli adulti americani preferisce sottoporsi a un total body scanner piuttosto che rice­ vere in regalo 1.000 dollari in contanti; – il 66% degli adulti americani è disposto a sottoporsi a un test di diagnosi precoce anche per un tumore per cui non esiste una cura; – molte donne credono che lo screening mammografico eviti o riduca il rischio di ammalarsi di tumore al seno.

Su un giornale svizzero qualche tempo fa è apparsa una notizia piuttosto curiosa: in Portogallo si è fatto credere alle donne che, se si fossero presentate sul balcone di casa a seno nudo, sarebbe stata fatta loro una mammografia col satellite. E non sono state in poche a dare credito a quest’informazione, convinte di sottoporsi a uno scree­ ning satellitare. Episodi come questo evidenziano il bisogno della popolazione di esse­ re presa in carico da un sistema che promette molto di più di quanto in realtà riesca a realizzare. Oggi più che mai assistiamo all’esaltazione di una politica sani­ taria strutturale, gestita sull’offerta, sul numero degli ospedali, sul ma­ nagement, sul finanziamento, con l’obiettivo di garantire l’accesso equo a cure efficaci basate sull’evi­ denza scientifica. Personalmente credo che vada invece maggiormen­ te curato un altro aspetto, quello del rafforzamento delle competenze dei cittadini attraverso l’informazione e la comunicazione circa gli aiuti che la medicina può dare nella gestione di un problema di tipo sanitario. L’obiettivo è quello di riequili­ brare l’asimmetria dell’informazione tra medico e paziente e di ridurre il crescente consumismo di prestazioni sanitarie. Il paziente-consumatore è un soggetto debole, che non possiede informazioni, che non è in grado di esprimere preferenze sul mercato sanitario e che quindi ha bisogno di essere guidato nelle sue scelte. Solitamente le informazioni che mancano al paziente sono:

– le informazioni sullo stato di salute; – i trattamenti disponibili; – le incertezze relative ai tratta­ menti disponibili. In Svizzera è stato fatto uno studio in relazione al tumore al pan­ creas, ponendo agli intervistati due tipi di quesiti, caratterizzati da due diverse modalità di informazione: – un’informazione standard: “In occasione dell’abituale visita di controllo, il medico le chiede se è disposto a sottoporsi a un test diagnostico che consiste in un esame del sangue in grado di diagnosticare precocemen ­ te l’esistenza di un cancro al pancreas. Quale sarebbe la sua decisione?” – un’informazione estesa, nella quale alla domanda precedente sono stati aggiunti i seguenti dati: “ Il test non è preciso perché c’è il rischio dei falsi positivi; è necessario fare esami supplementari in ospedale per confermare il risultato del test; in Svizzera ogni anno 11 persone su 100.000 sono colpite da can­ cro al pancreas; su 100 persone colpite da cancro al pancreas solo 2 sono ancora in vita dopo 5 anni. In questo caso quale sarebbe la sua decisione?” Con la prima informazione accet­ ta il test il 60% degli intervistati, con l’informazione estesa accetta il test solo il 13,5%. Questo caso dimostra come l’informazione possa effettivamen­ te cambiare il comportamento del paziente. Le principali minacce all’informa­

zione evidence based sono: – i mass media; – gli opuscoli informativi, che molto spesso enfatizzano solo i benefici e omettono gli effetti indesiderati.

iii caso

È autunno, tempo di primi raffreddori, di prime sindromi parainfluenzali... di vaccino an­ tinfluenzale. L’altro giorno, guardando la televisione, sono incappata in una trasmissione che trattava di salute e nella quale si parlava dei mali di stagione e di vaccino an­ tinfluenzale. Dopo aver elencato le categorie di adulti per le quali la vaccinazione è caldamente consigliata, il presentatore ha spostato l’attenzione sui bam­ bini, affermando che anche per loro è opportuno ricorrere al vaccino, anche quando sono sani e senza particolari patologie (mi sono chiesta se stessi guardando un programma di informazione sulla salute o un messaggio pubblicitario). E perché? Perché così la mamma non è costretta a sopportare il piccolo, magari più noioso del solito, e non deve assentarsi dal posto di lavoro per accudire il pargolo, cosa di non secondaria importanza visto che ciò comporta un costo per la società. Nessuna menzione, però, al diretto interessato. Nessuno che dica se fa bene o se fa male vaccinare contro l’influenza un bimbo piccolo, se sia meglio evitare, per quanto possibile, il 93

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malessere influenzale ricorrendo al vaccino o se, al contrario, sia meglio esporre il giovane orga­ nismo al contatto con il virus, affinché il sistema immunitario venga stimolato. Non si parla di effetti collaterali, di rischio-be­ neficio. Si parla solo di costi per la società dovuti all’assenza dal lavoro della madre. Oggi, in molti casi, la salute ci viene presentata non più come un fine da raggiungere, un bene da garantire possibilmente a tutti, ma come un mezzo per produrre denaro e ricchezza. [Farmacista]

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Un altro problema è dato dal c.d. “secondo parere” che, se divergente rispetto al primo, disorienta forte­ mente i pazienti ponendoli in una condizione di ansia e d’insoddisfa­ zione perché vedono infrangersi la speranza di ricevere risposte certe e univoche. È necessario dunque che l’in­ certezza in cui si trova a operare il personale medico venga comunicata e trasmessa al paziente. Si deve infatti insegnare a quest’ultimo a dubitare delle proprie scelte e ad affrontare serenamente la condizio­ ne di incertezza che caratterizza la scienza medica, in quanto scienza inesatta.

iv caso

Lavoro da sette anni nell’am­ bulatorio di diagnosi prenatale dell’ospedale S.Chiara di Trento, a contatto con donne che intrapren­

dono l’impegnativo e affascinante cammino della maternità. In gravidanza tutto è incertezza: dal momento del concepimento fino alla nascita. Sopravvivere all’eterno dubbio dipende dal benessere psicologico della madre e dall’intervento di alcuni fattori, uno dei quali è la comunicazione efficace. Tutti sappiamo che l’an­ sia è ormai divenuta il sintomo dei nostri tempi, in cui viene richiesto il massimo in tutto e per tutto. L’approccio alla gravidanza, per la maggioranza delle persone, è tendenzialmente in questi ter­ mini: “Mi sottopongo a tutti gli accertamenti possibili, voglio un figlio perfetto!” Purtroppo, l’ostetricia non è ar­ rivata a tanto e quello che può dare non sempre è certezza. Il bi-test che si esegue a dodici settimane gestazionali, calcola un rischio, non una certezza. Così come il tri-test alla sedicesima settimana. La diagnosi prenatale invasiva mediante villocentesi (rischio abortivo a parte) non dà sempre sicurezza sulla risposta: a volte è necessario eseguire a sedici settimane l’amniocentesi per avere una diagnosi definitiva sul cariotipo fetale. Per non parlare delle enormi aspettative che si sono create attorno alle indagini ecografiche, soprattutto alimentate dalla pub­ blicità, ad esempio per le ecogra­ fie tridimensionali, e dell’enorme delusione quando si comunica che, allo stato attuale, il 30% dei difetti non possono essere eviden­ ziati con questa metodica.

Gli operatori che lavorano in tale contesto quindi sono particolar­ mente esposti ai rischi del comu­ nicare, consapevoli di occuparsi di due pazienti, uno contenuto nell’altro, al confine tra la vita e la morte, tra il presente e il futu­ ro. Durante un esame ecografico tutto assume un valore altissi­ mo: il silenzio, l’atteggiamento dell’operatore, il clima in ambu­ latorio, le interferenze esterne. Quanto pesa il silenzio, magari prolungato? (qualcosa non va?) Oppure il parlare “troppo” (sarà concentrato a sufficienza?). Pa­ role come “troppo piccolo, troppo grande, troppo liquido amniotico, troppo poco...” sono commenti che toccano punti sensibili nella donna, che tende a sentirsi ina­ deguata e non all’altezza. La capacità di comunicare del­ l’operatore e dell’equipe multidi­ sciplinare diviene fondamentale quando c’è una diagnosi ecogra­ fica di malformazione. Giuste parole, al momento giusto e nel giusto modo: inizia così un’ef­ ficace relazione terapeutica. – Cercare di usare un linguaggio semplice, vale a dire comprensi­ bile, non eccessivamente tecnico, aiutandosi eventualmente con schizzi esemplificativi. – Chiedere alla coppia di ripetere quanto è stato detto, per valutare la comprensione e la completezza dell’informazione recepita (si comunica solo ciò che l’altro ha compreso).

– Lasciare il tempo per le do­

mande, far silenzio, ripetere il colloquio se necessario (sappiamo

che spesso le donne reagiscono con un black-out emozionale e poco dopo non ricordano quello che è stato detto). – Predisporre un luogo idoneo alla comunicazione, evitare inutili intrusioni di estranei. Non sareb­ be maletaccare i telefoni. Creare insomma un luogo protetto dove la donna possa sentire che ci siamo solo per lei. – Lasciare spazio alle emozioni. La donna deve poter piangere liberamente per la delusione, per la caduta delle aspettative, per la preoccupazione. – Stabilire un’alleanza terapeutica con la coppia, favorendo l’autono­ mia decisionale sulle scelte conse­ guenti (non desiderare che scelga­ no come noi sceglieremmo). – Prendere eventuali contatti per ulteriori approfondimenti diagno­ stici presso altre strutture, dare tutte le indicazioni necessarie (recapiti telefonici, documenta­ zioni da portare, ecc.) Per fare tutto questo occorre tanto tempo... tempo sempre pre­ zioso quando in un ambulatorio esiste un programma giornaliero

di lavoro sempre ben nutrito.

Avere tempo e continuare a

trovare il tempo per il sostegno

instaura un circolo virtuoso che

promuove la qualità dell’assi­

stenza, sia nella relazione con

la coppia, che nella relazione fra

operatori.

[Infermiere]

Ciò non esclude tuttavia la conse­

guente necessità di trovare modalità

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comunicative in grado di informare il paziente in modo veritiero, ma senza aumentare la sua sensazione di incertezza fino al punto di tra­ sformarla in ansia e incapacità di decidere.

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v caso

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La signora S. ha 61 anni e da tempo lamenta lesioni infiltrate e ulcerate alle gambe, diagno­ sticate come ulcere varicose e trattate, senza beneficio, con la safenectomia seguita da succes­ siva revisione chirurgica. Insoddisfatto dei risultati e spin­ to dalla paziente, ho avviato un complesso iter diagnostico, con consulenza estera che infine ha portato una diagnosi certa: lin­ foma cutaneo CD56+NKT, nasal type. Accanto alla diagnosi, una breve comunicazione: per questa forma non si hanno certezze in campo terapeutico. Obbligatorio a questo punto cer­ care informazioni, naturalmente sulla rete, dove trovo anche l’autore che ha pubblicato di più su questo tumore, cioè cinque casi. Provo a inviargli (in Corea) una mail per informazioni; con grande sollecitudine mi risponde spiegandomi che la malattia è caratterizzata da un periodo di quiescenza con piccole lesioni che recedono spontaneamente, e da una fase successiva e imprevedi­ bile di esplosione leucemica che rapidamente conduce alla morte. Per quanto riguarda la terapia, si sa che la chemioterapia instaura­ ta in fase leucemica è inefficace,

in fase di quiescenza non si sa. Se si decide per la chemioterapia, questa va instaurata quando il paziente è praticamente asinto­ matico, ma non ci sono certezze di alcun genere, i pochi dati in letteratura sono solo aneddotici. Vedo la paziente con il marito e, in un difficile e lungo colloquio prospetto le due possibilità: intervenire con la chemioterapia con i suoi sicuri effetti collate­ rali e senza alcuna certezza dei risultati, oppure non fare nulla, sapendo che se la malattia de­ genera non ci sono possibilità. La decisione è difficilissima: non fare nulla pesa come un maci­ gno, ma gli effetti della chemio, senza alcuna certezza non sono da meno. Timidamente chiedono se possono avere il parere di uno specialista. Ovviamente rispondo di sì, anche se a malincuore, dato che imma­ gino già che la decisione dopo il consulto verrà indirizzata per l’agire, più sulle convinzioni del medico che della paziente. Preparo una relazione sulla malat­ tia e l’iter che ha portato alla dia­ gnosi, e contatto telefonicamente il collega che vedrà la paziente prima della visita, anche per spie­ gare cosa ho detto alla signora. Dopo circa un mese, in cui il collega oncologo si è consultato con altri specialisti italiani, viene concordato di effettuare la che­ mioterapia, ma in altra sede, per problemi di tecnica terapeutica. In questo periodo la paziente ha presentato un piccolo focolaio broncopneumonico a lenta riso­

luzione, vista anche i problemi di allergia con l’uso di alcuni antibiotici. Poi ha effettuato tre visite oncologiche: le prime due hanno confermato la chemiote­ rapia, rinviandola in attesa di completa risoluzione radiologica del focolaio, ma nel corso della terza visita un altro oncologo le ha prospettato in modo molto realistico i rischi della chemio­ terapia, compreso anche la pos­ sibilità di morirne, non essendo indifferenti i problemi con l’uso degli antibiotici. Il collega le ha chiesto poi una decisione defini­ tiva, non subito, su due piedi, ma entro otto giorni. La signora S. è tornata da me e abbiamo parlato a lungo, tornan­ do a esaminare vantaggi e svan­ taggi, in modo più consapevole. Alla fine del colloquio la signora e il marito, anche dopo aver chie­ sto espressamente il mio parere, decidono di non effettuare più la cura, ma il morale di tutti non è certo allegro. Oggi, sono passati due anni, la signora sta bene e finalmente riesce a dormire serena, essendosi convinta di aver fatto la scelta giu­ sta. Ne sono convinto anch’io, ma spero proprio che duri a lungo. Cosa si ricava da questo caso? Molti dubbi e molte problemati­ che, e la consapevolezza che sce­ gliere nell’incertezza è difficile. Approfondire sintomi dubbi e difficili a volte porta a dover valutare situazioni ancor più complesse. L’utilizzo della rete può portare aiuti e conoscenze insperate

anche a un medico che opera in una realtà periferica. Vi sono delle situazioni di incer­ tezza e di ignoranza dei risultati delle pratiche mediche, in cui si deve comunque prendere la decisione migliore. La decisione sui trattamenti, soprattutto in condizione di in­ certezza, deve essere assunta dal paziente, in base alla conoscenza approfondita della situazione. Questa conoscenza è tutt’altro che facile da raggiungere, spesso necessita di tempo e di più pareri per essere acquisita in maniera adeguata a maturare una deci­ sione. È essenziale non pretendere una decisione immediata, ma lasciare al paziente tempo per riflettere. Il paziente ha il diritto di cam­ biare opinione, anche in funzione di nuove informazioni ricevute (e non va considerato un rompisca­ tole quando lo fa). Non dobbiamo ragionare per ste­ reotipi. Non tutti i medici sono uguali e, soprattutto, non comu­ nicano tutti allo stesso modo. Sarebbe comunque auspicabile un certo grado di uniformità per i criteri generali della comu­ nicazione tra i vari medici e il paziente. [Medico] Di fronte a una pluralità ed eteroge­ neità di informazioni i pazienti non devono essere lasciati soli, ma de­ vono essere accompagnati, in modo non paternalistico, da un operatore capace di mettere a sua volta a nudo 97

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dubbi e incertezze. Come sottolinea Richard Smith, vi sono alcuni aspetti che dovrebbe­ ro essere comunicati al paziente: – la morte è inevitabile; – la maggior parte delle malattie gravi non possono essere curate proprio perché gravi; – gli antibiotici non servono per l’influenza; – le protesi delle anche ogni tanto si rompono; – gli ospedali sono luoghi perico­ losi (ad esempio: l’epatite A oggi si prende negli ospedali); – i prodotti farmaceutici hanno anche effetti secondari; – la maggior parte dei trattamenti medici danno solo benefici mar­ ginali e molti non funzionano affatto; – gli screening danno anche risul­ tati falsi positivi e falsi negati­ vi; – ci sono modi migliori di spendere i soldi che spenderli per acqui­ stare tecnologia medica.

Andrea Gianinazzi è componente del Comitato Etico del Canton Ticino

Marketing sociale, autoresponsabilizzazione e scelte di salute Vittorio Curzel

Di che cosa parliamo quando parliamo di marketing sociale? Quali sono le ragioni per utilizzarlo nell’ambito della promozio­ ne della salute? Quali sono i meccanismi del suo funzionamento? 1. Il marketing sociale In questi ultimi anni si è parlato molto di marketing sociale e pur­ troppo non di rado lo si è fatto in modo abbastanza confuso, facendo­ vi rientrare vari campi di attività con obiettivi e finalità eterogenee. C’è, per esempio, chi pensa che sia marketing sociale l’azione di co­ municazione svolta dalle associazio­ ni no-profit quando pubblicizzano il proprio operare oppure chi vi ricom­ prende le iniziative messe in atto dalle aziende sanitarie pubbliche o dalle strutture sanitarie private quando promuovono i propri servizi o cercano finanziamenti. C’è anche chi, con frettolose generalizzazioni, fa un tutt’uno di marketing sociale, comunicazione sociale e responsa­ bilità sociale d’impresa. noi preferiamo far riferimento alla definizione data da Philip Kotler, con ned Roberto e nancy Lee : “Il marketing sociale è l’utilizzo dei principi e delle tecniche del marke­ ting per influire sulla decisione di un gruppo target, destinatario della comunicazione, per quanto riguarda

l’accettare, rifiutare, modificare o abbandonare volontariamente un dato comportamento, allo scopo di ottenere un beneficio per i singoli, i gruppi o la società nel suo com­ plesso”. Dobbiamo peraltro ricordare che il marketing non è l’unico modo per ottenere un cambiamento di com­ portamento. Sono infatti possibili anche altri approcci: – quello normativo (si pensi ad esempio alle norme che vietano il fumo negli esercizi e nei locali pubblici); – quello tecnologico (ad es. il

“cerotto” per chi vuole smettere

di fumare),

– quello economico (ad es. aumen­

tare il prezzo delle sigarette).

Le azioni di marketing sociale

rientrano in un approccio di tipo in­

formativo-educativo, che si esplica per lo più nell’elaborazione e nella diffusione di messaggi sui danni le­ gati ad un dato comportamento no­ civo che si consiglia di abbandonare nonché sui benefici conseguenti al cambiamento proposto. L’esperienza insegna che spesso i risultati migliori si ottengono grazie all’integrazione dei quattro approcci sopra ricordati. 2. Perché utilizzare le tecniche del marketing sociale per la promozione della salute? A fianco di numerosi e fin troppo entusiastici sostenitori non man­ cano certo i perplessi e coloro che, prima ancora di sapere di che cosa si tratti, non esitano a condannare l’utilizzo delle tecniche del marke­ ting nell’ambito della comunicazio­ 99

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ne pubblica e sociale, vedendolo come strumento sempre e comunque asservito a logiche commerciali e ritenendolo quindi inadatto ad attività di pubblica utilità. Cerchiamo dunque di capire quali siano le ragioni dell’utilizzo delle tecniche del marketing sociale nell’ambito della promozione della salute.

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Come è noto la finalità delle azioni di promozione della salute è facilitare l’adozione di stili di vita favorevoli al benessere fisico e psi­ cologico; d’altra parte il marketing sociale è uno strumento utile per modificare atteggiamenti e com­ portamenti. ne consegue che le tecniche del marketing sociale possono essere un valido supporto per la promozione della salute. Tale attività non sarà svolta in sostituzione, ma piuttosto sarà integrata con le tradizionali ini­ ziative di educazione alla salute, con l’obiettivo di consentire ai cittadini di acquisire conoscenze, abilità e competenze utili per sce­ gliere, volontariamente e in modo consapevole, che cosa è bene per la propria salute, coerentemente con quanto indicato dalla Carta di Ottawa (OMS 1986).

soluzioni, in altre parole una corretta percezione dei danni per la salute correlati a un dato comportamento e dei benefici conseguenti all’adozione di abitudini più sane, può favorire l’adozione di un comportamento salubre; b) Un cambiamento di azione: ad esempio, non basta che i lavoratori sappiano perché è im­ portante indossare i dispositivi di protezione o quali procedure produttive seguire per avere una maggiore sicurezza sul lavoro, è necessario che i lavoratori com­ piano tali azioni; c) Un cambiamento di comporta­ mento: l’abbandono di abitudini dannose a favore di altre più salubri; d) Un cambiamento di valori: è spesso il più difficile e il più lento da attuare. Può essere indispensabile per esempio per creare un atteggiamento favore­ vole della popolazione verso un disegno legislativo. Ad esempio, imporre il divieto di fumo nei locali pubblici una ventina di anni fa sarebbe stato molto più difficile, dato che la consapevo­ lezza circa i danni derivanti dal fumo e l’orientamento a una vita salubre sono oggi più diffusi.

Quali sono gli obiettivi di cam­ biamento che il marketing sociale può cercare di conseguire, nell’ambito della promozione della salute? a) Un cambiamento cognitivo: una maggiore conoscenza del problema e delle sue possibili

Il marketing sociale (nel nostro caso il marketing per la salute) condivide alcuni fondamenti teorici e utilizza varie tecniche tipiche del marketing d’impresa e di prodotto. Come questi basa la propria azio­ ne sulla teoria dello scambio e sulla “segmentazione” dell’universo della

popolazione in gruppi omogenei, individuando benefici ricercati e costi percepiti in ciascun segmento e posizionando di conseguenza il prodotto offerto.

pagna per la raccolta differenziata dei rifiuti, perché la tutela e la pro­ mozione del patrimonio ambientale rende un territorio più attrattivo anche per un turismo di qualità.

Proprio nella tipologia dell’of­ ferta, così come nelle sue finalità, vanno evidenziate alcune differenze sostanziali fra marketing d’impresa e marketing sociale. L’oggetto dell’offerta non sono evidentemente beni tangibili o servizi, ma idee, comportamenti, valori. La finalità dell’offerta non sarà dunque promuovere l’acquisto di un prodotto, ma l’adozione di nuovi comportamenti in grado di produrre benefici di carattere indi­ viduale e collettivo. Se cambiano oggetto e finalità dell’offerta, possiamo presupporre che cambino anche i “competi ­ tors”. Infatti i concorrenti non saran­ no coloro che realizzano prodotti competitivi rispetto ai nostri, ma coloro che propongono opinioni e stili di vita antagonisti, che rite­ niamo dannosi e da modificare. Per esempio, in una campagna contro il fumo i produttori di sigarette sa­ ranno antagonisti, come potrebbero esserlo associazioni di fumatori e altri soggetti che sostengono “il diritto a fumare”. Saranno invece nostri alleati tutti quei soggetti pubblici e privati che condividono i nostri intenti e che perseguono obiettivi identici o compatibili, eventualmente an­ che con motivazioni diverse. Per esempio l’associazione albergatori potrebbe sostenere una nostra cam­

Allargando la definizione ini­ ziale potremmo allora dire con Kotler che il marketing sociale è la progettazione, la realizzazione e la valutazione di programmi atti ad aumentare l’accettabilità di una causa o di un’idea sociale, presso uno o più gruppi-obiettivo, tramite l’utilizzo dei concetti di “segmentazione”, di facilitazione e di incentivo, nonché della teoria dello scambio, per massimizzare la risposta di tali gruppi. Perché, parlando di idee e di comportamenti, ci riferiamo alla “teoria dello scambio”, così come farebbe un produttore di automo­ bili? Partiamo dal presupposto, ovvio per un economista, che il prezzo di un prodotto sia da noi ritenuto giusto quando a questo prodotto annettiamo un valore pari o inferio­ re al valore di qualcos’altro che po­ tremmo comprare allo stesso costo. Facciamo poi l’ipotesi, che sembra assai plausibile, che accettiamo di adottare un nuovo comportamento, solo quando riteniamo che i benefici che ci vengono prospettati siano pari o maggiori (e i costi pari o minori) di quelli che avremmo nel continuare a seguire quella data abitudine che ci si chiede di cam­

biare.

Se muoviamo un ulteriore passo

avanti nel ragionamento potremmo

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pensare che per ciascun gruppoobiettivo benefici ricercati e costi percepiti siano differenti (torniamo al bene automobile e si comprende­ rà immediatamente che un giovane acquirente presumibilmente cerche­ rà qualità e caratteristiche diverse da quelle desiderate da un anziano) ed ecco allora che la proposta di scambio (costi psicologici correlati all’adozione di un nuovo compor­ tamento in cambio dei benefici conseguenti) dovrà tener conto di queste differenze “posizionando” diversamente il prodotto-idea og­ getto della nostra campagna (a una ragazza potremmo per esempio dire che il fumo di sigaretta rovina la pelle, a un fumatore adulto che il fumo gli abbrevierà notevolmente la vita). Questi concetti, derivati dal marketing di prodotto, sono dunque utilizzati anche nelle campagne di marketing sociale per massimizzare la risposta o, in altre parole, per ottenere una maggiore efficacia ed efficienza dalla nostra azione. 3. Come funziona il marketing socia­ le per la salute? Quali sono le fasi attraverso cui si realizza una campagna e quali sono i meccanismi attraverso cui la cam­ pagna raggiunge gli obiettivi che ci siamo proposti? Abbiamo sopra accennato al concetto di “posizionamento” del nostro prodotto-idea e al fatto che dobbiamo essere in grado di pro­ spettare al nostro pubblico-target dei benefici tali da convincerlo ad abbandonare un dato comportamen­ to non salubre.

Dunque, prima di tutto, è ne­ cessario saperne un po’ di più del pubblico a cui ci rivolgiamo, cono­ scere più a fondo quali benefici sta cercando, quali conoscenze ha circa i reali danni e i benefici rispetto al comportamento che sta mettendo in atto, se ha consapevolezza circa i rischi che corre o se sottostima questi rischi, qual è l’influenza esercitata dal contesto sociale e dal gruppo dei pari, ... Per ottenere queste informazioni si dovrà svolgere un’attività di ricer­ ca, sia direttamente, se ci sono le risorse sufficienti per farlo, (tramite questionari, sondaggi, interviste a testimoni privilegiati, focus group, etc.) sia indirettamente, vagliando i risultati di indagini realizzate da altri in contesti simili. L’attività di ricerca costituisce di fatto la prima e indispensabile fase di una cam­ pagna di marketing sociale, perché ci fornisce elementi utili per il processo decisionale che metteremo in atto nella progettazione, consen­ tendoci di “segmentare” l’universo della popolazione. Segmentare vuol dire suddividere la popolazione in gruppi di utenti omogenei per alcune caratteristiche predefinite, sulla base di variabili geografiche, demografiche, psi ­ cografiche e comportamentali, il che ci permetterà di posizionare adeguatamente il nostro prodottoidea. non sempre (anzi abbastanza raramente) è possibile prospettare a tutti un unico tipo di benefi­ cio, dato che per alcuni lo stesso potrebbe risultare attrattivo, per altri totalmente indifferente. Per

questo motivo non è infrequente che campagne “generaliste” siano inefficaci e i risultati inferiori alle attese, dato che propongono bene­ fici auspicabili solo da alcune fasce di popolazione e non da altre. Tuttavia, anche se raramente una strategia di marketing indifferenzia­ to ha efficacia, va anche detto che è la meno costosa. Quindi, dato che non sempre si dispone del denaro sufficiente per fare tante differenti campagne quanti sono i gruppi omogenei, la segmentazione ci aiu­ terà a comprendere a quali gruppi dobbiamo rivolgerci con maggiore urgenza, esprimendo gli stessi un maggior bisogno del nostro inter­ vento, in quanto più deboli e/o più a rischio. Questi diventeranno i “taget groups” (gruppi-obiettivo) della nostra iniziativa. Tornando brevemente sul concet­ to di posizionamento del prodotto­ idea in riferimento a ogni segmento, individuare e comunicare i benefici correlati all’adozione del comporta­ mento che intendiamo proporre vor­ rà dire anche individuare i vantaggi competitivi in relazione ai bisogni, per poter comunicare al target group il valore della nostra offerta in rapporto ai prodotti concorrenti (cioè alle idee/opinioni/comporta­ menti antagonisti). Cambia la finalità e il contesto, ma in fin dei conti è esattamente ciò che fa un produttore di au­ tomobili. Quando viene prodotta una nuova vettura la pubblicità di quel modello viene studiata in modo tale da coinvolgere un certo segmento di popolazione, perché

si sa che a quel target interessano quei benefici anziché altri. Delle tante qualità presenti in quell’au­ toveicolo si valorizzeranno quelle che interessano maggiormente quel particolare gruppo di popolazione. La stessa cosa avviene col marke­ ting sociale. In sintesi il marketing sociale si propone di sostituire un comporta­ mento con un altro più auspicabile. Perciò i benefici del comportamento proposto devono rivelarsi, agli occhi della popolazione o di quel segmento di popolazione, maggiori rispetto a quelli del comportamento che chiediamo di abbandonare. nel determinare la maggiore o minore attrattività di un pro­ dotto-idea entreranno in gioco diversi elementi, ad esempio la sua compatibilità col sistema di valori prevalente in un dato contesto so­ cio-economico-politico-ambientale. Anche le idee, come i prodotti tan­ gibili, hanno infatti un ciclo di vita (introduzione, crescita, maturità, declino). Altri elementi in gioco sono il grado di complessità, di comprensi­ bilità e di comunicabilità del nostro prodotto-idea, la sperimentabilità del comportamento che proponia­ mo, la visibilità dei risultati (natu­ ralmente più i risultati sono visibili in tempi brevi, più è facile che riusciamo ad essere convincenti). È importante anche riuscire ad associare alla campagna uno o più “marchi” che possano garantire la correttezza, completezza e affida­ bilità di ciò che stiamo dicendo (il 103

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“marchio” dell’Assessorato e/o del Ministero per la Salute, dell’Azien­ da Sanitaria, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, di un pre­ stigioso istituto di ricerca, di uno o più ordini professionali sanitari, di una autorevole associazione di rappresentanza dei cittadini, ...). Più sarà credibile per altri aspetti (per esempio l’efficienza, l’efficacia e la trasparenza dei servizi erogati da un’azienda sanitaria, la cortesia del personale, l’accoglienza e la pulizia dei locali, ...) tanto più la campagna realizzata da quel dato ente sarà credibile, guardata con attenzione e memorizzata.

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Come per i prodotti commerciali, anche nel marketing sociale quattro sono le leve del “marketing mix” su cui possiamo agire: – il prodotto; – il prezzo; – la distribuzione; – la promozione. Per quanto riguarda il prodot­ to sappiamo già che si tratta di un’idea, di un comportamento, ma quale sarà il prezzo associato a un comportamento? Evidentemente si tratterà di costi di carattere non economico (cambiare un’abitudine costa fatica, andare al centro alco­ logico o anti fumo può costare una certa quantità di tempo, anche il timore di effetti spiacevoli conse­ guenti al cambiamento è di fatto un costo psicologico,…). È dunque importante lavorare in tal senso, diminuendo i costi e aumentando i benefici percepiti, per quanto possibile (in una iniziativa

contro il fumo, ad esempio, viene data la possibilità a chi smette di fumare di partecipare ad un con­ corso con in palio viaggi e altri premi). Per distribuire il nostro pro ­ dotto-idea non potremo evidente­ mente avvalerci degli scaffali di un supermercato o delle vetrine di un negozio in centro. I distributori potranno essere da un lato i mass media e dall’altro i soggetti pub­ blici, interni ed esterni al servizio sanitario, che condividono i nostri intenti e i nostri obiettivi (ad esem­ pio in una campagna per l’utilizzo corretto dei farmaci oltre ai mass media i distributori saranno i medici di medicina generale e i farmacisti e magari anche i circoli anziani e le biblioteche pubbliche…; in una campagna per la salute e la sicurez­ za nei luoghi di lavoro potrà essere preziosa la collaborazione dei vari enti preposti, ma anche delle asso­ ciazioni dei datori di lavoro e dei sindacati, dei centri di formazione professionale e delle scuole…). Tutti questi “intermediari fina­ li” del nostro messaggio dovranno agire in modo integrato e coerente. Ad esempio, l’azione coordinata ed integrata, in una campagna per contrastare il consumo giovanile di alcol, dei servizi di alcologia e delle associazioni degli esercenti, produrrà messaggi coerenti ed uni­ voci, e per questo ancor più forti ed efficaci, nonostante la eterogeneità degli obiettivi primari che ciascun attore persegue (promozione della salute per i primi, produzione di profitto per i secondi). Parlando del momento della pro­

mozione si potrà constatare che un importante elemento distintivo tra il marketing commerciale e quello sociale è dato dalla maggiore co­ noscibilità ed accettabilità dei pro­ dotti commerciali rispetto alle idee proposte con il marketing sociale. In quest’ultimo caso infatti: – il target molto spesso è predi­ sposto negativamente nei con­ fronti dei nostri messaggi (non è cosa facile dire ad un fumatore accanito di smettere di fumare, molto più facile comunicare a un appassionato di automobili sportive che è uscito un nuovo cabriolet); – generalmente non c’è possibi­ lità di graduazione dell’offerta (possiamo proporre una intera gamma di televisori, di vari prezzi e caratteristiche, ma non possiamo dire fuma di meno, fuma 10 sigarette invece di 20, o 5 invece di 10, ma solo smetti di fumare…). 4. Problemi aperti e limiti del marke­ ting sociale Potremmo dunque sostenere con buone motivazioni che il marketing sociale è una tecnica più complessa del marketing d’impresa o quanto­ meno che i buoni risultati sono più difficili da ottenere. Molti sono infatti i problemi e i limiti da affrontare: – dalla difficoltà nel reperire dati utili per l’individuazione dei bisogni e per la segmentazione (molte persone tendono a dare risposte vaghe o socialmente accettabili su temi che toccano valori, ma anche ansie indivi­

duali) alla necessità di adottare spesso strategie di marketing indifferenziato, pur se meno efficaci (per problemi di costi e per la contemporanea necessità di rivolgersi ad ampie fasce di popolazione in ottemperanza ai principi di equità ed egualitari­ smo); – dalla difficoltà di agire sulla leva prezzo, trattandosi di costi per­ cepiti spesso difficili da misurare e da ridurre alla complessità di un sistema distributivo in cui il ruolo del volontariato può essere molto importante (con problemi di integrazione fra soggetti ed enti diversi e di una eventuale formazione ad hoc); – dalla difficoltà di rappresentare benefici intangibili al costo elevato dell’utilizzo dei mass media. Vi è poi tutta una serie di pro­ blemi nel momento della pianifica­ zione. Accennavamo sopra alle leve del marketing mix. Se produciamo e vendiamo automobili possiamo proporre un nuovo modello, ridurre il prezzo, migliorare la rete distribu­ tiva, avviare una grande campagna pubblicitaria, utilizzando in questo modo tutte e quattro le leve che abbiamo a disposizione. nel caso del marketing sociale queste quattro aree si riducono al momento della produzione e della comunicazione del messaggio. Infine ci sono i molti e non del tutto risolti problemi legati alla fase della valutazione. non è semplice individuare indicatori efficaci nel misurare i 105

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cambiamenti di comportamento, so­ prattutto se a lungo termine. È diffi­ cile misurare le modifiche cognitive, affettive e comportamentali, anche perché vi può essere l’influenza di altri fattori esterni alla campagna che hanno contribuito al suo suc­ cesso o insuccesso.

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Una riflessione a parte merita l’aspetto etico: quando si pensa a una campagna di pubblica utilità non sempre si tratta di una campa­ gna di “interesse universale”, poi­ ché non è detto che i suoi obiettivi siano universalmente condivisi (si pensi per esempio alle campagne per l’utilizzo del preservativo come mezzo di prevenzione dell’AIDS e alle posizioni contrastanti assunte in alcuni ambienti religiosi). Allo stesso modo dobbiamo tener conto dell’impatto sociale degli obiettivi della nostra campagna. Tutto ciò richiede consapevo­ lezza e senso di responsabilità e ci ricorda che il marketing sociale non è solo questione che riguarda i tec­ nici comunicatori, ma prima ancora è campo di scelta e di responsabilità politica. Anche perché la decisione circa la priorità dei temi da affron­ tare e le campagne da attuare non può essere demandata ai tecnici. In conclusione credo vada ri­ cordato quanto detto in apertura e cioè che il marketing sociale è uno strumento da utilizzare insieme ad altri all’interno di un sistema di politiche integrate per la pro­ mozione della salute, che per tale motivo è bene non avere aspettative esagerate rispetto ai suoi effetti e

che per ottenere qualche risultato è comunque necessario promuo­ vere competenze ed esperienze professionali specifiche e specia­ listiche adeguate, affinché queste tecniche, così difficili da applicare, siano quantomeno attuate nel modo migliore possibile da personale preparato, senza troppe velleità e senza improvvisazioni.

Vittorio Curzel è Direttore con incarico speciale per l’informazione e la comu­ nicazione per la Salute presso l’Asses­ sorato alle Politiche per la Salute della Provincia Autonoma di Trento. Insegna “Principi e Tecniche della Comunicazione pubblica e del Marketing sociale” presso l’Università di Trento e “Nuove tecnologie dell’informazione e cittadinanza” presso l’Università di Bologna.

salute e dintorni... mediatici Mauro Bertoluzza

Un percorso possibile per la ricerca di un rapporto tra cinema e salute/malattia.

Da sempre il cinema ha narrato la salute, sia nella definizione del­ l’OMS, secondo la quale la salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, sia nell’ac­ cezione comune di “sentirsi bene”: basta pensare a tutti i film d’amore, a lieto fine, d’avventura, comici, di puro intrattenimento. Ma è soprattutto la rappresen­ tazione della malattia, della soffe­ renza e della cura che costituisce da sempre l’obiettivo di molti registi e sceneggiatori, con risultati non sempre corrispondenti alle attese (di critica e di gradimento popolare). Il dolore, la sofferenza, la ma­ lattia, lungi dall’essere dei dati di fatto oggettivi (la malattia e la sa­ lute non si lasciano ridurre alla loro dimensione biologica), riflettono il contesto culturale (oltre che politi­ co, economico e sociale) della loro rappresentazione cinematografica. Riflettono i diversi modi di porsi di fronte al dolore, alla sofferenza, alla loro espressione e al loro con­ trollo, della nostra società e della moderna bio-medicina.

I titoli che seguono propongono una traccia, indicano un percorso possibile, testimoniano le molte vie praticabili nella ricerca di un rapporto tra cinema e salute/ma­ lattia. Il curante (il medico, ma non solo) è stato (attualmente lo è un po’ meno) protagonista di molti film: Il medico della mutua (film tratto dal romanzo di Giuseppe D’Agata e interpretato da Alberto Sordi), Il posto delle fragole di Ing­ mar Bergman, Il dottor Zivago con Omar Sharif, Dr. Akagi del giappo­ nese Imamura, Dottor Korczak del polacco Andrzej Wajda, i più recenti Un medico, un uomo con William Hurt, Prendimi l’anima di Roberto Faenza, Il dottor T e le donne di Ro­ bert Altman con Richard Gere nella parte di un ginecologo, l’esilarante neurochirurgo Frankenstein junior di Mel Brooks La figura del medico è stata (ed è) anche protagonista di telefilm, soapopere e telenovele, sceneggiati televisivi (La cittadella con Alberto Lupo nei panni del dot­ tor Manson, la lunga serie del dottor Kildare con Richard Chamberlein, gli attuali Un medico in famiglia, E.R. medici in prima linea del medico­ regista Michael Crichton). E.R. (Emergency Room – Pronto Soccorso) è ambientato nel reparto di primo intervento dell’University Chicago Hospital. Attorno a una compagnia di medici e infermieri si intrecciano casi clinici e personali, discreta è la sceneggiatura con un ritmo serrato, buoni sono gli indici di ascolto in Italia, grande successo negli USA. È una medi­ cina che viene “spiattellata” con 107

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tutti i suoi termini tecnici agli spettatori, gratificandoli con storie di sofferenza spesso a buon fine e dando loro l’impressione di imparare qualcosa. Sembra addirittura che E.R. sia riuscita a rimodellare la situazione della sanità americana; così almeno sostengono i direttori del programma di specializzazio­ ne in Pronto Soccorso che hanno visto raddoppiare le domande di ammissione, e molti studenti di medicina affermano di essere stati influenzati da E.R.

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Ma quanto la realtà è vicina alla finzione cinematografica? I Pronto Soccorso americani funzionano pro­ prio come quello di E.R.? In effetti i telefilm sembrano ben documentati per quanto riguarda i casi clinici, le procedure impiegate, le attrezzatu­ re, i gesti compiuti dagli attori; le scene sono rese credibili da trucchi cinematografici (sangue in abbon­ danza, tagli e suture tecnicamente ineccepibili), e, aspetto molto im­ portante, non mancano frustrazioni ed errori umani. Sempre dagli USA è arrivata una nuova serie di telefilm di ambien­ tazione ospedaliera con una media altissima di spettatori a puntata: Grey’s Anatomy, che unisce alle storie di corsie quelle sentimentali. Protagonista è una giovane specia­ lizzanda in chirurgia, tirocinante presso il Grace Hospital di Seattle. Anche in questa serie casi clinici, intrecci amorosi, tradimenti, il tut­ to condito con l’impredibilità della vita in un ospedale, dove la compe­ tizione è all’ordine del giorno. Altri professionisti che lavorano

nell’ambito delle relazioni di aiuto e di cura hanno interpretato ottimi film: il paramedico nicolas Cage nel film di Martin Scorsese Al di là della vita, l’infermiere Benigno in Parla con lei di Pedro Almodovar, la governante Anna in Sussurri e grida di Ingmar Bergman. L’ospedale ha costituito la sce­ nografia principale di molti film: dai dissacranti The Kingdom (Il regno) di Lars von Trier e Monty Python – Il senso della vita dell’omonimo gruppo britannico, al surreale La casa dei matti di Andrei Koncalovskij, alla grottesca satira di Alan Parker in Morti di salute, alla clinica dei tra­ pianti d’organo di Coma profondo di Michael Crichton, all’ottimo film di denuncia sociale Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman con Jack nicholson, ai Risvegli di Robert De niro, al Gesundheit Institute di Patch Adams con Robin Williams, ai già citati Un medico, un uomo e Par­ la con lei, ai due film sull’eutanasia Di chi è la mia vita e il più recente Le invasioni barbariche del canadese Denys Arcand. Gli incroci del cinema con il vis­ suto della sofferenza sono quindi molteplici. Oltre al tradizionale rapporto medico-paziente e alle numerose storie di disagio fisico e psichico, il cinema ci aiuta a evidenziare lo spazio crescente che oggi assume la tecnologia ed è anche uno strumento utilizza­ to per portare all’attenzione del grande pubblico le problematiche bioetiche (Le invasioni barbariche e il recente Mare dentro di Alejandro Amenábar sull’eutanasia, Il segreto

di Vera Drake sull’aborto). I concetti di malattia e di sofferenza, come quello di salute, hanno una storia che li ha portati ad avere oggi, nella nostra società, i significati che collettivamente attribuiamo loro: osservare il co­ stituirsi di tali significati e delle rappresentazioni (scientifiche e popolari) che li accompagnano permette dunque di capire meglio il nostro presente. Prima di entrare nello specifico del tema in esame, vorrei fare al­ cune puntualizzazioni: non credo di poter essere definito un esperto di cinema, ma il cinema rappresenta per me un interesse che ha “intacca­ to” la mia attività professionale. Da dodici anni organizzo un Cineforum per medici e operatori sanitari, dal titolo MediCine (ossia “il cinema... momento di intratteni­ mento e riflessione... strumento di aggiornamento e di formazione”). Questo perché sono sempre più con­ vinto che il cinema possa svolgere un ruolo importante nella forma­ zione del medico, in un momento in cui la sola preparazione tecnicoscientifica non è più sufficiente per rispondere a un’assistenza centrata sul paziente e attenta alla globalità delle sue esigenze. Di fatto emerge sempre più la necessità di un approccio multi-di­ mensionale, in cui siano utilizzati anche nuovi linguaggi come quello cinematografico. L’agire medico va concepito sempre più come atto integrato, punto di partenza e di applicazione di conoscenze non solo strettamente mediche, ma anche

di carattere psicologico, filosofico, etico. Riflettere e far riflettere il medico sul fatto che ogni malato ha prima di tutto una sua storia perso­ nale e che questa lo deve interessa­ re ancor più della sua malattia, non è sempre facile in un momento in cui l’evidence based medicine sembra imporre i suoi paradigmi statistici, ancorando la libertà del medico a precise linee guida. E il cinema, per l’efficacia nar­ rativa e didascalica, può costituire un setting di straordinaria forza espressiva che può attivare nel medico il suo vissuto emotivo, indispensabile per creare quella comprensione empatica così impor­ tante nella nostra professione. La narrazione, anche quella cinemato­ grafica, è al cuore dell’esperienza di malattia e della relazione di cura, in quanto la sofferenza richiede di essere integrata in un racconto per acquisire un senso, diventare condivisibile. Per questo il cinema si pone anche come metodologia formativa capace di coinvolgere il soggetto sul piano emotivo, oltre che razionale e valoriale. Il MediCine (cineforum) consiste in una programma annuale (otto film con frequenza quindicinale): la visione del film è seguita da una discussione/dibattito incentrata sulle tematiche proposte e/o evi­ denziate dal film stesso e guidata da un “esperto”. La pellicola, pertanto, viene scelta per far confluire le risonanze emotive dei partecipanti nell’ambito di una discussione dalla quale far emergere la possibilità di 109

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una lettura collettiva. La scelta dei film è personale, selezionando film d’autore e di rapido (o assente) passaggio nelle sale cinematografiche (i film d’essai di una volta).

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Prima di passare ad analizzare i vari moduli/tematiche che hanno caratterizzato questa “esperienza cinematografica”, vorrei accenna­ re brevemente all’altra iniziativa culturale che sto proponendo da alcuni anni all’interno della Scuola di Formazione specifica in Medicina Generale, del cui Laboratorio cultu­ rale sono responsabile: il percorso narrativo cinematografico. Consiste nella introduzione, per alcuni mo­ duli dei percorsi didattici del Corso triennale, di uno o più momenti di visione cinematografica, introdotti e seguiti da discussione (v. Cine­ forum), in modo da poter rivivere in forma di fiction narrativa alcune tematiche analizzate nelle sessioni teoriche dei singoli moduli e af­ frontare temi riguardanti il saper essere e il saper gestire situazioni relazionali complesse. Il cinema, per la straordinaria efficacia narra­ tiva e didascalica e per la forza di rappresentazione, può contribuire a formare altrettanto efficacemente di quanto possano fare, da sole, le lezioni d’aula tradizionali. Inoltre è un dato ormai acquisito che la trasmissione delle cono ­ scenze debba far ricorso, oltre alla razionalità, anche all’affettività del discente, stimolando emozioni e sentimenti; e in questo senso il linguaggio cinematografico risulta molto efficace nel suggerire in­

terpretazioni profonde dell’agito umano. E proprio questa capacità di interpretazione potrà consentire al medico di colmare la distanza che si è venuta a creare tra la medicina tecnologica e il vissuto dei pazienti, facilitandone il compito quando si troverà a decidere in situazioni complesse. Il cinema può quindi affiancar­ si agli strumenti più tradizionali dell’apprendimento, quelli che attraverso l’analisi introspettiva, interpretativa e clinica possono far comprendere meglio vissuti e sofferenze legate all’esperienza di malattia. Il cinema inoltre ha il merito di condensare in un lasso di tem­ po limitato il dipanarsi di storie lunghe una vita, di delineare (con pochi tratti) episodi, personaggi e azioni che difficilmente si possono incontrare nel percorso formativo tradizionale e che diventano, grazie alla forza di suggestione che crea il film, oggetto concreto di discussio­ ne, di riflessione e di valutazione critica fondata su basi scientifiche, etiche, filosofiche, emotive. Si potrebbe obiettare che questa metodologia didattica centrata sulla visione/discussione di un film sarebbe perfettamente assimila­ bile a quelle iniziative didattiche orientate all’arricchimento culturale e personale del discente, che non hanno quindi un’immediata ricaduta nella prassi; in realtà sono sempre più convinto che, incidendo sulla sensibilità e l’abito mentale dei discenti, avranno in tempi lunghi un’utilità altrettanto rilevante.

A proposito di arricchimento cul­ turale riporto una breve riflessione dello scrittore sudafricano André Brink sulla cultura: “[…] in un mondo minacciato da carestia e malattia, violenza e guerra, rifugiati, tiranni e moltitu­ dini oppresse, la parola cultura può rischiare di assumere una valenza oscena. Questo è vero solo se in­ sistiamo a considerare la cultura come la riserva di pochi oziosi pri­ vilegiati, non considerandola invece come l’indispensabile generatrice di significato in una società nella sua totalità. La fame esiste e la si può placare solo con del pane, non con la musica. Il riconoscimento della piena umanità di una donna non dipende da un dipinto. Ma ciò non implica nemmeno per un istante che l’umanità non abbia bisogno di musica, o di letteratura, di teatro o di pittura. Riconoscere il nostro bisogno di cultura non significa sottovalutare la necessità basilare degli esseri umani di sopravvivere, essere liberi, poter lavorare, migliorare la proprio condizione: è solo riconoscere che l’umanità richiede anche significato, o almeno la possibilità di cercare un significato[…]”. Altri obiettivi didattici: – Sensibilizzare gli specializzandi alla complessità della relazione di aiuto e di cura nelle sue di­ mensioni etiche, psicologiche, sociologiche, antropologiche, ambientali; – Migliorare la relazione di cura e di aiuto, contestualizzando il processo grazie alla conoscen­









za dell’ambiente e della storia personale dei soggetti, delle loro culture specifiche, comuni­ cando di conseguenza con stili relazionali adeguati e modalità eticamente rispettose; Accrescere le competenze ne ­ cessarie alla comunicazione fra gli attori della scena della cura e dell’aiuto, fra le istituzioni sociali e sanitarie e i cittadini; Restituire al soggetto che soffre e cerca aiuto la sua soggettività e la sua parola, aiutandolo, in modo eticamente adeguato, a riguadagnare una centralità; Superare la logica del riduzioni­ smo e del causalismo meccanico nell’interpretazione dei fatti so­ ciali e degli eventi di malattia; Sviluppare una dialettica tra discipline diverse che intera­ giscono sulla scena dell’aiuto e della cura.

Ritornando al programma del MediCine ho diviso i vari cicli di pro­ poste cinematografiche in moduli/ tema, con presentazione, visione e discussione di più film tematici, dei quali vorrei dare una breve traccia esemplificativa. Modulo/tema I: la rappresentazione del disagio psi­ chico e della malattia mentale È stato ed è uno dei temi di salute più “toccati” dalla rappresentazione cinematografica, a volte in modo leggero e comico, spesso in maniera profonda e analitica, a volte docu­ mentaristica. – Don Juan de Marco maestro d’amore, del medico-regista Je­ 111

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remy Leven, con Marlon Brando nella parte dello psichiatra, che si prende cura del delirio di un giovano schizofrenico che si crede il più grande amante del mondo. – Senza pelle, di Alessandro D’Ala­ tri: racconta realisticamente, senza esasperazioni, l’impatto della sofferenza mentale sulla quotidianità di “persone qua­ lunque” con un indovinato tono minimale, sfuggendo ai possibili clichè ideologici e sociologici. – Family Life, uno dei primi film di denuncia di Ken Loach, è l’il­ lustrazione di un caso clinico. È il racconto-inchiesta della fuga nella schizofrenia di una ragazza della piccola borghesia inglese. Direttamente ispirato alle teorie sull’io diviso di Ronald Laing (la “normalità” e il rispetto delle convenzioni come causa di disagio psichico), pur risentendo molto dell’atmosfera libertaria di quegli anni, si fa ancora ap­ prezzare per la forza polemica e per la straordinaria prova di recitazione della protagonista (Sandy Ratcliff). – La casa dei matti, del regista ex– URSS Andrei Koncalovskij, Gran Premio della giuria a Venezia 2002. nel 1996, durante la prima rivolta antirussa in Cecenia, un piccolo ospedale psichiatrico preso a cannonate e abbandonato dallo staff medico, è occupato dai guerriglieri ceceni e poi dai soldati russi. L’ospedale psi­ chiatrico si presenta come una sorta di universo privilegiato, un’isola in qualche modo felice,

dove la quieta follia dei suoi ospiti, affidandosi alla potenza trasfiguratrice del sogno, riesce a ritagliarsi un piccolo spazio di evasione e di riscatto. Un asilo isolato e ovattato entro il quale, improvvisamente, irrompe la follia ben altrimenti pervasiva della guerra. – Elling, del norvegese Setter naess. È il racconto del reinseri­ mento in società di Elling, dopo due anni di ricovero in istituto psichiatrico. È un film fuori dai luoghi comuni della cinemato­ grafia sulle malattie mentali, nulla a che vedere con la pazzia “all’americana” e le modalità del suo racconto, dove si presenta spesso come occasione pedagogica, e spesso demagogica, per ritualizzare la diversità, accet­ tare la malattia (Forrest Gump di Robert zemeckis con Tom Hanks, Rain Man con l’autistico Dustin Hoffman). – Un’ora sola ti vorrei, film-do ­ cumentario di Alina Marazzi, emozionante e coinvolgente, in cui la regista costruisce un ritratto della madre suicida attraverso i filmini familiari realizzati dal nonno, l’editore Ulrico Hoepli. Tra quelle vec­ chie pellicole amatoriali girate fin dal 1926 è nascosta la vita breve e tragica di Liseli, madre della regista, morta suicida nel 1972 gettandosi dal terrazzo della sua abitazione, quando la figlia aveva solo sette anni. Un’ora sola ti vorrei (il titolo è tratta dalla famosa canzone) intreccia spezzoni filmati con

la lettura dei diari di Liseli, di lettere, dei referti medici che segnano il lungo travaglio nelle case di cura, e ricostruisce l’infanzia, l’adolescenza, l’amo ­ re, la maternità, la malattia, il malessere esistenziale di una donna fragile. È la storia di una depressione considerata nel suo ambiente familiare alla stregua di un capriccio e curata, male, negli ospedali psichiatrici. – La pazzia di re Giorgio, del bri­ tannico nicholas Hytner. Dopo aver regnato per oltre trent’anni Giorgio III d’Inghilterra comin­ cia a comportarsi in maniera bizzarra; viene affidato ai me­ todi vagamente psicoanalitici del dottor Willis, che insegnerà al sovrano a convivere con la propria malattia (porfiria). – Zelig, di Woody Allen. È la storia di Leonard zelig, americano e camaleonte umano, che nella smodata smania di essere ac­ cettato e amato, ha sviluppato la capacità di assumere le carat­ teristiche somatiche, psichiche, e lessicali di chiunque incontri. Modulo/tema II: handicap e cronicità, accompagna­ mento e qualità di vita La cronicità della relazione d’ac­ compagnamento e di aiuto nei con­ fronti di persone portatrici di grave handicap impone la riflessione sulla qualità di vita che tale condizione comporta. Rapporto tra diversità e qualità di vita, fra oggettività e soggettività: fra le necessità oggettive della relazione di aiuto nell’accompagnamento di persone

disabili e la soggettività dei criteri di giudizio della qualità (indice di soddisfazione) dei vari interlocutori coinvolti in tale relazione (proget­ tualità personale e istituzionale). – Le chiavi di casa, di Gianni Amelio. Tratto dal romanzo autobiografico di Giuseppe Pon­ tiggia Nati due volte è la storia dell’incontro di un adolescente handicappato con il padre fino a quel momento assente, che lo accompagna in un ospedale specializzato per un programma di riabilitazione. Ma la vera ria­ bilitazione avviene al di fuori della clinica, non è fisica, bensì affettiva. – Oasis, del regista coreano Lee Chang-Dong, premio speciale per la regia a Venezia 2002. È il racconto visivo di un amore impossibile tra due persone con handicap (grave quello della ra­ gazza, che riesce a pronunciare solo poche sillabe). Il regista ha evitato qualsiasi eccesso di retorica e sbilanciamento nella caratterizzazione psicologica, il suo è uno sguardo necessario, scevro da giudizi precostituiti, non spinge mai il tasto sulla di­ versità dei due, ma li tratta come due corpi che si desiderano. – Buon compleanno Mr. Grape, dello svedese Lasse Hallstrom. Piccolo grande film, tenero e misurato. nucleo centrale della storia è il complesso rapporto tra due fratelli, uno introverso e problematico (Johnny Deep), l’altro handicappato (un bravis­ simo Leonardo Di Caprio). – Go Now, del britannico Michael 113

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Winterbottom. Film d’autore sul­ l’handicap, rigoroso, attento ai problemi e alla vita della gente comune, senza mai cadere in quel patetismo o depressione esistenziale di molte cinemato­ grafie (come la nostra). Il film affronta un tema drammatico come la sclerosi multipla con un tocco di rara levità. – Le onde del destino, di Lars von Trier. Amore, morte e miracoli in un villaggio scozzese, dove un uomo rimane paralizzato a causa di un incidente. Film inquietante e misterioso, iperrealistico nella rappresentazione del dolore e del male, Gran Premio della giuria al Festival di Cannes (1996).

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Modulo/tema III: cura, cultura e rappresentazioni della malattia La medicina sempre più tecnica­ mente efficiente, capace di proporre soluzioni di problemi e vie di guari­ gione in molte evenienze cliniche, si trova oggi paradossalmente confrontata con l’emergere di una presenza sempre maggiore delle medicine complementari. Riflettere sui diversi modelli della pratica medica e sulle soggia­ centi condizioni culturali, permette di approfondire la comprensione della propria modalità di curare e di prendersi cura della sofferenza nelle sue variegate forme, come pure di percepire i punti di forza e i limiti. – L’olio di Lorenzo, del regista, ex medico, Gorge Miller. È la storia vera dei coniugi Odone e della loro lotta accanita per salvare

il figlio Lorenzo, colpito da una rara forma di distrofia incurabile. Fede nella scienza, ma nessuna medicalizzazione arbitraria e anzi cura ostinata degli aspetti psicologici della relazione e dedizione senza risparmio alla ricerca di un via sperimentale alternativa di cura (l’olio di Lorenzo, estratto dai semi di colza). – Gostanza da Libbiano, mirabile film in bianco e nero (ricorda Bergman) di Paolo Benvenuti racconta il processo per strego­ neria nei confronti di un’anziana levatrice che cura con erbe me­ dicinali (Granducato di Toscana – 1594). – Verso il sole, di Michael Cimino. Un medico in carriera, oncologo, viene sequestrato da un giovane indiano navajo detenuto per omicidio e malato terminale di tumore, che lo trascina in un viaggio iniziatico nelle terre navajo alla ricerca di un lago sacro di montagna dalle acque miracolose e guaritrici. Modulo/tema IV: etica clinica 1 Le trasformazioni dello scenario in cui si svolgono le pratiche della cura e del prendersi cura, determi­ nate in particolare dal progressivo imporsi dell’orizzonte tecnologico in medicina, comportano modifiche nell’interazione tra curante e cura­ to, che in tale scena si svolge. Obbligano a ripensare la posizio­ ne del curante di fronte alla fragili­ tà della persona malata e sofferente e costringono a considerare nella

loro complessità i nuovi problemi che emergono di fronte alle singole situazioni e scelte cliniche. – Un medico, un uomo, di Randa Heines. Per capire il valore del­ l’umanità un chirurgo di fama, mano ferma e precisa (“entro, aggiusto ed esco” è il suo mot­ to), che invita i suoi allievi a non provare alcun sentimento verso i pazienti, dovrà trasfor­ marsi, suo malgrado, da medico in malato, subendo a sua volta le noie della burocrazia e il male dell’insensibilità. Modulo/tema V: etica clinica 2 (eutanasia) – La vita come malattia sessual­ mente trasmessa, di Krzysztof zanussi. Un medico affronta la scoperta di avere un male in­ curabile e decide di farla finita (suicidio assistito). – Quando morire, di Paul Wendkos. TV movie. Affetta da sclerosi laterale amiotrofica Emilj non può più vivere e chiede ripetu­ tamente l’eutanasia, quando non riesce più a parlare la supplica tramite il computer. Il marito conduce una battaglia legale dall’esito incerto, e alla fine riesce nel suo intento. Assente la figura del medico. – Le invasioni barbariche, del cana­ dese Denys Arcand. Professore cinquantenne sta morendo di cancro. Il figlio, corrompe e spende soldi per garantire al padre le migliori condizioni di degenza e di fine vita. Medici assenti, ospedali corrotti. – Mare dentro, di Alejandro Amená­

bar, Gran Premio della giuria a Venezia 2004. “Vivere è un diritto, non un obbligo”: questa affermazione del protagonista Javier Bardem potrebbe essere la chiave di lettura di Mare dentro. Il film prende le mosse dalla cronaca, per raccontare l’atto finale del calvario fisico e giuridico di Ramon Sampedro, meccanico di navi, galiziano, che nel 1968, all’età di 25 anni, rimase tetraplegico a causa di un incidente (un tuffo malde­ stro). Il 12 gennaio 1998, dopo un’ultima disfatta giudiziaria, al termine di una lunga battaglia personale, si fece somministra­ re, fuori dei confini della stretta legalità, la “dolce morte” che invano aveva rivendicato come un proprio diritto. Undici per­ sone presero parte all’eutanasia, ognuno con una propria piccola azione. Modulo/tema V: etica clinica 3 (aborto) – Il segreto di Vera Drake, di Mike Leigh. Leone d’oro per il miglior film a Venezia 2004. Londra 1950: Vera Drake fa la donna delle pulizie, ma ha anche un’al­ tra disinteressata occupazione, che tiene segreta a tutti coloro che le stanno attorno: senza accettare denaro aiuta giovani donne a interrompere gravidan­ ze indesiderate. Quando una di queste ragazze viene ricoverata d’urgenza in ospedale in seguito a un aborto, le indagini della polizia arrivano a Vera, e tutto il mondo le crolla addosso. 115

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Modulo/tema VI: cinema e terza età – Il posto delle fragole, il capola­ voro di Ingmar Bergman. È il rac­ conto del viaggio fisico e nella memoria del vecchio medico Isak Borg. – Una storia vera – Straight Story, di David Lynch. La storia vera del viaggio su un tosaerbe del vec­ chio Alvin Straight per visitare il fratello infartuato. – Iris un amore vero, di Richard Eyre. La storia vera della scrit­ trice Iris Murdoch e del suo inesorabile precipitare nella malattia di Alzheimer.

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Modulo/tema VII:

cinema e paziente terminale

– Sussurri e grida, di Ingmar Bergman. In una villa del primo novecento Agnese sta morendo di cancro assistita dalle due so­

relle in perenne conflitto tra loro e dalla premurosa governante. Memorabile riflessione sul dolore e la pietà. – La forza della mente, di Mike ni­ chols. Il vissuto di una studiosa di letteratura inglese, alla quale viene diagnosticato il cancro e proposta una pesante chemiote­ rapia. Modulo/tema VII: cinema e terapia del sorriso – Patch Adams, di Tom Shadyac, con Robin Williams. La storia vera e romanzata del clown-dot­ tore Hunter Patch Adams e della sua terapia del sorriso. Presente in sala uno straordinario Patch Adams.

– Clown in Kabul, di Enzo Bale ­ strieri e Stefano Moser. Film­ documentario della spedizione internazionale di ventuno me­ dici-clown, guidati da Patch Adams, negli ospedali pediatrici di Kabul. Presente in sala Leo­ nardo Spina, uno dei protago­ nisti del film e uno dei massimi esponenti dei clown-dottori. Modulo/tema VIII:

cinema ed elaborazione del lutto

– Sotto la sabbia, di Francois Ozon. Film sulla (non) elaborazione del lutto, sull’incapacità di rispon­ dere al dolore della scomparsa della persona amata, e conse­ guente fuga dalla realtà. – Film blu, di Krzysztof Kieslowski. Film sulla difficoltà di elaborare un lutto (perdita della famiglia

in un incidente d’auto).

Modulo/tema IX:

cinema e il senso della vita

– Monty Python – Il senso della

vita, di Terry Jones. Film grot­

tesco e dissacrante sulla morte, sulla vita dopo la morte, sulla follia e l’ipocrisia del nostro tempo, sul controllo delle na­ scite, l’educazione sessuale nelle scuole, la gestione della salute negli ospedali... – Big Fish, di Tim Burton. “La storia di una vita incredibile”: il film è una storia sull’importanza delle storie.

– L’albero di Antonia, di Marleen

Gorris. È un racconto sulla vita,

attraverso più generazioni, con

le sue luci e le sue ombre, le tra­

sgressioni, le piccole vendette, le

grandi gioie, ed è tutto vissuto al femminile. Modulo/tema X: cinema – malattia – genio – produ­ zione artistica – Un angelo alla mia tavola, di Jane Campion. Film sull’auto­ biografia della scrittrice neoze­ landese Janet Frame, introversa e solitaria che dopo otto anni di manicomio, perché considerata schizofrenica, si salva dalla lo­ botomia solo grazie a un premio letterario ottenuto con una sua pubblicazione. – Shine, di Scott Hicks. Filmbiografia del pianista David Helfgoot, che schiacciato da un padre-padrone oppressivo, che lo vuole musicista di successo, sprofonda per un decennio nella schizofrenia, che lo fa entrare e uscire da cliniche psichiatriche. Ritroverà salute mentale e ta­ lento artistico grazie all’amore di una astrologa. – Pollock, di Ed Harris. Film sulla breve e tormentata vita (incli­ nazione all’alcool e all’autodi­ struzione) del pittore Jackson Pollock, il principale esponente dell’action painting, caratteriz­ zata dalla tecnica del dripping (sgocciolamento dei colori sulla tela). Il film riesce a evitare le trappole delle biografie celebri (binomio genio/sregolatezza, vita privata) per privilegiare il rapporto dell’artista con la sua pittura. – Basquiat, del regista-pittore Julian Schnabel. È il racconto della breve vita (morì di overdose

all’età di 27 anni) di Jean Michel Basquiat e la sua folgorante ascesa da sconosciuto graffit­ tista ad affermato esponente del neo espressionismo astratto americano, con la benedizione e l’amicizia di Andy Warhol. Esor­ dio alla regia del pittore Julian

Schnabel.

– A Beautiful Mind, di Ron Howard.

Film noto (ha vinto diversi pre­

mi Oscar) sugli studi, imprese,

malattia (schizofrenia) e trionfo

del matematico americano John

nash, premio nobel 1994 per

l’economia.

Modulo/tema XI:

cinema e sessualità (disturbi)

– La pianista, dell’austriaco Mi­ chael Haneke. Il racconto di un’insegnante di piano, maso­ chista e ossessiva, che vive con una madre possessiva e sfoga la sua sessualità frustrata nel voyeurismo. – Belle al bar, di Alessandro Ben­ venuti. Film-commedia sensibile, libero e divertente sul difficile tema della diversità (transessua­ lità), che sottolinea con ironia lo scarto tra la propria mancanza di pregiudizi (“la normalità è una malattia da cui si può guarire”) e la volgarità con cui di solito vengono trattati argomenti del genere, soprattutto in chiave comica. Modulo/tema XII: cinema e impegno sociale – Insider, di Michael Mann. I fatti sono veri. Un ricercatore alle di­ pendenze di una multinazionale 117

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del tabacco decide di rivelare a un giornalista che i suoi datori di lavoro aggiungono additivi chimici alle sigarette per raf­ forzare l’assuefazione al fumo. Questa denuncia portò a una indagine che costò alle multi­ nazionali del tabacco sanzioni miliardarie da parte di cinquanta Stati. 11 settembre 2001, di undici re­ gisti. Undici riflessioni da parte di undici registi di nazionalità diversa all’indomani dell’atten­ tato alle Twin Towers. Viaggio a Kandahar, del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf. In bilico tra finzione e realtà, mostra e racconta come il fon­ damentalismo islamico abbia umiliato la dignità delle donne e cercato di livellare la diversità degli uomini. Jung (Giang) – Nella terra dei mujaheddin, di Vendemmiati e Lazzaretti. Film-documentario che racconta l’avventura uma­ nitaria e professionale di Gino Strada (chirurgo di Emergency) e dei suoi collaboratori nella costruzione di un ospedale nel nord dell’Afghanistan. Arancia meccanica, di Stanley Ku­ brick. Per rieducare Alex, amante dello stupro e di Beethoven, lo si sottopone al trattamento “Lo­ dovico”, che lo condiziona alla non violenza; finirà vittima di chi la violenza continua a farla. Diventato così un caso nazio­ nale, si trasforma in un eroe e potrà usare la sua aggressività in maniera funzionale al potere. nel ’71 Arancia meccanica fu uno

shock, oggi è ancora un salutare pugno nello stomaco. Modulo/tema XIII: cinema e mass media – The Truman Show, di Peter Weir. Truman è il protagonista, a sua insaputa, di un documen­ tario/soap opera che dura da trent’anni, in onda 24 ore su 24, sette giorni alla settimana. Una biografia in studio, davanti a 5.000 telecamere di cui non conosce l’esistenza. Ricorda mol­ to da vicino i nostri programmi televisivi Il grande fratello e L’isola dei famosi, che quasi tutti conoscono, ma pochi dicono di guardarli. Propongo ora una breve riflessio­ ne su due film recenti, che esempli­ ficano due modi di rappresentazione cinematografica della malattia. Sono stati proiettati alla LXI Mo­ stra di Venezia (edizione 2004): Mare dentro del cileno Alejandro Amenábar e Le chiavi di casa di Gianni Amelio. Mare dentro Javier Bardem è Ramon Sampedro, tetraplegico che chiede disperata­ mente e con dignità di poter morire. Bardem per questa sua interpreta­ zione ha vinto la Coppa Volpi come miglior attore, come l’ha vinta nel 2000 per Prima che sia notte di Julian Schnabel, interpretando il ruolo del poeta omosessuale cubano Reinaldo Arenas, morto di AIDS. nel ruolo di Ramon, Javier Bar­ dem compie una prova attoriale impressionante. Costretto a lavo­

rare solo sulle parti del corpo che la malattia gli consente ancora di muovere (il volto), priva la sua im­ portante fisicità ed espressività di qualsiasi contributo, se non quello di rendere realistica anche l’immobi­ lità. E probabilmente la grandezza di Javier Bardem attore non è nel viso e negli occhi, ma nelle mani con­ gelate dalla fissità della paresi. In Prima che sia notte l’AIDS, che mina e indebolisce tutto il corpo, ma lo lascia libero di muoversi, è una ma­ lattia più facile da interpretare della tetraplegia, probabilmente perché consente un’emersione esterna del male sotto forma di mutazione, di graduale deperimento (vedi anche Philadelphia, con Tom Hanks affetto da AIDS). La malattia ha bisogno di sin­ tomi per essere riconosciuta e, nello stesso modo, rappresentata. Allo spettatore si chiede quasi di mettersi nei panni di un medico, riconoscere i sintomi della malattia e concentrarsi su di essi per svilup­ pare emozioni. La malattia, che colpisce e intacca il corpo e la mente, è un campo di prova d’attore e spesso di cinema d’autore: Ron Howard e Rus­ sell Crowe in A Beautiful Mind, Jane Campion in Sweetie, Un angelo alla mia tavola e Lezioni di piano, Lars von Trier in Kingdom, Le onde del destino, Idioti, Dancer in the Dark, Patrice Chereau in Son frere. Sono solo alcuni esempi, l’elenco sarebbe molto più lungo, la cinema­ tografia della malattia è sterminata, qui ho accennato solo ai film, nei quali il tema narrativo condiziona in un certo modo la messa in scena

e non è ridotto a semplice oggetto di racconto. Riflessione: è possibile pensare alla malattia nel cinema semplice­ mente come a un oggetto/genere, al pari dell’orrore o dell’amore o del sesso? Se sì, quali sono i limiti del mostrabile? Esiste un limite nella rappresentazione della malattia, così come esiste un’insostenibilità dell’orrore? La scelta di Amenábar del come rappresentare la malattia (è una storia vera) è quella più classica e sicuramente la meno disturbante: affidarsi a un ottimo attore e alle sue capacità di non-malato per rendere ragione della malattia. La distanza dello schermo dalla vita reale è mantenuta: da spettatori guardiamo una storia, che è una storia vera, ma solo fuori dallo schermo. Altri linguaggi della rap­ presentazione mantengono le di­ stanze dal realismo: quello pittorico (le frequenti carrellate sul corpo nudo di Ramon Sampedro sdraiato immobile nel suo letto ci ricordano il Cristo morto di Andrea Mantenga), e quello simbolico, metaforico nella scena della carrellata sul paesaggio verso una spiaggia di sogno, in cui Ramon può camminare. Sugli accordi pucciniani di Nes­ sun dorma le sue gambe ritrovano la forza di scivolare dal letto, prendere la rincorsa e lanciare il corpo fuori dalla finestra. I suoi occhi, sovrap­ ponendosi ai nostri, planano ad alta velocità su colline e distese verdi; alla deriva del sogno c’è il mare, c’è un corpo capace di amare. In questo modo Amenábar raffigura una ragio­ ne, da ascoltare e rispettare, nella 119

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Salute e informazione

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sua scelta dell’eutanasia. Altro aspetto interessante di questo film è l’assoluta mancanza di una figura medica. Chi accompagna Ramon Sampedro nella sua deci­ sione è la rete di amici e di parenti (il vecchio padre, il fratello che ha rinunciato al mare per provvedere alle sue necessità, la cognata, il ni­ pote), che collaborano tutti all’atto concreto finale. La giustizia rifiuta l’istanza di Ramon evidenziando contraddizioni e ipocrisia dell’ordinamento giuri­ dico rispetto al tabù del suicidio assistito, la Corte di La Coruña viene dipinta come una congrega di ciechi custodi di una legge disu­ mana e bigotta. non passa sotto silenzio nep­ pure la demagogia oscurantista della Chiesa (vedi la figura di Padre Francisco, anche lui tetraplegico, durante una diatriba in cui il ge­ suita tenta di dissuaderlo dal farla finita). Ritornando alla bravura attoriale di Bardem, la fatica con cui diventa Ramon e armeggia con la bocca per scrivere e per raggiungere gli appigli che gli consentono di co­ municare con il mondo emoziona molto alla visione di Mare dentro, ma svanisce di fronte alla fatica reale di Andrea Rossi (il Paolo di Le chiavi di casa) per aprire la porta, vestirsi, vivere. Le chiavi di casa Andrea Rossi, il giovane protagoni­ sta, è Paolo, il bambino malato rifiu­ tato dal padre e poi accompagnato in un viaggio di riscoperta. Ma Andrea Rossi è anche se stes­

so. Fuori dal set non può smettere di essere quello che è sullo schermo, come il protagonista, affetto da nanismo, del bellissimo Il tempo dei cavalli ubriachi, dell’iraniano Ghoba­ di, o quello, affetto da sindrome di Down, de L’ottavo giorno, del regista Van Dormael. Il film è la storia di Paolo, tratta da uno scritto di Pontiggia ispirato alla realtà, o due ore di vita privata di Andrea Rossi? Effettivamente è un film: lo dimostrano il mestiere di Amelio, la sua capacità di mante­ nersi misurato, e la bravura di Kim Rossi Stuart, la sua straordinaria prova d’attore. Il film di Amelio è un film sulla malattia, una ma­ lattia vera: Andrea Rossi non è un fenomeno da baraccone (come The Elephant Man di David Lynch), ma non è nemmeno un attore, non lo è perché non può non recitare il suo ruolo, è un ragazzo malato. È questo il vero modo di mettere in scena la malattia? La malattia degli attori non professionisti: come lo spaventapasseri del film di Vito Pandolfi Gli ultimi, o i veri bambini handicappati del film di Cassavetes Gli esclusi, o i disabili della Comunità Ismaele di Piovono mucche di Luca Vendruscolo, o i sor­ do-ciechi del film di Werner Herzog Il paese del silenzio e dell’oscurità, con scelta documentaristica, come l’interessante Un’ora sola ti vorrei, della regista Alina Marazzi, che mette in scena la triste storia della madre morta suicida. Quando Andrea Rossi, e con lui i suoi compagni di malattia, è in scena, lo schermo è completamente in suo ostaggio, risucchiato in quel

buco nero che è la sua malattia: un buco nero che ingoia tutto, la sto­ ria, l’attenzione per gli altri perso­ naggi, ma anche l’inquadratura, che il regista sceglie di consegnargliela, e lui la satura completamente, la riempie con i suoi primi piani e con i dettagli del suo corpo. Un’osservazione sulla presenza medica nel film: è evidente la pe­ santezza, la durezza delle figure sanitarie incaricate della riabilita­ zione fisica. La riabilitazione più importante, emotiva, la compie il padre, che lo prende in braccio e lo allontana dalle torture che stava subendo.

Mauro Bertoluzza è medico di Medicina generale ed esperto di cinema 121 Provincia Autonoma di Trento Punto Omega n. 18

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Dal dialogo alle ipotesi di ricerca sul campo Marco Clerici, Greta Sona

Considerazioni conclusive del Gruppo di lavoro

I Dialoghi di Bioetica e Biodiritto 2005 hanno voluto offrire un’occa­ sione di riflessione multidiscipli­ nare sul diritto alla salute e sugli innumerevoli “dintorni” territoriali, culturali e mediatici che concorrono a condizionarne il significato. Quest’anno l’esplorazione del diritto alla salute e dei suoi dintorni è stata realizzata in modo partico­ larmente completo e approfondito, grazie all’attuazione di un progetto di ricerca sul campo che ha affianca­ to i Dialoghi per tutto il corso della loro durata. Il progetto è consistito nella creazione di un Gruppo di lavoro che si è occupato di approfondire le tematiche di volta in volta trattate e dibattute nei Dialoghi, mediante l’analisi di alcuni casi clinici concre­ ti, forniti dai professionisti parte­ cipanti ai Dialoghi stessi e facenti parte della loro personale e diretta esperienza sul campo. Il Gruppo, composto da 11 operatori di diversa estrazione

professionale (3 medici, 3 infer­ mieri, 1 farmacista, 1 ostetrica, 1 funzionario dell’Ordine dei Medici e 2 giuristi), è stato ideato con l’obiettivo di comprendere in che termini si possa realisticamente parlare di diritto alla salute, all’in­ terno di un contesto sanitario in grado di offrire sempre maggiori possibilità terapeutiche, ma co ­ stretto a confrontarsi e scontrarsi quotidianamente con gli innume­ revoli limiti di carattere spaziale, culturale, economico e mediatico che lo caratterizzano. In particolare il Gruppo è stato pensato al fine di verificare l’esi­ stenza di un’effettiva corrispon­ denza tra il dato giuridico formale in tema di salute e la pratica quoti­ diana. Molte sono le difficoltà con­ crete con cui l’operatore sanitario da un lato, e il paziente dall’altro, si trovano a doversi confrontare ogni giorno. All’interno del Gruppo di la­ voro si è cercato dunque di mettere in luce tali criticità, approfondendo le problematiche di natura etica, deontologica e giuridica che emer­ gono più frequentemente nell’eser­ cizio delle professioni sanitarie. Il carattere volutamente com­ posito del Gruppo di lavoro ha ga­ rantito la possibilità di operare una riflessione interdisciplinare su temi che richiedono, oggi più che mai, conoscenze, competenze e capacità notevolmente eterogenee. Un ruolo di primaria importanza è stato ricoperto dallo strumento di lavoro utilizzato dal Gruppo: la casistica raccolta dagli operatori sanitari partecipanti ai Dialoghi ha infatti rappresentato un’importante 123

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considerazioni conclusive

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occasione per riscoprire e rivalutare la dimensione dialogico-narrativa della medicina, spesso sacrificata in nome di un approccio sempre più organicistico e frammentario nei confronti dell’individuo. Il ritorno a una medicina più sobria, in grado di avvicinarsi al paziente con lo strumento della parola, costituisce la via privilegiata per il recupero della centralità della persona nel progetto di cura. La richiesta agli operatori, di ripercorrere alcuni episodi del loro vissuto personale e professionale ha dato a molti la possibilità di rivisitare in modo critico e consa­ pevole importanti scelte compiute nell’esercizio dell’attività sanitaria. Si è trattato di un lavoro collettivo piuttosto ampio, che è riuscito a coinvolgere un numero consistente di operatori sanitari nell’elaborazio­ ne di un database attualmente com­ posto da più di 400 casi clinici. La notevole quantità e qualità di materiale prodotto dalla colla­ borazione di diverse competenze professionali ha consentito di otte­ nere uno spaccato rappresentativo della sanità trentina. nelle “storie cliniche” narrate dagli operatori si è fatto riferimen­ to non tanto al concetto di “salute” quanto invece, più pragmaticamen­ te, a quello di “sistema sanitario” come strumento privilegiato di intervento sulla salute. La concezione del sistema sa­ nitario come parte integrante dei diritti sociali, economici, culturali e di cittadinanza ha fatto da cornice al percorso compiuto quest’anno,

racchiudendo i contenuti più alti di tutti i casi raccolti. È stato inoltre possibile indivi­ duare una sorta di filo rosso che ha caratterizzato sia i casi riportati dagli operatori che gli interventi dei relatori: il tentativo di andare oltre la manipolazione del linguag­ gio a cui così spesso si ricorre in ambito medico-sanitario. Gli esempi citati sono stati mol­ ti, uno fra tutti quello della “guerra al cancro”: una simile espressione implica l’accettazione dei danni col­ laterali che una guerra comporta; implica la gerarchia militare, cioè un contesto che non prevede una definizione condivisa degli obiet­ tivi, ma una mera imposizione e quindi obbedienza agli stessi. Molto diverso sarebbe parlare di “terapia del cancro”: solo entrando in quest’ottica è possibile arrivare a chiedersi se sia sempre possibile una terapia, oppure in che modo sia possibile affrontare una terapia assieme al paziente o, ancora, chi abbia il compito di decidere quale sia la strategia terapeutica da adottare. Tutte domande che non troverebbero spazio in una dimen­ sione “bellica” di guerra al cancro, dove è scontato che la malattia possa essere combattuta e vinta con qualsiasi mezzo perché sul campo di battaglia (che in questo caso è il corpo individuale) tutto è concesso. Gli stessi termini “reclutamento” o “arruolamento”, spesso usati in riferimento ai protocolli di speri­ mentazione, pongono il paziente in una condizione di soggezione, trasformandolo da soggetto a og­ getto del trattamento.

Si è constatato inoltre come la manipolazione del linguaggio possa far percepire alcune normali fasi della vita (gravidanza, menopausa) o semplici fattori di rischio come vere e proprie malattie. Una simile trasformazione del significato delle parole induce la popolazione a una visione distorta, in senso peggiorativo, del proprio stato di salute. Questi meccanismi manipolativi, unitamente alla rincorsa di un’uto­ pica salute perfetta e immediata­ mente raggiungibile, comportano, da parte del paziente, una sempre maggior insoddisfazione di fronte ai percorsi terapeutici propostigli e un frequente rifiuto dei limiti oggettivi della propria salute. È molto diffusa l’immagine di una medicina onnipotente dalla quale è lecito pretendere tutto e subito. non viene ammesso alcun margine di errore e di incertezza perché, oggi più che mai, la me­ dicina viene intesa come scienza esatta anziché come scienza pro­ babilistica. Si aprono a questo punto due ordini di problemi, emersi con fre­ quenza dagli elaborati analizzati. Il primo attiene a questa pre­ sunta infallibilità della medicina: qualsiasi incertezza dell’operatore, anziché essere percepita come fisio­ logica della professione sanitaria, viene vista con sospetto e disap­ provazione. Il paziente si aspetta di ricevere risposte certe e rassicuran­ ti, all’interno di una visione della medicina tipicamente shamanica (lo shamano è colui che accoglie su di

sé le incertezze, le trasforma in un rito, per poi comunicare ai propri “assistiti” solo certezze). Tuttavia, solo attraverso un’autentica condi­ visione dell’incertezza tra medico e paziente è possibile approdare a una medicina sostenibile, in grado di ridimensionare le aspettative del paziente, reintegrandole con il concetto di “limite”. I limiti possono essere di natura economica: data la limitatezza delle risorse disponibili è necessario, compiere delle scelte di allocazione. In questo è chiaramente ravvisa­ bile la ratio stessa dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), sulla cui definizione ed equità tuttavia esi­ stono ancora molti dubbi. Ma vi sono anche limiti di cono­ scenza: la medicina infatti si trova in una condizione di impotenza di fronte a molte malattie per le quali non è ancora riuscita (ci riuscirà mai?) a trovare terapie risolutive. Sarebbe inoltre auspicabile un riconoscimento e una conseguente condivisione dell’incertezza anche da parte del diritto. nel nostro ordinamento la pos­ sibilità di esiti incerti potrebbe essere raccolta solo da un diritto disposto a fare un passo indietro e ad ammettere la possibilità di zone d’ombra sottratte al proprio controllo. Da sempre i rigidi sche­ mi giuridici, massimi esempi della certezza, cercano di ricomprendere interamente la sfera etica, domina­ ta invece dall’incerto, con risultati raramente soddisfacenti. In questo modo si profilerebbe un diritto capace di rinunciare ad alcune delle proprie prerogative, 125

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considerazioni conclusive

come quella di essere onnicom­ prensivo della realtà esistente, per lasciare spazio ad altre componenti (la coscienza?), più adatte a rela­ zionarsi con la categoria dell’in­ certezza.

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Il secondo ordine di questioni attiene invece al problema del tempo. Si sta diffondendo infatti, soprattutto negli ultimi anni, la tendenza ad applicare all’assistenza sanitaria la stessa concezione del tempo che caratterizza le nuove tecnologie. L’introduzione di “oggetti” tec­ nologici nella vita quotidiana ha comportato una progressiva acce­ lerazione dei tempi, soprattutto nelle comunicazioni. La possibilità di utilizzare un telefono cellulare, ad esempio, garantisce l’immedia­ ta soddisfazione di ogni bisogno comunicativo, anche di scarsa importanza. La tecnologia sviluppa progres­ sivamente nelle persone una per­ cezione di istantaneità, che tende ad annullare il tempo intercorrente tra la nascita di un bisogno e la sua realizzazione. Il problema sorge nel momento in cui un simile processo viene ap­ plicato anche alla medicina. Infatti la possibilità di comunicare sempre e ovunque induce l’individuo a pretendere la medesima contempo­ raneità anche dall’assistenza sanita­ ria, senza considerare tuttavia che i tempi biologici sono per natura diversi da quelli tecnologici. Difficilmente un paziente accet­ ta di buon grado che il proprio me­ dico, di fronte al suo malessere, gli

risponda: “Aspetti e vediamo”. Con una simile affermazione si chiede infatti all’individuo di operare un rinvio, una dilazione del bisogno, attività che raramente è costretto a fare nella propria vita quotidia­ na, nella quale domina la filosofia del “tutto e subito”. La visione del tempo come opzione diagnostica è rigettata perché contrasta con quel carattere di istantaneità che si richiede anche al mondo sanitario. Troppo spesso davanti a simili pretese, che snaturano l’attività medica, l’operatore risponde con atteggiamento remissivo, appli­ cando la “velocità di trattamento” richiestagli. Ma la fretta, in questi casi, è sintomo di un atteggiamento difensivististico più che di una me­ dicina esercitata secondo scienza e coscienza. All’interno di questa cornice si inserisce la sanità trentina. Dal materiale analizzato affiora con in­ sistenza l’immagine di una realtà di piccole dimensioni, caratterizzata però da consistenti risorse e da buo­ ni indicatori di salute. nonostante il sostanziale benessere di un servizio sanitario come quello trentino, le nuove marginalità, i nuovi bisogni e le nuove opportunità che quo­ tidianamente emergono in ambito medico pongono non pochi problemi di equità nella salute e nell’accesso ai servizi sanitari. Ci si chiede dunque se e come sia possibile mantenere elevata la qua­ lità dell’assistenza in un contesto solidaristico e universalistico. Per poter rispondere a questa domanda è necessario innanzitutto

che le parti in causa condividano il significato delle parole. Si è potuto rilevare infatti che diverse categorie professionali conferi ­ scono a termini come quello di “assistenza” accezioni semantiche estremamente differenti. Per poter dialogare attorno a uno stesso tema è indispensabile invece partire da categorie di base comuni, in grado di garantire una piena ed efficace comunicazione. Su questa base si potrebbe ipo­ tizzare l’avvio di un filone di ricerca proprio sul significato trasversale delle parole. Partendo dal tentativo di descrivere il valore semantico attribuito dalle diverse categorie di operatori sanitari ad alcuni termini fondamentali come “assistenza” e “continuità”, si potrebbe arrivare a un’omogeneizzazione del significato delle parole, al fine di costruire un vocabolario comune su cui i pro­ fessionisti della salute si possano basare per formulare proposte di miglioramento della sanità. Allo stesso modo sarebbe in­ teressante attuare progetti di ricerca che coinvolgano le nuove marginalità presenti sul territorio: la produzione di un’epidemiologia della marginalità e la conseguente indagine sugli esiti assistenziali nelle persone poste al margine (dal­ l’immigrato al paziente neoplasico terminale) potrebbero costituire un’importante occasione di raccolta di informazioni utili a dare risposte concrete ai nuovi bisogni che la società pone. Infine sarebbe auspicabile l’at­ tuazione di protocolli di ricerca sul tema dell’informazione e del

consenso. Si potrebbe partire dal­ l’individuazione di alcuni pazienti appartenenti a categorie partico­ larmente “delicate” (ad esempio, i pazienti che entrano in una sperimentazione), procedere poi con una loro randomizzazione in gruppi, e infine proporre a ciascuno una diversa modalità di consenso, per verificare quale di queste sia più efficace. È possibile infatti che operatori con diverse competenze professionali (ad esempio, un chi­ rurgo e un anestesista) informino il paziente in modo differente; oppure che un’informazione data da un me­ dico assistito da un infermiere sia qualitativamente diversa da quella comunicata dal solo medico; o anco­ ra, che il fatto di concedere o meno del tempo al paziente per riflettere sulle proprie scelte modifichi la sua decisione finale. Progetti di questo tipo potreb­ bero contribuire a individuare gli strumenti migliori per raggiungere una dimensione di consenso effet­ tivamente condivisa e informata, evitando che esso si riduca a un mero atto di garanzia legale per l’operatore sanitario. Tra le proposte formulate dagli operatori sanitari in merito ai pos­ sibili temi da trattare nel prossimo ciclo di Dialoghi, vi è in primo luogo l’aspetto della comunicazione tra operatore sanitario e paziente (dal bambino all’anziano), nell’ottica del raggiungimento di una piena condivisione dell’incertezza; in secondo luogo è stata segnalata con frequenza la necessità di appro­ fondire le problematiche relative al pluralismo culturale, con particolare 127

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attenzione al concetto di malattia e di morte nelle diverse culture e religioni con cui l’operatore viene a contatto. Segue poi una richiesta di ri­ flessione: – sulle medicine alternative e sul loro rapporto con la medicina ufficiale; – sul significato dei LEA; – sull’ambiente quale determinante di salute (ambiente come qualità dell’aria, come posto di lavoro, come qualità della vita...) – sulle principali fasi della vita del paziente (neonatologia, eutanasia, direttive anticipate), in particolare quelle riguardanti la salute della donna (gravi­ danza, interruzione volontaria di gravidanza, procreazione medicalmente assistita, contrac­ cezione d’emergenza, RU 486, menopausa...) di cui in parte si è già parlato nei Dialoghi del 2004.

Marco Clerici è medico di Medicina generale Greta Sona è laureata in Scienze Giu­ ridiche

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