INTRODUZIONE
– William Blake.
Un rapido sguardo intorno a noi, alla realtà che ci circonda e alle relazioni in cui ci troviamo quotidianamente coinvolti ci mostra un mondo multiforme, ricchissimo di sfumature e differenze: come si orienta l’individuo in tanta complessità? Come si costruisce il proprio bagaglio di conoscenze, senza disperdersi nelle numerose dimensioni del proprio mondo? La prima risposta, quella più intuitiva, spesso anche la più giusta, è questa: attraverso la semplificazione di ciò che lo circonda e che deve capire per conoscere. Questa semplificazione avviene attraverso dei processi cognitivi conosciuti come stereotipi. Questa ricerca intende interrogarsi innanzitutto su come nascono e si formano gli stereotipi, sul modo in cui vengono usati dagli individui, per arrivare a comprendere che il meccanismo di categorizzazione che sta dietro lo stereotipo porta alla riduzione delle
informazioni
provenienti
dall’ambiente
circostante,
producendo,
inevitabilmente, la perdita di quei dettagli e la ricchezza di quelle sfumature che, tante volte, sono capaci di fare la differenza nella valutazione delle cose. E’ proprio da questa constatazione che è nato il desiderio di studiare i pregiudizi che di frequente si incontrano quando si parla del Pakistan. Nei media e in vasta parte dell’opinione pubblica occidentale si è ormai sedimentata un’immagine poco realistica, incompleta e distorta del paese che viene ormai erroneamente visto come un paese musulmano integralista, dove i fondamentalisti la fanno da padroni, costitunedo quindi una minaccia per la pace mondiale. Si tratta, nonostante vi siano nelle analisi più approfondite alcuni elementi di verità ascrivibili a problemi reali che affliggono il paese, di preconcetti, frutto, il più delle volte, di generalizzazioni arbitrarie e di non, conoscenza. Il lavoro svolto è stato diviso in tre capitoli. Il primo capitolo
ripercorre
l’evoluzione teorica del concetto di stereotipo. Nel secondo capitolo invece si è 1 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
cercato di analizzare le percezioni, ormai affermatesi come pregiudizi, che l’Occidente ha del Pakistan. Si è cercato di spiegare perché molto spesso siamo davanti ad informazioni poco obiettive e alterate e si è evidenziato soprattutto l’influenza dei media in tale processo. Si è focalizzata l’attenzione sul ruolo delle donne, ribadendo l’esistenza di realtà profondamente differenti all’interno del mondo islamico, sul fatto che l’Islam non può essere interpretato come un blocco monolitico, e sulla posizione geopolitica strategica del paese. Il tutto per cercare di demistificare l’idea presente in Italia, e nel mondo “occidentale”, del Pakistan come uno Stato pericoloso per le sorti della pace mondiale e della donna pakistana come soggetto completamente sottomesso alla volontà dell’uomo. In realtà le differenze tra le etnie presenti in Pakistan, il pluralismo che lo caratterizza, vengono spesso dimenticate e così pure viene sottaciuta l’esistenza di una vasta società progressista nel paese. Infine il terzo capitolo è dedicato ad una analisi dei mezzi e delle strategie che possono contribuire a combattere gli stereotipi.
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CAPITOLO PRIMO STEREOTIPO E PREGIUDIZIO: INQUADRAMENTO TEORICO
1.1 DEFINIZIONE
In un mondo fatto di differenze e di relazioni sociali complesse quale quello in cui siamo immersi, l’individuo sente molto spesso l’esigenza di adottare dei meccanismi per semplificare e ordinare la realtà, raggruppando persone, oggetti ed eventi in categorie, in base alla loro somiglianza rispetto alle loro azioni, intenzioni e atteggiamenti. Questa semplificazione avviene attraverso dei processi cognitivi che affondano le proprie radici nelle meccaniche di formazione e di utilizzo degli stereotipi. Lo stereotipo si configura infatti come una rappresentazione semplificata di realtà riguardanti certe categorie di individui o certi tipi di situazione e ne evidenzia le caratteristiche peculiari e distintive al fine di renderle identificabili e, successivamente, interpretabili (Villani 2005). Il loro utilizzo permette un’immediata lettura dell’ambiente all’interno del quale gravitano i soggetti e serve loro come guida nell’impostazione dei loro rapporti attraverso la creazione di precise categorizzazioni. Gli individui, infatti, inseriscono in queste griglie cognitive semplificate temi e soggetti, riuscendo così sia ad orientarsi nelle varie situazioni, sia a facilitare l’indirizzo delle proprie relazioni. L’origine etimologica del termine stereotipo (dal greco stereos=rigido e topos=impronta) si colloca nell’ambito dell’arte tipografica e identifica una procedura settecentesca di riproduzione che utilizza lastre fisse non modificabili per effettuare la stampa. È solo nel ventesimo secolo che il termine “stereotipo” compare nell’accezione di schema o di immagine, nell’ambito delle scienze sociali ed in particolare negli studi 3 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
condotti da Walter Lippman nel 1922. Le “immagini nella nostra testa”, messe in evidenza nell’opera pionieristica di Lippman, sono state in seguito l’oggetto di numerose indagini a carattere empirico e teorizzazioni nell’ambito della psicologia sociale prevalentemente statunitense e d’ispirazione anglosassone, che ne hanno studiato la natura, le funzione e gli effetti sociali. Oggi lo stereotipo viene definito in psicologia come “opinione precostituita su una classe di individui, di gruppi o di oggetti che riproducono forme schematiche di percezione e di giudizio” (U. Galimberti, 1999), o anche “credenze condivise relative ad attributi personali di un gruppo umano, generalmente tratti di personalità, ma anche comportamenti” (Leyen, 1994). Il costrutto di stereotipo è strettamente connesso con quello di pregiudizio. Spesso vengono addirittura usati come sinonimi. (Mazzara 1997, pp. 14-19) definisce lo stereotipo come nucleo cognitivo del pregiudizio: un insieme d’informazioni e credenze circa una certa categoria di oggetti, rielaborati in immagini coerenti e tendenzialmente stabili, in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei confronti dell’oggetto. Lo stesso autore definisce il pregiudizio sulla base del grado di generalità che si adotta. Se è massimo, il concetto di pregiudizio corrisponde al significato etimologico, derivato dal sostantivo latino praejudicium: un giudizio precedente all’esperienza o emesso in assenza di dati empirici. Si tratta di un giudizio più o meno errato, orientato in senso favorevole o sfavorevole, riferito tanto a fatti quanto a persone o gruppi. Se invece si adotta un grado di analisi più specifico lo si può definire come tendenza a considerare in modo ingiustamente sfavorevole persone che appartengono a un determinato gruppo sociale. Le ragioni del passaggio semantico e concettuale che si evidenzia in queste ultime definizioni di stereotipo sono spiegabili all’interno del contesto teorico e storico sia europeo che statunitense in cui si sono sviluppate, dagli anni ’20 ad oggi. La costruzione e la modificazione del concetto di stereotipo e di altri ad esso legati come quello di pregiudizio, verranno descritte qui di seguito.
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1.2 IL CONTESTO TEORICO
Le teorie esplicative si possono distinguere in base al livello di analisi che toccano (Mazzara, 1997). Le teorie che si pongono ad un livello di analisi individuale, analizzando i contenuti stereotipici e i pregiudizi, indagano i processi cognitivi sottostanti, inquadrando il problema nei termini di struttura di personalità, e si rifanno a nozioni quali disposizioni individuali e motivazione. Sul piano epistemologico tale impostazione presuppone l’esistenza di una realtà data a priori, conoscibile
ma sottoposta a
continui processi di distorsione percettiva e cognitiva, gli stessi che caratterizzano i meccanismi di categorizzazione, generalizzazione ecc. Queste teorie contrappongono una realtà vera ad una distorta, rimandando tutto alla dimensione disposizionale e quindi interna dell’individuo. Quest’ottica quindi assume le categorie sociali come realmente esistenti. Mentre questo insieme di teorie s’interroga sul perché della formazione di stereotipi e pregiudizi, un altro gruppo di teorie si focalizza invece sulla dimensione collettiva di questi fenomeni, sul come questi si producano e riproducano socialmente. La nozione di stereotipo si è sviluppata attraverso gli studi condotti all’inizio del novecento sull’entità e sulla natura delle differenze tra grandi gruppi umani, temi che hanno rappresentato l’interesse della così detta psicologia delle razze (Mazzara B., 1996 da p. 60 a p.72). Da qui si è giunti poi al concetto di gruppo etnico, da cui si è sviluppata l’analisi sul costrutto di stereotipo.
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1.2.1. L’ADOZIONE DEL COSTRUTTO DI STEREOTIPO E LE PRIME RICERCHE EMPIRICHE
Il concetto di stereotipo ha segnato il passaggio dallo studio delle differenze oggettive allo studio delle immagini soggettive. Introdotto nelle scienze sociali dal giornalista Walter Lippman (1922) al fine di comprendere i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica, il concetto di stereotipo viene per la prima volta traslato in ambito psicologico ed elaborato in una teoria interpretativa che costituì la base dei moderni approcci cognitivi. Lippman sosteneva che la realtà cosi complessa può essere conosciuta solo attraverso la costruzione d’immagini mentali o rappresentazioni che l’uomo si crea, sulla base di operazioni di semplificazione e di organizzazione preventiva dei dati, la quale influenzerebbe a sua volta la raccolta e la valutazione degli stessi. Tali stereotipi avrebbero origine prevalentemente sociale, derivando essenzialmente dal contesto culturale e svolgerebbero l’importante funzione di spiegare il comportamento e l’organizzazione sociale esistente. A Katz e Braly (1933) si deve la prima ricerca empirica sugli stereotipi etniconazionali. La loro tecnica d’indagine verrà usata quasi invariata in moltissimi studi successivi: ai soggetti veniva sottoposto una lista di aggettivi con la richiesta di indicare quali di essi fosse tipico di ciascun gruppo. Ne risultavano dei profili dei singoli gruppi etnico-nazionali molto differenziati tra loro, e molto omogenei al loro interno; ma soprattutto i singoli profili risultavano altamente condivisi. Per questo lo stereotipo ha potuto essere definito come un insieme integrato e stabile di credenze circa le caratteristiche di gruppi umani definiti (Mazzara, 1996, p.118). In tempi successivi altri studi (Karlins, Coffman, Walters, 1969) hanno applicato lo stesso schema di ricerca giungendo a risultati non molto diversi da quelli delle prime ricerche, ma con significativi mutamenti nei contenuti degli stereotipi stessi (tendenza ad usare descrizioni più neutre per le minoranze e con minori connotazioni svalutative, introduzione di elementi autocritici per il gruppo maggioritario). 6 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
Sebbene le idee di Lippman restino dal punto di vista teorico alquanto vaghe, esse anticipano alcuni punti essenziali: - lo stereotipo è basato su un processo di semplificazione - questa semplificazione avviene secondo modalità culturalmente stabili - lo stereotipo svolge una funzione di tipo difensivo allo scopo di mantenere la cultura e le forme di organizzazione sociale - esso orienta la ricerca e la valutazione dei dati dell’esperienza. Possiamo concludere che nel complesso le prime ricerche sugli stereotipi sono focalizzate principalmente sul perché questi si creino, e si limitano alla descrizione dei contenuti delle immaginazioni di altre nazionalità, registrandone le variazioni in relazione ad eventi storici e allo stato dei rapporti tra gruppi interessati.
1.2.2. L’APPROCCIO COGNITIVO
Le teorie cognitive focalizzano l’attenzione sui processi abituali di funzionamento della mente, tipici dell’individuo, e sembrano sottolineare l’inevitabilità della percezione distorta alla base dello stereotipo e del pregiudizio. L’approccio cognitivo non si limita più solo alla descrizione delle immagini che i gruppi hanno l’uno dell’altro, ma s’interroga sulla funzionalità psicologica degli stereotipi e sul loro rapporto con altri processi mentali. Si prendono qui in considerazione i principali contributi di Gordon Allport, e di alcuni esponenti della social cognition (Mazzara B., 1996, pp.126-143).
Il pregiudizio come “pensiero indifferenziato” Un importante contributo è stato dato da G. W. Allport, che basandosi su una rigorosa e completa analisi della letteratura allora esistente sostiene che è necessario 7 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
integrare tutti i livelli possibili di analisi: storico-economico, socio-culturale, situazionale, e psicologico (Allport, 1954). Egli affronta il tema del pregiudizio analizzandone i processi d’acquisizione, le dinamiche, il suo legame con la struttura del carattere, le differenze tra gruppi e la percezione di queste differenze. Il pregiudizio non può essere compreso se non a partire dalla considerazione dei comuni processi di pensiero che caratterizzano il funzionamento della mente, e che implicano: - meccanismi
di
semplificazione
e
organizzazione
delle
conoscenze
indispensabili per far fronte ad una realtà troppo complessa e differenziata - il processo fondamentale di categorizzazione, definibile come raggruppamento, di stimoli ed eventi per quanto possibile omogenei, utile per inqadrare, rapidamente eventi nuovi in un sistema coerente d’interpretazioni e comportamenti - il processo di generalizzazione definito come tendenza costante della mente umana ad estendere ad ampie serie di eventi le osservazioni effettuate sui pochi eventi disponibili I sistemi di categorizzazione possiedono però una loro “inerzia”, una sorta di ancoraggio:una volta costruiti tendono a permanere immutabili al di là delle prove empiriche che li smentiscono. Si produce pregiudizio quando la categoria comprende tutto in modo indifferenziato, generalizzato in una categoria “monopolista”, basata appunto su un “pensiero indifferenziato”. Inoltre secondo l’autore, alla categorizzazione è associata anche una connotazione di tipo affettivo e valutativo (“l’etichettamento” o “alone semantico” ad es. del termine “nigger” o “comunisti”, pp. 253-259), che contribuisce a rafforzare l’inerzia. La condivisione sociale del sistema di categorie costituisce un forte elemento di resistenza al mutamento in quanto rafforza il senso di appartenenza di gruppo (pp. 27-33; 237-241).
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Lo stereotipo come pensiero preferenziale Dalla combinazione di processi di categorizzazione e generalizzazione nasce lo stereotipo, importante concetto chiave per la comprensione dei fenomeni di pregiudizio che Allport recupera e valorizza dalla precedente tradizione psico-sociale. Ma lo distingue dalla categoria, in quanto considera lo stereotipo come la dimensione ideativa delle categorie, “immagini nell’ambito di una categoria invocate dall’individuo per giustificare un pregiudizio positivo o negativo, e la nostra condotta in relazione a quella categoria” (Allport, 1954, pp. 266-67). L’affermazione “tutti gli avvocati sono disonesti” esprime ad esempio una generalizzazione stereotipata della categoria degli avvocati. Esistono stereotipi positivi e negativi, derivati da processi di selezione, esagerazioni che possono o no avere corrispondenza con la realtà. Infatti secondo l’autore, il bisogno di designare è spesso e volentieri più forte dell’identità stessa che viene attribuita all’individuo o al gruppo, specialmente quando si tratta di designare un amico. L’idea che lo stereotipo e il pregiudizio si fondino su normali processi di pensiero con i quali l’uomo dà ordine alle cose viene sviluppato e integrato ad una dimensione più sociale da autori appartenenti al settore della Social Cognition.
1.2.3 STEREOTIPO E CATEGORIE SOCIALI
L’esigenza di trattare le informazioni sociali come qualcosa di specifico e differente dagli oggetti non sociali costituisce il punto di partenza dei contributi di autori quali Tajfel, a partire dalla convinzione che la percezione del mondo sia condizionata da
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valori, atteggiamenti e scopi dei soggetti, sottolineando la correlazione tra livello individuale e dinamiche sociali e culturali sulle quali si fondano i sistemi di valori. Il suo punto di partenza è stato individuare il collegamento esistente tra categorizzazione percettiva e processi di categorizzazione sociale, intesa come percezione degli attributi di altri individui visti come membri di gruppi sociali. Egli dimostrò attraverso diversi studi sperimentali (Tajfel, 1981) che: - la categorizzazione di stimoli continui porta all’effetto di accentuazione percettiva che altera alcune caratteristiche attribuite all’oggetto e le differenzia in termini di salienza - per questo effetto, in presenza di una categorizzazione sociale si tende a sopravvalutare il grado di similarità interna (le persone appartenenti ad una stessa categoria sono percepite come più simili e omogenee tra loro di quanto realmente non lo siano, sottovalutandone l’eterogeneità) e di dissimilarità esterna (le persone per il solo fatto di essere inserite in categorie diverse sono percepite tra loro più differenti di quanto non lo siano) - si tenderà inoltre a massimizzare le similarità per il gruppo esterno, l’outgroup, e a massimizzare le differenze e le variazioni per il proprio gruppo, l’ingroup (questa tendenza cambia a seconda che il gruppo si trovi in una condizione di minoranza o di maggioranza!) Il processo di categorizzazione costituisce così lo stampo che dà forma agli atteggiamenti infragruppo ed intergruppo. L’assimilazione dei valori e delle norme sociali determina il contenuto di queste categorie. Le categorie sociali quindi - semplificano il mondo sociale - conservano il sistema di valori - selezionano ed interpretano le informazioni sugli altri in sintonia con caratteristiche comprese in quella data categoria. Le categorie sociali diventano salienti ed efficaci nelle condizioni di conflitto o competizione tra gruppi (Sherif, 1966). Gli studi sugli effetti psicologici dei conflitti 10 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
sono stati studiati a lungo da Sherif, il quale sostiene che il conflitto porta ad abituali manifestazioni di pregiudizio e ostilità tra un gruppo e l’altro, e alla comparsa di rituali e stereotipi negativi riguardo al gruppo esterno. Tajfel (1985) dimostrò però che pregiudizi a favore del proprio gruppo possono nascere anche in assenza di conflitto esplicito. L’appartenenza al gruppo sembra essere molto importante se accompagnata da un forte coinvolgimento emotivo al gruppo di riferimento. Il giudizio di valore emergerebbe al confronto con un altro gruppo, nel momento in cui aspetti dell’immagine che l’individuo ha del proprio gruppo vanno incontro a processi di cambiamento. La ricerca di orientamento cognitivo si è indirizzata ad esplorare nei dettagli altre dinamiche mentali ed effetti nelle attribuzioni verso l’altro: - la tendenza alla ricerca di coerenza concettuale che porta a selezionare le informazioni o le caratteristiche coerenti con quelle della categoria già presente e ad ignorare quelle discordanti. - la tendenza alla ricerca di conferma delle ipotesi: nella conoscenza interpersonale l’individuo tenderà a verificare se la persona corrisponde alle aspettative derivanti dall’idea stereotipica che ha della categoria sociale a cui la persona appartiene. - il rapporto esistente tra processi d’inferenza e stereotipi. Da un lato lo stereotipo è costituito proprio da giudizi di tipo sintetico e da collegamenti a carattere inferenziale, e dall’altro le inferenze nel giudizio sociale che normalmente si producono per scarsità d’informazioni risentono di stereotipi già consolidati (Mazzara, 1997, p.140). Tenderemo ad esempio ad interagire con persone che con più probabilità pensiamo abbiano caratteristiche di personalità che ci interessano. Diverse critiche sono state avanzate rispetto all’approccio cognitivo che riguardano soprattutto la supposta inevitabilità e automaticità dei processi mentali in questione. Esse sostengono l’opportunità di estendere l’analisi a processi che vadano al di là della dimensione cognitiva individuale nelle singole relazioni tra l’individuo e un 11 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
gruppo. Pur essendo stata presa in considerazione la dimensione sociale implicata nella formazione di stereotipi e pregiudizi in quest’ambito, essa rimane concettualizzata nei termini di contesto, di cornice accessoria dentro la quale situare le dinamiche cognitive spiegabili a livello individuale. Il passaggio teorico che segue attribuirà alla dimensione sociale un senso ed un ruolo autonomi che necessita di un’analisi specifica e della considerazione di livelli esplicativi differenti, in quanto caratterizzata da elementi concettuali peculiari come quello di identità sociale.
1.2.4 LA RIVALUTAZIONE DEL CONTESTO SOCIO-CULTURALE
Al centro dell’attenzione non viene più posta la dimensione cognitiva, bensì la modificazione che gli stessi processi cognitivi subiscono nell’interazione sociale reale. L’interesse si sposta sulle conseguenze dell’appartenenza a gruppi, ai processi di produzione e di scambio sociale dei significati attribuiti agli individui e alle relazioni intergruppo. Vengono ora indagati i processi di differenziazione e di stereo tipizzazione, con particolare riferimento al riflesso su questi processi delle tensioni di status, delle dinamiche di maggioranza e minoranza, della distribuzione sociale delle risorse; ma anche di processi di produzione collettiva della cultura, dei simboli condivisi e delle ideologie sociali. La prospettiva di Moscovici (1981) si fonda sul costrutto di rappresentazione sociale, intesa come modo d’interpretare e di pensare la vita quotidiana, una forma di conoscenza sociale. Si tratta di una conoscenza spontanea, ingenua, detta anche conoscenza di senso comune che si costituisce a partire dalle nostre esperienze, da informazioni, saperi e modelli di pensiero che riceviamo e trasmettiamo attraverso la tradizione, l’educazione e la comunicazione sociale. A questa “conoscenza socialmente elaborata e partecipata” (Moscovici, 1989) appartengono gli stereotipi e i pregiudizi. Uno studio basato su quest’ottica, centrato sul tema dell’identità e degli stereotipi etnici, è stato condotto da Di Giacomo (1985) sull’identità sociale dei 12 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
Valloni, nel quale la nozione di identità sociale è equiparata alla rappresentazione che una comunità ha di se stessa. Sulla stessa scia di Moscovici si colloca Asch (1952), che individua nei processi di rappresentazione il fattore decisivo che rende la dimensione di gruppo una dimensione reale e pregnante per l’individuo. Le interazioni si svolgono in un campo di rappresentazioni condivise nel quale sono costantemente rappresentate sia le azioni degli altri sia i nostri rapporti con essi. I fatti di gruppo acquistano così una loro autonoma validità e valore fattuale e condizionano le percezioni e le azioni concrete dell’individuo. Una grossa parte degli studi e ricerche si sono inoltre concentrati sul tema della conflittualità interetnica e delle strategie per il mantenimento dell’identità sociale. L’esistenza di una tendenza a massimizzare le differenze è stata sperimentalmente evidenziata attraverso il paradigma dei gruppi minimi (Billig, Tajfel, 1973). In sintesi, questi autori affermano che la sola categorizzazione sociale su basi arbitrarie di un gruppo di individui porta a massimizzare le differenze del proprio gruppo rispetto ad altri gruppi. La semplice distinzione categoriale innesca quindi il confronto tra gli individui, e l’obiettivo di aumentare l’autostima personale e di gruppo viene perseguito principalmente in termini di differenza tra gruppi. In quest’ottica è possibile configurare lo stereotipo e il pregiudizio come strumenti privilegiati per il supporto e il mantenimento della differenziazione tra gruppi sociali. Un’estensione in direzione sociale delle teorie dell’attribuzione ha toccato in maniera significativa il tema delle relazioni interetniche. Nell’interpretazione degli eventi nei quali un gruppo è coinvolto hanno un ruolo fondamentale i processi di attribuzione causale degli eventi. Questi studi hanno evidenziato in particolare: - la tendenza ad attribuire a tratti disposizionali le azioni positive compiute dai membri dell’in-group e le azioni negative compiute dai membri dell’out-group. - a giudicare come dovute a circostanze casuali o esterne le azioni positive dell’out-group e quelle negative dell’in-group. 13 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
Nelle spiegazioni più comuni di fatti che riguardano gli immigrati si nota come per i loro aspetti negativi si fa più spesso riferimento al carattere (individuale o di gruppo) e alla responsabilità personale che non per i nostri aspetti negativi attribuiti preferenzialmente alle circostanze o alle situazioni. In alcune ricerche sulla stampa italiana (Mazzara, 1993) si sono potute riscontrare differenze nella spiegazione dei problemi legati agli immigrati anche con riferimento alle diverse etnie di appartenenza: nel caso degli immigrati albanesi (bianchi, “vicini” a noi) si sono trovate in misura maggiore attribuzioni esterne e instabili, mentre nel caso di immigrati africani (percepiti come più diversi) sono relativamente più presenti attribuzioni interne e stabili.
1.2.5 STEREOTIPI E PREGIUDIZI COME “NEGOZIATORI D’IDENTITA’ SOCIALE”
I processi cognitivi di base risultano profondamente caratterizzati dal contesto sociale nel quale avvengono: la formazione e il mantenimento di stereotipi s’intrecciano a processi complessi di categorizzazione, di attribuzione causale e di differenziazione sociale. Si può parlare ora di una complessiva ridefinizione dl concetto di stereotipo a partire da un’ottica di relazioni intergruppo e d’identità sociale. Gli stereotipi rappresentano lo strumento conoscitivo socialmente condizionato che ci consente di rinegoziare in continuazione la definizione dell’identità (Oakes, Turner, 1990). Percepire il mondo articolato in categorie fornisce informazioni non solo sugli altri ma anche sull’individuo stesso: l’immagine che ciascuno ha di sé risulta largamente determinata dall’immagine che ha dei gruppi ai quali appartiene e dallo stato complessivo dei rapporti fra gruppi sociali per lui significativi. Un’altra prospettiva interessante considera il livello di “giudicabilità sociale” dello stereotipo (Leyens, Yzerbyt, Schadron, 1992) partendo dalla constatazione che i 14 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
tradizionali approcci allo stereotipo si limitano a considerare gli aspetti di buono o cattivo funzionamento del sistema cognitivo. I giudizi sociali sono basati non tanto su procedimenti logici quanto piuttosto sull’esigenza di assegnare significato al mondo secondo codici socialmente condivisi. In questo senso gli stereotipi possono essere concepiti come spiegazioni sociali, di cui deve essere esplorata la funzionalità in riferimento ad uno specifico contesto di relazioni intergruppo. Al di là della più o meno esatta corrispondenza fra dati e giudizio sociale ciò che conta è la giudicabilità sociale, cioè il fatto che un certo gruppo sia o meno costituito come oggetto di giudizio e che un certo soggetto si senta o meno titolare del diritto di giudicare. Gli stessi processi di attribuzione causale risultano anch’essi profondamente modificati da dinamiche di tipo culturale. Hewston e Ward (1985) hanno evidenziato che il fondamentale effetto di favoritismo attribuzionale verso l’in-group, il proprio gruppo, non è affatto universale, ma tenderebbe a rispecchiare lo stato delle relazioni tra gruppi etnici nonché le modalità prevalenti di definizione socio-politica del rapporto tra maggioranza e minoranza. Un altro autore che merita di essere ricordato è Newcomb (1952) che interpreta il pregiudizio e la conflittualità tra i gruppi etnico-religiosi in termini di norme di gruppo che prescrivono un certo rapporto da tenere con i membri del gruppo esterno. Di particolare interesse i suoi studi sulle appartenenze multiple e marginali, sulle strategie di soluzione delle tensioni basate su processi di enfatizzazione delle differenze a favore del proprio gruppo. Questo autore anticipa in particolare tendenze più recenti sottolineando l’importanza dei processi di comunicazione quale luogo di costruzione e condivisione delle norme di gruppo e quale elemento chiave per la strutturazione delle relazioni tra gruppi (Mazzara, 1997, p. 151). La comunicazione è il mezzo per lo scambio d’informazione fra gruppi; lo strumento per definire collettivamente i ricordi di esperienze significative e per impostare atteggiamenti positivi e negativi nei confronti di altri gruppi; il terreno per l’apprendimento delle norme sociali condivise.
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Il ruolo della comunicazione nella costruzione sociale dell’immagine dell’altro verrà ampiamente sviluppata dall’approccio cosiddetto costruzionista, descritto nel paragrafo seguente.
1.2.6 LA COSTRUZIONE SOCIALE DEGLI STEREOTIPI E DEI PREGIUDIZI
A questo gruppo appartengono le teorie che pongono attenzione non all’individuo in sé quanto ai processi individuali e collettivi che costruiscono il significato delle cose; l’individuo e il gruppo sono attori che generano processi di significazione per costruire e spiegare eventi, sulla base di una continua negoziazione condivisione sociale di idee, norme, credenza e teorie. Questo approccio teorizza il pregiudizio come prodotto di una costruzione sociale, basata sulla condivisione di credenze ed opinioni (Berger, Luckmann, 1969). Una certa categoria sociale non è vera in quanto tale, ma solo perché qualcuno l’ha definita, così con il consenso del gruppo. La categoria è il prodotto di una costruzione collettiva: ad esempio in quest’ottica gli zingari non sarebbero una categoria di per sé esistente a priori, ma lo diventa quando vengono definiti ed etichettati collettivamente, allo scopo di identificarli e riconoscerli. Salvini (2000) definisce schemi di tipizzazione delle personalità quelle astrazioni categoriali, cognitivamente preordinate e culturalmente connotate, che vengono utilizzate per attribuire peculiari caratteristiche ad una certa classe di individui accomunati da qualche aspetto distintivo, attraverso l’uso di etichette linguistiche. Ad es. la parola “immigrato” predefinisce già di per sé una cornice interpretativa che accomuna tutti i soggetti nella condizione di immigrato. Esse concorrono al processo di valutazione sociale del comportamento altrui. Questa posizione assume che ogni individuo/osservatore è socialmente e culturalmente situato, guidato ad utilizzare intenzionalmente un sistema di significati condivisi e di tipologie attributive formate su base categoriale da prototipi e 16 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
stereotipi. Questi schemi verrebbero attivati implicitamente o esplicitamente da chi osserva e orientano intenzionalmente e selettivamente l’attenzione e l’interpretazione della realtà. Essi assolvono una funzione pragmatica di tipo descrittivo, valutativo, esplicativo e una funzione di verità in quanto sono plausibili all’interno di prestabiliti contesti e riferimenti normativi socialmente condivisi. La diversità sociale ad esempio diviene tale solo se posta in relazione alle norme sociali con cui viene confrontata e ai suoi interpreti. L’impostazione costruzionista assegna un forte rilievo alle pratiche comunicative, in quanto è nello scambio comunicativo che si diffondono le idee. La comunicazione non è semplice veicolo di pregiudizi e stereotipi ma la loro stessa sede. Le teorie di stampo costruzionista hanno quindi indagato il ruolo dei mass media e i processi della comunicazione interpersonale. Il filone pragmatico rappresentato dagli studi di Watzlawich (1967) si è focalizzato sul tema della struttura retorica degli scambi comunicativi e ipotizza in particolare che gli stereotipi e i pregiudizi si rafforzano nella misura in cui usano gli stessi artifici retorici della comunicazione persuasiva e sviluppano un’argomentazione a sostegno. Lo stesso concetto d’identità, elaborata in termini di costruzione sociale, rappresenta l’esito di discorsi socialmente condivisi circa la società e se stessi. Secondo questa impostazione l’operazione stessa di categorizzazione appartiene ad una pratica discorsiva (Edwards, 1991), così come il pregiudizio e le relazioni interetniche sono essenzialmente il risultato di costruzioni comunicative di cui occorre analizzare la struttura, le procedure e il rapporto con le ragioni sociali, politiche e di potere. L’interpretazione della realtà avverrebbe tramite l’uso di idonei repertori interpretativi, creati dalla comunicazione e concretamente disponibili nel quotidiano. In questo senso il pregiudizio può essere considerato uno specifico insieme di forme discorsive: termini, immagini, metafore, luoghi comuni. Con esse la comunità descrive in modo coerente con un più generale sistema interpretativo della realtà.
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1.2.7 IL COMUNE SENSO DEL PREGIUDIZIO
Pregiudizio e stereotipo sono nell’ottica di matrice costruzionista il prodotto costante di un processo collettivo d’assegnazione di senso alla realtà (Mazzara, 1997, p.83). Essi derivano quindi da dinamiche d’identità sociale e rapporti tra gruppi, una sorta di memoria collettiva a cui ogni individuo può attingere per dare significato alle cose. In questo senso il pensare in modo stereotipato o attraverso pregiudizi apparterrebbe ad un modo di funzionamento tipico del pensiero popolare, detto anche di senso comune. Autori quali Schultz e J. Bruner hanno sviluppato questo tema rispettivamente nell’ambito della sociologia fenomenologica e della psicologia culturale. Schultz parte dal problema di definire che cos’è la realtà: reale è “ciò che gli altri confermano”, o “ciò che gli altri concordano nel chiamare realtà” (Schultz, 1995, p.12). Il pensiero della vita quotidiana è il pensare come al solito, basato su presupposti quali la fiducia ad esempio che i corpi fisici esistano davvero o che vi siano al mondo altre persone e che possiamo comprenderle. L’ordine della realtà della vita quotidiana è caratterizzata dall’essere esonerata dal dubbio circa la verità delle cose: nel pensiero quotidiano noi diamo per scontato di comprendere le cose per quelle che sono in modo semplice, fino a che un problema inusitato non ci costringe a rivedere le nostre idee. Il senso comune presuppone che ciò che conosciamo sia derivato da esperienze personali o tramandato e comunicato dagli altri che vanno a costituire una mappa dei tipi di cose che esistono: un insieme di costrutti pre-teorici e di “ricette” per agire ed interpretare il mondo (idem, p.15). Gli stereotipi e i pregiudizi si collocano proprio all’interno di queste ricette. Perché funzionano queste ricette? Come siamo certi che quello che il senso comune ci fa fare per scontato sia anche vero? I contenuti del senso comune sono veri perché funzionano solo in quanto ciascuno vi si attiene. Anche in quest’ottica ritorna l’aspetto fondamentale di condivisione dei significati attribuiti alle persone e agli 18 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
eventi. Il senso comune è “quello che ciascuno crede che tutti gli altri credano” (ibidem, p.17): stereotipi e pregiudizi rappresentano il risultato di questo accordo intersoggettivo, tacito e implicito. All’interno del pensiero di Bruner i costrutti di stereotipo e di pregiudizio sono collocati nell’ambito di un discorso più ampio relativo alla psicologia popolare, la quale rappresenta il modo in cui una cultura spiega il comportamento degli esseri umani. La psicologia popolare comprende una teoria della mente, propria e altrui, una teoria della motivazione, etc. (Bruner, 1992, p. 28). Le sue componenti sono credenze o presupposti elementari che entrano nelle narrazioni delle vicende umane (idem, p.51). La psicologia popolare presuppone che la gente ha credenze e desideri: che ad esempio il mondo sia organizzato secondo certe modalità o che alcune cose contino più di altre etc. Inoltre si ritiene che le credenze dovrebbero possedere una certa coerenza, che le persone non dovrebbero credere cose apparentemente inconciliabili. Essa è compresa all’interno della cultura. In quest’ottica lo stereotipo o il pregiudizio non sono altro che uno dei possibili registri narrativi che ognuno di noi ha a disposizione all’interno della sua cultura, la cui funzione principale è quella di rendere comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico. In sintesi le posizioni qui descritte pongono la cultura al centro della teoria esplicativa, riconducendo i concetti di stereotipo e pregiudizio ad un più ampio sistema di significati culturalmente connotati e socialmente condivisi, di cui l’individuo è produttore e fruitore attivo.
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CAPITOLO SECONDO STEREOTIPI E PREGIUDIZI SUL PAKISTAN
2.1 BREVE STORIA DEL PAKISTAN La Repubblica Islamica del Pakistan (• ǘ Ó ÊÇä in Urdu), o Pachistan, è uno stato dell'Asia meridionale. Il Pakistan confina con l'India, l'Iran, l'Afghanistan, la Cina ed è bagnato dal mar Arabico. Con più di 150 milioni di abitanti è il sesto stato più popoloso del mondo: oltre ad essere il secondo maggior stato musulmano nel mondo dopo l'Indonesia è anche un membro importante dell'Organizzazione della Conferenza Islamica. Afghanistan significa terra degli afghani, Tagikistan terra dei tagiki, Turkmenistan terra dei turkmeni, ma il Pakistan non significa terra dei paki, nel senso che non esiste un popolo di nome pak. La nazione che oggi è il Pakistan, è stata parte dell'India fino al 14 agosto 1947. I primi proponenti l'indipendenza di una nazione musulmana iniziarono ad apparire al tempo dell'India coloniale britannica. Tra essi vi era lo scrittore e filosofo ‘Allâma Muhammad Iqbal, che argomentava che una nazione separata per i musulmani era essenziale in un subcontinente altrimenti dominato dagli Indù. La causa trovò una guida in Mohammad Ali Jinnah, che divenne noto come Padre della nazione e riuscì a convincere i britannici a dividere la regione in due parti: il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l'India, a maggioranza indù. Dal 14 agosto 1947 fino al 1971, la nazione fu costituita dal Pakistan occidentale e dal Pakistan orientale, essenzialmente bengalino, i cui territori erano però separati dal Bengala indiano. Nel 1971 il Pakistan orientale si ribellò e, con l'aiuto di truppe indiane, divenne lo stato indipendente del Bangladesh, anche se l'India non concesse mai al suo Stato del Bengala di riunificarsi col Bangladesh. 20 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
Dall'indipendenza, il Pakistan è anche sempre stato in disputa con l'India sul territorio del Kashmir, portato "in dote" dal suo sovrano hindu all'Unione Indiana, al momento della divisione del sub-continente, malgrado la netta prevalenza musulmana della popolazione che teoricamente avrebbe dovuto comportare l'adesione al Pakistan della regione. Nel frattempo (1956) venne proclamata la repubblica facendo decadere i Windsor nella persona di Elisabetta II. Subito dopo l'indipendenza, India e Pakistan entrarono in guerra tra loro, a seguito dell'invasione di Jammu e Kashmir da «elementi tribali» pakistani. Ulteriori guerre furono combattute nel 1965 e nel 1971 su quel territorio. Nonostante le numerose battaglie, lo status del Kashmir rimane in un limbo: tale disputa ha complicato le relazioni tra Pakistan e India. Il Pakistan ha anche avuto una disputa - relativamente dormiente da quando la guerra fredda terminò con il ritiro delle truppe sovietiche - con l'Afghanistan, sulla Durand Line. Dopo l'intervento americano in Afghanistan, la viabilità della Durand Line è molto più importante per la sicurezza globale. La storia politica pakistana è divisa in periodi alternati di dittatura militare e governo democratico parlamentare. Lo status di dominion terminò nel 1956 con la formazione di una Costituzione e la dichiarazione del Pakistan come una repubblica islamica; i militari presero però il controllo nel 1958 e tennero il potere per più di 10 anni. Il governo civile ritornò ad essere eletto dopo la Guerra indo-pakistana del 1971, ma alla fine degli anni '70, con l'esecuzione di Zulfiqar Ali Bhutto, che fu dichiarato colpevole d'avere assassinato un oppositore politico, in una decisione presa dalla Corte Suprema pakistana che è estremamente generoso definire "controversa". Negli anni '80, il Pakistan ricevette sostanziosi aiuti dagli USA, e assorbì milioni di rifugiati afghani, soprattutto Pashtun, che fuggivano a causa dell'intervento sovietico. L'influsso di così tanti rifugiati - il più grande gruppo mondiale di rifugiati - ha avuto un grande impatto sul Pakistan. La dittatura del generale Muhammad Zia-ul-Haq vide un'espansione della legge islamica, oltre a un afflusso di armi e droghe dall'Afghanistan. Nel 1988 il generale morì abbastanza misteriosamente in un incidente aereo, e il Pakistan ritornò ad avere un governo democraticamente eletto, con l'elezione di Benazir Bhutto. Dal 1988 al 1998 il 21 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
Pakistan ebbe un governo civile, guidato alternativamente da Benazir Bhutto e Nawaz Sharif, che furono entrambi eletti due volte e deposti con la consueta accusa di corruzione. La crescita economica declinò verso la fine di questo periodo, tarpata da politiche economiche errate associate a corruzione politica e clientelismo. Altri fattori limitanti sono stati la crisi finanziaria asiatica e le sanzioni economiche imposte al Pakistan dopo i suoi primi test nucleari nel 1998. Questi test avvennero poco dopo che anche l'India aveva testato armi nucleari, accrescendo le paure di una corsa agli armamenti nucleari nell'Asia meridionale. L'anno successivo, il conflitto del Kargil in Kashmir minacciò di sfociare in una guerra su vasta scala. Nell'elezione del 1997 che portò nuovamente Nawaz Sharif ad essere Primo Ministro, il suo partito ricevette un'ampia maggioranza dei voti, ottenendo abbastanza seggi nel parlamento per modificare la costituzione, per eliminare i controlli formali che limitavano il potere del primo ministro. Le sfide istituzionali portate all'autorità di Sharif dal capo della Corte Suprema Sajjad Ali Shah e dal capo militare Jehangir Karamat furono rintuzzate, nel primo caso con un'invasione della Corte Suprema da parte di attivisti del partito. Il crescente autoritarismo e le voci di corruzione del governo di Sharif portarono a una vasta sollevazione popolare, culminata nel 1999 nel colpo di stato militare del generale Pervez Musharraf, che ha assunto il titolo di capo dell'esecutivo e ha nominato un Consiglio nazionale di sicurezza composto da otto membri quale organo di governo. Musharraf ha in seguito accentrato nelle sue mani anche la presidenza del paese, prorogando il mandato fino al 2007 con un referendum svoltosi nell'aprile 2002. Nel 2004 Musharraf ha iniziato una serie di passi per far ritornare la nazione a una certa qual formale democrazia, essendosi impegnato a dimettersi da capo delle forze armate per la fine del 2004. Nonostante il suo impegno formale, il 14 ottobre 2004 il Parlamento pakistano ha approvato una legge che ha consentito a Musharraf di mantenere entrambe le cariche, «per continuare la lotta al terrorismo e salvaguardare l'integrità territoriale del Pakistan». Musharraf si è infine dimesso da capo delle forze armate solo dopo che la Corte Suprema ha convalidato la sua rielezione a Presidente della Repubblica del 7 ottobre 2007. Mentre le sue riforme 22 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
economiche hanno portato alcuni benefici, il programma di riforme sociali sembra avere incontrato una certa resistenza. Il potere di Musharraf è minacciato dai fondamentalisti islamici, che si sono rafforzati dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001 e sono particolarmente irritati dalla stretta alleanza politica e militare di Musharraf con gli Stati Uniti. Per ironia della sorte tale alleanza si è creata proprio in seguito all'attacco alle Torri Gemelle, quando gli statunitensi cercarono un appoggio contro l'Afghanistan. Nel 2005 un terremoto di 7,6 gradi Richter scosse la regione del Kashmir causando più di 30.000 vittime, di cui gran parte bambini. Negli ultimi mesi del 2007 il Pakistan è stato teatro di aspre rivolte dovute alla situazione politica instabile. Il 27 dicembre 2007 il capo del partito dell'opposizione Benazir Bhutto è stata uccisa in un attentato dopo una manifestazione nella città di Rawalpindi. Il 18 agosto 2008, in seguito all'accusa di aver violato la costituzione e alla conseguente apertura di una procedura di impeachment, Musharraf ha annunciato le sue dimissioni pur dichiarando la sua innocenza. In seguito alle sue dimissioni le funzioni di Presidente della Repubblica sono state assunte dal Presidente del Senato Mohammedmian Soomro, conformemente alla Costituzione pakistana. Il 6 settembre 2008 Asif Ali Zardari, già marito di Benazir Bhutto, è stato eletto nuovo Presidente.
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2.2 I PRECONCETTI SULL’ISLAM
Uno dei primi stereotipi in cui ci imbattiamo quando si parla del Pakistan è quello che molto spesso si incontra nelle analisi sull’Islam, viziate frequentemente da generalizzazioni fuorvianti che non permettono di comprendere a pieno ciò di cui si discute. Numerosi commentatori occidentali, o anche persone con un basso livello di istruzione, incappano molte volte nell’errore di dipingere il mondo musulmano come un blocco unico, caratterizzato da un sistema di credenze e di valori fortemente refrattario ai cambiamenti: un pregiudizio consistente nella classica e comune idea che l’Islam rappresenti un ambito culturale, politico e sociale ancorato al passato e alla tradizione. Da qui si passa poi a tutta un’altra serie di luoghi comuni e preconcetti che arbitrariamente tendono a identificare l’intero mondo islamico, e quindi la religione musulmana come esempio di integralismo, fanatismo fondamentalista sino a spingersi all’assurda equazione Islam = terrorismo. Si pensi ad esempio all’erronea associazione di certi fenomeni quali il velo richiesto alle donne, la poligamia o la mutilazione genitale femminile . In realtà tali usi sono il frutto di manifestazioni culturali, nel senso che, laddove essi esistono, tali usi vengono applicati indistintamente a tutti, si tratti di individui musulmani, cristiani, ebrei o animasti. In Africa, ad esempio, sono molteplici i casi di mutilazione genitale compiuti su individui cristiani, così come vi sono migliaia di cristiani, anche cattolici, che sono poligami. Si tratta di una realtà culturale tribale che i missionari che hanno portato il Vangelo in Africa si sono ben guardati dal contrastare, perché avrebbero rischiato di rompere tutti i ponti con quelle società. Un ulteriore pregiudizio ricorrente da sfatare è rappresentato dalla popolarità del fanatismo religioso. Infatti in realtà, i gruppi fondamentalisti, in tutto il mondo, raccolgono appena il 5% del miliardo e duecento milioni di musulmani con cui conviviamo. Così come è opportuno rilevare che la stragrande maggioranza degli immigrati musulmani sono, in
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realtà, laici: non pregano regolarmente e considerano prioritaria l’integrazione nella nazione che li ospita. Non c’è bisogno di aprire un dibattito teologico o dottrinario per mostrare come questa visione dell’Islam sia profondamente deformata. Basta a volte confrontarsi con la realtà, andando a riflettere sulle situazioni concrete. E’ quello che hanno fatto ad esempio M. Allam e R. Gritti, che nel loro libro Islam, Italia. Chi sono e che cosa pensano i musulmani che vivono tra noi propongono una lettura critica dei più diffusi preconcetti riguardanti il mondo islamico; un’analisi frutto di un incontro con l’Islam che vive in Italia per evidenziare come si tratti spesso di un islam sereno e moderato, aperto allo scambio ed all'interazione. Il sondaggio riportato nel libro, ed effettuato sugli immigranti musulmani, riguarda in particolare due questioni specifiche: 1) cosa gli immigrati musulmani pensano di loro stessi; 2) cosa gli immigrati musulmani pensano degli italiani. Quest' inchiesta è particolarmente importante, visto che la comunità musulmana in Italia è composta da circa settecentomila uomini e donne provenienti da nazioni diverse (dal Marocco, che costituisce la quota maggiore, al Bangladesh, passando per l'Albania, l'Algeria, la Tunisia, la Somalia, il Senegal, l'Egitto, il Libano, e il Pakistan), concentrati soprattutto al nord (il 60% è suddiviso tra Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte) e accomunati dall'appartenenza ad una religione, l'Islam. Un universo complesso, spesso guardato con diffidenza e pregiudizio. Dal sondaggio si rileva la presenza, in Italia, di un "arcipelago" di molteplici Islam tolleranti e aperti al dialogo. Non si può parlare, quindi, di un unico Islam, poiché è necessario specificare di quale stato musulmano si parla. Da un lato possiamo, infatti, scoprire realtà del mondo Islamico, come ad esempio la Turchia, la Tunisia, incentrate su un sostanziale laicismo, mentre da un altro lato, paesi come l'Afghanistan e l'Arabia Saudita, si distinguono proprio per il loro carattere integralista. Inoltre, tra questi due antitetici poli vi sono sfumature più o meno forti di Islam. Non è quindi possibile identificare un Islam estrapolato dal suo ambiente territoriale, politico e sociale. La contestualità ne rappresenta un elemento
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imprescindibile. L’Islam, insomma, è tutt’altro che monolitico, come qualcuno vorrebbe far credere1. Sono purtroppo tali stereotipi a provocare incomprensioni e dissidi che si ripercuotono gravemente sulla società. Parte del mondo occidentale sembra ormai persuaso delle tesi sostenute da anni dal prof. Samuel Huntington, secondo il quale è, in atto un conflitto di civiltà fra due concezioni della società e della morale ritenute inconciliabili2. Ma accanto a loro vi sono tanti altri esponenti della cultura islamica e occidentale, e tantissime altre persone a cominciare dagli immigrati, che non condividono affatto queste posizioni e credono invece che non ci sia nessuno scontro di civiltà, bensì una grande dose d’ignoranza, di scarsa volontà di approfondire la reciproca conoscenza. Si tratta, quindi, di un conflitto basato su stereotipi e pregiudizi. L’Aga Khan, capo religioso e guida degli sciiti ismailiti, le cui comunità sono sparse in diversi paesi dell’Asia e dell’Africa ma anche in Europa e in Nord America, una delle autorità spirituali dell’Islam che meglio conosce terre e popoli dell’Asia centrale, ha affermato tutto il suo stupore per l’ignoranza che regna sull’Islam: “oggi, anche nei giornali, molti spiegano e commentano. Ma quanti, ad esempio, conoscono la differenza fra sciiti e sunniti, fra jihadismo (fondamentalismo) e radicalismo, fra mondo arabo musulmano e popoli asiatici e africani musulmani? C'è grande confusione, nelle scuole e nelle università, dunque nelle fonti della cultura generale in Occidente, non si educa sul mondo musulmano e si perde di vista un principio fondamentale del Corano: l'etica, l'educazione alla testimonianza della fede in ogni attimo della vita, con comportamenti coerenti. Anche per questo l'Islam non si è secolarizzato come la cristianità. Noi non distinguiamo fra attività terrene e spiritualità, non avvertiamo la questione della scelta, secondo la concezione di Sant'Agostino. Ma le diversità di concezioni ci sono anche nella cristianità. La diversità, se stimola il confronto e l'incontro, è un valore positivo. Capire il mondo musulmano e la fede dell' Islam, per l'Occidente, è capire prima di tutto il pluralismo
R. Gritti, M. Allam, Islam, Italia. Chi sono e cosa pensano i musulmani che vivono tra noi, Guerini e Associati, Roma 2001. 2 S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 2000. 1
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dei popoli e le loro interpretazioni ed evitare di considerare i talebani quali rappresentanti l'intero mondo musulmano. Quale potrebbe essere la reazione in Occidente se un musulmano affermasse che l'inquisizione e l'Ira sono rappresentativi del mondo cattolico?”3. Si potrebbe pensare che una persona istruita nel 21 ° secolo dovrebbe conoscere qualcosa dell’Islam, ma se si guarda all'educazione ricevuta dal mondo occidentale si vede che la civiltà islamica è stata quasi assente. Cosa viene insegnato riguardo l'Islam? Cosa si sapeva circa gli sciiti prima della rivoluzione iraniana? Cosa si sapeva del wahabismo radicale sannita, prima dell'ascesa dei talebani? Abbiamo bisogno di un grande sforzo educativo per superare questo problema. Invece di inveire contro l'altro, dovremmo imparare ad ascoltare gli altri e lavorarci insieme, con reciproco rispetto. Insieme Occidente e Islam hanno raggiunto alcuni dei risultati più alti della civiltà umana. C'è molto da costruire. Ma non si può costruire sull’ignoranza. Non è uno scontro di civiltà, è un enorme divario di comprensione, dunque. La conoscenza delle diverse civiltà del mondo islamico, la conoscenza del pluralismo di quel mondo, la conoscenza della pluralità delle interpretazioni dell'Islam, delle lingue islamiche, del tasso demografico dell'Islam è molto superficiale. E ciò rappresenta sicuramente uno dei motivi
principali alla base
dell’incomprensione.
2.3 PAKISTAN PERICOLO PER IL MONDO
E’ questa stessa scarsa consapevolezza che noi ritroviamo quando volgiamo lo sguardo a come gli occidentali percepiscono il Pakistan, e soprattutto a come i media raffigurano il paese. In questi ultimi periodi si sono moltiplicate sempre più le voci di coloro, primi fra tutti i media, che insistono sulla crescente pericolosità del Pakistan, descritto come
3
Intervista del Corriere della Sera all’Aga Khan, 22 ottobre 2001.
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l'incarnazione del male e del caos a livello mondiale: un luogo come l'Afghanistan, l'Iran, un paese e una società che minacciano la pace non solo a livello regionale, provocando ondate di instabilità che raggiungono l'India e l'Asia centrale, ma l'intero ordine internazionale brandendo armi nucleari nel mezzo di un sistema politico confuso controllato da fanatici anti-occidentali. Alcuni grandi testate italiane, come il Corriere della Sera e Repubblica ad esempio, riportano le notizie più importanti sul paese facendo ricorso a descrizioni stereotipate, ad un linguaggio che denota una visione semplicistica e generica della realtà pachistana. Ecco alcune dimostrazioni: I terroristi di Al Qaeda hanno ribadito con una strage come il pendolo del conflitto si sia spostato dall' Afghanistan al Pakistan. Gli analisti americani scomodano paragoni con la guerra in Vietnam e sostengono che il territorio pachistano è oggi quello che era allora la Cambogia. I governi democratici a Kabul e Islamabad sono i più deboli del pianeta. Tra i rischi maggiori che oggi minacciano il mondo c'è quello che uno di questi due Paesi si disintegri sotto crescenti ondate di violenza. In questo momento, per Barack Obama la sfida più imponente in politica estera è quella di evitare che il Pakistan e l' Afghanistan sprofondino ulteriormente verso il caos. I Talebani venuti dall'Afghanistan nel 2001 hanno ripreso ad espandersi, e le loro impronte sanguinose dilagano in tutto il Pakistan e nell' Asia centrale.
La cancrena islamista si sta espandendo attraverso correnti indipendenti nel subcontinente. E si può facilmente immaginare che, come un fiume, abbia la sua sorgente nell'Afghanistan, di cui il Pakistan è un fertile e frastagliato retroterra.
Il Pakistan non è un paese come gli altri. E' unico. E' un paese musulmano dotato di armi nucleari. Il solo. Quando le strade delle sue città, a Islamabad, a Karachi, a Lahore, sono invase dagli integralisti sensibili ai richiami dei taliban e dei capi di Al Qaeda, arroccati nelle incontrollabili contrade pachistane confinanti con l' Afghanistan, gli strateghi del Pentagono vivono un incubo.
A Washington sono convinti che Al Qaeda stia per mettere le mani sul nucleare pakistano. Non solo: occorre impedire che jihadisti e banditi locali spezzino l'arteria 28 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
logistica che da Karachi via Quetta e Kandahar rifornisce le truppe Usa e Nato in Afghanistan. Se chiedessimo a qualsiasi occidendale “cosa pensi del Pakistan?”, probabilmente la risposta sarebbe la seguente: è uno Stato fondamentalista, in cui i diritti umani, in primis quelli delle donne, vengono sistematicamente violati. Questa concezione infastidisce milioni di pachistani che sono a favore della pace: veder diffusa tra i media, e non solo, un’immagine del loro paese così negativa, in cui il loro Stato viene presentato come una minaccia per la pace mondiale, un luogo dove i diritti sono calpestati, contribuisce ad alimentare il loro senso di frustrazione e la delusione di coloro che non accettano che si possa far passare un’immagine così profondamente distorta del loro paese. Essi, anzi, provano dolore e angoscia per il fatto che alcuni loro connazionali, con il loro comportamento folle, non fanno altro che arrecare danno al proprio Stato. E, allo stesso tempo, si sentono vittime di questi gruppi di fanatici, perché incapaci di far comprendere al mondo che la maggior parte dei pachistani non la pensa certo come loro, e che i pregiudizi occidentali nei loro confronti sono solo delle etichette, frutto di visioni distorte della realtà. L’idea che il Pakistan rappresenti una minaccia alla sicurezza mondiale appare a molti di loro una tesi infondata. In primo luogo perché la percepiscono come una grossa esagerazione: non a caso ricordano il ruolo non secondario che ha avuto il Pakistan contro l’occupazione sovietica in Afghanistan, osteggiata dal blocco occidentale durante la guerra fredda, e accusano i sostenitori di quella tesi di aver spesso sottaciuto il sostegno dato all’Occidente in seguito al terribile attentato dell’11 settembre. Il prezzo che il popolo pachistano ha pagato e tuttora paga per le due guerre afgane, si pensi ad esempio ai milioni di profughi afgani che trovano rifugio nelle loro zone, e il contributo che il paese offre, pur tra numerose difficoltà dovute alla complicità di alcuni fondamentalisti, alla lotta contro Al-Qaeda e i Talebani, al traffico di armi e della droga, viene molto spesso dimenticato. Come ha sostenuto Hussain Haqqani, ex consigliere di Benazir Bhutto, direttore del Center for International Relations, professore all’Università di Boston, ambasciatore 29 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
pachistano negli Usa, il Pakistan è sì un paese instabile, che ignora il principio di legalità, soggetto a imprevedibili crisi di governo, tutti elementi che uniti al possesso di un arsenale nucleare, alimentano la sensazione, tra la comunità internazionale, che esso sia un paese estremamente pericoloso; tuttavia, “occorre anzitutto capire che esso rischia di diventarlo ancora di più, se settori dell’esercito pachistano e i suoi spalleggiatori americani ostacolano il processo di transizione democratica”. “Esistono numerosi pregiudizi sul Pakistan, così come nei riguardi di molti altri paesi, continua Haqqani. A mio parere, tuttavia, i media internazionali non colgono la vera natura del problema. Si fermano alla superficie delle questioni più controverse, senza andare alla loro radice. E il nodo cruciale, in Pakistan, è che l’unità del paese non è stata ispirata dalla legge e dalla Costituzione, ma si è affermata grazie all’aiuto dell’esercito e della comunità internazionale. Se si iniziasse a capire qual è il vero problema del Pakistan, forse i pregiudizi sparirebbero. Faccio un esempio. Si fa un gran parlare della corruzione dei politici pachistani, giusto? Ebbene, chi vive in Italia sa che le accuse di corruzione abbondano anche nel suo paese. Forse che, per tale ragione, si auspica e legittima una presa di potere dell’esercito? No, ovviamente. Nel caso del Pakistan, quel che manca è una profonda comprensione di quanto sta avvenendo nel paese. Non si contano, in compenso, le analisi e i commenti su questo o quell’evento. Così facendo si tratteggia un paese ben peggiore di quanto si direbbe se il popolo pachistano si impegnasse in prima persona per traghettarlo, con il beneplacito della comunità internazionale, verso la democrazia”4. La maggior parte del popolo pachistano aspira da sempre alla democrazia. Ha insediato una donna alla poltrona di premier (Benazir Bhutto), nonostante le accuse e lo scherno dei mullah e dell’esercito, una donna che ha sempre goduto di una certa popolarità. Per questo molti analisti ritengono che il Pakistan, attraverso la costruzione di una democrazia musulmana, possa diventare un modello per altri paesi islamici e per il mondo arabo. Di certo la strada che porta alla realizzazione di questo obiettivo è ancora piena di ostacoli, ma se la comunità internazionale concentrasse la 4
www.resetdoc.org. 30
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sua attenzione sulla difficile situazione economica del Pakistan ad esempio, fornendo il suo contributo alla ricostruzione dell’economia per dare speranza al popolo pachistano, aiuterebbe sicuramente il governo a sconfiggere gli estremisti e i terroristi che rappresentano una minaccia non solo per gli occidentali, ma anche per gli stessi pachistani, come sostiene Haqqani5. Anche il tema della sicurezza nucleare viene spesso trattato dando spazio a pregiudizi, frutto frequentemente di rimozioni storiche. Prima di tutto viene ignorata la complessità strategica e geo-politica del Pakistan, la quale ha avuto un ruolo fondamentale nello spingere il paese a nuclearizzarsi. Sappiamo, infatti, che il Pakistan ha combattuto tre guerre con la vicina India principalmente per problemi territoriali, si pensi al Kashmir. Esso ha effettuato numerosi test nucleari solo per interessi difensivi. Il mondo occidentale ha paura che la bomba atomica pachistana possa cadere nelle mani dei “terroristi islamici” o dei talebani, ma a volte si dimentica che i tentativi talebani di acquistare potere sono limitati esclusivamente a delle piccole zone del Pakistan, e non esiste il rischio che l’intero sistema politicoistituzionale pachistano possa essere sovvertito dagli estremisti. Inoltre bisogna ricordare che il programma nucleare non è stato certo una sorpresa, come se le altre potenze ne fossero all’oscuro, anzi è stata un’iniziativa avallata dalla Cina e dalle altre potenze occidentali, in primis gli Stati Uniti che manifestarono il loro beneplacito per contrastare le iniziative sovietiche dei primi anni settanta in India.
2.4 PAKISTAN TERRA DEI FONDAMENTALISTI
Un altro pregiudizio ricorrente quando si parla del Pakistan è quello di percepirlo come una teocrazia, ossia una forma di governo in cui alcuni governanti civili coincidono con alcuni capi religiosi, le politiche governative corrispondono a quelle religiose oppure sono fortemente influenzate dai principi di una religione e il governo
5
www.memri.org (middle east media research institute).
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dichiara di comandare per volere di Dio o di un altro potere superiore. Si tratta di una realtà di sicuro non ascrivibile al Pakistan, in quanto la religione musulmana è sì un fattore importante nella società pachistana, ma non secondo la costituzione, dove l’Islam rimane comunque una scelta individuale. Nella costituzione pachistana viene garantita, tra le altre cose, la libertà religiosa, tanto è vero che oltre al 95% di musulmani, vi è un 3% di cristiani che godono della libertà di professare la loro religione. Certo alcune volte accadono episodi sgradevoli, ma bisogna fare attenzione che un incidente isolato in qualche parte del paese non venga generalizzato in modo strumentale; anzi, la società civile pachistana condanna tali incidenti. Inoltre, come afferma Haqqani, “da un punto di vista storico, l’Islam praticato in Pakistan è sempre stato estremamente eterogeneo e pluralista. L’influsso culturale della Persia e dell’India ha contribuito ad arricchirlo. Oggi, va da sé, il Pakistan subisce anche l’influenza dell’Islam wahabita, una corrente più puritana che trae origine dall’Arabia Saudita. Con la sua tradizionale eterogeneità e il suo pluralismo, quella pachistana è sicuramente la versione più “soft” dell’Islam”6. Un altro elemento da tenere in considerazione è questo: i fondamentalisti non hanno mai goduto di significativa popolarità in Pakistan. Alle elezioni non hanno mai ottenuto più del 4-5 per cento dei suffragi totali. Nel 2002, complice la scarsa affluenza alle urne, hanno portato a casa l’11% dei consensi, ma le percentuali in valore assoluto non sono aumentate. Il loro vero potere viene dalle armi, dal denaro e dalla capacità organizzativa. Così come non corrisponde al vero affermare che il Pakistan sia oggi la sorgente primaria del terrorismo internazionale e che i pakistani hanno creato questo fenomeno e contribuito allo sviluppo di Al Qaeda: sono altri i fattori e gli avvenimenti, si pensi agli anni successivi all’invasione sovietica dell’Afghanistan e ai vari conflitti in Medioriente, che hanno influenzato la gioventù araba, molti dei quali rimasti in Afghanistan per unirsi ad Al Qaeda e alla sua ideologia. E’ importante ricordare, inoltre, che prima del tragico attentato alle Torri gemelle, il Pakistan era già a fianco della comunità internazionale nella lotta contro il terrorismo; e anche 6
Ibidem.
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oggi, nonostante vi siano ancora traditori pronti a tutto pur di soddisfare i propri interessi, i pakistani continuano comunque a lottare contro la minaccia dei fondamentalisti perché essi vogliono stabilire uno Stato islamico moderno. I recenti sviluppi politici pachistani, ad avviso di Haqqani, potrebbero comunque segnare una svolta e trasformare il Pakistan in una democrazia parlamentare stabile e matura. “All’inizio, probabilmente, si dovranno affrontare gli stessi problemi che incontrò l’Italia all’indomani della Seconda guerra mondiale: una molteplicità di coalizioni e altrettanti compromessi. Soltanto con una ventata di democrazia e di libertà – anziché con il fondamentalismo –, però, saremo in grado di riportare unità nella nazione. Il popolo pachistano non desidera la presenza di forze straniere sul proprio territorio, e deve affrontare da sé la minaccia terroristica. Se non lo farà, infatti, le potenze straniere saranno sempre più tentate a interferire e intromettersi negli affari del Pakistan. Spetta agli stessi pachistani, dunque, far sì che altre nazioni non pianifichino alcun attacco nel loro paese”7.
2.5 IL RUOLO DELLE DONNE
Un ulteriore problema, quando si riflette su come viene percepito il Pakistan, riguarda il ruolo delle donne. Anche in quest’ambito, sui media, sui giornali e nell’immaginario collettivo ci imbattiamo in numerosi stereotipi che tendono a uniformare le varie situazioni locali ad un unico schema concettuale valido per tutto il mondo islamico: le donne come soggetti privi di dignità, espropriate dei loro diritti e completamente sottomesse alla volontà dell’uomo. Un pregiudizio che si pretende di estendere a qualsiasi realtà islamica, frutto di improvvide generalizzazioni, quasi che realtà come quella afgana sotto i talebani, in cui effettivamente i diritti delle donne
7
Ibidem.
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vengono conculcati, possano essere accomunate ad esperienze profondamente differenti. E’ un metodo di cui purtroppo è vittima anche il Pakistan. I diritti concessi alle donne emanano dalle fonti principali della tradizione islamica, vale a dire, il Corano, Hadith, Jima e Qiyas. Eppure, il corpo di principi informatori della legge islamica, noti collettivamente come la sharia, non costituiscono un'entità omogenea, in quanto questi dipendono dall’ interpretazione delle fonti, in particolare il Corano e gli hadith, interpretazioni che sono influenzate dalle differenze etniche e culturali, dai contesti storici, dal passato coloniale, dalla “scuola di giurisprudenza” che una particolare comunità sottoscrive, così come dal sistema politico e economico degli Stati musulmani. È interessante notare che la legge islamica riconosce una vasta gamma di diritti economici per le donne, che trascende la dicotomia tra pubblico e privato. Nel Corano, testo sacro della religione islamica, molteplici sono i riferimenti nei confronti della donna nei suoi aspetti spirituali, in quelli sociali e in quelli economici; secondo l’interpretazione che viene data da alcuni studiosi del testo sacro del Corano, la donna è considerata pari all’uomo, gode di molteplici diritti, deve essere rispettata ed amata8. La donna, come l'uomo, è un entità indipendente e quindi un soggetto umano pienamente responsabile delle sue scelte e delle sue azioni. Inoltre i doveri previsti dalla Sharia, la legge islamica, sono gli stessi tra gli uomini e le donne. Inoltre la donna costituisce persona giuridica a sé, a prescindere dal marito, dal padre o da qualsiasi parente maschio tant'è vero che può scegliere di diventare musulmana a prescindere dalla fede dei suoi parenti più prossimi. Ma ha anche la possibilità di scegliere autonomamente se accettare un matrimonio o meno, e se non vi è l'assenso della
donna
il
matrimonio
non
può
essere
considerato
valido.
La donna ha diritto ad una sua propria proprietà privata, che non è tenuta a condividere con nessuno. La dote che l'uomo versa alla donna viene a far parte proprio di questa sua proprietà, va investita nei suoi bisogni personali e non va 8
Mawdudi Abul A’la , Human Rights in Islam, Leicester, The Islamic Foundation, 1976.
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investita nelle esigenze della famiglia, che devono essere sostenute dall'uomo, ma alle quali la donna può decidere spontaneamente, e in accordo con il marito, di parteciparvi anche con una sua attività lavorativa fuori dalle mura domestiche. La Costituzione del Pakistan afferma che devono essere garantiti i diritti fondamentali, compresa la parità di status e di opportunità sociale, economica e politica, l'indipendenza del potere giudiziario, la libertà di pensiero, di espressione, di fede e di associazione, nel rispetto della legge e della moralità pubblica. Oggi le donne pakistane sono emerse come una forza importante in diverse arene politiche e sociali: con il 33% dei seggi nelle assemblee legislative nazionali e provinciali svolgono un ruolo attivo nel modellare il futuro politico del paese. Numerosi pachistani, soprattutto donne, si oppongono a coloro secondo cui l'Islam assegna alla donna uno status di seconda classe. Il Pakistan ha visto eletta una donna primo ministro, per la sua capacità come persona, non come donna. In questo modo è stato distrutto il mito, costruito su tabù sociali, secondo cui il posto di una donna è la casa, e che il lavoro esterno sia vergognoso o disonorevole o socialmente inaccettabile per una musulmana. Bisogna perciò distinguere tra l'insegnamento dell'Islam e i tabù sociali prodotti dalla tradizione e dalla società patriarcale; si pensi al fatto che l'Islam proibisce le ingiustizie, rifiuta la razza, il colore e il genere come motivo di discriminazione tra persone, assume la pietà come unico criterio per giudicare l'umanità. L'Islam tratta le donne come esseri umani a pieno titolo, non come beni: sono state poetesse, intellettuali, giuriste e hanno persino partecipato a guerre. Se si pone l'attenzione sull'usanza pre-islamica dell'infanticidio femminile, si nota come tuttora, in un mondo considerato moderno e civile le bambine siano spesso abbandonate o abortite. I bambini sono voluti perché il loro valore è considerato superiore a quello di una bambina; essi sono voluti per soddisfare l'ego: portano il nome del padre in questo modo. Ma se ci rifacciamo all'Islam vediamo che, per i musulmani, nel Giorno del Giudizio ciascuno sarà chiamato non con il nome del padre, ma con quello della madre. Perciò se le bambine sono ancora vulnerabili non è a causa della religione, nel 35 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
caso del Pakistan, ma a causa del pregiudizio sociale. In molte zone del mondo le donne sono soggette a violenza domestica. Spesso e in diverse società le mogli sono torturate non solo da uomini, ma anche da donne della famiglia del marito, che vuole estorcere benefici finanziari dalla famiglia della donna. A volte la moglie è uccisa dal marito o dai suoceri così da poter essere sostituita da un'altra moglie che porti un'altra dote. Bisogna cambiare perciò non solo gli atteggiamenti maschili, ma quelli di tutti, uomini e donne. In quanto all'istruzione, mezzo miliardo di donne è analfabeta e il 60% dei bambini a cui è negata l'istruzione elementare sono femmine. Una donna deve lavorare per poter ottenere l'indipendenza finanziaria e in Pakistan è stato fatto molto su questo fronte: nel 1989 è stata creata la banca delle donne, nelle maggiori città si vedono imprese messe su da donne, è stato abrogato il divieto per le donne pakistane di partecipare a eventi sportivi internazionali, esse inoltre avranno un ruolo fondamentale nel controllo della popolazione: 100.000 donne diventeranno assistenti sociali e sanitarie per aiutare a ridurre il livello di crescita della popolazione e insieme il livello di mortalità infantile in Pakistan. I governanti sperano nei cambiamenti che potranno discendere dalla Dichiarazione universale dei diritti umani che invita a eliminare la discriminazione contro le donne, e della Convenzione per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, CEDAW, che il Pakistan ha firmato9.
2.6 L’INFLUENZA DEI MEDIA
Negli ultimi cinquanta anni l’influenza dei mezzi di comunicazione è cresciuta esponenzialmente con il progresso della tecnologia. Viviamo in una società che dipende dall’informazione e dalla comunicazione, e di queste ha bisogno per progredire e svolgere le attività quotidiane. Dobbiamo quindi essere consapevoli che
9
Le riflessioni si rifanno agli interventi di Benazir Bhutto alle Conferenze Onu del Cairo (1994) e Pechino (1995).
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la maggior parte delle nostre deliberazioni e delle nostre credenze sono influenzate, oltre che dalle nostre esperienze e dai nostri studi, dai mezzi di comunicazione che ci permettono di avere le notizie e le informazioni necessarie per assumere comportamenti adeguati. I mass media svolgono dunque un ruolo primario nel formare e nel rispecchiare l’opinione pubblica, collegando il mondo agli individui e riproducendo il pensiero della società. Essi hanno un concreto impatto sociale e culturale sulla società. Questo impatto è basato sulla loro abilità di raggiungere un vasto pubblico con un forte e influente messaggio. Marshall McLuhan ha usato l’espressione “the medium is a message” per evidenziare come la distribuzione di un messaggio possa essere
spesso più
importante del contesto del messaggio stesso. E’ attraverso la persuasione dei media come TV, radio e stampa che il messaggio raggiunge il pubblico mirato. Essi sono talmente influenti da avere la responsabilità di poter strutturare le vite quotidiane e le abitudini delle persone. Nonostante una parte dei media occidentali facciano degli sforzi per essere equi ed imparziali nella loro raffigurazione dei paesi islamici, molti non vi non riescono o non lo fanno, a causa delle radicate distorsioni storiche della realtà islamica, che si sono accumulate nei secoli a seguito di ignoranze e soppressioni deliberate dei fatti. La formulazione dalla frase “ terrorismo islamico” o l’uso scorretto della parola “jihad” sono entrambi manifestazioni di stravolgimenti, consapevoli o meno, della realtà effettiva, formatisi molto spesso proprio attraverso le descrizioni che i media occidentali danno dell’Islam. Per esempio, dopo l’attacco dell’11 settembre i media, oltre ad aver dato un grande risalto a questo evento, come era giusto che fosse, hanno denunciato Osama Bin Laden come il principale colpevole dell’atto terroristico, e il gruppo terrorista da lui diretto, Al Qaeda, come un’organizzazione capace di minacciare l’esistenza del mondo occidentale e intenta a portare avanti una guerra contro coloro che Bin Laden chiama “gli infedeli”. Questo tipo di messaggio, diffuso in modo incessante, ha modellato l’opinione pubblica e l’ha spinta a sostenere moralmente la guerra al 37 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
terrorismo. Lo stesso è accaduto con la guerra in Iraq. Il problema è quindi che i media a loro volta trasmettono le immagini in base a ciò che l’opinione pubblica pensa, innescando un circolo vizioso. Quello che viene mostrato sugli schermi dei televisori o stampato sui giornali, spesso non contiene l’immagine reale del Pakistan. Il Pakistan è uno Stato giovane, fondato nel 1947 e creato per dare una patria a milioni di musulmani dell’India. Questo nuovo paese non aveva nessun motivo per essere aggressivo ed i pakistani sono sempre stati a favore della pace con i paesi vicini e gli altri paesi del mondo. Come qualsiasi altro paese nella sua fase di formazione, il Pakistan si trova di fronte a molte sfide e presenta svariati problemi. Privo di una base industriale, con una struttura civile e militare rudimentale, scarse risorse finanziarie ed energetiche, la trasformazione della nuova nazione, pochi decenni dopo la sua nascita, in un'economia emergente con forti istituzioni civili e militari e dotata di un suo status nucleare ha rappresentato una straordinaria storia di lotta umana e sacrificio. Oggi, nonostante la complessità della situazione regionale, le nuove minacce e le richieste economiche, il Pakistan vuole con determinazione evolvere in un paese islamico moderno, moderato e democratico. Ed è evidente che se l’interesse dei media si concentra solo sui problemi legati al terrorismo, gli sforzi compiuti per giungere a questo obiettivo verranno inevitabilmente messi in secondo piano, con il rischio che agli occhi dell’opinione pubblica non giunga nemmeno il messaggio. Secondo le cifre citate da parte del Ministero dell'Informazione e della radiodiffusione, vi sono attualmente circa 80 giornalisti stranieri in Pakistan, che rappresentano la maggior parte delle principali reti televisive mondiali e giornali. Circa la metà di questi rappresentano media nordamericani ed europei, mentre il resto appartiene principalmente al mondo arabo e ai media del Sud-Est asiatico. I maggiori quotidiani come il New York Times, The Guardian e The Wall Street Journal, hanno tutti corrispondenti a tempo pieno, come nei paesi dell'Asia meridionale, tra cui l'India. Storicamente, l'India è stata il centro regionale per i media internazionali in Asia meridionale e ha ospitato gli uffici della maggioranza dei networks giornalistici. 38 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
Tuttavia dopo l’invasione statunitense dell'Afghanistan nel 2002, quasi 2000 giornalisti si sono trasferiti in Pakistan. Molte delle grandi reti globali, come la CNN e la Fox News hanno progressivamente stabilito i loro uffici a Islamabad, gestiti a tempo pieno da corrispondenti stranieri. Il terremoto dell'ottobre 2005, che ha portato alla seconda ondata di media stranieri, ha confermato questa tendenza. Tale afflusso, tuttavia, non ha cambiato il modo in cui il paese viene rappresentato. Purtroppo, l'immagine del Paese a livello internazionale continua ad essere associata con il terrorismo e la militanza. I giornalisti stranieri ammettono che questa è la vera attrazione del Pakistan per i loro spettatori. Le notizie riferite a questo tema sono state così intense e frequenti che hanno avuto difficoltà a raccontare qualsiasi altra cosa, ammette il corrispondente della BBC Barbara Plett. “Sono stata in Palestina per quattro anni durante la seconda Intifada e questo per la BBC ha rappresentato il punto più alto. Sento che lo stesso stia avvenendo qui, dice, descrivendo le pressioni per riferire sulla situazione politica e di sicurezza nel paese. Rinforzi continuano ad arrivare da Londra per coprire le grandi notizie. Al momento della morte di Benazir Bhutto, ci sono stati 12 corrispondenti della BBC qui, escluso l'equipaggio”, ricorda. Questo è un fatto di cui i giornalisti stranieri sono consapevoli. Simon CameronMoore, capo dell'ufficio per la Reuters News in Pakistan, ha detto che vorrebbe scrivere altro, raccontare i lati più positivi del Pakistan, ma le priorità restano le notizie sulla sicurezza e sul rischio politico, mentre il tempo è limitato. Lo spazio per coprire altre parti del Pakistan è stretto, egli spiega. È la natura delle notizie in questo paese10. Certo il Pakistan è oggi al centro dell’attenzione globale e presenta numerosi problemi che allarmano non solo gli occidentali, ma anche gli stessi pachistani, ma è innegabile allo stesso tempo che manca l’interesse da parte dei media verso tutti quegli elementi positivi che, se fatti conoscere, potrebbero contribuire a fornire un’immagine più completa, più equa e più realistica di quanto avvenga attualmente.
10
Le testimonianze dei giornalisti sono state tratte dal sito della BBC (www.bbc.co.uk).
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CAPITOLO TERZO COME COMBATTERE GLI STEREOTIPI
3.1 LE STRATEGIE DI DIFESA
Uno dei caratteri distintivi degli stereotipi è la loro relativa rigidità, cioè il fatto che tendono a rimanere invariati nel tempo e risultano difficilmente modificabili, il che costituisce evidentemente un grande ostacolo alla possibilità di attenuare i pregiudizi e migliorare le relazioni tra i gruppi. Questa rigidità deriva dalla capacità degli stereotipi di autoriprodursi attraverso diversi meccanismi, i quali hanno a che fare con le caratteristiche proprie dei processi mentali e altri invece possono essere ricondotte a dinamiche di comunicazione sociale. Negli interventi miranti alla modifica degli stereotipi, uno dei compiti più importanti è quello di fornire in anticipo uno schema di interpretazione alternativo allo stereotipo stesso. Diverse ricerche hanno dimostrato che in questo modo si riduce sensibilmente la rigidità e la tendenza all'autoriproduzione degli stereotipi. La mente umana mantiene gli stereotipi, perchè non può restare senza schemi e senza aspettative; talvolta per ottenere la riduzione degli stereotipi falsi e discriminanti è sufficiente fornire per tempo delle valide alternative che svolgano le stesse funzioni di tipo cognitivo e anche di protezione dell’identità sociale11. Ci sono casi in cui la riproduzione degli stereotipi avviene non solo perché si tende a rendere durevole un'interpretazione falsata della realtà, ma anche perchè interagendo con gli altri sulla base delle proprie aspettative si finisce per fare in modo che effettivamente essi rispondano a queste aspettative, realizzando quello che nella letteratura psicosociale viene definito il fenomeno "dell'autoadempimento della 11
Mazzara B. , Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna 1997, a cui ci si rifà nell’intero capitolo.
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profezia". Ad esempio se ci aspettiamo che una persona sia fredda e scostante oppure estroversa e amichevole tenderemo ad assumere nell'interazione con essa un atteggiamento corrispondente, il quale potrà avere come risposta proprio quel comportamento che ci aspettavamo.
3.2 STRATEGIE PER LA CONVIVENZA
La relazione col diverso è fondata anche su altre basi che sono di natura non mentale, bensì sociale e culturale, e che hanno a che fare da un lato con fattori di tipo storico, economico, politico, e dall'altro con la specifica dimensione delle relazioni tra i gruppi. Una prima strategia, che possiamo definire di assimilazione, esprime la tendenza del gruppo maggioritario a inglobare quello minoritario, facendo in modo che esso rinunci alla sua differenza e accetti in pieno, riconoscendoli come superiori, i modi di vita e la cultura della maggioranza. Si tratta delle strategia che di solito si manifesta per prima nel rapporto con il diverso, e che esprime l'orgoglio per il proprio modo di essere, insieme ad una percezione di minaccia da parte di ciò che la metta in discussione. Di fronte a tale
minaccia
una risposta può essere quella
dell'allontanamento e del rifiuto, oppure la richiesta di rinuncia alla differenza e di adattamento completo alle proprie norme. Una seconda strategia, anch'essa presente nei primi periodi dell'immigrazione negli USA, è quella della fusione: le diversità mescolate in un ipotetico crogiuolo (melting pot) dal quale ci si aspetta che fuoriesca una sintesi superiore, migliore dei singoli componenti di partenza. L'idea è che ciascuna diversità possegga elementi positivi che meritano di entrare nella sintesi finale; se in ciascuna cultura c'è qualcosa di 41 Create PDF with PDF4U. If you wish to remove this line, please click here to purchase the full version
buono e si riesce a fonderle, il risultato sarà migliore delle culture possibili. Queste prime due strategie, anche se in modo diverso, puntano a un annullamento delle differenze; esiste anche una terza strategia, che viene detta di pluralismo culturale, la quale mira invece a mantenere le differenze, valorizzando ciascuna di esse in quanto possibile arricchimento del patrimonio culturale complessivo, il quale trae la sua forza non dalla fusione indistinta, bensì dal confronto e dalla coesistenza di culture diverse. E in effetti è appunto questa prospettiva che possiamo oggi indicare come la più efficace e produttiva. Però questa strategia si presenta difficile da applicare e presenta inoltre due rischi. Il primo rischio è quello del cosiddetto pregiudizio differenzialista, cioè il rispetto della differenza può infatti tramutarsi in rifiuto del contatto, come dire: dato che siamo così differenti, che ognuno stia con i suoi, meglio ancora se ognuno al suo paese. Il secondo rischio è quello che possiamo definire del relativismo spinto, che rinuncia per principio a porre alcuni valori come assoluti, ritenendo tutti i valori accettabili, in quanto relativi alla cultura che egli esprime12.
3.4 PROGETTARE UNA BUONA INTERAZIONE
La strategia più diffusa e dalla quale ci si aspettano i migliori risultati è quella di favorire il contatto fra i diversi. La fiducia nell'efficacia di questa strategia si basa sulla convinzione che stereotipi e pregiudizi derivano da un'insufficiente conoscenza dell'altro, il quale viene percepito erroneamente come troppo diverso a sé e come nemico per principio. Si ritiene, quindi, che una migliore conoscenza reciproca sia sufficiente a rimuovere gli errori di valutazione e di aspettativa e a creare un rapporto di amicizia e di solidarietà. Sono basati su questa convinzione tutti gli interventi che puntano alla cosiddetta de-segregazione. Rompere le barriere, sia giuridiche laddove ancora esistono, sia culturali, e fare in modo che i diversi possano interagire,
12
Ibidem.
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conoscersi e apprezzarsi. Il contatto fra i diversi ha però avuto come esito non una diminuzione ma addirittura un aumento dell'ostilità reciproca. Quindi è utile che i soggetti possano disporre in anticipo di un quadro interpretativo nel quale inserire le nuove informazioni che andranno ad acquisire. Altra condizione importante è che l'interazione sia sufficientemente lunga e approfondita; dato il forte radicamento degli stereotipi e la loro tendenza all'autoriproduzione, può essere necessario infatti molto tempo e molte esperienze per realizzare una conoscenza in grado di contrastarli. Tale interazione deve essere soddisfacente, nel senso che la conoscenza deve apportare elementi informativi positivi che rendano gratificante il rapporto. Inoltre è utile che il rapporto con il diverso sia di tipo cooperativo, nel senso che spesso solo con un impegno comune verso uno scopo comune è possibile rendersi conto delle qualità reciproche. Un'altra condizione essenziale è che i soggetti in interazione abbiano uno status simile, cioè che non esistano evidenti disparità in termini di potere, prestigio e posizione nella scala sociale; infine un fattore cruciale è il supporto istituzionale e culturale: le esperienze di contatto non possono essere degli episodi isolati o limitati a un solo contesto. Una serie molto ampia di ricerche hanno dimostrato che quando queste condizioni sono soddisfatte, l'interazione stretta fra appartenenti a gruppi diversi può avere come risultato un miglioramento delle relazioni e una diminuzione dei pregiudizi, mentre dove queste condizioni non si verificano può aversi addirittura un effetto contrario13.
3.5 IGNORARE O RISPETTARE LE DIFFERENZE?
La cosiddetta prospettiva color-blind, consiste nell'ignorare ogni differenza fra gli individui, trattando tutti esattamente allo stesso modo a prescindere dalle appartenenze e dalla provenienza sociale.
13
Ibidem.
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Un'interazione che ignori del tutto le differenze ha lo svantaggio di non fornire ai soggetti un adeguato quadro interpretativo per le differenze stesse, le quali appariranno evidenti comunque e tenderanno a essere spiegate con riferimento agli stereotipi disponibili. Ma soprattutto questo tipo di impostazione non tiene conto del fatto che l'individuo ha di fatto bisogno di riconoscersi in un sistema di appartenenze, il quale implica non solo una valorizzazione positiva delle proprie radici e delle propria cultura, ma anche un confronto sistematico con gli altri gruppi. Una soluzione migliore invece, ma non semplice da realizzare, è quella di perseguire insieme sia l'obiettivo di parità che quello del rispetto della differenza. Una strada potrebbe essere quella di individuare diverse dimensioni lungo le quali effettuare il confronto: ciascuno riconosce che il proprio gruppo è migliore solo in alcuni aspetti mentre l'altro gruppo è superiore in altri aspetti che non entrano in conflitto con i primi. Il primo requisito è una complessiva disponibilità alla tolleranza, cioè la convinzione che sia non solo possibile ma anche giusto e produttivo per tutti che esistano differenti modi di essere e di vedere il mondo. Un ulteriore vantaggio di questo tipo di strategia ai fini di un miglioramento complessivo delle relazioni tra i gruppi consiste nella più ampia generalizzabilità delle esperienze positive che si siano eventualmente realizzate nell'interazione con in diversi. Un problema che si verifica spesso è il fatto che si tende in qualche modo a circoscrivere l'esperienza positiva, considerando le persone con cui si è interagito come delle eccezioni rispetto al loro gruppo. In pratica si spiegano solo le cose positive dei soggetti che si sono incontrati, lasciando inalterati gli stereotipi negativi e i livelli di ostilità nei confronti del gruppo nel suo insieme14.
14
Ibidem.
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3.6 IL PROBLEMA DELL’INFORMAZIONE CON COMMENTO CONCLUSIVE
Abbiamo visto come per stereotipo si intenda una generalizzazione sul conto di una persona o di un gruppo di persone. Esso si sviluppa nel momento in cui non siamo capaci, o non abbiamo voglia, di ottenere tutte le informazioni necessarie per poter giudicare con equanimità persone o situazioni. In mancanza del quadro completo, gli stereotipi in molti casi ci permettono di "riempire le caselle vuote". Apparentemente dunque sembrerebbe che il problema derivi principalmente da informazioni incomplete o distorte che vengono interiorizzate dagli individui e usate come schemi mentali nella vita sociale; basterebbe quindi che i mass media, e tutti gli altri strumenti attraverso cui veniamo a conoscenza della realtà globale in cui siamo immersi, perseguano l’obiettivo di trasmettere un’informazione completa, obiettiva, imparziale e fondata su dati empirici. Così si ridurrebbe drasticamente il rischio di formazione dei pregiudizi. L’ostacolo principale ad una siffatta soluzione è però ben presto identificabile: sperare in quel tipo di informazione è illusorio, anzi molto spesso la tv, i libri, il cinema, i giornali sono fonte inesauribile di personaggi stereotipati e contribuiscono significativamente a fornire quelle generalizzazioni che gli utenti fanno proprie con grande facilità. Come uscirne? Un primo punto dirimente consiste nel sottolineare un fatto importante: è doveroso acquisire la consapevolezza che stereotipi e pregiudizi nascono anche, e si rafforzano nella socializzazione, in famiglia e a scuola, ed è qui, dunque, che bisogna intervenire per evitare che essi giustifichino atteggiamenti di incomprensione, ostilità e discriminazione. Esistono inoltre, oggi, grazie anche alle nuove tecnologie, numerosi esempi di controinformazione che possono servire a estirpare i pregiudizi più deleteri: si pensi alla possibilità di sfruttare a pieno le enormi potenzialità che offre la rete, dove gli spazi di libertà per affrontare da diverse angolature le questioni sono innumerevoli.
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Un altro fattore che può contribuire a combattere i luoghi comuni è rappresentato dalla diffusione di strumenti conoscitivi, siano essi libri, convegni o quant’altro, che analizzano i temi “caldi”, o i soggetti vittime di visioni stereotipate, da punti di vista interni che possano aiutare a formare un’immagine quanto più completa e veritiera possibile di ciò che molto spesso non si conosce a sufficienza. Ad esempio, per ciò che concerne l’Islam in generale, una maggiore conoscenza delle analisi che vengono prodotte da studiosi o personaggi di rilievo del mondo musulmano, sicuramente non tacciabili di pregiudizi eurocentrici, provvederebbe a fornire chiarimenti essenziali alla comprensione di questioni che molto spesso valutiamo frettolosamente, senza avere i parametri necessari per emettere giudizi calibrati. C’è però un rischio fondamentale insito in una soluzione del genere, da cui bisogna guardarsi per non incorrere in errori altrettanto grossolani quanto quelli rappresentati dagli stereotipi. Il rischio che la lotta ai pregiudizi diventi conformismo, il credere che il contrario di un pregiudizio rappresenti tout court la verità. A volte infatti il contrario di un pregiudizio è soltanto un pregiudizio all’incontrario. Per concludere queste riflessioni, vorrei ribadire che quello che si afferma nei media contemporanei occidentali cioè un Pakistan islamica e fondamentalista, non rappresenta né la totalità né l’autentcità del paese ,ma solo una componente regressiva e reattiva (con la quale il dialogo non è possibile ) che, una voltà compresa nelle sue dinamiche , può essere delegittimate a favore della componente mederata, che può svolgere un ruolo importante per superare i pregiudizi che hanno condizionato le interpretazioni della sua società in occidente.
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