Otto Mesi E Ritorno

  • May 2020
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Otto mesi e ritorno di Massimo Piccagli Quando lasciai la comunità sita nella città di Rovigo, che ospitava mio fratello erano le 14 e avevo lo stomaco come un vulcano, tutto un brontolio. L’ora di pranzo era passata da un pezzo e io dovevo ancora mangiare. Anche la bevuta della nottata faceva la sua parte. Saltai sulla moto per fiondarmi ai Tre Pini, un ristorante della zona che ti accoglieva in un ambiente pulitissimo dove dalla sala si potevano vedere la cucina e i cuochi al lavoro e le pentole fumanti. Un via vai continuo per preparare la miglior selvaggina del rodigino. Lasagnette fatte in casa con un sugo all’amatriciana, che io adoro, lepre allo spiedo, verdure miste e una bottiglia di Barbaresco. Un vino forte, pieno di profumi. Piemontese. Poi la millefoglie, caffé corretto grappa e conto. “Il conto per favore… ho fretta!” Nonostante fossi abituato agli alcolici, quel pomeriggio alzandomi dalla sedia mi girava la testa, sarebbe stato meglio prendersela con calma e invece mi aspettava Marinella. La mia donna del momento. Faccia così così ma corpo da sballo. Al solo pensiero mi girava la testa, anzi no quello era il barbaresco. Rientrai nel ristorante ordinai un altro caffé e una limonata, non volevo bidonare missmondo, così mi precipitai in bagno a vomitare. La testa non mi girava più. Sì, potevo affrontare i cento chilometri in meno di un’ora per essere puntuale all’appuntamento. Avevo voglia di fare l’amore, tuttavia non mi sentivo bene. Per niente. 1

Media dei 110 Kmh, statale rodigina , pioviggine, casco in testa per non rovinare i miei capelli. Biondi. Adesso i 120. Lendinara. 130 Kmh. Un gioco da ragazzi. Vedo alcuni bancali per la frutta sulla carreggiata e penso che certi autisti non sono capaci di guidare nemmeno una carriola! Fossero caduti mentre passavo mi sarei ammazzato di sicuro! Fortuna che c’è solo una 124 verde marcio che sta superando un bancale. Maledizione la macchina è in retromarcia, non va avanti, torna indietro .Forse ce la faccio. Accelero così ce la faccio. Accidenti non vedo bene, passo fra bancale e 124. Verde marcio. Bancali. 124. Tutto così veloce. Non passo. Non passo. Non c’è spazio. Non c’è spazio. Non c’è. Non. La Kawasaky tocca la macchina, la 124 mi scaraventa addosso al bancale e poi a non so a quanti metri dall’impatto. Braccia sulla testa. No, sul casco. Casco e testa sull’asfalto. Bagnato. E sull’asfalto il mio corpo è tutto un dolore, non mi sembra di avere niente di rotto, cerco di alzarmi e mi ritrovo a terra come un sacco. Una volta , due , tre… a terra. Come un salame. E la testa come un treno in corsa, piena di rumori, dolori, ronzii. Levai il casco, la faccia era sfigurata, il sangue colava dalle ferite e quel terribile male che non accennava a passare. Un platano mi 2

sorreggeva mentre aspettavo l’ambulanza. intanto la gente sconvolta guardava il mucchio di rottami che rispondeva al nome di Kawasaky z 1000. “Ragazzo con il volo che hai fatto è un miracolo che tu sia vivo!” commentò il proprietario della 124. Ma come cazzo si fa a comperare una macchina di quel colore, volevo dirgli, ma nel frattempo era arrivata l’ambulanza. “Come ti senti?” disse l’uomo con la tuta della croce verde. “Sono in una morsa di dolori, e poi la testa… mi si spacca!” dissi salendo sull’ambulanza. “Va tutto bene, non preoccuparti!”. Al Pronto Soccorso di Rovigo mi accorsi di aver perso i documenti, così risposi all’accettazione: “Mi chiamo Massimo Piccagli, abito a Verona”. Stramazzai al suolo. In coma. OTTO MESI L’Involucro Né l’ammoniaca, né gli schiaffoni impedirono al mio spirito di staccarsi dal corpo. Subito non me ne resi conto, stavo bene e non sentivo più alcun dolore. Appollaiato nell’angolo destro del Pronto Soccorso di Rovigo vedevo medici ed infermieri tentar di rianimare uno sconosciuto caduto a terra. Incidente anche lui, evidentemente. L’uomo fu portato in barella in sala raggi per accertamenti, io, levitando li seguii. Non sapevo perché, ma una forza misteriosa mi invitava ad andare con loro. In sala raggi. 3

Levitando. Entrai in sala raggi e guardando lo sconosciuto un brivido mi pervase. Intorno un silenzio agghiacciante. Quell’uomo sconosciuto, allettato, in attesa dei raggi, controllato e visitato da medici e infermieri dell’ospedale di Rovigo, ero io. Morto. “Ha un vasto ematoma extra durale che comprime il cervello, vedete, qui e qui. E’ questo che lo tiene in stato di coma” Non sono morto. Il consulto fra medici sembrava la sagra delle comari, ognuno diceva la sua, un dottorino suggeriva di forare il cranio

e far

fuoriuscire il sangue dell’ematoma così la compressione sul cervello si allentava. Il tirocinante aveva avuto la brillante idea e forniva l’alibi al Primario per trasferirmi a Padova dove c’era il reparto di Neurochirurgia. Rovigo ne era sprovvisto. Altri 10 minuti persi per decidere e altri 10 ancora per aspettare l’ambulanza sulla quale seguii il mio corpo mortale accolto dalla frase dell’autista: “Quel cappellone a Padova non ci arriva vivo!” Gli sferrai un pugno, vanamente, perché non sortì effetto alcuno. Ero privo di materia. Gli infermieri durante il trasferimento a Padova si fermarono al bar per un panino e un’ombretta. L’ombretta è un bicchiere di vino rosso, così chiamato da quando decenni prima, all’ombra del 4

campanile di San Marco, un bar mesceva vino nella più grande piazza di Venezia. Avevo questi pensieri mentre l’ematoma si ingrandiva come un blob che invadeva tutto il cranio. Il respiro si fece faticoso. Appena mi rimetto vi suono come due tamburi, brutti stronzi, voi e la vostra ombretta! Gridai, ma nonostante avessi gridato con tutte le mie forze i due non si scomposero. Al corpo privo di vita, all’aspetto bluastro-cianotico, ai polmoni in arresto respiratorio si opponeva la mia parte spirituale, sempre più forte e stabile. “Ematoma extra durale, preparate la sala operatoria, lo opero subito!” disse il chirurgo a Padova. Potevo fremere di angoscia per il taglio dei capelli pre-operatorio in quelle condizioni? Potevo! Fremevo! Un sussulto mi sconvolse quando vidi i miei bellissimi capelli biondi capitolare sotto il maglio delle forbici, li tagliarono solo nel punto in cui era stato evidenziato l’ematoma. Uno spettacolo visto dall’angolo destro della stanza. Sempre dall’ angolo in alto, fino a quando, aspirato il sangue dal cranio aperto, sentii per un attimo il rientro nel corpo. Ma fu solo un attimo. Tornai quasi subito a vedere che l’operazione era perfettamente riuscita. Angolo in alto della sala operatoria. Dopo aver visto le lastre e il collo gonfio e aver passato una notte tranquilla, il Primario di Neurochirurgia pensò di rioperare la mia parte materiale per la seconda volta. I capelli biondi furono tagliati completamente mentre nessuno aveva il sospetto che a me potessero 5

piacere anche dall’angolo della stanza. A scatola cranica aperta i medici convenirono sul fatto che tutto era a posto, l’ematoma si era assorbito, ma una complicazione era evidente: il cervello si era gonfiato. Edema cerebrale. Il mio corpo mortale fu collegato ad una macchina per monitorare il suo stato e le funzioni vitali. Un attimo dopo il chirurgo scosse la testa vedendo quanto tempo era passato dall’incidente all’operazione.

Di

mezzo

c’era

anche

l’ombretta

dei

due

dell’ambulanza. Suono. Fortissimo suono e un fastidio incredibile. Il mio corpo mortale è cianotico e in blocco respiratorio. “Operiamolosubito” dissero gli infermieri e il medico senza pause fra le parole. Tracheotomia, intubazione, respiratore automatico, ecco il mio corpo in uno dei suoi più riusciti travestimenti: una centrale fotovoltaica. Perché si dannano tanto per salvare un corpo che altro non è che un Involucro? Da adesso lo chiamerò così: INVOLUCRO. Il primo ad arrivare a far visita all’Involucro fu suo padre. Gran lavoratore, anche dieci ore al giorno, nell’azienda del cognato e completamente sottomesso alla moglie per via del fallimento della propria impresa. Quando suo padre vide la centrale fotovoltaica, con un collo gonfio all’inverosimile che pareva esplodere non riconobbe il figlio e andò dagli infermieri. “Ma non è mio figlio!” “E’ proprio lui” gli risposero quelli, “ci dispiace”.

6

Lui si mise a piangere così forte che gli infermieri entrarono in stanza per vedere se avesse bisogno di qualcosa e io pure cercai di consolarlo, ma come i pugni e le grida nemmeno i sentimenti si potevano esprimere dall’angolo di quella esistenza. Almeno così credevo in quel momento Poi giunse la moglie dell’Involucro: “Guardi signora che non è un bello spettacolo…” e quando la moglie vide Involucro si disperò. Piangendo e urlando. Io mi avvicinai e stavolta lei mi sentì. Prima mi ero sbagliato, forse potevo ancora fare qualcosa, anche se non sapevo dire cosa e soprattutto era difficile capire il motivo per cui potevo stare solo accanto all’Involucro. “Vede signora, fosse il cuore , il fegato… ma con il cervello siamo all’età della pietra. Quando c’è di mezzo il cervello non si sa mai”. Ora del pranzo. Perché dimenticavo di dire che con un sondino dal naso l’Involucro veniva alimentato con un pappone a base di carrube sparato nello stomaco attraverso una siringa. Dolci le carrube e piene di calorie. Cosa sono ora? Chi sono, di cosa sono fatto? Quando l’Involucro mi avrebbe abbandonato avrei avuto tutte le risposte pensai. Bisogna pur difendersi in certe situazioni! Sua moglie nei giorni feriali, il di lui padre nel fine settimana: i turni di veglia all’Involucro erano decisi, il tempo avrebbe fatto il resto del lavoro. 7

Fu quella volta che, sentendomi leggero tentai di staccarmi dall’Involucro,

capii, sorvolando un vecchiotto che fumava in

corridoio, di aver perso anche l’olfatto. Un signore con il camice bianco si arrabbiò molto con il vecchio, c’erano ammalati gravi, alcuni gravissimi e non si poteva avvelenare l’aria con il sigaro. Non riuscii a vedere la fine della scena che fui risucchiato al capezzale dell’Involucro. Sua moglie aveva messo all’Involucro le cuffie per la musica. E c’era musica che andava lì dentro. E una gran musica anche dentro la sala operatoria dove fui trasportato, al seguito di involucro perché gli venisse riaperta la scatola cranica .Edema cerebrale stabile, e il tentativo di togliere il respiratore e la tracheotomia fallito . Respirava a fatica da solo. Il cappellano dell’ospedale chiese alla moglie dell’Involucro se desiderava fosse somministrato il sacramento dell’estrema unzione. La moglie acconsentì. Potevo spostarmi a mio piacimento. Ero fuori stanza anche quella volta che un blocco di catarro marcio e mefitico ostruì la tracheotomia dello stesso. Gli infermieri in fretta e furia lo asportarono ma lui cominciò a vomitare. Sul letto. Vomito. Sul pavimento. Vomito. Sangue, pus e vomito dappertutto. Sarebbe stato divertente al cinema. Forse. La notte successiva

tossi così forte che i conati di vomito

imbrattarono le pareti e l’odore invadeva tutto il reparto di Neurochirurgia. Il mattino seguente il Primario chiese alla moglie dell’Involucro se voleva imparare ad usare l’aspiratore per evitare le crisi di quei giorni. La moglie acconsentì. 8

Era quello l’amore? Erano passati quindici giorni dal maledetto 27 del 7 del 77, ma dell’auspicato risveglio dal coma profondo non c’era notizia anche se il cervello dell’Involucro era tornato normale Qualche volta sentivo l’impulso a rientrare nel corpo e una volta riuscii anche ad uscire dall’ospedale. Stavo rientrando quando un’ambulanza portò un altro corpo incidentato al Pronto Soccorso, seguito da un signore molto distinto che urlava Dino! Dino! Dino era un Involucro di 19 -20 anni. Il padre era disperato, era stato lui a comperare la moto al figlio per i brillanti risultati a scuola. Non se la sarebbe mai perdonata qualora il ragazzo non ce l’avesse fatta! Lo costrinsero a prendere un sedativo che lo addormentò su una sedia nell’anticamera delle Sale Operatorie. In quel preciso istante dal blocco operatorio uscì un’ entità del tutto simile a me, si spostava levitando. Allora gli chiesi se poteva sentirmi. “Sì” rispose. “Bene” dissi io, “così mi farai un po’ di compagnia.” “No” mi disse, “devo raggiungere la dimensione nella vita astrale a cui appartengo da oggi, perché il mio Involucro mortale ha cessato di esistere.” “Ma come fai a sapere dove devi andare” gli dissi io. “Quando il tuo Involucro mortale cesserà di essere, lo saprai anche tu e tutto ti sarà chiaro e facilmente comprensibile.” Non lo rividi più.

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All’uomo distinto venne comunicato il decesso del figlio e quell’uomo si allontanò nel suo pianto senza chiedere nulla. In quel momento mi venne in mente il nonno che diceva sempre di non giudicare le persone quando perdono i loro cari perché ognuno ha il proprio modo di reagire al dolore. Quel pomeriggio passò in un baleno. La moglie dell’Involucro corse fuori dalla stanza gridando. “Aiutatemi, aiutatemi, Massimo sta male!” Sì, Massimo stava male, tutto rosso in faccia, schiuma dalla bocca. “Adesso facciamo tutti gli esami del caso” disse il medico, “ma non è nulla di grave signora. E’ un virus non molto pericoloso anche se brutto da vedere!” I giorni passarono, dieci , venti , trenta. Dopo quaranta giorni apparvero le prime piaghe da decubito. Le 4 piaghe più grosse si formarono 2 sui glutei ed una, per ogni fianco, Inoltre una piccola piaghetta, per ogni vertebra della spina dorsale. Girarono l’Involucro in posizione prona. La moglie dell’Involucro soggiornava dalle suore per 50.000 lire al mese. Risonanza magnetica al cervello, negativa: nessuna lesione. Esame del midollo: senza significative alterazioni. Registrazione del sonno: regolari le fasi compresa l’attività onirica. Tutto ciò aveva convinto il Professore a rincuorare la moglie dell’Involucro sui tempi di recupero ormai dato per certo, mentre le piaghe miglioravano per effetto della nuova posizione e sempre per lo stesso motivo lo schiacciamento del catetere con l’uretere provocò una cistite fortissima all’Involucro. Febbre conseguente. Ipotizzata invece una

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sofferenza cerebrale, quindi tenda ad ossigeno in stanza per ogni evenienza. Con la febbre a 41° l’Involucro veniva semicoperto di ghiaccio per favorire la circolazione del sangue fresco al cervello. Un sangue caldo avrebbe causato lesioni. Capita la causa legata alla posizione del corpo e al conseguente schiacciamento dell’uretere, i medici pensarono di cambiare posizione al corpo dell’ Involucro. Le ipotesi furono le più svariate. Vinse il premio per la miglior idea un inserviente che prese due materassi , li piegò e li schiacciò fra le spalliere del letto formando altrettante gobbe nel cui mezzo si creava un vuoto che avrebbe potuto accogliere il bacino dell’Involucro. Così fu fatto. Il corpo disteso a pancia in giù lasciava nel vuoto il pene che venne introdotto nel “pappagallo” per urinare. Dopo due giorni la cistite si risolse, in reparto medici e infermieri ribattezzarono Massimo Piccagli con il nome “L’uomo dalle cento vite”. Passati tre mesi non si erano verificati miglioramenti tali da far pensare ad un risveglio, il test del “riflesso al dolore” confermò che il cervello dell’involucro era sconvolto probabilmente dall’edema cerebrale. Presero un capezzolo e lo girarono fino a quando non uscì del sangue, l’ Involucro invece di portare le mani nel punto dolente si irrigidì, quasi non avesse capito da dove venisse il male. Cervello fuori norma. Test del riflesso al dolore. Piaghe che non si richiudevano nonostante i 40 giorni in posizione prona. Fra i due materassi. In compagnia di un pappagallo. 11

Per risolvere il problema delle piaghe arrivò lo “striker”, un letto con binario circolare dove il paziente veniva legato per essere spostato in tutte le posizioni possibili senza rischiare di cadere. Il 20 ottobre, giorno della disinfestazione generale del reparto di Neurochirurgia, sentii una forza irresistibile che mi attirava verso l’Involucro e in un attimo io non fui più nel nulla. Ero tornato nel termine medico di coma vigile. Dentro questo tipo di coma io non ricordavo più nulla dell’incidente così come del precedente coma. Non riuscivo ad aprire l’occhio destro e non riuscivo a muovere un muscolo, tuttavia avevo conservato la sensibilità. Entrando in stanza mia moglie cominciò ad urlare vedendomi sveglio, (?) ma quando giunse il Professore e cominciò a chiedermi di muovere questo e quello io riuscii solo a chiudere gli occhi. “Vedela signora i maladi come so marì: un colpo iè da ovi e un colpo iè da late” Il letto era scomodissimo. Lo “striker” mi costringeva a posizioni inimmaginabili e avevo una gran sete. Così tanta sete da addormentarmi per difendermi dalla sete e da risvegliarmi dalla sete. E a nessuno veniva in mente che avevo sete, neanche a quegli stronzi di infermieri, che sapevano tutto loro… Sarà stato il deserto della bocca o la posizione disumana del letto che ad un certo punto mi svegliai completamente. Una lucidità mentale perfetta. Mia moglie vedendomi con gli occhi fissare il soffitto mi disse: “Massimo, se capisci quello che dico stringimi la mano!” Io, con la poca forza rimasta esercitai una leggera pressione sulla sua mano. Sulle prime lei avrebbe voluto chiamare subito il 12

professore,ma prima volle essere sicura volle riprovare e mi fece delle domande cui solo io e lei sapevamo la risposta. Avevo problemi a piegare il capo in segno di assenso, così pensò di farmi chiudere gli occhi due volte per dire “sì”. Per il “no” giravo la testa e ci riuscivo. Parlammo due ore, non so perché ma la feci contenta, poi mi raccontò dell’incidente: io non ricordavo nulla! Ad un certo punto anche i medici furono resi partecipi del risveglio, Massimo era tornato, quello che adesso li preoccupava era la “grave tetraparesi spastica con rigidità e spasticità che interessavano tutti e quattro gli arti”. In parole povere ero così bloccato nei movimenti che sembravo un albero più che un uomo. Il giorno seguente: fisioterapia. Con Nazzareno, il fisioterapista del reparto di neurochirurgia, inizia l’odissea infinita della riabilitazione, costellata di tutti i nomi, mani, cuori, sentimenti, odi, dolori possibili immaginabili . Soprattutto i dolori. Perché avevo conservato la reattività al dolore. Ogni volta che si tentava di smobilizzare una parte del mio corpo si scatenavano dei riflessi detti crisi vegetative che irrigidivano gli arti con dolorosissime contrazioni. Ai primi di dicembre sopravvenne una crisi renale con relativo blocco totale, vennero iniettate alcune fiale di Lasix nel corpo dell’Involucro che fu portato d’urgenza in Nefrologia per una dialisi peritoneale. Questa dialisi altro non è che un ago in pancia dal quale due litri di soluzione raggiungono il peritoneo per poi uscire in forma 13

di urina. Una procedura semplice per pulire il sangue, abbassare la pressione sanguigna e catapultarmi fuori dal corpo. Libero dall’Involucro

mi

guardai

intorno

perché

era

tutto

diverso

dall’esperienza precedente. Una forza irresistibile mi lanciava verso un viaggio che io sapevo essere in una dimensione astrale. Ad una velocità che va ben oltre le conoscenze dell’uomo attraversai uno spazio con pianeti e stelle. Pianeti e stelle si avvicinavano come luce abbagliante, li vedevo per un attimo e poi sparivano. Forse oltrepassai la nostra galassia o forse ero in un altro universo. Chissà! Il viaggio durò forse cinque minuti e alla fine appoggiai i piedi su un prato tempestato di fiori mai visti. Un carnevale di colori tumultuosi dentro un prato senza fine e una quercia. Un albero grandissimo. Una vecchia signora si avvicinò con una tazza in mano, quando fu sufficientemente vicina da poterla riconoscere, ebbi un sussulto quella anziana figura altri non era, che la parte spirituale della nonna di involucro, morta da circa un’anno, durante la vita terrena nonna e nipote erano particolarmente legati, e a me rivolta disse in dialetto mantovano: “Massimu cua fet che an le mia, che al to post pruva bea cla che…” e mi diede una tazza di cioccolata bollente. Poi aggiunse: “Né cha te sentì ades vè che to nonu e al dis qual cat ghe da fa…” Apparve dal nulla la parte spirituale del nonno morto molto prima della nonna. Un brontolone. Non ero mai riuscito ad affezionarmi a lui. “Ciao Massimu. Cuma stet? Set am despias, ma al to bagai an le mia mort. At ghe da turna so!” 14

Da quel momento non fui più.

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RITORNO Ombre sagome aureole La dialisi aveva compiuto un miracolo e beffando la morte da qual momento cominciai a vedere delle strane figure. Ombre. Ombre alle spalle delle persone girovagavano lievi, incuranti di tutto e di tutti. In Nefrologia non si parlò d’altro. E poi fui messo a sedere su una sedia a rotelle, tutto legato… E poi fui trasferito a Verona con saluti e baci e abbracci e quasi qualche lacrima E poi tentavo di mangiare e bere. E poi la saliva mi usciva dalla bocca senza che io riuscissi a trattenerla. No, il reparto di Verona, perfetto, sterilizzato, dove non si poteva tentare di mangiare per bocca perché i tracheotomizzati devono mangiare dal sondino, non mi piaceva. In quell’ospedale mancava un cuore che pulsava. Non c’era tempo per malati come me. “Ehi Togno…” disse un vicino del mio letto. “Sa ghe?” rispose l’infermiere. “Picali el ga se, va a torghe un bicer de acqua!” “Dighe che el vaga a torsela lu… e se le mia bon el se tien la se” In reparto fluttuavano alcune ombre. Mi addormentai. Al risveglio fu la medicazione delle piaghe effettuata senza tanti complimenti. Pagavo la mia fama di “duro” con un dolore atroce . Senza tanti complimenti 16

Finalmente venne mia moglie a farmi visita. Potei bere e mi rincuorò il fatto di venir trasferito in un reparto dove erano ammesse le assistenze, così il giorno dopo mi trovai in stanza con tre involucri in stato di coma. Ma la mia nuova stanza non era niente male, vedevo Verona Emergenza decollare e atterrare e nulla mi faceva pensare di esser paralizzato, in fondo gli esami non avevano mai evidenziato lesioni al cervello o al midollo. L’infermiere che entrò in stanza e nei miei pensieri non mi era nuovo. “Varda ci ghe qua, Picali Massimo ciamà el lupo. Te eri belo forte na olta e tuti i gavea paura de ti. A Verona te fasei quelo che te volei. Varda adeso come te si ridoto, e venendomi vicino disse, proa adeso a darme un sciafon e a romperme i me ociai…” Questo sfigato di infermiere aveva un alito che puzzava come se in bocca avesse un topo in putrefazione da mesi. Una sera, anni prima, in un bar di San Massimo mi aveva pestato un piede senza volerlo e io gli avevo dato due ceffoni rompendogli gli occhiali. Lo sfigato si prendeva delle confidenze con la moglie di Eugenio, il mio dirimpettaio comatoso. Mia moglie fece subito amicizia con lei e quando si accorse che avevo ancora il sondino si battè con furia con la dottoressa stronza che non voleva prendersi nessuna responsabilità circa l’alimentazione per bocca. Alla fine mi venne tolto il sondino e le assistenti di Eugenio, sua moglie e la sorella, si offrirono per turnarsi con mia moglie e mio papà per darmi i pasti.

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I giorni si sommavano ai giorni, tutto si ripeteva con un ritmo monotono, ore sette colazione, ore otto medicazione, ore nove visita, ore dieci moglie e così via. Con la voce passai da suoni indistinti, a lamenti, a qualche suono più simile alla parola. Un giorno per far capire agli infermieri che riuscivo a parlare, continuai a emettere suoni fino a quando uno di loro (chiamato lo scimmiotto tanto era bello) costui infastidito dai miei suoni, prese in mano un’astuccio di un cerotto di plastica dura e me lo sbatte, con forza sulla bocca.. Cercai di reagire, le conseguenze del mio gesto furono quasi catastrofiche, io Piccali Massimo cercai di alzarmi, caddi per terra, trascinando con me il pappagallo pieno di urina sbattei la testa con violenza. Un rigagnolo di sangue mi usciva dalla bocca. Piccali Massimo, il Lupo, non era in grado di muoversi e non aveva la forza nemmeno di leccarsi le ferite. Gli infermieri scimmiotto compreso ripulirono tutto in fretta e furia, mi risedettero sulla poltrona cercando di pulire anche quel sangue, ma dovettero desistere, perché io con la testa, che era l’unica cosa di cui avevo riacquistato il completo controllo cercai ripetutamente di colpirli. Usciti quei porci, rientrarono le assistenze, io non dissi niente, riservandomi il piacere di un’eventuale vendetta. Pensare che mia moglie si era convinta che mi fossi morso da solo. Lei non sapeva niente del Lupo e delle sue scorribande. Se una persona non sa niente… non può dire niente! A Verona il reparto di rianimazione era dotato delle più moderne apparecchiature. La T.A.C. al cervello non rivelò nessuna anomalia,

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nessuna alterazione nemmeno sulla colonna vertebrale, così fui destinato al programma di fisioterapia di Padova. La mia presenza a Verona non passò inosservata, A.F. – un pezzo grosso della malavita milanese – annunciò con un telegramma in reparto il suo arrivo. Da quel giorno anche l’atteggiamento dello Sfigato cambiò radicalmente, non sapeva cosa fare per accontentarmi, mi lavò i capelli e portò una bottiglia di buon vino. All’approssimarsi delle feste di Natale A.F. venne a trovarmi con la sua donna bellissima e due guardaspalle a proteggerlo. “Massimo, mi disse, amico mio come ti hanno ridotto! Se hai bisogno di qualcosa fammelo sapere che ci penso io…” e così dicendo staccò un assegno per mia moglie. Per le spese, aggiunse. “Voglio rivedere il Lupo a Milano ad ululare ancora…” e dopo avermi dato un bacio sulla guancia se ne andò. Aveva portato anche una cassetta piena di ogni ben di dio, champagne compreso. Aprimmo la bottiglia il giorno di Natale. In stanza Rosa e Luciana, la sorella e la moglie di Eugenio avevano addobbato un albero con le luci e lo Sfigato aveva portato un televisore per il film della sera. “Picali,

sta sera che le nadal podemo vèrsar la butilia de

sciampagn che la portà el to amigo de milan!” A mezzogiorno il pranzo fu davvero speciale, dalle lasagnette al pomodoro, ma quando mia moglie mi disse che voleva andare a casa a riposare iniziai a piangere. “Allora resto!” disse. “Vai pure a casa” mormorai, “basta che torni per stasera”.

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Alle 15 tornò proprio mentre la dottoressa dalla faccia da stronza tentava di farmi respirare senza la tracheotomia. Ci riuscivo senza problemi. “In questi giorni ogni tanto provi a tappare il buco della tracheo di modo che suo marito si abitui a respirare con la bocca” Con un cucchiaino brindai a champagne e verso le otto guardai il telegiornale e poi un film e poi la nanna. Buon Natale. Si replicò l’ultimo dell’anno, brindisi e televisione compreso lo Sfigato che toccava la moglie di Eugenio prima da sobrio e poi da brillo. Buon Anno. Tolta la tracheotomia e infilato un pigiama iniziarono un programma di ginnastica con due terapiste che dopo avermi guardato per mezz’ora mi riportarono

in stanza. Così facendo non avrei

camminato neanche dopo cento anni e nel frattempo le ombre levitavano sulle sagome delle persone. Quelle grigie mi inquietavano e ogni volta un brivido mi attraversava tutto il corpo. Venni trasferito a Legnago in Neurologia per la terapia. Due infermieri si congedarono da me dicendo: “Seto quando i vede arivar sto atresso chi… i se mete le mane nei cavei” A Legnago solita visita e l’obbligo di defecare da solo nella padella di acciaio. La padella a contatto con le piaghe mi faceva così male che inibiva ogni stimolo, così iniziai a farla nel letto e poi gli infermieri venivano a pulire. La cacca.

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Mi piaceva la palestra e il fisioterapista, un marcantonio di nome Giorgio alto uno e novanta, di cento e passa chili, era bravo. Cercava di allungare i tendini con trazioni realizzate attaccandomi dei pesi. Prima tre e dopo cinque chili. “So che fa male” diceva, “urla pure qui nessuno ti sente!” Un dolore simile non pensavo potesse esistere, la posizione era quella del crocefisso. Un dolore incredibile. E ancora le piaghe vennero curate. E sul comodino ventotto dico 28 pastiglie. Spesso mi addormentavo esausto, altre volte era la paura a sorprendermi come un ladro di notte. Come quella volta quando vidi alle spalle di un portantino l’ombra di una donna vecchia vestita di grigio. Iniezioni di connettivina dentro la carne viva delle piaghe, posture per i tendini, esercizi e trazioni, la mia giornata passava fra un dolore e un altro, una bestemmia e una “madonna”. La terapia dava i suoi frutti e mia moglie nel frattempo aveva iniziato a lavorare, così la vedevo il sabato, la domenica e il mercoledì sera. All’inizio non fu facile staccarsene. Un venerdì fui svegliato da un prurito al naso. Con mia sorpresa vidi che era venuta a trovarmi G. una donna con la quale il sesso era divertimento puro e con la quale andavo molto d’accordo. “Le muovi le gambe?” mi chiese. Risposi che le muovevo solo un po’. “E l’altra gamba funziona?”. Sarà stata la lunga astinenza o chissà cosa, ma in effetti non avevo problemi, tanto che quando lei mi infilò una mano sotto le coperte. Tutto funzionò a meraviglia anche se, nonostante l’impeto e la bocca piena di voglia di G. non eiaculai. 21

“Te sì el sogno de ogni dona… el te resta sempre duro!” e se ne andò con la promessa di tornare. Non vorrai avere tutto a posto, mi disse un infermiere il giorno dopo, con tutte le pastiglie che prendi! A Pasqua , dopo tanto tempo tornai a casa. Mio padre disse: “Massimu set prunt par anda a ca?” In un attimo provai molte emozioni, avrei visto dopo quasi un anno le mie figlie Cecilia e Mara e avrei fatto l’amore con mia moglie… finalmente! Tuttavia l’accoglienza non fu come avevo immaginato. Mie figlie entrarono in casa nell’indifferenza più totale, non riuscimmo ad avere una sedie a rotelle perché la dimenticammo in ospedale e fui portato di peso sul divano davanti al televisore. Da quella posizione tutto il vicinato mi fece visita tra un “…poarin l’era così un bel butel…” e “…varda ti come l’è ridoto, ma la podea andarte peso …”. Finalmente venne l’ora di andare a letto, mia moglie mi raccomandò di non addormentarmi ed uscì dalla doccia in slip e reggiseno. Ci volle poco a capire cosa voleva ed era la stessa che volevo io dopo quasi un anno di ospedale. Si tolse tutto e venne sopra di me. Nonostante tutti gli sforzi non riuscii a venire ma lei era molto soddisfatta . Dopo ci addormentammo. Passai alcune notti in bianco. Sarà stato il materasso o chissà cosa, la notte era infame e di giorno le mie figlie sì è no che salutavano. Cosa sarebbe stato della mia vita in quelle condizioni? E mia moglie, così bella, avrebbe potuto rifarsi una vita se io non ci fossi stato? 22

Caddi in una depressione che sembrava una foiba senza fondo, pensavo seriamente di farla finita. Quindici giorni così, nel vuoto più disarmante. Poi il destino a volte disegna scene imprevedibili. Tornai in ospedale. In questa scena appare C. un ragazzetto un po’ scemo che giocava a fare il malavitoso nonostante i soldi di papà. “Ciao Picali come steto?” mi girai e lo vidi. Aveva ancora la pistola calibro 9 delle scorribande. Gliela chiesi e lo implorai di farmi fare un giretto al parco. Lui capì? Non so , sta di fatto che quando gli chiesi di lasciarmi un po’ solo si allontanò per andare la bar a prendere una birretta. “Va ben, disse, vao al bar… vuto anca ti ‘na bireta?” “Si” tagliai corto. C. si avviò verso il bar ed io con non poca difficoltà misi il colpo in canna. Impugnai la pistola con la sinistra. Per puntarla alla tempia dovevo abbassare la testa. Dieci minuti. Dieci minuti in quella posizione dove ripassai tutti i momenti della mia vita, le malefatte, le donne avute, le volte che avevo messo in gioco la vita, le corse in moto… Ricordai anche quando da piccolo vidi l’artiglio del diavolo riflettere la sua ombra sul muro della mia camera. La mia era stata una vita

irripetibile, violenta, appagante sotto tutti i punti di vista e

soprattutto con le donne per il sesso. Una vita vissuta al limite delle possibilità umane. Con un’uscita di scena degna del Lupo pensai di farla finita. 23

Pistola nella sinistra. Testa abbassata. Dieci minuti. Negli occhi una vita. La mia. Irripetibile. Qualcosa, non saprò mai cosa, mi fermò. Non fu la paura, no, non quella. Più semplicemente capii che volevo vivere. C. tornò con la birretta. Buona la birretta con la cannuccia! Cominciai la riabilitazione con più vigore e convinzione, iniziai a sorreggermi sulle parallele per aiutarmi a camminare. Quella volta che fui posto davanti allo specchio le gambe e le braccia e il mondo crollarono tutti su se stessi. Chi era quell’uomo che vedevo riflesso? E quella cicatrice sul collo? E tutto quel corpo schifoso? Il fisiatra ordinò di togliere lo specchio. E avanti così, a testa bassa con una pistola scarica. All’ospedale si alternavano giorni a casa, le mie figlie si erano ammorbidite e si stava insieme di giorno, la notte era sempre intensa con mia moglie, anche se permaneva il problema dell’eiaculazione. Le pastiglie da 28 a 3. E le piaghe ancora aperte fino al giorno in cui venni operato. Fu quello il momento in cui provai il dolore più forte della mia vita e tutto per cercarmi una vena per l’anestesia. Fui “torturato” al collo. Alla fine

riuscirono a trovare una vena per l’ago, ma con la

conseguenza che l’intervento risolutore mi procurò una setticemia. 24

Una piaga scoppiò esplodendo pus dappertutto e così durante le medicazioni successive mi rivolgevo agli infermieri come se fossero dei porci. Alla fine le piaghe scomparvero, ma all’orizzonte c’era il problema della voce, mi aspettava una laringoscopia. “Facciamo in anestesia totale?” Memore della tortura delle piaghe decisi di no e così l’esame evidenziò un problema ai muscoli del diaframma. Nuova ginnastica ortofonica per le corde vocali. Qualche risultato. A metà agosto, quindici giorni a casa. Non sapevo se essere contento o no, avevo la sensazione che solo in ospedale con la ginnastica avrei potuto migliorare e che la struttura in qualche modo mi proteggesse. Ad ogni modo una volta a casa mi organizzai per gli esercizi fin dal primo giorno, così come dal primo giorno di ferie giunse la benedizione di una scopata come si deve. Da quella volta ricominciai ad avere l’orgasmo. “Vuoi che facciamo?” disse lei. “Si dai” sentii subito che era un’altra cosa e dopo un po’ lanciai un urlo di gioia. Mia moglie non capì. “Steto mal Massimo?” “No… son vegnù!” “Ma sito sicuro?” Sì. Ero sicuro ed ero così felice che le gambe dalla gioia si muovevano da sole. Ed al settimo, al centesimo , al millesimo cielo! Dopo un quarto d’ora mia moglie mi chiese se volevo riprovare, così rifacemmo l’amore. Più bello di prima, così bello che volevo raccontarlo a tutti. Migliorai anche con la ginnastica, il girello per camminare e il movimento e , cosa che non avrei mai creduto possibile, tornai a malincuore in ospedale. Un po’ camminavo. 25

Quando la dottoressa lo vide mi disse che tutto ciò era importantissimo ma concluse dicendo che voleva farmi conoscere una persona. “Una donna?” le chiesi “Una bella ragazza!” disse lei. Spingendomi con la carrozzina fino al reparto femminile mi parlò di Gemma, malata alla fase terminale di sclerosi a placche. Diventammo subito amici, si passava la sera a guardare la televisione e ridendo a crepapelle. Di Gemma ricordo in particolare due frasi, quella in cui ricordava che era sempre meglio ridere perché per piangere c’era sempre tempo e un’altra rivolta espressamente a me: “Tu non hai una lesione al midollo spinale. Devi impegnarti con tutte le tue forze e non importa se i medici dicono che non ce la farai. Tu devi sempre credere di poter camminare!” Non la rividi più, ingoiata in un sol boccone dal male incurabile. Il mio nuovo terapista fu Alberto il quale non combinò nulla, poi arrivò Nicoletta la più gnocca delle terapiste, così gnocca che le mie reazioni non passavano inosservate quando lei si sedeva su di me per lavorare con gli addominali. Poi arrivò Dino, e avanti così senza che nulla di nuovo accadesse. Il due novembre all’uscita della fisioterapia vidi di spalle un gran pezzo di figliola, bionda. Minigonna vertiginosa. Quando si girò vidi che era G con i capelli tinti. Si offrì per portarmi in reparto “Ciao Picali come steto?” chiese G.

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“Bastansa ben, ma fao na fadiga della madona a caminar, però la tersa gamba la funsia ben. Vegno coma na olta!” risposi io. “No me par gnanca vero… ghe mia un posto doe nar?” Andammo al settimo piano che era tutto vuoto e ci imboscammo nell’ultima camera, lei si spogliò in fretta e poi cercò nella borsetta non so cosa. “Ma cosa cazzo cerchi?” chiesi. Stava cercando il preservativo. Ma che novità era quella? Tutte le volte che l’avevamo fatto… G. cominciò a piangere e a imprecare, non riuscivo a fermarla tanto era inconsolabile. Non capii, fino a quando mi racconto che un tipo di Milano le aveva trasmesso una malattia. “E allora?” chiesi io. Mi spiegò che questo virus era molto raro in Italia e distruggeva il sistema immunitario e che quando questo accadeva la morte poteva essere in agguato anche con la più banale delle malattie Una malattia molto contagiosa disse, che si trasmetteva con i rapporti sessuali. G. aveva l’AIDS. Nessuna cura. Andammo a bere un caffé, entrambi sconfitti da una gran tristezza che ci bucava il cuore. Prima di accompagnarmi in reparto mi diede un bacio. “Pena posso, torno a catarte”. Nel frattempo io feci una visita presso il centro A.I.A.S. di Verona. Giorni e uomini e donne che mi insegnarono cose importati sul mondo dell’Handicap. Mi stupivo nel vedere come corpi così segnati dalla malattia potessero sorridere alla vita con tanta speranza.

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Quando tornai a casa era passato un anno e mezzo dall’incidente, miglioramenti ce n’erano stati, ma di camminare normalmente non se ne parlava. I giorni gocciolavano fra un amico che veniva a trovarmi, la ginnastica e l’amore con mia moglie. L’unica cosa che mi faceva ancora sentire uomo. Nel contempo ricevetti un telegramma dalla Direzione Sanitaria dell’ospedale Santa Corona sito in Pietra Ligure, che mi annunciava, la domanda, per una mia degenza nel reparto riabilitativo del sopraccitato ospedale, era stata accettata, di li a pochi giorni sarei dovuto recarmi al Santa Corona, per il ricovero. Non poteva esserci notizia migliore, infatti era diffusa la convinzione, che nel reparto riabilitativo, presente nel sopra citato ospedale venissero fatte 5 ore al giorno di fisioterapia, per ogni paziente, con un simile trattamento, avrei sicuramente ripreso a camminare, ne eravamo convinti tutti in famiglia. Mia moglie io e alla guida mio padre, un Giovedì di Febbraio partimmo alla volta di Pietra, 400 chilometri. Arrivati a destinazione e sbrigate le formalità, per il ricovero al c.r.e., questo era il nome del reparto in cui avevo riposto tutte le mie speranze, un infermiere ci accompagnò, fino la dove si trovava lo stesso, era un’edificio vecchiotto disposto su 2 piani. La camera cui fui assegnato sembrava l’anticamera dell’inferno, arrivai proprio all’ora in cui si stava pranzando a destra uno seduto sulla comoda era intento sonoramente ad defecare mentre io tentavo di mangiare e a sinistra, sempre nello stesso momento, un altro bava dopo bava rigurgitava tutto il masticato nel piatto. dove mangiava… Ma dove cazzo mi avevano portato?

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Dovetti mandare mia moglie dalla capo sala, per chiederle sec’era un posto alternativo dove poter mangiare da solo, in quelle condizioni sarei solo riuscito a vomitare, a tale scopo le venne dato un vassoio porta vivande, che una volta messo sulle gambe faceva le funzioni di un tavolino, così con la faccia rivolta al muro fregandomene altamente dei mugugni provenienti dai degenti di quella stanza, riuscii a mangiare qualche cosa. Sopra quasi tutti i comodini, faceva bella mostra di

se il

pappagallo usato dall’occupante di quel posto letto, gli stessi nella maggior parte dei casi contenevano dell’urina, che profumava, per benino l’ambiente. La notte le cose non andavano meglio, a causa del russare del defecatore stereofonico, il quale faceva dei versi che sembravano il grugnire ddi una scrofa in calore, se

mi andava bene riuscivo a

dormire 2 ore, per notte verso mattina quando cadevo esausto. Mia moglie decise di fermarsi un paio di giorni presso un locale albergo di

Pietra, per facilitare il mio inserimento, nel nuovo

ambiente. Doveva essere un reparto super specializzato in terapia riabilitativa e invece vi lavorava solo una terapista

diplomata, le

infermiere erano quasi tutte allieve infermiere. Anche carine, che non si preoccupavano se avevo un’erezione mentre mi lavavano . Mi lavavano e basta. Punto. Fui assegnato alla terapista M. della serie “voia de laorar, salteme dosso”. Non aveva voglia di far nulla e intanto passavano i giorni. Dovetti farmi cambiare stanza per essere seguito da F.

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Lì nessuno mi disturbava e avevo una nuova amica che era la più brava delle fisioterapiste. F. Anche con D. diventammo buoni amici, aveva avuto un incidente in moto e qualche giorno di coma anche lui. Questo ci legava in modo particolare. Oltre ad essere il mio terapista divenne un amico a tal punto da portarmi a fare dei giri fuori dall’ospedale senza permesso. Fu così che conobbi

M.S., una bellissima ragazza allieva

fisioterapista con cui potei parlare nei momenti bui di questa avventura. Passavano i mesi e il parco del Santa Corona era tutto un fiore che a guardarlo veniva voglia di vivere. Con un’ora al giorno di postura i dolori si facevano sempre meno forti. Verso la fine di giugno per una volta riuscii anche a parlare perfettamente. “Speriamo non sia una cosa passeggera…” disse il fisiatra visitandomi. Fu in quel preciso istante che rividi l’ombra alle spalle del medico. Il fisiatra si accorse di qualcosa di strano e mi chiese se c’erano problemi. “No, no” risposi fissando l’ombra e il mattino seguente ero tornato senza voce. Un giorno D. fece regolare domanda di uscita dall’ospedale e mi portò al mare. Sarà stato il sole, tutte quelle gnocche in bikini o aver conosciuto A. , sta di fatto che fu una bellissima giornata. “Perché mi guardi così?” mi disse ad un certo punto A. “Sei bella” risposi. “Sì, una bella cozza!” disse lei scrollando le spalle.

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Parlammo molto , di me, di lei, proprio una brava ragazza che salutandomi mi baciò sulla bocca. “Vengo a trovarti appena posso”. Così fu. Un giorno, stavo per terminare la terapia con F. che arrivò per portarmi a fare un giro nel parco. Sapeva dove portarmi. E perché. Raggiunto un angolo appartato, che lei dipinse come il luogo segreto, senza tanti preliminari si tolse la maglietta, il reggiseno e la gonna. Il resto potete immaginarlo e anche se io dovevo portare indietro la testa per non salivarle addosso e lei aveva un alito che non era proprio alla menta, passai una mezz’ora da sballo. Ero talmente eccitato che non bastò una volta, lo rifacemmo e anche lei godé del mio corpo per la seconda volta. Dopo avermi mordicchiato la spalla per un bel po’ mi riconsegnò all’infermiere. Non la rividi più. Era un destino Per agosto tornai a casa, i saluti degli amici mi avevano quasi commosso, un primo cambiamento del Lupo. Non tanto le lacrime. ma il fatto di riconoscere come amici persone normali, per bene. Mia moglie una volta a Verona, si fermò in un negozio per la spesa della cena e, appena a casa, venne C. a trovarmi. “Picali, seto chi gha fato un cioco la settimana pasà?” “No, risposi, e gnanca me interessa…” “Ià catà la to amiga G. nen leto morta, la gavea ancora la siringa nel brasso…” disse lui. “Ci ghe che ga vendù la roba?” chiesi. Nel frattempo due lacrime scesero dai miei occhi.

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“Ma sa feto ? Piansito Lupo? Lera na drogada smarsa, no la valea un casso. E comunque non se sa niente ci le stà”. Sentendo quelle parole su G. mi trovai con un ghigno che aveva poco di umano. “Va via se no te sparo!” intimai, e lui se ne andò senza pensarci sopra due volte. Fu invece la moglie dell’ Ucia, un mio amico dei bei tempi a chiedermi se volevo fare un giro sul lago per accompagnarmi anche sulla tomba di G. Comperai delle rose gialle, trovammo una tomba tutta in disordine, Ucia la sistemò mentre io guardavo la foto di G. che sembrava sorridermi . A bassa voce bisbigliai qualcosa, fra me e lei: “Ti giuro G. che se un giorno Picali Massimo tornerà ad indossare la pelle del Lupo e farà sentire il suo ululato, tu sarai vendicata nel modo più cruento e violento possibile. Dovesse costarmi 30 anni di galera” Piansi. Poi arrivò Ucia e salimmo in macchina. Il 31 agosto tornai a Pietra Ligure. Uno strano ritorno a dire il vero, solo D. pareva contento di vedermi. Quella sera, e altre dopo, aprimmo una buona bottiglia in compagnia di alcune ragazze ricoverate con gravi problemi e tuttavia molto serene. Ma come facevano ad essere così? Alla prima visita in quel di Pietra Ligure mia moglie mi confidò di essere incinta, effetto collaterale del mese di agosto passato 32

insieme, mi disse anche che la direzione aveva deciso il mio trasferimento in quel di Negrar in provincia di Verona. Ospedale del Sacro Cuore. Prima di farmi ricoverare andai al cimitero a trovare G. Cercai di non piangere, di trattenere le emozioni…. E così fu. Il Lupo perdeva il pelo? A Negrar trovai un ospedale pulito e accogliente, un compagno di stanza rompipalle che di più non si poteva e che parlava in continuazione senza essere contraddetto, altrimenti… La visita del dottor T fu eseguita con un chiodo per la sensibilità. Dopo aver constatato che non avevo alcun problema, prospettò un recupero in tempi incredibilmente brevi. Proprio quella diagnosi mi fece balenare per la prima volta l’idea che io non avrei più camminato. La terapia riabilitativa prevedeva un lavoro sulle braccia affinché potessero sostenermi sulle parallele e poi un lavoro sulle gambe e pastiglie miorilassanti e sedativi. Più volte mi tornarono in mente le parole di Gemma “… tu devi camminare perché non hai una lesione al midollo… ce la devi fare…”. Nonostante ciò, il presentimento di una vita su una sedia a rotelle diventava sempre più forte in me. Al solo pensiero mi assaliva un senso di disperazione totale e nel frattempo in reparto le cose non andavano bene. La mia fama e il mio recente passato mi avevano preceduto, alcuni infermieri facevano finta di non vedermi per non darmi da mangiare, altri mi curavano senza rivolgermi la parola, ma come era successo in B.go Trento le cose cambiarono radicalmente quando cominciai a ricevere le visite dei miei amici.

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Con

i

fisioterapisti

invece

cambiai

io

atteggiamento

sottomettendomi a tutte le loro richieste, non che la cosa fosse facile, tuttavia ne ottenni grandi benefici. Aspettai il Natale del 79 per avere il permesso di tornare a casa, dove mi aspettava un bel bagno caldo. Dopo essermi lavato con l’aiuto di mia moglie e mio padre mi sembrava di essere più leggero di tre chili. A Negrar non si sprecavano per l’ igiene personale, mia moglie era in cinque mesi e i giorni scivolarono via normali fino al ritorno in ospedale dove avevano cambiato metodo di terapia. Dal “Boobat” si era passati al “Voita” che sfruttava i movimenti involontari provocati dalle controresistenze. Il responsabile della fisioterapia, convinto che non sarei mai riuscito a camminare, un giorno mi infilò delle scarpe ortopediche senza neanche allacciarle, fece portare un girello e disse: “Adesso vediamo cosa sai fare!” In non so cosa successe, ma appena in piedi, appoggiato al girello, senza alcuno sforzo riuscii a fare una ventina di passi camminando normalmente. I terapisti con il dotto C. in quel momento reagirono come quando i discepoli videro Gesù camminare sulle acque e la cosa sorprese anche me. Adesso cambierete terapia? Avevo chiesto ai medici e invece nulla. Solito tran tran delle parallele, recupero delle braccia e così via. Le cose miglioravano in palestra, così non potevo dire del reparto dove nel frattempo mi avevano cambiato stanza. L’infermiere F. , dal soprannome “lamerdachetace” un giorno portò una bottiglia di vino per un brindisi nella mia stanza e pensò bene di escludermi dalla bicchierata dicendo: 34

“El vin le mio e ghe lo dao a chi voi mì… e po tì te me ste sule bale!”. Il Piccoletto invece mi negò un klennex per pulirmi dal muco con cui mi ero imbrattato dicendomi: “No non te lo do mia! Rangete!”. Il 29 maggio 1980 nacque Marco, mio figlio, un bambino bello, sano e forte, alla faccia di tutte le malelingue che pensano: sedia a rotelle uguale impotenza. Nessuno di questi, però, si sognava di darmi la loro moglie per verificare cosa sapevo fare. Sarà stata l’emozione, la gioia o non so cosa, ma da quel momento ricominciai a vedere le sagome bianche e grigie dietro alcune persone. Le accompagnavano nei loro movimenti. Sempre quei giorni furono segnati da un paio di cosette che non riesco a dimenticare. La prima fu che il dottor T. mi comunicò le dimissioni definitive dall’ospedale gettandomi nello sconforto più totale: tutte le mie speranze di camminare si infransero su quella frase! Mentre lo raccontavo a due amici in carrozzella nell’atrio dell’Ospedale Don Calabria di Negrar, si avvicinò un “Fratello di don Calabria” che con tono arrogante ci intimò di spostarci da lì. Non eravamo decorativi! Così disse, paragonandoci a vasi di fiori. A vasi di fiori appassiti, per giunta! Decisi di non spostarmi! Il giorno seguente fui visitato da un paio di medici dell’ A.I.A.S. che mi assegnarono per la terapia ad una palestra vicina a casa mia.

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Fu lì che conobbi F., una fisioterapista non bellissima, magrolina. Stava nel mazzo. Con lei imparai a camminare appoggiandomi sulle sue spalle, io per farla sentire importante ogni tanto la toccavo, ma lei si ritraeva. Ma le piaceva, ne ero sicuro! E un giorno si alzò la gonna e mi mostrò le mutandine. Erano di un bianco candido, a forellini quadrati che facevano intravedere il pube nerissimo. “Belle vero?” Da quel giorno fummo grandi amici, ma a parte questo facevo pochissimi progressi oltre al sesso. Una volta mi infilò le mani nei pantaloni della tuta e mi toccò in fretta, non c’era tempo perché stavano rientrando le colleghe di F. Il giovedì pomeriggio, però, quando eravamo soli, mi masturbava sempre. Un giorno mi raccontò di essere incinta. Una gravidanza a rischio. Poi mi affidarono a E., brutta, grassoccia e per nulla simpatica. Nel frattempo mia moglie aveva fatto domanda all’AGEC per avere un appartamento più grande visto che era nato Marco. Così cambiai anche palestra. Decisi allora di arrangiarmi, chiesi a mio padre di comperare un girello per camminare e iniziai a lavorare a casa. Da quel giorno e per parecchi anni la mia vita fu abitudinaria e noiosa, rifiutavo il mondo e la gente, non riuscivo a concepire il mondo al di fuori del mio appartamento. Ore 9.30 sveglia. Ore 10 igiene personale. Ore 10.30 ginnastica con mio padre. Ore 13.30 televisione fino a sera.

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Sabato notte amplesso coniugale. Avanti così per cinque lunghi anni. Sveglia, igiene personale, ginnastica con mio padre, televisione fino a sera, sabato notte… Sveglia, igiene personale, ginnastica con mio padre, televisione fino a sera… Sveglia, igiene personale, ginnastica con mio padre… Sveglia, igiene personale… Sveglia… Poi ci fu una telefonata da M. che mi invitava ad una gita organizzata per i disabili. Mia moglie e mio padre ebbero un bel lavoro per convincermi ad andare e alla fine andai. Io, Picali Massimo, detto il Lupo, seduto su una sedia a rotelle, immobile ed indifeso, in mezzo a tutte quelle persone che per anni avevo terrorizzato.pullman alcuni gridavano in continuazione, altri sbavavano, altri ancora chissà cosa… Avrei voluto piangere dalla disperazione. “Perché quella faccia da funerale?” mi chiese M., “questo è anche il tuo mondo!” “Bel mondo di merda!” replicai rimpiangendo di non essere morto, di non aver avuto il coraggio di uccidermi quelle volte che avrei potuto. Fu a quel punto che M. mi prese la mano , se la appoggio sul seno e mi baciò. Io per paura di esser abbandonato nel bel mezzo di quel mondo deforme e infermo la assecondai. Niente male pensai. Il pullman partì al barrito di una mandria di elefanti impazziti che eravamo noi.

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Giunti sulla neve una spastica era così felice che continuava a ridere e ad urlare: “E’ la prima volta che vedo la neve…”, sta di fatto che una volta in corriera defecò e urinò nei suoi pantaloni. Una puzza terrificante a tal punto che bisognava respirare con la bocca. E apnea. In albergo i volontari ebbero il loro bel daffare a portarci su e giù dalle stanze assegnate. Il mio handicap mi pesava molto meno ora che avevo visto i miei compagni di viaggio. Così, lontano da Verona, senza il rischio che qualcuno mi riconoscesse, iniziai quello che nel tempo avrei definito un processo di accettazione e consapevolezza. Il Lupo per tornare quello che era, doveva accettarsi per quello che era diventato! Non avrei mai pensato di divertirmi in quella situazione e invece… da quel momento iniziai a frequentare assiduamente il gruppo. A dire il vero iniziai a frequentare anche un mago che a suo dire per la modica cifra di 20.000 lire a seduta, (si parla di 25 anni fa) avrebbe fatto il miracolo di rimettermi in piedi. “Vedrai, mi disse, in un paio di mesi torni meglio di prima!”. La seduta durava venti secondi e alla fine dei due mesi chiesi spiegazioni sul fatto che non si vedeva nessun miglioramento. “Ci vogliono i miei poteri speciali per questo caso…”, poteri da 50.000 lire a botta. “Vaffanculo ti e i to poteri de merda!” Quando uno sta male si beve il cervello e crede ad ogni cretino che gli promette la guarigione. C’ero caduto anch’io. 38

Dopo sette anni avevo perso ogni speranza di camminare! Un giorno venni chiamato al Palazzo della Sanità per una visita di controllo. Il medico mi chiese se avevo camminato dopo l’incidente. Alla mia risposta si meravigliò e propose una visita da un fisiatra interessato ad un caso del genere. Venni ricoverato nell’ospedale dove ricevetti il miglior trattamento possibile: B.go Trento. Mi facevano il bidé tutte le mattine, mi preparavano il caffé con la moka e, siccome ero il più giovane, ricevevo un trattamento speciale anche per il pranzo e la cena. In palestra le terapiste mi erano simpatiche e il sentimento era contraccambiato, perché la fama del Lupo si era attenuata. I miei vecchi compari della malavita erano tutti morti e soprattutto avevo messo da parte il mio atteggiamento strafottente, arrogante, violento ed egoista. Prima di parlare ci pensavo due volte. Furono dieci mesi di progressi, ma di camminare da solo, anche con le stampelle, non se ne parlava. L’Hellas Verona vinse lo scudetto, tutta la città ne fu contagiata. Io pure ascoltavo le partite alla radio. Se l’Hellas perdeva mi trovavo così sconfortato che non riuscivo nemmeno a fare ginnastica, ero in balia anche di queste suggestioni come capita a chi è fragile. Ma quella dell’Hellas Verona fu una bella storia per la città . Per camminare tentai anche con l’ipnosi. Il Parroco venne a farmi visita proponendomi delle sedute da un salesiano che stava ad Oderzo , in provincia di Treviso. Ogni 39

mercoledì io, mia moglie e il piccolo Marco andavano da Don F. che mi faceva entrare in uno stato di ipnosi tale da produrmi un rilassamento totale della muscolatura. Normalmente ero sempre tirato come una pelle di tamburo sul rullante della batteria. Alla terza seduta mi propose di passare dall’ipnosi leggera a quella profonda per indurmi a camminare. Non vedevo l’ora! Mi fece entrare in una fase di coma leggero e mi fece immaginare di camminare. Io come in un film mi vedevo realmente camminare per le vie di Verona. Ad un certo punto mi trovai con la faccia e il corpo schiacciato contro il muro, alla fine del corridoio. Presi spavento nel ritrovarmi là e mia moglie, che mi aveva seguito con la carrozzella, mi prese in tempo per evitarmi una caduta. Tra i presenti esplose una grande euforia, tuttavia io non ricordavo nulla dei 50 metri di passeggiata, nè delle flessioni fatte con le gambe. Purtroppo tutto ciò si verificava solo in stato di ipnosi profonda e dopo alcuni mesi capii che avevamo fatto un altro buco nell’acqua. Quella volta la delusione e lo sconforto furono forti. Molto forti. Sopraggiunsero anche problemi finanziari per la mia famiglia, il conto corrente pur notevole si era prosciugato anche perché mia moglie, per seguirmi, aveva lasciato il lavoro e Marco frequentava ancora la scuola materna. Picali Massimo, detto il Lupo, dopo aver sperperato centinaia di milioni in stupidaggini e donne, ora era in grave situazione di indigenza, costretto a vivere del sussidio del Comune e con una misera pensione di invalido civile. 40

Anche la San Vincenzo del Paoli ci aiutava con una spesa di generi alimentari molte volte scaduti e il parroco ci portava un po’ di soldi. Questi diceva sempre che non dovevo ringraziare, era la comunità che mi ringraziava perché le permettevo di aiutarmi. Si poteva essere più buoni e caritatevoli di don R? No, non si poteva! Non parlai più con vanto del mio passato, anzi quella vita mi creava imbarazzo e me ne vergognavo. In una delle sue visite serale don R.Z. mi propose un pellegrinaggio a Lourdes offerto da un benefattore della Parrocchia. Non sapevo cosa dire, non sapevo bene di cosa si trattasse. Così don R.Z. mi spiegò della grotta di Massibel, di Bernadette e delle apparizioni. Per non contrariarlo finsi un entusiasmo che non provavo, tuttavia mi trovai in treno con mio padre e mia madre: direzione Francia. Lourdes. Durante il viaggio, scomodissimo e massacrante, conobbi suor Luigina una donna affabile che volle sapere tutto di me. Io le raccontai dell’incidente, del coma e della riabilitazione, lei della sua vocazione. Non capivo. Non capivo affatto come una donna bella e desiderabile quale lei era avesse potuto farsi suora. Un viaggio lungo un giorno, 24 ore in treno e poi un gelido alloggio, così come il tempo di quella settimana. Freddo e pioggia,

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freddo e pioggia, nell’aria qualcosa che non sapevo definire, ma che si sentiva: la certezza dell’autenticità! Il miracolo era avvenuto veramente e io ne ero testimone. Non quello dell’apparizione, quello no, ma non vi era alcun dubbio che qualcosa era avvenuto e si ripeteva ogni giorno. Il miracolo della fede che migliaia di persone testimoniavano attimo dopo attimo. Per le apparizioni e tutto il resto i dubbi mi rimasero. Il pellegrinaggio fu di una noia mortale, il cibo era uno schifo, in galera era migliore, e di notte non chiudevo occhio fra grida, strilli e russare in continuazione. Conobbi molta gente fra cui la signora C.R., benestante, che non mi rifiutò mai una volta un prestito. Fra gli altri conobbi un guaritore e sua figlia Anto, che mi proposero alcune sedute di ipnosi collettiva a Lugagnano vicino a Verona. Andai. Entrammo nello scantinato allestito da sala d’attesa e mi sorprese non poco l’adagio di Albinoni. Attendemmo a lungo il nostro turno e quando venne il momento entrammo in un ufficio provvisto di civette, amuleti, feticci e cose strane provenienti da ogni parte del mondo. C’era pure, appeso ad una parete un diploma in medicina dello stato argentino. G.Z.P. volle sapere tutto del mio stato fisico e psicologico, mia moglie si spiegò come meglio non avrebbe fatto nessun altro, così come raccontò dei nostri problemi finanziari. Poi G.Z.P. controllò la T.A.C. che liquidò con un “… non c’è nessuna lesione quindi… tornerai a camminare!”

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“La ringrazio” risposi, ma sapevo perfettamente che la cosa non era possibile. A quel punto fui accompagnato in una stanza dove erano in funzione dei piccoli monitor con una luce blu intermittente. Servivano a stimolare i lobi cerebrali così come i suoni provenienti delle cuffie che mi vennero applicate. Fu quello il momento in cui alle spalle di G.Z.P. tornai a vedere una di quelle figure. Una di quelle ombre bianche che non vedevo da un pezzo. La sagoma precisa di un uomo sulla quarantina. Naso aquilino, alto un metro e settanta e vestito con una tunica bianca da antico romano. G.Z.P. si accorse che ero sbiancato improvvisamente. “Un’allucinazione” mi giustificai mentre provavo a comunicare tramite il pensiero con l’ombra senza riuscirvi. Dopo un quarto d’ora ero pronto per la seduta collettiva. Ci disponemmo in cerchio e tranne un senso di rilassamento non mi accadde nulla di particolare. Ad altri invece capitava di tutto, chi piangeva, ballava, sferrava pugni nell’aria a vuoto, quasi a mimare i loro traumi. Le paure. Le ossessioni. Come alla bimba che aveva subito violenza sessuale. Ad un certo punto G.Z.P. ci ordinò d’intrecciare le mani, dicendo che non si sarebbero più sciolte. Così avvenne, non riuscivo, come gli altri del resto, a staccarle… Alla fine della seduta G.Z.P.

venne da me

e mi ordinò di

camminare con le mani appoggiate sulle sue spalle. Grande fu lo stupore fra i presenti. Vedere un uomo giunto in carrozzella camminare in quel modo dopo la seduta era certo di gran effetto e alcune persone gridarono al miracolo.

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Io lo facevo ogni mattina con mio padre quel miracolo! Anto, la figlia del guaritore, mi baciò sulla bocca con disappunto di mia moglie. G.Z.P. aprì una bottiglia per brindare ai suoi poteri paranormali ed io non dissi nulla. La cosa andò avanti per parecchie settimane e la mia passeggiata riscosse parecchio successo fino ad avere anche un articolo sul giornale nazionale. Anche Anto era entusiasta e un giorno mi confidò di essersi innamorata di me. Appena fossi stato in grado di camminare avrebbe fatto l’amore con me. Era ancora vergine, e un’ombra grigia si definì perfettamente. Alle sue spalle. Rabbrividii. Il rapporto fra me e Anto fu del tutto platonico perché in quel periodo mia moglie fu colpita da un violento esaurimento nervoso dovuto alla totale dedizione alla mia persona. Ormai erano passati 12 anni dall’incidente e della tanto auspicata autosufficienza nemmeno l’ombra. Dovevo essere aiutato in ogni cosa a parte accendermi una sigaretta. Per esempio il cibo era un problema, tagliare la carne, usare forchetta e cucchiaio. Niente. Avevo sempre bisogno di mia moglie, anche per andare al bagno a pisciare e per il resto. Sentivo gli stimoli, ma chi mi portava sul water e chi mi lavava? E mi puliva? Lei, sempre lei, così forte e altruista. La mia vita dipendeva da lei. Lei, sempre lei, così forte e altruista, ma così fragile da assorbire nel suo cuore tutte le infezioni e i malanni che incontrava sulla strada facendosene carico. 44

Questa era la verità. Il suo esaurimento nervoso, in un primo tempo imputato al mio stato , in realtà proveniva dallo scantinato di G.Z.P. Le disgrazie, la sofferenza, il dolore si assommavano al mio problema. Una miscela terribile. Capito tutto ciò e visti i risultati, rinunciai alla terapia di ipnosi collettiva. Nel 1989 la mia condizione di grave tetraparesi spastica si andava stabilizzando. Non così il mio umore che passava dalla rassegnazione alla disperazione che invocava una fine vicina anche se dolorosa. A volte non ne potevo più! Don R.Z. mi propose di andare allo stadio per vedere le partite di calcio del Verona. Fu così che mi trovai, accompagnato da un volontario, in prossimità del Bentegodi dove potevo assistere a scene di guerriglia urbana. Le opposte tifoserie se le davano di santa ragione, il volontario voleva allontanarsi, ma io gli dissi che non avevo paura. Anzi! Mi eccitava l’idea di trovarmi con l’adrenalina dei bei tempi del Lupo. Provai per un attimo le stesse sensazione di quando mettevo in gioco la vita in pericolose malefatte di ogni sorta. Verona Milan finì 1 a 0 per l’Hellas. Vidi la partita sistemato nella zona riservata agli spastici. Ne vidi parecchi muoversi agevolmente da soli guidando carrozzine elettriche. “Come è andata?” chiese mia moglie. 45

“Benissimo” rispose il volontario, dicendole che da quella domenica tutte le volte che il Verona giocava in casa mi avrebbe accompagnato allo stadio. Io, quella sera, mangiai poco e andai a letto molto presto. Negli occhi, nei pensieri e nei sogni si erano ormai intrufolate quelle curiose carrozzine elettriche che mi avrebbero di lì a poco cambiato la vita. Il giorno dopo ne parlai a mia moglie. Volevo una di quelle carrozzine, lei non era d’accordo. Dopo il mio incidente aveva rinunciato ad andare in macchina. La spaventava ogni cosa. Tutto. Tutto. Lei non capiva: io avrei riconquistato la libertà! Durante una di quelle gite con il gruppo conobbi Ilenia e ci provai a filarmela. Eravamo d’accordo su tutto e mi sembrava che potesse starci anche se c’era il marito ad accompagnarla. Mi sbagliavo. Ad una mia battuta mi liquidò con un bacetto sulla guancia. Una cosa da fratello e sorella, ma fissandola vidi nuovamente una di quelle figure dietro di lei. Questa volta bianchissima. Una donna di mezza età, capelli corti. Queste apparizioni erano sempre più frequenti, cominciavo a pensare che fossero veri e propri spiriti. Il coma profondo mi aveva forse aperto canali di percezione sconosciuti? Un brivido mi attraversava quando vedevo ombre scure o grigie o nere, l’esatto contrario di quando le sagome erano bianche. Merano, Viareggio, Venezia … tutte gite bellissime in compagnia del gruppo.

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Tornando da Venezia

il Parroco mi annunciò la telefonata

dell’Assistente sociale di zona che mi avrebbe proposto di partecipare ad un corso per computer. Il centro studi Don Calabria, con il patrocinio della Regione Veneto, aveva organizzato un corso di computer per disabili cerebrolesi. Io lo ero a tutti gli effetti. Partecipai ai test di ammissione che mi sembrarono una gran cavolata, così come il successivo colloquio. Il corso iniziò ai primi di dicembre. Due mesi, cinque giorni alla settimana, sei ore al giorno. Tre alla mattina e tre al pomeriggio, al martedì e al giovedì. Gli altri giorni solo al mattino. Per la pausa pranzo blocchetto dei buoni pasto. Videoscrittura con Wordstar e foglio elettronico Lotus. Pronti? Via! Fin dalla prima lezione mi resi conto che il trauma cranico e gli otto mesi di coma avevano diminuito le mie facoltà intellettive. Soprattutto la memoria a breve termine era un problema. Non trattenevo le nozioni imparate da poco, infatti nonostante leggessi molte volte anche una sola riga, dopo venti secondi non la ricordavo più. Passavo ore e ore ripetendo un comando o un nome e quando sul più bello credevo di ricordarlo, mi distraevo un attimo e… Era diventata la mia ossessione. Mi svegliavo anche di notte e pensavo per ore a quel nome che non tornava a galla. Sepolto nell’oceano del cervello. Esausto da questi continui tentavi che andavano a vuoto decisi di fare così: visto che la memoria a lunga distanza non era stata

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compromessa, provai ad abbinare un comando

del computer ad un

nome del passato che io conoscevo e ricordavo. “Format?” FOREMAN! Sì, Foreman il grande pugile del passato, l’ex campione mondiale dei pesi massimi. “Lotus?” LOTUS! Sì, Lotus la macchina che correva in Formula 1. E

avanti così, fino a quando capii che il sistema poteva

funzionare. Il profe di Informatica, un certo signor Z., mi apostrofava con un vezzeggiativo piuttosto umiliante: Tordolino . Un giorno gli risposi secco che doveva provare lui a passare otto mesi in coma profondo! Avrei voluto vedere come ne usciva, il Professore! Otto mesi: andata e ritorno! Questa era la mia vita oggi. Il ritorno. Il giorno che il prof. Z. si rese conto dei miei progressi disse: “Complimenti, in qualunque modo tu ci sia riuscito, stai facendo un buon lavoro…” Continuai ad apprendere e a lavorare, e fu proprio uno dei giorni in cui lavoravo a tempo pieno che uscendo dal Centro studi del Don Calabria, sentii una voce chiamarmi. Mi voltai e con stupore riconobbi quel fratello che mi aveva umiliato dicendomi che dovevo spostarmi dall’atrio dell’ospedale di Negrar, perché io non ero “decorativo”. Ve lo ricordate no? 48

Beh, io sì! “Cosa fai qui?” mi chiese e gli spiegai del corso e di tutto il resto. “E come stai?” chiese ancora. Non sto bene, risposi, ero rigido con la schiena e avevo bisogno di un po’ di ginnastica. “Se vuoi, concluse, parlo con il dottor C, che è responsabile della piscina che c’è qui vicino e vediamo cosa si può fare.” Dopo avergli dato il mio numero di telefono, lui promise il suo interessamento. Strane le persone! Quando cataloghi uno alla “s” sotto la voce “stronzo” e poi ti fa una gentilezza gratuita, metti in dubbio anche quelle poche certezze che hai. Conclusi che era meglio non pensarci e prendere dalla vita quel che poteva darti. Ero di bocca buona. Ma quel giorno non finì lì. Tornando a casa incrociai una delle tre sorelle che abitavano nell’appartamento vicino al mio che si rese disponibile ad aiutarmi nello studio. Aveva sentito dei miei problemi e con la sua maturità Magistrale appena conseguita poteva aiutarmi. Stefi non era né magra né grassa, non una vera e propria “gnocca” , ma una bella ragazza. Alle 16 si presentava a casa e mi salutava con un bel bacio sulla bocca, cosa che a mia moglie non piaceva tanto, anche se io apprezzavo molto: ogni volta andavo in brodo di giuggiole… A forza di studiare con Stefi mi sembrava di avere meno difficoltà a ricordare, l’esercizio continuo mi faceva bene. Fu un venerdì che mi chiese di andare a fare un giro. “Senti Massimo, domani io sono libera, andiamo a fare un giro con la tua sedia a rotelle?”

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Scherzando risposi che dovevo consultare l’agenda degli impegni , infine, simulando per scherzo chissà quali appuntamenti, ci accordammo per le 10 del giorno dopo. Mia moglie non era d’accordo, ma fece buon viso a cattiva sorte. Il giorno dopo ero pronto: una bella giornata di sole ci attendeva. “Dove vuoi andare?” mi chiese. “Al villaggio dell’Oca” risposi. Mi era venuto in mente che Ucia, mio amico, sapeva che in un bar del quartiere più malfamato di Verona lavorava una mia vecchia amante. L.B. Volevo rivederla, lo chiesi senza indugio a Stefi che mi portò là. Dopo 14 anni, lì per lì, mi salutò con un po’ di distacco ma dopo disse “Sono io, ti ricordi?” Guardavo dentro i suoi occhi grandi. Sì , mi ricordavo, ero lì per quello! E poi in dialetto veronese disse ai clienti del bar: “Butei, se gavì voia de ber, toltivene da soli, mi par un poco gho da far!” Parlammo di tutto, di lei, di come si era sposata, di suo figlio e del sogno di avere da me una femmina. Le raccontai di me. Senza lamentarmi. Alla fine conclusi con: “Cara L. de bon me resta solo l’osel e el servel… e serco de tirar fora el meio da tuti e do” Trangugiai il secondo Martini rosso e tornai a casa. Stefi il sabato successivo mi avrebbe riportato da L. Giunse anche il giorno della visita dal dottor C., quello della piscina. Dopo un controllo e un colloquio

concluse che il mio

problema era l’equilibrio e che il lavoro in piscina poteva risolverlo. 50

Durante i saluti vidi dietro di lui materializzarsi la sagoma di un bambino di nove o dieci anni. Una sagoma bianca. Immacolata. Cambiai espressione a tal punto che il dottore mi chiese se andava tutto bene. “Tutto bene” risposi, “non si preoccupi!” Da quel giorno frequentai la piscina per un paio di mesi, conobbi la fisioterapista. La mia B. a volte aveva un alitosi tremenda, tanto che credevo di entrare in una vasca di uova marce. Ma per fortuna non era sempre così! E poi facevo dei progressi, e poi c’era F. F. mi faceva impazzire. Era quel suo modo di stare a bordo vasca, con le gambe aperte, il costume sgambato. Insomma… non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Il corso di computer e il lavoro in piscina si conclusero nello stesso periodo senza risultati apprezzabili in entrambi i casi. Eravamo ormai arrivati alla fine del 1991, continuavo a ricevere le visite di Stefi che mi aiutava con la ginnastica e questo aveva risvegliato l’appetito sessuale di mia moglie, che da una scopatina e via al sabato sera, era passata a volerlo fare tutti i giorni. A me andava benissimo… Le visite di Stefi si interruppero quel giorno che mia figlia ci sorprese in flagrante. Stefi si era seduta sulle mie gambe e io avevo cominciato a toccarla proprio quando Mara, mia figlia, uscì dalla sua stanza urlando: “Cosa fate sporcaccioni, appena torna la mamma glielo dico!” E io che pensavo di essere in casa da solo! 51

Stefi filò subito a casa sua e quando mia moglie fu informata dell’accaduto da Mara mi disse: “Massimo, io non do la colpa a te, se una ti si siede sulle gambe tu non puoi alzarti e andartene, però la prossima volta che quella lì viene a casa nostra, trova una scusa e le dici gentilmente che il suo aiuto non è più necessario. E’ meglio che se ne resti a casa sua.” “Non intendo rinunciare alle passeggiate con Stefi” ribattei. “Se è così” disse mia moglie, “ti lascio comperare la carrozzina elettrica. Basta che quella non metta più piede a casa mia.” Già il giorno dopo mi spiegai con Stefi e lei mi disse che se volevo vederla l’avrei trovata a casa sua ogni pomeriggio. Poco prima della feste di Natale del 1992 le signore della S. Vincenzo de Paoli mi portarono a casa un computer nuovo di zecca. Le ringraziai di cuore, da quel giorno avrei potuto esercitarmi a casa per imparare nuovi programmi. Parlando del più e del meno confessai a queste signore il mio sogno della sedie a rotelle elettrica e loro subito pensarono di interessarsi presso l’USL. Parlarono con la responsabile del Distretto e fissarono l’appuntamento con il fisiatra che avrebbe stabilito se ero in grado di manovrare una sedia a rotelle elettrica. La dottoressa Raimondi mi invitò ad andare nella palestra dove c’era una sedia a rotelle elettrica da provare, per valutare cosa riuscivo a fare e, vista la mia abilità disse: “Si vede che hai guidato le moto di grossa cilindrata” dopodichè compilò un modulo e la domanda. L’USL aveva 40 giorni per rispondere. 40 lunghissimi, interminabili giorni. 52

Quaranta trentanove trentotto trentasette trentasei trentacinque trentaquattro trentatrè trentadue trentuno trenta ventinove ventotto ventisette ventisei venticinque ventiquattro ventitrè ventidue ventuno venti diciannove diciotto diciassette sedici quindici quattordici tredici dodici undici dieci nove otto sette sei cinque quattro tre due uno zero. Dopo dei quali non accadde nulla, i giorni erano passati invano. Sembrava che la risposta fosse negativa perché quello era il limite per l’accoglienza della domanda. Allo zero mia moglie prese il telefono rincorrendo impiegati per mari e monti. Un impiegato ci riferì che la domanda era stata accolta: bastava informare la sanitaria. Facemmo così, e in una quindicina di giorni la carrozzina elettrica fu consegnata a casa. Volevo provarla subito, una specie di agitazione mi aveva preso lo stomaco che sembrava pieno di farfalle, ma S. , il tecnico, disse che avremmo dovuto caricare la batteria. Sei ore per la carica. Quel pomeriggio non riuscii a chiudere occhio. Alle 16 giù in giardino e via, su giù per vicoli e aiuole, e poi il cancello… chiesi a mia moglie di aprirlo. Lei sulle prime non voleva. Aveva paura. Paura di che? La mia vita era stata una prigione, una prigione molto più grave e triste di quelle che mi avrebbe aspettato se avessi continuato a vivere “ da normale”. Da Lupo della malavita veronese. Molto più profonda di una gabbia con le sbarre. Quel cancello chiuso doveva essere aperto. Mia moglie non capiva, forse perché non sapeva, ma alla fine aprì il cancello e d’un colpo la mia vita cambiò. 5 km all’ora, per cinque ore filate. Maneggevolissima. Non avevo nessun problema, del resto come avrebbe potuto averne uno 53

che aveva solcato l’asfalto del circuito di Imola con una Benelli 350? Ottavo tempo da indipendente pur rompendo il motore all’ultimo giro! E

fughe e inseguimenti con le

gazzelle della Polizia

e

depistaggi con le pantere dei Caramba. Tutto uno zoo di animali braccati, prede, uomini lasciati ai margini. Avevo vinto ogni volta, non avevo conosciuto la galera, almeno in quelle occasioni. La sedia era un giocattolo, soprattutto per uno come me che non aveva più un grande interesse per la vita. Mi divertivano le gimcane fra i semafori, un po’ di sale nella vita non guasta mai. Quella prima volta mi fermai al bar per una birretta e con calma, con molta calma, tornai verso casa. “Susy , Susy: le rivà…” così avvertivano mia moglie già a mezzo chilometro di distanza. Il tam tam delle comari del quartiere aumentavano l’ansia di mia moglie che, al mio arrivo, trovai preoccupata oltre misura. “La maggiore età l’ho superata da un pezzo. Ricordalo!” tagliai corto, per farle capire che nulla al mondo da quel momento mi avrebbe fermato. Nel letto mi addormentai subito, sopraffatto più dai sogni della carrozzella che da quelli della possibile gravidanza di mia moglie. Forse un nuovo figlio avrebbe costellato la nostra vita, ma l’autonomia degli spostamenti era un’eccitazione irresistibile. Il mattino seguente pioveva. Per quanto mi riguardava erano due gocce che a mia moglie sembravano un uragano. “Dopo il caffé esco per un giretto…” dissi io. “Se lo fai esco anch’io e non so se torno a casa” concluse lei con la consueta minaccia nel tentativo di ottenere qualcosa. 54

A quel punto prese Marco il più piccolo dei nostri figli e disse: “Guardami bene perché questa è l’ultima volta che mi vedi!” “Ma dove cazzo va quella lì, con tutti i disturbi che ha non la vuole neanche l’ospizio…” dissi a Mara, mia figlia, mentre mi apriva la porta dell’ascensore. Decidere da solo dove cazzo andare, era un’emozione maggiore di quando uscii dal riformatorio. Nulla mi fermava: avevo il mondo in mano. Ancora una volta. Raggiunsi il bar di Borgo Nuovo dove lavorava L. che si stupì nel vedermi senza accompagnatrice. “Ma come hai fatto?” “Adesso ho la carrozzina elettrica cara mia. Mi arrangio!” Passammo tutta la mattina a chiacchierare e quello che L. doveva dirmi era davvero sconvolgente. una volta entrato in coma lei si accorse di essere incinta. aspettare un figlio da me non se l’era sentita. con un padre in coma. quindi si affidò ad un ginecologo di udine che la fece abortire in quattro e quattr’otto. e poi lo squallore di venir abbandonata dall’infermiera, nella sala d’attesa della stazione di udine ancora rincoglionita dall’anestesia totale. e un viaggio in treno senza ricordi . fino a verona. e un male tremendo.dentro un silenzio di ghiaccio. L. mi riaccompagnò a casa visto che ero incerto sul percorso e mi salutò con un bacio in bocca. Con la lingua. Io le promisi che sarei andato a trovarla, e non solo perché mi aveva aiutato a pisciare. A casa trovai le due partigiane delle mie figlie, Cecilia e Mara. Stravedevano per la loro madre, mentre io ero una merda prima che lo sciacquone la sbatta nella fogna. 55

“C’è un panino se vuoi. In cucina, sul tavolo.” “Dammi un marsupio, chiesi a Mara, e un sacchetto per il pappagallo così mi arrangio a pisciare anche per strada!” dopo un attimo ero di nuovo fuori. Per strada. Paninoteca,

paninazzo

doppio

al

lardo

pancettato,

due

Valpolicella Superiore Marlboro e caffé. Magnifico, anche perché tornando vidi sul tram dell’ AMT mia moglie con il piccolo. Mi salutarono. Le era passata. A casa litigammo perché ero bagnato fradicio, perché potevo prendere l’influenza ecc. ecc. ma ogni tanto faceva bene. Don R. Z. in quei giorni mi ripropose il viaggio a Lourdes. Per nulla convinto accettai, pensando che avrei sollevato mia moglie nell’assistenza per qualche giorno. Raggranellai, chiedendo ai parenti, qualche soldo per dei vestiti nuovi, un paio di tute da passeggio e scarpe. Tanto da non fare brutta figura! Nel frattempo le sagome bianche e grigie e nere si facevano sempre più insistenti, soprattutto quelle grigie mi mettevano freddo in tutto il corpo. Anche i brividi sentivo con quelle grigie. Ma nulla erano queste sagome in confronto con quello che accadde a Lourdes. Partii per la Francia un lunedì dell’Angelo e subito dopo il viaggio, appena giunti a Lourdes conobbi Claudia. Magra, piccola, carina. Ero alloggiato nell’albergo dei Sette Dolori e al termine della cena Claudia mi offrì una sigaretta, accettai di buon grado e da qual momento fummo inseparabili. Durante una celebrazione, in prossimità della grotta, la pioggerellina cadeva copiosa. D’un tratto le gocce si trasformarono in 56

pioggia di sangue, appena le gocce toccavano per terra un alone rosso si spargeva tutto intorno. Allucinazione? Presagio di un’imminente guerra? Non lo saprò mai. Nell’aria sangue, gocce di sangue. Solo pochi attimi, ma pieni di terrore. Come in guerra. Il giorno prima di rientrare

in Italia, un’altra cosa mi colpì

durante la celebrazione. Ero annoiato, con la Messa non andavo tanto d’accordo, mi stancavo, guardavo Claudia. Intensamente. Per quindici secondi sopra di lei si disegnò un disco d’oro . Un’aureola come nei santi dei quadri. Subito pensai fosse un riflesso del sole. Non fu così, infatti dopo un po’ altre macchie tonde, sempre dorate aleggiavano sopra di lei. Dentro l’oro vi scorgevo alcune macchie nere, di diversa forma e intensità. Forse sbagliavo, continuavo a dirmi, era il sole o un riflesso. Distolsi lo sguardo da Claudia e, mirando verso un addetto alla manutenzione, ritrovai quella forma tondeggiante di color oro. Anche in questa aureola vi erano della macchie nere, ma più evidenti e marcate di quelle viste prima sul capo di Claudia. L’uomo, sentitosi osservato, mi fece un gestaccio e finita la messa Claudia mi accompagnò al bar per un Martini. Stai male? chiese, sottolineando che ero bianco come uno straccio. Risposi che andava tutto bene. Se le avessi raccontato delle visioni mi avrebbe preso per matto, tuttavia ricordo la fatica di concentrarmi in quel modo che a quel punto non ero più in grado nemmeno di prendere un bicchiere d’acqua. Qualcosa di strano mi stava accadendo, ma cosa? Durante il viaggio di ritorno l’esperienza delle aureole non mi lasciava tranquillo. Riprovai a concentrarmi su alcune persone per vedere se succedeva qualcosa. In effetti, pur con molta fatica, riuscivo 57

a mettere a fuoco molte macchie prima dorate e poi nere. Sopra un malato di tumore il cerchio era quasi completamente nero. Una sorta di eclissi, così come forse era diventata la sua vita: oscurata dal male incurabile! Forse le macchie nere indicavano le malattie più o meno gravi presenti nelle persone che incontravo? Fu così che, quando mio padre venne a prendermi in stazione, mi concentrai anche su di lui. Cercavo di guardarlo di nascosto, anche se mia moglie si era accorta che qualcosa non quadrava. Sopra di lui una macchia dorata solcata per metà da una parte nera. Mio padre disse che stava bene e che non gli rompessi i coglioni con certe storie, che già mia madre… e quella tosse non era niente di grave. Parlai a mia moglie quando fummo a casa da soli e, siccome sapeva delle mie visioni di ombre, non faticò a credermi, anzi informò don R.Z. che, ascoltato il mio racconto, mi consigliò di recarmi da un prete suo amico. Lo contattammo e avemmo un appuntamento con lui dopo qualche giorno. Abitava come un eremita, in una casa diroccata fuori dal centro abitato. Non era un parroco. Un uomo freddo sulle prime, che abitava in una casa spoglia, ridotta la minimo. Le poche parole che pronunciò furono per sapere lo scopo della nostra visita e mia moglie raccontò la vicenda. “E così tu saresti in grado di vedere l’aura delle persone?” chiese il prete. “Non so se ciò che vedo è la loro aura, risposi, io non so nemmeno cosa sia questa cosa che dice lei… per me sono allucinazioni o fantasie.” “Saresti in grado di vedere la mia aura?” 58

“Ci posso provare, se mi concentro”. Dopo qualche secondo iniziai a vedere due sagome dietro di lui, una bianca e l’altra grigio topo. Questa ultima, proprio brutta da far paura. Nel vedere le due sagome contemporaneamente quasi svenni per lo sforzo e il timore, ma il prete sedicente esorcista disse che con lui queste cose non attaccavano e di imbroglioni come me ne aveva visti tanti. “Insomma cosa avresti visto, sentiamo…” Lo fissai con gli occhi sbarrati e risposi: “Non ho visto nulla di eccezionale, la sua aura è come quella di tanti altri, in compenso posso dirle che nel suo profondo lei è combattuto tra il bene e il male.” Il prete in evidente imbarazzo mi chiese perché dicevo questo e al termine della mia spiegazione ci chiese di andarcene. Tornammo a casa delusi per il comportamento del prete e scrollando le spalle pensai, ma va fare in culo te e tutti gli esorcisti! Con mia moglie all’ottavo mese e i soldi che non bastavano mai, un giorno decisi di andare da mia zia a chiederle un aiuto. Lei abitava nella zona di San Luca e così, dopo un Alexander bevuto sul Liston, mi recai dalla vecchia che sganciò centomila lire. La vecchia sembrava provarci gusto nel farmi pesare quello che faceva per noi ed io, mio malgrado, ero costretto ad assecondarla anche quando parlava male di mia moglie. La zia, nonostante i suoi soldi, non era degna nemmeno di baciare dove camminava mia moglie. Quante volte l’avrei mandata in malora non fosse stato per i soldi che ci facevano così comodo. Mia zia aveva un’aura con qualche macchia nera, solo qualche acciacco 59

dovuto all’età. Una volta, tornando a casa da una delle visite a mia zia mi tornò in mente Costanza Rubinelli, la signora conosciuta a Lourdes che spesso mi aveva aiutato senza voler nulla in cambio. Il 12 di settembre mia moglie partorì e, poco prima dell’evento, mi recai in maternità con la mia carrozzina elettrica: volevo assistere al parto, e così fu. L’ostetrica, al momento giusto, mi disse che se volevo vedere la nascita dovevo avvicinarmi e fu una bella emozione vedere Mattia. Erano le ore 15 del 12 settembre 1992. In parrocchia si festeggiava il santo patrono, c’era festa, salsicce ai ferri e birra per tutti. E poi le giostre , la musica di Vasco Rossi a mille, come piaceva a me. Ad un tavolo vidi don R.Z. e vicino a lui una donna che avevo notato a messa in una delle poche occasioni che c’ ero andato. Quella volta fui colpito dalle tante entità grigie che sorvolavano l’assemblea e da questa signora che mi fissava in continuo. Assieme a lei vi era una specie di umanoide fatto come un bidone della spazzatura, eppure la donna non era niente male. Anzi, pensarla a letto con quell’ essere mi provocava conati di vomito. La sera faticai ad addormentarmi, pensavo a mia moglie. Mi mancava anche se rompeva le palle a ogni piè sospinto, mi mancava da morire in quel letto così grande … Il giorno dopo le portai i fiori in ospedale e quello dopo ancora tornò a casa. Un sacco di gente aspettava il suo arrivo in cortile e con lei giunse anche Mattia, ovviamente. Era un bambino splendido perché il sangue del Lupo non mentiva! Era bello Mattia, ma non si poteva dire che fosse buono. Di giorno era bravo, ma di notte era un disastro e ci andava ricca quando si dormiva tre ore filate. Finalmente il pediatra ordinò a mia moglie, 60

che non ne aveva voluto sapere fino a quel momento,

di

somministrare a Mattia uno sciroppo per dormire. La nostra vita riprese normalmente. Con la nascita di Mattia ricevemmo parecchi contributi dai Centri Aiuto Vita del veronese. Fu anche il periodo che un assistente sociale si informò per farmi inserire in una struttura lavorativa per disabili. Un po’ di distacco da mia moglie sarebbe stato utile e non solo per raggranellare qualche soldo. L’assistente sociale ci indirizzò al SILD, un’associazione che si occupava dell’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro. Ci volle qualche tempo e alla fine un responsabile ci fissò un appuntamento con il presidente della cooperativa Galileo. Dovevamo recarci in via Cristofoli 33, vicino allo stadio. Andammo io con la carrozzella e mia moglie con il piccolo Mattia in autobus. Il primo impatto non fu dei migliori. Infatti l’impiegata che ci accolse non sprigionava di certo gioia di vivere. Incontrandola nel giorno sbagliato, avresti corso il rischio di tagliarti le vene dall’angoscia. Vedendo tutto ciò, mi concentrai su di lei per vederne l’aura: era bianchissima! Brutta fuori, ma bella dentro, pensai. Il presidente, un certo Eugenio Pio Botti, arrivò in ritardo. Decidemmo subito alcune cose: sarei entrato a far parte, come membro effettivo della cooperativa Galileo, solo dopo che il consiglio di amministrazione avesse vagliato positivamente la mia richiesta. Nel frattempo Andrea Ferrari, un disabile conosciuto al corso di computer e mago dell’informatica, mi avrebbe tenuto alcune lezioni sull’inserimento dei dati delle tasse comunali. Ci volle un po’ prima 61

che io imparassi. Il primo giorno di corso lo passai a ricordare i vecchi tempi con Andrea. Quando cominciammo a lavorare su Word incappai ancora nella mia cronica incapacità a ricordare nuove cose. Sarei stato in grado di lavorare correttamente? A giugno mia figlia Cecilia si diplomò in analista contabile con una buona media. Ci si poteva finalmente aspettare qualche entrata finanziaria in casa Piccagli, tuttavia bisognava prima trovarle un lavoro. Nulla arrivava con facilità, ma avevo imparato che le cose si sistemavano ogni volta per il verso giusto.

A fine giugno

cominciammo a lavorare, c’era un’infinità di dati da copiare e da trasferire sul computer al fine di sostituire il materiale cartaceo. Per l’occasione la cooperativa Galileo si era riempita di persone, alcune ragazze erano proprio carine, poi c’erano Raffaelli Valentino, Gianluca Carcereri e Tofolutti Anna, tre disabili gravi. Io aspettavo Andrea che mi spegasse l’inserimento dei dati e, quando mi sembrava di aver capito, dimenticavo tutto. Alla fine di otto ore di lavoro ero riuscito ad inserire solo due nominativi! Il giorno dopo la cosa non migliorò e Andrea mi abbandonò a me stesso. Così decisi di guardare Miriam mentre eseguiva il lavoro. Miriam era brava e bella, veloce con la tastiera. La guardai per un giorno intero e durante la notte continuai a pensare, pensare e ricordare fino a quando mi addormentai sfinito. Il mattino seguente pieno di aspettative accesi il computer convinto di aver ricordato, ma il primo nominativo fece cilecca, così come il secondo e il terzo e il quarto… al quinto

tutto andò a

meraviglia.

62

Di lavoro però ce n’era da fare e la cooperativa aveva una scadenza. Il presidente mi chiese se Cecilia e Mara, le mie figlie, volevano lavorare nell’inserimento dei dati. Accettarono senza grandi entusiasmi e alla fine il contratto fu rispettato. Presi un periodo di ferie. Avevo ripreso a frequentare il bar della mia amica L.B. e anche la parrocchia dove incontravo la signora dal corpo da sballo con il marito tipo bidone della spazzatura. In chiesa volavano sempre quelle sagome grigie. La donna mi salutò sempre cordialmente. Verso fine settembre incontrai in strada la signora della chiesa e lei girandosi mi salutò. “Sono una medium, disse, io so riconoscere le persone normali da quelle dotate di poteri soprannaturali.” Io mi misi a ridere. “Non scherzo, tu sei una di quelle persone speciali, fuori da comune. Mi piacerebbe parlare con te ma adesso ho fretta, devo fare la spesa perché alle 19 rientra mio marito. Se dici ti porto su in casa, mi aspetti lì, e poi beviamo assieme un caffé” “Va bene” risposi. Fu così che mi trovai in quella casa ad aspettare fino a mezzogiorno la donna. S., così si chiamava, arrivò trafelata e mi invitò a pranzo; io dovevo trovare una scusa con mia moglie. Telefonai ad un amico che si prestò a giustificarmi e dissi a casa che mi fermavo a pranzare da lui. S aveva praticato il mestiere più vecchio del mondo, prostituendosi a destra e a manca, fino a quando in carcere aveva incontrato una zingara che le aveva rivelato le sue doti medianiche. A

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sentir lei era in grado, imponendo le mani, di sapere il passato e il futuro di ogni persona. Io diffidavo e lei mi sfidò. S. tenne la mia mano nella sua per trenta secondi e subito mi raccontò del coma, del viaggio astrale e delle mie doti nel vedere l’aura delle persone. Dietro di lei una sagoma bianca e un’aura dorata con piccole macchie nere. Piccoli acciacchi per fortuna. Alle tredici avevo un certo languorino, e mentre mi recavo al bagno lei si mise qualcosa di più comodo per cucinare. Una vestaglietta bianca trasparente, slip e reggiseno di pizzo nero. Vedendomi arrivare con gli occhi fuori dalle orbite rimase stupita. “Ma tu… ce la fai a fare sesso?” “Il sesso e il cervello sono le cose che mi funzionano meglio…” “Anche se ho fatto la puttana ti piacerebbe farlo con me?” “Stavo giusto per chiedertelo” conclusi. Lei spense i fornelli, disse che avremmo mangiato dopo e mi accompagnò sul letto. Mi adagiò secondo le mie spiegazioni e mi spogliò. Non volevo spegnere la luce, volevo vedere tutto, volevo vedere lei e lei si spogliò prima di salirmi a cavalcioni. E per dieci minuti mi cavalcò e mi baciò. Poi la penetrai, fece tutto lei, l’orgasmo arrivò per tutti e due nello stesso istante. Mi baciò ancora con passione, non avevo l’alito fetido come suo marito, io sapevo di pulito disse. Alla fine mi lavò tutto, per non lasciare tracce e io le chiesi a bruciapelo: “Quante volte sei venuta?” “Una, dieci, cento, mille… che importanza ha!” Da quel momento mi sentii ancora più uomo.

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Tornati in cucina ci toccammo ancora, non riuscivamo a smettere fino a quando sentimmo girare la chiave nella serratura. S. imprecò una bestemmia fra i denti e scappò in bagno. Era il mostroide di suo marito che bofonchiava qualcosa del suo datore di lavoro, quando mi vide ci fu una scenata. “E ti ci sito? endicapato di merda… e me moier endo ela?” S. cercava di giustificarsi ma il mostro le diede due ceffoni che lei si trovò per terra. Io non sapevo che fare fino a quando la donna lo convinse che non era successo nulla. Lui la baciò in bocca e a me venne schifo, poi si scusò con me e mi invitò a tornare. Mi accompagnò in strada e mi disse una frase che mi fece una pena infinita. “Son così parché son geloso, ela lè tutto quel che gò e la gente non la me caga gnanca parchè son bruto e go el fià che spussa. Qualche olta la me basa e a olte la me la dà anca…” “Consolate, che mì non el me tira più” gli dissi senza guardarlo negli occhi. “Poareto: fate coraio!” Non era la sedia a rotelle che definiva l’inizio e la fine dell’ handicap. Pensando a quell’uomo capii che si poteva essere handicappati gravi anche con le gambe buone! Nel giro di qualche tempo la cooperativa sociale Galileo fu in grado di assumere stabilmente i suoi lavoratori e di equiparare i trattamenti di stipendio e assicurativi fra normodotati e disabili. Il presidente ci comunicò anche che si era licenziato dal suo lavoro per occuparsi a tempo pieno della cooperativa. Una bella scommessa, ma i lavori arrivarono grazie al suo rinnovato impegno. Anche mia figlia

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Cecilia lavorò in cooperativa e io non avevo dimenticato nulla del lavoro da svolgere, anzi ero uno dei più veloci con le pratiche. Con il lavoro stabile avevo qualche problema di spostamento nei giorni di pioggia. Informammo del problema l’AMT, l’azienda comunale che si occupa di trasporto pubblico, e il signor Silvino risolse il problema inserendomi nel giro del pullman speciale. Avevo trovato nella cooperativa sociale Galileo un ambiente consono alle mie esigenze, e il suo Presidente era diventato più di un amico: uno della famiglia. Capiva i problemi di noi disabili ed era facile comprenderne il motivo: due suoi figli erano affetti da autismo. Spesso vidi alle sue spalle un’entità che io definivo il suo spirito guida. Accadde anche quel giorno che ci fu affidato un lavoro di digitazione per l’ULSS 20. La gara d’appalto fu aggiudicata tirando a sorte due bigliettini, visto che noi e un’altra cooperativa avevamo proposto la stessa offerta. Un lavoro impegnativo e importante, tanto che si rese necessaria la riorganizzazione dei lavoratori all’interno della cooperativa. Venne creato un gruppo di lavoro a San Giovanni Lupatoto con ragazze normodotate che riuscivano a pagare il lavoro di noi disabili. Servì anche la consulenza di una cooperativa specializzata nella contabilità la quale, dopo qualche mese, ci avvertì dello sbilancio dei nostri conti: eravamo sotto di quasi 200 milioni di vecchie lire! La cooperativa Galileo rischiava di chiudere, così durante un’assemblea dei soci decidemmo di rinunciare al nostro stipendio fino a quando saremmo riusciti a sanare il bilancio. Per racimolare un po’ di soldi, presi l’iniziativa di realizzare una vendita di Bonsai all’entrata

di un supermercato, contattai

un’associazione no-profit che si occupava nello specifico di questi 66

interventi. Nel giro di poco K. mi mise in contatto con il titolare di un supermercato che aderì al progetto e subito mettemmo all’ingresso del market un tavolino con gli alberelli. L’idea era questa: io avvicinavo i clienti suscitando un certo pietismo con la mia evidente disabilità e N. , che mi era stata affiancata dall’ associazione no-profit, avrebbe dovuto spiegare l’iniziativa. Il condizionale è d’obbligo. Difatti a N. non gliene fregava niente del progetto e a volte si addormentava sul banchetto. Un giorno portai con me un altro ragazzo, ancora più grave di me e la cosa ebbe un grande successo, tuttavia la mia iniziativa non piacque né a N. né tantomeno a K al punto che ne fui estromesso. Venni liquidato anche dal mio presidente, decisione che non condivisi per nulla. Il progetto comunque andò ben presto a rotoli. Con la mia sedia a rotelle controllavo l’operato delle due smorfiose. Le vidi fare gli orari che volevano e a volte non si presentavano al lavoro neanche a mezzogiorno… e pensare che io ero al supermercato alle 8 e 30 puntuale! Ma la giustizia ha sempre una traiettoria precisa. Dopo qualche tempo giunse in cooperativa la telefonata del titolare del supermercato incazzato per come le due operatrici gestivano la cosa. Per me fu una grande soddisfazione pensare che la cooperativa avesse preso una bella sputtanata per colpa delle due smorfiose, ma intanto i problemi economici della Galileo restavano. Mia figlia Cecilia si licenziò visto che era stata assunta da un commercialista che la pagava e in casa i conti tornarono a quadrare. In cooperativa invece venne a lavorare A.M., una ragazza appena sposata che non faceva vedere niente della sua bellezza. Per 67

questo subito non mi fu simpatica, ma quando il giorno in cui si ruppe la mia carrozzina elettrica ebbi bisogno di andare in bagno, lei si prodigò affinché non avessi problemi. Da quella volta diventammo grandi amici e le sue gonne si accorciarono sempre più. Eppure non la sfiorai con un dito, né allora né mai. Neanche quando si sedeva sulle mie gambe e mi diceva di portarla a fare un giro sulla carrozzina tanto per scandalizzare la gente. Fu un’amicizia breve. Venne assunta come grafico in un’importante azienda e non la vidi più. Anch’io in quel periodo ebbi un’offerta di lavoro di un certo rilievo. Il Comune di Verona, a detta di un Assessore, avrebbe potuto assumermi a patto che mi fossi licenziato dalla cooperativa ed iscritto nelle liste speciali del collocamento. Così feci, tuttavia ad ogni colloquio l’Assessore rimandava l’assunzione fino a quando mi fu riferito che non mi avrebbero assunto: sarei stato un peso morto per l’Amministrazione! Fu una notizia devastante, rimasi con un pugno di mosche in mano. La delusione fu in parte compensata dall’arrivo di una nuova carrozzina elettrica, provvista di fari e lampeggianti che mi avrebbero permesso di muovermi anche di notte. Era stata la Fondazione della Cassa di Risparmio di Verona Vicenza e Rovigo a farmela avere. Erano passati molti mesi da quando avevo fatto domanda, ma alla fine io mi trovavo davanti una carrozzina nuova fiammante. La guardavo come fosse una bella donna. La provai subito. Andai in borgo Nuovo a trovare la mia amica L. e al ritorno incontrai S. con il marito mostroide che mi invitarono per un caffé.

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Mentre il marito andò in bagno S. mi diede un appuntamento per il venerdì successivo alle 10.30 in piazza Brà. “Ci sarò” dissi, immaginando quello che sarebbe successo. Quel giorno mi recai all’appuntamento e dovetti aspettare un bel po’ prima di vedere arrivare S. che mi propose di andare da una sua amica zingara. Avrebbe potuto valutare le mie doti medianiche. “Avevo altri programmi per oggi, dissi io, e sai cosa intendo…” “Non ti preoccupare, ci sarà tempo anche per quello!” concluse lei. La zingara ci fece entrare in una sala d’attesa dove una luce cinerina regalava all’ambiente qualcosa di strano. C’erano alcune persone, vecchi, donne , una coppia con un bambino. Provai un forte malessere e un senso di disagio accompagnato da un freddo intenso; ad un tratto la zingara guardandomi negli occhi mi fissò. Io fissai lei e concentrandomi vidi la sua macchia nera dentro quella dorata. Una grande macchia nera. A pranzo glielo raccontai e lei dichiarò di avere un tumore ai polmoni per il troppo fumo. Andava avanti a morfina. S. dopo il caffé chiese alla zingara se c’era un posto tranquillo per noi e la donna sorridendo ci indicò una camera. S. mi fece cenno di avvicinarmi al letto, in quel momento le chiesi se voleva farlo in un altro modo: sulla carrozzina. Le spiegai cosa doveva fare, come doveva mettersi e come mi doveva mettere. Mi tirò giù le gambe dalla pedana per mettere i miei piedi sul pavimento, poi fece assumere al piede destro una posizione obliqua ed esercitando una pressione sulla mia nuca stimolò le mie residue capacità estensorie e riuscì a mettermi in piedi. A quel punto S. mi abbassò i pantaloni e si complimentò per l’erezione già in atto. Visto ciò lei cominciò a spogliarsi con movimenti carichi di 69

sensualità, poi si mise a cavalcioni sul mio sesso, poi si girò mostrandomi le natiche. A quel punto la penetrai. L'orgasmo lo raggiungemmo assieme dopo pochi minuti in un sospiro che sembrava sincronizzato. S. mi disse, stringimi forte, ed io l’abbracciai con tutta la forza che avevo. Restammo fermi in quella posizione per alcuni minuti, senza dire una parola. “Non ci vedremo più” sentenziò. “Perché?” le chiesi. Suo marito per lavoro sarebbe stato trasferito a Milano e così… Prima di trasferirsi vorrebbe salutarti. Uscimmo dalla casa della zingara tristi, con il cuore in gola, e organizzammo di andare subito a trovare il mostroide. S. sarebbe andata avanti e avrebbe guardato “per caso” dalla finestra, fino a quando sarei arrivato io e mi avrebbero fatto salire. Così fu. Il mostroide aveva un alito da formaggio verde scaduto da sei mesi, un fetore da far impallidire un dinosauro. Le camere a gas dei nazisti al confronto erano un paradiso. Mentre mi parlava dovevo trattenere il respiro per non vomitare, tuttavia vidi alle spalle dell’uomo un’entità terribile: pareva il demonio in persona. La sua aura era nera, qualcosa di grave minava la sua salute e i due furono consegnati ai miei ricordi. Non li vidi più. Alle 17 invece quel giorno venne trovarmi Eugenio Pio Botti; aveva saputo che il Comune non mi aveva assunto e mi proponeva di tornare in cooperativa. La cosa non sarebbe stata facile, le ragazze assunte per evadere le pratiche delle ricette mediche dell’USL 20 non permettevano a nessuno di accedere all’inserimento dei dati. 70

Tornai in cooperativa come socio volontario e attesi la nuova iscrizione della cooperativa Galileo nell’apposito albo. Per fare questo serviva un numero di soci disabili pari ad almeno il 30% del totale degli assunti. Mancando un socio disabile per raggiungere la quota prestabilita per legge, durante il Consiglio di Amministrazione venne proposto il mio nome. Non fu un plebiscito ma alla fine fui assunto. Il primo giorno di lavoro non fu facile, le colleghe non vedevano di buon occhio l’inserimento di uno come me che rallentava il lavoro e io mi ritrovai a fare i conti con la mia totale, cronica assenza di memoria a breve distanza. Mi venne assegnata la postazione di lavoro e iniziai a guardarmi in giro. Guardai il lavoro di inserimento svolto da A. N.; la cosa non fu semplice nonostante i suoi buoni consigli. Alle sue spalle vedevo la forma bianca di una giovane donna con i capelli lunghi. I primi inserimenti furono difficoltosi, mi fermavo anche dieci volte per una singola ricetta, disturbando il mio dirimpettaio che a causa delle numerose interruzioni diminuì di molto la sua media giornaliera. Alla fine P.D.G. chiese un cambio di postazione per non farsi più rompere i coglioni da me e consigliò di redigere uno schema da consegnarmi affinché lo imparassi a memoria. Fra un consiglio e l’altro, uno schema, e gli esercizi mentali che facevo a tutte le ore del giorno e della notte, raggiunsi anche il numero di 500 schede giornaliere inserite correttamente. Ottenni uno stipendio decoroso che, sommato alla pensione, raggiungeva la cifra di una paga normale e mia moglie, risolto in parte il problema economico, si ricordava di essere donna

più

spesso. Con mio immenso piacere. 71

Incappai anche in un paio di incidenti stradali e mia moglie era terrorizzata quando veniva al Pronto soccorso a prendermi, ma da queste esperienze guadagnai qualche soldo con le assicurazioni. Fu proprio il giorno successivo al secondo incidente che in cooperativa durate il lavoro non mi sentii bene. Mi girava la testa per cui uscii a prendere una boccata d’aria; mi resi conto che sempre più spesso vedevo sagome e auree intorno alle persone, così rientrando in ufficio mi concentrai sulle ragazze della cooperativa. Devo dire che nessuna mi sembrava avere macchie nere, tuttavia alcune avevano un’entità grigia. Ad onor del vero una era proprio brutta e quando la vedevo mi tornavano i brividi e il freddo invadeva il mio corpo. Battezzai quel giorno come IL GIORNO DEGLI SPIRITI MALIGNI CHE BALLANO. Per fortuna gli spiriti portarono bene alla cooperativa Galileo se è vero che in quel periodo ci vennero assegnati due appalti dell’USL 21 e 22 della provincia di Verona. Il lavoro cominciava ad andare proprio bene, così come in famiglia con mia moglie. Ritrovai anche L. al bar di Borgo Nuovo e finalmente dopo tanti tentativi riuscimmo a combinare qualcosa. Un qualcosa di bello e coinvolgente. Non vedo più L. da cinque anni e non ho più avuto sue notizie.

72

DESTINAZIONE Labortech Windbag Susy Sul fronte del lavoro invece una novità ha cambiato la mia vita. Nel 2000 il presidente della cooperativa con il beneplacito del Consiglio di Amministrazione decise di ampliare l’attività della Galileo aprendo un ufficio staccato per collaudare ausili informatici per disabili. Nella primavera del 2000 partì il progetto Labortech. Iniziammo io e D.C., che non mi era per nulla simpatico, a collaudare un programma di sintesi vocale e nello specifico Windbag. Otto ore al giorno per 2 anni filati. Provai e riprovai, fino a conoscere il programma e l’ausilio come le mie tasche: alla fine ne sapevo più dei programmatori. Avevo acquisito una conoscenza e una manualità nell’uso della sintesi vocale che andavano oltre le più rosee previsioni. Non solo riuscivo ad usare al meglio tutte le opzioni del programma, ma riuscivo anche a fare discorsi lunghi e complessi. Avevo scoperto un particolare procedimento in grado di trasformare il computer in un video registratore capace di tradurre in voce tutto quello che si poteva selezionare, fossero posta elettronica, allegati, documenti di Word o di Excel. Le mie uscite dimostrative presso le sedi la della Cariverona, della Provincia, in Fiera, al Job Orienta, per l’USL furono molto apprezzate e di forte impatto emotivo. Venni sempre applaudito. Provate ad immaginare cosa può suscitare uno nelle mie condizioni, un disabile quasi completamente afono, seduto davanti ad una scrivania capace di parlare e tenere una conferenza usando mouse e tastiera. 73

La sintesi vocale da me collaudata, codificata in un semplice manuale, rende accessibile l’uso della parola a persone con problemi di handicap Il progetto di informatizzazione dei CEOD del territorio veronese voluto dall’ USL 20 è realizzato in collaborazione con la cooperativa Galileo. L’ULSS si avvarrà della mia consulenza per avviare le persone interessate all’uso della sintesi vocale Windbag. E’ così che Piccagli Massimo, alias picali il lupo, ha saputo rendersi utile alla società nelle vesti di un handicappato sfigato più di quello che sarebbe stato in grado di fare da sano. Quello che fa la differenza tra una persona e l’altra non è la bellezza o la forza fisica. Queste sono cagate. La vera differenza la fa il cervello, la bontà d’animo, il voler lottare per qualcosa in cui si crede. E per questo dare anche la vita, se serve! Io penso di aver dimostrato, vivendo e affermandomi di essere riuscito a vincere qualsiasi sfida che la vita mi messo davanti. Adesso aspetto con impazienza quel giorno già vissuto, quando la signora in nero verrà a prendermi per portarmi in viaggio verso la mia nuova destinazione. In quella dimensione astrale che mi vedrà camminare fianco a fianco assieme ai miei cari, sull’erba verde tempestata di fiori scintillanti, all’ombra di una grande quercia. Sarò pronto per la morte del mio involucro, perchè sarà l’inizio di una nuova vita. Per ora squilla il telefono. È Susy, mia moglie. “Quando torni a casa Massimo?” “Fra un’ora…” 74

Fine.

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