1. Introduzione
1.1 Le specie attivate dell’ossigeno e lo stress ossidativo L’ossigeno, pur essendo assolutamente necessario per la vita degli organismi aerobi, si dimostra tossico quando la sua concentrazione supera anche di poco quella presente nell’aria atmosferica. Di per sé l’ossigeno non è tossico, poiché è scarsamente reattivo, ma lo diventa a causa dei vari intermedi di riduzione molto più reattivi dell’ossigeno molecolare. L’ossigeno nel suo stato fondamentale (stato di tripletto) contiene due elettroni spaiati e sistemati in orbitali diversi, quindi è un diradicale e possiede
proprietà
dell’ossigeno,
paramagnetiche.
avendo
spin
paralleli,
I
due
elettroni
formano
una
spaiati barriera
all’inserimento di coppie di elettroni nella molecola di ossigeno in quanto, per il principio di esclusione di Pauli, un orbitale può contenere al massimo due elettroni aventi spin antiparalleli (Bindoli e Cavallini, 1980). La restrizione di spin può essere superata mediante l’aggiunta di un elettrone alla volta all’ossigeno molecolare. La completa riduzione dell’ossigeno ad acqua nella catena respiratoria richiede 4 elettroni. Questo processo si realizza mediante tappe
successive di un solo elettrone ed in questo caso si formano 3 intermedi: il radicale anione superossido, (O2.-), l’acqua ossigenata (H2O2) ed il radicale idrossile (OH.). Inoltre, lo spin di un elettrone dell’ossigeno molecolare può essere invertito con la conseguente conversione dell’ossigeno tripletto allo stato attivato di singoletto. Queste sono le cosiddette “specie attivate dell’ossigeno” (ROS). L’ossigeno ridotto univalentemente, detto anione superossido, subisce
una
reazione
di
ossido-riduzione
intermolecolare
(dismutazione) dipendente dal pH, la quale è rapida in soluzioni acide, è ancora più veloce in soluzioni debolmente acide, mentre diventa progressivamente più lenta mano a mano che il pH cresce sopra 4,8, a causa della repulsione elettrostatica tra cariche uguali. Il superossido può comportarsi sia da agente riducente, trasformandosi in ossigeno molecolare: X + O2.- + H+ → XH + O2 oppure da ossidante, formando acqua ossigenata: YH + O2.- + H+ → Y. + H2O2 Il superossido può formarsi nell’autoossidazione spontanea di flavine ridotte,
idrochinoni,
ferredossina
ridotta,
glutatione
ridotto,
catecolamine, tetraidropterina, rubredossina, emoproteine ridotte.
Parecchi enzimi ossidativi producono superossido, oppure nei leucociti fagocitanti e nelle catene trasportatrici di elettroni mitocondriale e microsomiale, e nei cloroplasti illuminati. Il superossido reagisce con proteine, lipidi, polisaccaridi e acidi nucleici; la sua tossicità dipende soprattutto dalla sua interazione con l’acqua ossigenata (reazione di Haber-Weiss), formata dalla sua stessa dismutazione; in questo modo si genera il radicale idrossile, che è una specie estremamente ossidante: O2.- + H2O2 → OH- + OH. + O2 Il radicale idrossile si genera anche nella radiolisi dell’acqua: H2O → H2O+. + eH2O+. → H+ + OH. La sua estrema reattività fa sì che esso venga praticamente eliminato nel suo stesso sito di formazione in quanto è probabile che reagisca con la prima molecola che incontra, prima ancora di avere il tempo di diffondere nel mezzo circostante. Sebbene la reazione di Haber-Weiss non proceda a velocità significative, è stato però osservato che l’aggiunta di complessi
metallici (es. Fe
3+
chelato con EDTA) ad un sistema che produce
superossido accelera la formazione del radicale idrossile (reazione di Fenton): H2O2+ Fe2+ → OH. + OH- + Fe3+ L’acqua ossigenata, H2O2, è il più stabile degli intermedi della riduzione dell’ossigeno e può essere generata direttamente mediante riduzione bivalente dell’ossigeno: O2 + 2e- + 2H+ → H2O2 oppure indirettamente mediante riduzione univalente dell’ossigeno a superossido seguita da dismutazione: O2.- + O2.- +2H+ → H2O2+ O2 Nelle cellule si forma come prodotto primario della riduzione dell’ossigeno da parte di numerose ossidasi, la maggior parte delle quali
localizzata
nei
perossisomi,
che
utilizzano
l’ossigeno
trasformandolo in acqua ossigenata, mentre quest’ultima viene successivamente ridotta ad acqua dalla catalasi: O2→ OSSIDASI → H2O2 → CATALASI → H2O
Altri enzimi che producono acqua ossigenata, ma non presenti nei perossisomi, sono la xantina ossidasi, le monoamino ossidasi del fegato e la glucosio ossidasi dei funghi. L’acqua ossigenata causa l’ossidazione di numerose sostanze, tra cui i composti sulfidrilici e i residui metionilici delle proteine. È tossica soprattutto in quanto può generare il radicale idrossile mediante reazione con il superossido (reazione di Haber-Weiss) o con ioni ferrosi (reazione di Fenton). Infine, lo spin di un elettrone dell’ossigeno tripletto può essere invertito con la formazione dello stato attivato di ossigeno singoletto che è molto più reattivo dello stato fondamentale. In questo caso i due elettroni, sia che si trovino nello stesso orbitale, sia che si trovino in orbitali differenti, presentano spin antiparalleli. Nei sistemi biologici l’ossigeno singoletto può formarsi per dismutazione
spontanea
dell’anione
superossido,
oppure
per
interazione di quest’ultimo con il radicale idrossile o con l’acqua ossigenata (reazione di Haber-Weiss). L’ossigeno singoletto può formarsi durante il processo di perossidazione lipidica, in cui i radicali perossilici intermedi reagiscono tra loro formando un tetrossido che,
decomponendosi, produce, oltre ad un composto carbonilico e ad un alcool, ossigeno singoletto. L’ossigeno singoletto, non avendo nessuna restrizione di spin, è in grado di reagire con diversi composti di notevole interesse biologico. A livello di acidi grassi poliinsaturi e del colesterolo causa la formazione degli idroperossidi, promuovendo il processo di perossidazione
lipidica,
con
conseguente
danneggiamento
dell’integrità della struttura delle membrane cellulari. L’ossigeno singoletto, pur non essendo in grado di rompere il legame carboamidico o disolfurico è in grado di interagire con numerosi amminoacidi: metionina, istidina, triptofano, tirosina e cisteina. Le basi puriniche e pirimidiniche degli acidi nucleici vengono ossidate dall’ossigeno singoletto con conseguente apertura dell’anello. Per quanto illustrato sopra, l’ossigeno, che è indispensabile per mantenere la vita, diventa paradossalmente anche la più importante fonte di produzione di radicali liberi, che possono danneggiare le strutture biologiche, ed in particolare: 1. I lipidi delle membrane cellulari, con alterazioni funzionali delle cellule e di conseguenza, dei tessuti di appartenenza.
2. Le lipoproteine a bassa densità (LDL), di conseguenza inducendo lo sviluppo e la progressione delle lesioni arterosclerotiche e quindi delle malattie cardio-vascolari. 3. Gli acidi nucleici (DNA ed RNA), con conseguente danneggiamento del materiale genetico. 4. Le proteine, sia quelle strutturali (acido ialuronico, collagene, etc.) che quelle regolatorie (enzimi, ormoni, emoglobina, nucleoproteine, etc.), con conseguenti danni strutturali e funzionali della cellula. Occorre infine sottolineare che i radicali liberi, oltre ad essere spesso estremamente reattivi, sono capaci di dar luogo a “reazioni a catena”, cioè reazioni che implicano una serie di passaggi, ciascuno dei quali forma un radicale libero che innesca il passaggio successivo: ciò potenzia enormemente la loro capacità di danno biologico. Nelle catene di reazioni radicaliche sono coinvolte tre fasi: inizio, propagazione e terminazione. Nella prima fase (inizio della catena) viene assorbita energia che porta alla formazione della particella reattiva. La seconda fase, o di propagazione della catena, è caratterizzata da reazioni in ciascuna delle quali si consuma un radicale libero e se ne forma un altro, per cui si ha la conversione dei
reagenti a prodotti senza consumo netto di radicali. Infine nei passaggi di terminazione della catena i radicali liberi vengono consumati senza che se ne formino degli altri (Bindoli e Cavallini, 1980).
1.2 Difese antiossidanti contro le specie reattive dell’ossigeno Per quanto visto sopra, è quindi importante che nell'organismo sia sotto controllo la produzione e la reattività dei radicali liberi, ed infatti gli organismi aerobi hanno sviluppato, fin da fasi molto precoci dell’evoluzione, vari
sistemi
difensivi
per
proteggersi
dalla
reattività dei radicali liberi, sia di natura enzimatica che di natura non enzimatica. Viene definita come “stress ossidativo” la condizione nella quale, per una insufficienza delle difese antiossidanti o per una eccessiva produzione di radicali, la cellula subisce l’attacco delle specie ossidanti ai propri costituenti. 1.2.1 Meccanismi di difesa enzimatici Sebbene numerosissimi enzimi siano coinvolti in modo diretto od indiretto nella difesa della cellula contro il danno ossidativo, possono essere assunti come esempi di enzimi chiave nella difesa antiossidante la catalasi, la superossido dismutasi (SOD) e la glutatione perossidasi.
La catalasi è una cromoproteina di PM 250.000 contenente 4 gruppi eme con il ferro trivalente. Possiede una velocità di turnover altissima (44.000 moli di H2O2 per secondo per mole di enzima), che previene l’accumulo cellulare di H2O2. La catalasi demolisce l’H2O2 utilizzandone due molecole, di cui una funge da substrato riducente e l’altra da accettore di elettroni: 2 H2O2 → 2 H2O + O2 Questo meccanismo è simile a quello descritto per le perossidasi, in cui, al posto di una molecola di H2O2, vi è un substrato ridotto che fornisce gli equivalenti riducenti per la formazione dell’H2O. La GSH perossidasi è in grado di eliminare sia l’H2O2 sia gli idroperossidi organici, utilizzando come cofattore il GSH ridotto. 2 GSH + H2O2 → GSSG + 2 H2O 2 GSH + ROOH → ROH + GSSG + H2O Il glutatione ossidato (GSSG) è poi ripristinato a GSH ad opera di un altro enzima, la glutatione redattasi NADPH dipendente: GSSG + NADPH + H+ → 2 GSH + NADP+
Il NADPH proviene dalla ossidazione del glucosio 6-P ad opera della glucosio 6-P-deidrogenasi. La superossido dismutasi (SOD) ha la capacità di trasformare l’O2.- in H2O2 e O2: O2.- + O2.- + 2H+ → H2O2 + O2 Questa reazione è simile a quella della dismutazione spontanea del superossido, però in questo caso non si forma l’ossigeno singoletto, tossico, ma l’O2 nello stato fondamentale di tripletto. La superossido dismutasi, la catalasi e le perossidasi, mantenendo basse le concentrazioni rispettivamente di superossido e di acqua ossigenata, minimizzano la reazione di Haber-Weiss. Questi enzimi perciò costituiscono la prima linea di difesa contro la tossicità dell’ossigeno (Bindoli e Cavallini, 1980). 1.2.2 Difese antiossidanti non enzimatiche I sistemi antiossidanti non enzimatici sono costituiti da molecole, dette “scavenger”, tra cui l’acido ascorbico, la vitamina E o i composti tiolici, che, interagendo direttamente con le specie attivate dell’ossigeno, ne prevengono l’azione deleteria su altri componenti cellulari.
I tocoferoli, tra cui il maggiormente attivo è l’alfa-tocoferolo (vitamina E), sono dei donatori reversibili di idrogeno in processi coinvolgenti radicali liberi, trasformandosi a loro volta in una specie radicalica, il radicale tocoferile (TO.), che può interagire con qualsiasi radicale libero ossidandosi, oppure convertendosi in idroperossido in presenza di ossigeno e di un donatore di idrogeno. Quest’ultima reazione si verifica raramente in vivo grazie all’intervento di agenti riducenti, come il GSH e l’acido ascorbico. La vitamina E e gli altri tocoferoli inoltre posseggono un’azione detossificante nei confronti dell’ossigeno singoletto. La vitamina E può reagire con l’ossigeno singoletto, formando un idroperossidienone, il quale successivamente si decompone in vari sottoprodotti. Oppure, in un secondo processo, (“quenching”), che è quello predominante, la vitamina E, come fanno anche i carotenoidi presenti nei vegetali, è in grado di deattivare l’ossigeno singoletto senza subire modifiche ad una velocità estremamente elevata, per cui si tratta di un processo limitato solo dalla diffusione. L’acido ascorbico, o vitamina C, svolge un’azione di “scavenging” nei confronti di un’ampia varietà di agenti ossidanti e la sua forma ossidata ( acido didroasorbico) viene di nuovo ridotta ad acido
ascorbico grazie all’enzima deidroascorbato reduttasi, che utilizza come cofattore il GSH. L’acido ascorbico, ossidandosi ad acido deidroascorbico, funziona da efficace agente riducente, ristabilendo la forma ridotta e attiva di altri composti antiossidanti. Anche i composti tiolici, grazie al gruppo sulfidrilico (-SH), sono in grado di proteggere la cellula dalle specie reattive dell’ossigeno, interagendo direttamente con esse: O2.- + R-SH + H+ → R-S. + H2O2 H2O2 + 2R-SH → 2 H2O + 2 R-S OH. + R-SH → R-S. + H2O oppure con le altre specie radicaliche da queste generate. In queste reazioni si originano i tiol-radicali, anch’esse specie molto reattive, che la cellula cerca di neutralizzare mediante una reazione di dimerizzazione con formazione del disolfuro corrispondente: R-S. + R-S. → R-SS-R I disolfuri in seguito possono essere ridotti allo stato di tiolo dai vari sistemi reduttasici della cellula.
1.3 Il glutatione Il glutatione è un tripeptide contenente un gruppo sulfidrilico (γglutammil – L- cisteinilglicina), costituito da 3 amminoacidi, l’acido glutammico, la cisteina e la glicina. La sintesi del GSH avviene nella cellula mediante due reazioni ATP-dipendenti, la prima delle quali è catalizzata dall’enzima γ-glutammilcisteina sintetasi, che porta alla formazione di γ-glutammilcisteina a partire da glutammato e cisteina. Nella seconda reazione, catalizzata dall’enzima glutatione sintetasi, si realizza la formazione dell’ulteriore legame peptidico con la glicina, che porta alla costituzione definitiva del glutatione (Meister, 1974). Nel GSH i residui di acido glutammico (Glu) e di cisteina (Cys) non sono uniti da un normale legame peptidico, infatti è il gruppo carbossilico (-COOH) sul carbonio γ del Glu ad essere legato al gruppo amminico (-NH2) sul carbonio α della Cys.
Questa caratteristica rende il GSH resistente alle peptidasi, ma non alla γ- glutammil-transpeptidasi (GGT), capace di idrolizzare il legame γ- glutammilico o di trasferire la porzione γ- glutammilica su un amminoacido accettore o su un dipeptide. Poiché la GGT è una proteina della membrana cellulare, ed il suo sito catalitico è rivolto verso l’esterno della cellula (Griffith & Meister, 1979), il suo ruolo fisiologico sembra essere quello di facilitare la formazione extracellulare di γ- glutammil-amminoacidi (Tate & Meister, 1974). Il γ-glutamil amminoacido viene convertito in 5oxoprolina
e
amminoacido
libero
dall’enzima
γ-glutammil
ciclotransferasi. La 5-oxoprolina, tramite una reazione ATP-
dipendente, catalizzata dall’enzima 5-oxoprolinasi, viene scissa a dare glutammato.
Dunque, nell’ambito del metabolismo del GSH, la GGT è responsabile della scissione della porzione γ-glutammilica del tripeptide con liberazione di γ-glutammato e cisteinil-glicina. Quest’ultima è poi scissa a sua volta in cisteina e glicina dalla cisteinilglicinasi. Questi due amminoacidi possono essere utilizzati dalla cellula in vario modo o reinseriti nel ciclo di degradazione e sintesi del glutatione.
La concentrazione del GSH nelle cellule di mammifero è dell’ordine delle millimoli (5-10 mmoli /litro ) nell’ambiente intracellulare, mentre scende scende all’ordine di grandezza delle micromoli (5-10 µmoli/litro ) nell’ambiente extracellulare. La funzionalità del GSH è condizionata dall’equilibrio tra la sua forma ridotta (GSH) e la sua forma ossidata (GSSG), che deriva dall’unione con un ponte disolfuro di due molecole di GSH. All’interno della cellula il rapporto tra la forma ridotta e la forma ossidata in condizioni normali è dell’ordine di 1:10/ 1:100 (Reed et al. 1983). La forma ridotta possiede un gruppo sulfidrilico (SH), che può essere ossidato da agenti elettrofili, fungendo quindi da bersaglio preferenziale a difesa di strutture più critiche, quali i lipidi poliinsaturi delle membrane cellulari, le proteine e gli acidi nucleici. Il GSSG che si forma durante queste reazioni viene ridotto a GSH dall’enzima glutatione reduttasi che, utilizzando come donatore di elettroni il NADPH, riduce ogni molecola di GSSG a due molecole di GSH, prevenendone in tal modo la perdita cellulare (Sagara et al., 1997). Il GSH, inoltre, è utilizzato come cofattore da alcuni enzimi ad azione protettiva all’interno della cellula, quali la glutatione perossidasi e la glutatione transferasi.
Il GSH partecipa attivamente ai processi di detossificazione nei confronti di farmaci e di xenobiotici in generale, in quanto si comporta sia da nucleofilo che da riducente, quindi reagendo con composti elettrofili oppure ossidando molecole prima che queste interagiscano con importanti componenti cellulari, come le proteine e gli acidi nucleici (Pompella et al. 2003). Questa funzione del GSH viene esplicata per mezzo di un’attività enzimatica, la glutatione transferasi, che ha la funzione di coniugare il GSH intracellulare ai composti “tossici” presenti all’interno della cellula. L’attività della GSHtransferasi si pensa possa essere implicata nella risposta individuale ai farmaci antitumorali, quindi nella resistenza nei confronti di trattamenti chemioterapici ( Coles B. et al. 2003). Il GSH inoltre è in grado di modificare lo stato redox delle proteine cellulari, legandosi a residui di cisteina accessibili sulle suddette, in un meccanismo noto come S- glutatiolazione. In questo modo il GSH modula l’attività di una notevole varietà di proteine, tra cui trasportatori e canali di membrana, proteine Kinasi e fosfatasi, trasduttori e fattori di trascrizione, il che attribuisce al GSH un importante ruolo fisiopatologico nella modulazione dell’espressione di determinati geni (Sen CK. 1998). Alcuni target della S-glutatiolazione è stato identificato essere proteine di membrana e citosoliche (Sies H.
et al. 2002). La S-glutatiolazione può, infatti, interessare componenti cellulari implicati nella trasduzione di segnali implicati nella proliferazione cellulare, come H-ras (Mallis RJ et al. 2001), la chinasi p59 delle cellule T (Hehner FP et al. 2000), la fosfatasi PTP1B (Barrett WC et al. 1999), c-jun (Klatt P. et al. 1999), NF-Kb/p50 (Pineda-Molina E. et al. 2001), e la caspasi 3, implicata nei processi apoptotici (Davis DA, et al. 1997). I residui di cisteina, presenti sul dominio di legame al DNA di p53 possono subire modificazioni derivanti dall’ossidazione, con effetti specifici sulla capacità di legare il DNA (Parks D. et al. 1997). 1.3.1 Azione pro-ossidante della gamma-glutamiltranseptidasi In presenza di GGT, il GSH è stato dimostrato poter giocare, insieme al suo ruolo antiossidante, un ruolo pro-ossidante, portando alla produzione di radicali liberi, specie reattive dell’ossigeno e causando conseguenze che vanno fino all’ossidazione delle proteine ed alla perossidazione dei lipidi poiinsaturi della membrana plasmatica. Questi eventi, che possono innescarsi esclusivamente all’esterno della membrana plasmatica, ma le cui conseguenze si ripercuotono su tutta la cellula, sono basati sulla capacità dei tioli, quali il GSH, ma anche i prodotti derivanti dalla sua idrolisi da parte della GGT (Cys-Gly e
Cys), di interagire con i metalli di transizione, ed in particolare con il Fe3+ (Stark et al. 1993). Infatti, la dissociazione del gruppo tiolico SH ad anione tiolato S- consente la cessione da parte di quest’ultimo di un elettrone al Fe3+, che viene ridotto a Fe2+, dando luogo contemporaneamente alla formazione di un radicale tiile S. (Paolicchi et al. 2003). Il radicale tiile ed il Fe2+ sono in grado di innescare una cascata di eventi che portano alla produzione di anione superossido e quindi di acqua ossigenata nella reazione catalizzata dall’enzima superossido dismutasi. L’anione superossido e l’acqua ossigenata, in presenza di Fe3+, chelato dall’ADP (reazione di Haber-Weiss catalizzata da metalli) o libero (reazione di Fenton), generano radicali idrossili, i quali, insieme al radicale tiile, possono dare inizio alle reazioni a catena della perossidazione lipidica, con conseguente perdita della struttura e della stabilità della membrana cellulare, nonché delle sue importanti funzioni (Zalit et al., 1996). Tutti questi fenomeni, avvenendo all’esterno della cellula, sono al di fuori della portata dei sistemi di difesa antiossidanti in essa contenuti ( Maellaro et al. 2002). Non tutti i tioli però hanno la stessa capacità di interagire con il Fe3+, che nei tessuti biologici si trova legato a chelanti fisiologici, quali transferrina, ADP, citrato. Il GSH sarebbe di per sé un riducente del
complesso ADP-Fe3+, ma la riduzione è limitata dal gruppo αcarbossilico dell’acido glutammico, la cui azione chelante è in grado di bloccare l’interazione tra SH e Fe3+. La presenza della GGT sul lato esterno della membrana plasmatica però , consentendo la rimozione del residuo di glutammato dal GSH, permette l’avvio degli eventi ossidativi dovuti all’interazione tra il Fe3+ ed il tiolo del residuo di cisteina (Paolicchi et al., 1999). Essendo inoltre la cisteinilglicina, derivata dall’attività della GGT, un agente nucleofilo molto più attivo del GSH, ed essendo in grado di coniugarsi a composti elettrofili, le cellule esprimenti alti livelli di GGT sulla loro superficie esterna sono in grado di attuare una sorta di “detossificazione extracellulare” delle molecole elettrofile (Pompella et al.2003). Gli eventi ossidativi extracellulari dipendenti dall’interazione tra GGT e GSH partecipano ad una serie di fenomeni di notevole interesse biopatologico, quali: - l’ossidazione Fe-dipendente delle lipoproteine LDL (Paolicchi et al, 1999) - l’ossidazione reversibile dei tioli proteici presenti sulle proteine cellulari (Dominici et al., 1999), inclusi recettori cellulari (Paolicchi et al., 2004)
La S-tiolazione, GGT-dipendente, può assumere due significati. In primo luogo, può essere interpretata come una difesa nei confronti dei danni irreversibili causati dall’ossidazione. In quest’ottica la GGT, essendo spesso espressa ad alti livelli nelle metastasi tumorali, potrebbe contribuire alla resistenza delle cellule cancerogene nei confronti degli effetti citotossici dello stress ossidativi, come nel caso di molti importanti farmaci antitumorali ad attività proossidante ( Corti et al., 2005). In secondo luogo, un’altrettanto interessante possibilità è che la GGT, inducendo la formazione di disolfuri misti tra la CysGly e le proteine (in un processo noto come S-cisteinilglicilazione), possa svolgere un’azione regolatoria sulla funzionalità delle proteine stesse, come succede nel caso della S-glutatiolazione. Dunque, la S-tiolazione delle proteine extracellulari, promossa dalla GGT, potrebbe rappresentare un meccanismo mediante il quale le cellule esprimenti attività di GGT, come le cellule tumorali (Monks A. et al., 1996), riescono a modulare lo stato redox e la funzione di proteine importanti presenti nella matrice extracellulare e sulla superficie di altri tipi cellulari, quali per es. le cellule del sistema immunitario o endoteliali.
1.4 Lo stress ossidativo in coltura I composti contenenti gruppi tiolici (-SH) sono, come già sopra descritto, in grado di svolgere in vivo, ed all’interno della cellula, un’intensa attività antiossidante, essendo in grado di ridurre le specie reattive dell’ossigeno, limitandone la reattività prima che queste vengano a contatto con importanti strutture cellulari, danneggiandole. Tra i tioli, sicuramente il GSH è quello che contribuisce maggiormente a svolgere un ruolo antiossidante nel difendere la cellula da molecole altamente reattive, quali i radicali liberi (Meister, 1995; Sies, 1999). Paradossalmente, in vitro sono stati invece documentati effetti dannosi dei tioli presenti nella composizione dei terreni di coltura. Per esempio, la cisteina risulta tossica per gli epatociti di ratto isolati (Saez., 1982), l’omocisteina accelera i processi di senescenza nelle colture di cellule endoteliali (Xu et al., 2000). La tossicità della cisteina risulta provocata dalla produzione di acqua ossigenata conseguente alla sua autoossidazione. È stato anche dimostrato che il GSH extracellulare è in grado di danneggiare cellule esprimenti livelli elevati di GGT, tramite la generazione di H2O2 (Maellaro et al., 2000; Enoiu et al., 2000). Non sono ancora del tutto chiare le reazioni dei tioli con i componenti presenti nei mezzi di coltura standard utilizzati, ma, per esempio, è
stato di recente dimostrato che l’ascorbato (Clement et al., 2001) e molti composti polifenolici (Long. L.H. et al., 2000) reagiscono nei mezzi di coltura più comunemente impiegati, generando acqua ossigenata e che la produzione di H2O2 è responsabile di molti degli effetti tossici di questi composti sulle cellule in coltura. I tioli tendono rapidamente a scomparire dall’ambiente in vitro, con un contemporaneo accumulo di acqua ossigenata. Questo può essere dovuto all’interazione e successiva riduzione, da parte dei tioli, dei metalli di transizione che, reagendo con l’ossigeno presente ad elevate concentrazioni in vitro, generano specie reattive dell’ossigeno. In aggiunta a questo, è inoltre possibile che i gruppi –SH formino dei disolfuri misti con le proteine presenti nel siero e che quindi non siano più disponibili come potere riducente nei confronti di molecole reattive (Halliwell et al., 2001). A seconda del tipo cellulare, la produzione di acqua ossigenata nell’ambiente di coltura può esercitare effetti tossici, e questo fenomeno è alla base proprio della citotossicità di certi composti tiolici (Saez, 1982; Takagi, 1974; Paolicchi et al., 2000, Nicotera et al., 1986). In alcune cellule, paradossalmente, i livelli di acqua ossigenata esistenti nell’ambiente di coltura sembrano stimolare le difese antiossidanti
e favorire determinate attività
cellulari (Halliwell et al., 1999; Powers et al., 1999; Chua et al.,
1998). Sono stati dimostrati effetti dei composti tiolici sulla trasduzione di segnali (Li et al., 2000), che potrebbero coinvolgere anche l’acqua ossigenata, che risulta essere implicata nella segnalazione redox di molti sistemi cellulari (Suzuki et al., 1998; Sen, C.K., 2000; Accaoui et al., 2000), nella stimolazione della proliferazione cellulare a bassi livelli, e della sua inibizione a concentrazioni ancora più elevate (Burdon, R.H., 1995).
1.5 Il sangue del cordone ombelicale 1.5.1 La raccolta Il cordone ombelicale, o funicolo, e’ una formazione anatomica che mette in comunicazione la placenta con il feto. Dalla placenta origina il sangue arterioso ossigenato, che in senso centrifugo raggiunge il feto e da questo origina il sangue venoso non ossigenato, che in senso centripeto raggiunge la placenta per essere ossigenato e ripetere nuovamente il ciclo.
Salvo rari casi di malformazioni, il cordone ombelicale e’ costituito da due arterie ombelicali, dalla vena ombelicale e da una sostanza gelatinosa (gelatina di Wharton). La raccolta di sangue del cordone ombelicale è effettuata dopo il taglio del cordone e quindi non comporta nessun rischio nè per la madre nè per il neonato.
Al termine del parto, dopo che il cordone ombelicale del neonato è stato reciso, nei vasi placentari e cordonali residua una quota di sangue, generalmente considerata prodotto di scarto. La raccolta di sangue placentare viene effettuata in un sistema chiuso dopo il taglio del cordone ombelicale, senza alcun rischio per la madre
e il neonato, sia in caso di parto vaginale che cesareo La raccolta, infatti, avviene quando il cordone è già stato reciso ed il neonato è stato allontanato dal campo operativo ed è, pertanto, indolore e non invasiva. La raccolta viene eseguita da personale addestrato secondo metodiche standard, mediante puntura del cordone ombelicale, in apposite sacche monouso Le sacche sono dotate di dispositivi di sicurezza per l'operatore e di sistemi a circuito chiuso per il campionamento, per assicurare l'integrità della sacca e la sterilità del prodotto.
Dopo la raccolta le unità di sangue placentare vengono trasportate presso la Banca e sottoposte a controlli biologici e microbiologici di sterilità; aliquote di sangue vengono inviate al Centro di Tipizzazione Tissutale per la caratterizzazione del sistema antigenico HLA. Le unità che rispecchiano i requisiti richiesti per la conservazione nella banca del sangue di cordone ombelicale, vengono sottoposte ad un processo di concentrazione cellulare per centrifugazione, che consente di abbattere i volumi delle unità, eliminando la maggior parte dei globuli rossi e del plasma. L'abbattimento dei volumi permette, inoltre, di risparmiare notevolmente gli spazi freddi necessari allo
stoccaggio a lungo termine dei prodotti criopreservati. L’unità di sangue placentare viene successivamente congelata in vapori di azoto liquido in un congelatore a discesa programmata della temperatura (1°C/minuto) e poi stoccata a –196°C, in modo tale da garantire le condizioni ottimali per una conservazione a lungo termine (almeno 10 anni). Il congelamento viene effettuato entro 48 ore dalla raccolta. 1.5.2 Le cellule del sangue di cordone ombelicale Il sangue placentare, in virtù del numero di cellule contenute in una singola unità, non consente ordinariamente di trapiantare pazienti con peso corporeo superiore a quello di un adolescente o di un giovane adulto. Uno scarso contenuto di cellule staminali emopoietiche ne condiziona necessariamente l'utilizzo a scopi prevalentemente pediatrici. Questo spiega il motivo per il quale i pazienti pediatrici rappresentino oltre l’80% della casistica (anche se le eccezioni non mancano, come indicato da alcuni trapianti eseguiti con successo in pazienti di peso corporeo superiore a 100 kg). I dati della sopravvivenza, che non sembrano differire sostanzialmente da quanto atteso in un analogo gruppo di pazienti trapiantati con il midollo osseo, sono incoraggianti, in particolare considerando la tipologia
della casistica e l'esordio relativamente recente della pratica di trapianto di sangue placentare. Il prelievo del sangue placentare può essere eseguito in qualsiasi ospedale, che sia tuttavia in grado di fare riferimento a una struttura specializzata, dove la sacca di sangue venga elaborata e preparata per l'utilizzo (una cioè delle cosiddette banche del sangue). In Italia le banche di sangue placentare sono ancora poche, ma sono presenti in diverse regioni, come quella sede del tirocinio. 1.5.3 Caratteristiche delle cellule staminali di sangue cordonale: le cellule mesenchimali Le cellule staminali presenti nel sangue di cordone ombelicale risultano essere per la maggior parte appartenenti alla linea emopoietica, ovvero cellule indifferenziate, in grado di dare origine ad elementi di natura ematica. Di recente però è stata identificata, sebbene costituisca solo un’esigua percentuale del totale, accanto alla linea emopoietica, una popolazione di cellule staminali, questa volta di natura mesenchimale, cellule staminali adulte, identificate nel midollo osseo in maniera più accurata, in grado non solo di supportare il processo emopoietico (T.M. Dexter et al., 1976; C.Friedrich et al., 1996), ma anche di differenziare in altri tipi cellulari diversi da quelli
ematici, quali adipociti, condrociti, osteociti (Friedenstein AJ et al., 1974; Deans RJ et al., 2000; Minguell JJ et al., 2000). Questa loro capacità è stata confermata dai risultati ottenuti da esperimenti in vitro (Filvaroff EH et al., 1996; Pittenger MF et al., 1999; Makino S. et al., 1999; Schwartz RE et al., 2002) e da studi in vivo (Toma K et al., 2002; Orlic D. et al., 2001; Zhao LR et al., 2002). Attualmente il midollo osseo rappresenta la maggior risorsa di cellule staminali mesenchimali, anche se è stato osservato che il numero delle suddette diminuisce drasticamente all’aumentare dell’età del soggetto (Rao MS et al., 2001), oltre alle difficoltà tecniche per il paziente, dovute all’invasività del prelievo, ed alla possibilità di contaminazione virale del campione. Questo ha fatto spostare l’attenzione verso fonti alternative di cellule staminali mesenchimali da utilizzare in caso di trapianti autologhi ed allogenici, e tra queste gli annessi embrionali. Il sangue del cordone ombelicale rappresenta una promettente risorsa di cellule staminali e di progenitori emopoietici utili in applicazioni cliniche ( Huss R., 2000; Hows JM, 2001). Sulla presenza, invece, di cellule mesenchimali nel sangue cordonale si è dibattuto a lungo; molti, infatti, hanno negato questa ipotesi, in quanto non sono riusciti ad isolare con successo queste cellule dal sangue in coltura (Mareschi K., 2001). Contemporaneamente, però, i risultati ottenuti da
Campagnoli et al., (2001) e da Erices et al. (2000), hanno suggerito che le cellule staminali della linea mesenchimale sono in realtà presenti in molti organi fetali e circolano nel sangue fetale insieme ai precursori emopoietici; in seguito sembrerebbero abbandonare
il
circolo sanguigno per depositarsi nella placenta e a livello dello stroma del cordone ombelicale. Inoltre, analisi immunofenotipiche hanno confermato che le cellule costituenti i cloni presenti in colture ottenute da sangue fresco di cordone ombelicale sono caratterizzate dai medesimi antigeni di superficie, quali per esempio SH2, SH3, SH4, presenti a livello delle cellule mesenchimali isolate da colture di midollo osseo di adulto ( O.K. Lee et al., 2004). Osservando le cellule del sangue cordonale in coltura, dopo circa una settimana ne sono presenti alcune dalla caratteristica morfologia simile a quella fibroblastica, che hanno poi la tendenza a formare colonie e, dalla terza settimana in poi, a costituire uno strato omogeneo di cellule aderenti al substrato, presentanti la tipica caratterizzazione immunofenotipica delle cellule mesenchimali (CD 73+, CD105+, CD166+) (Lee et al., 2004; Romanov et al., 2003), CD34- e CD45-. Nelle colture primarie di cellule mononucleate di sangue di cordone ombelicale si osservano due diverse popolazioni cellulari, aventi una
forma tipicamente ovale o sferica e una di tipo più allungato, dalla morfologia fusiforme (M. W. Lee et al., 2004; Romanov et al., 2003). Le cellule dalla forma sferica risultano positive per gli antigeni CD14 (linea monocitica- macrofagica), CD31 (monociti-granulociti) e CD45 (cellule emopoietiche), ma tendono gradualmente a scomparire dalla coltura dopo la seconda settimana (Lee et al., 2004). Al contrario, le cellule dalla morfologia fusiforme tendono nel tempo a costituire uno strato uniforme e a formare dei cloni omogenei dal punto di vista morfologico e mostrano positività agli antigeni tipici delle cellule della linea mesenchimale, quali il CD73 (SH3, SH4), tipico delle sottopopolazioni T e B, CD105 (SH2), tipico delle cellule endoteliali e dei macrofagi attivati; CD166 (ALCAM), tipico dei fibroblasti e molecola di adesione cellulare dei leucociti attivati (Lee et al., 2004); esse sono inoltre negative per l’antigene CD34, tipico dei precursori emopoietici
(Romanov
et
al.,
2003).
L’aspetto
fusiforme,
fibroblastoide, è simile a quello delle colture di cellule mesenchimali ottenute dal midollo osseo di adulto (Deans RJ et al., 2000; Minguell JJ et al., 2000; Campagnoli C. et al., 2001; Erices A. et al., 2000; Zuk PA et al., 2001). Queste cellule presentano una duratura capacità proliferativa in coltura senza evidenti modificazioni morfologiche per più di sei passaggi
(oltre tre mesi) e sono dotate di capacità differenziativi, tipica delle cellule
mesenchimali,
in
senso
osteoblastico,
adipocitico
e
condrocitico (Lee et al., 2004), simile a quella evidenziata nelle cellule mesenchimali ottenute dal midollo osseo di adulto (Fridenstein et al., 1976), ed è stata dimostrata la possibilità di utilizzarle per dare origine a tessuti di natura muscolare scheletrica, epatocitica, neurale ed endoteliale (S.J. Morrison, 2001). Le cellule ottenute dal sangue del cordone ombelicale in coltura, inoltre, risultano esprimere l’mRNA di geni caratteristici di diverse linee differenziative, come SDF-1, NeuroD e VEGF-R1 (Lee et al., 2004), come le cellule mesenchimali isolate dal midollo osseo. Queste osservazioni permettono di concludere che, essendo espressi i suddetti geni anche a livello delle cellule isolate dal sangue cordonale, queste cellule sembrano, in effetti, essere dotate di un notevole potenziale differenziativo, come quello riconosciuto alle cellule appartenenti alla linea mesenchimale. È stato inoltre osservato che le cellule mesenchimali del sangue di cordone ombelicale umano risultano dotate di una maggiore capacità proliferativa nei primi passaggi in coltura, rispetto alle medesime cellule ottenute dal midollo osseo (Lee et al., 2004). Questo potrebbe essere dovuto al fatto che nel sangue cordonale è presente una quantità
maggiore di cellule allo stato indifferenziato, rispetto al midollo osseo (L. Lu et al., 1996), che quindi sono in grado di proliferare in coltura a ritmi più elevati durante le prime fasi (Lee et al., 2004). Il fatto che nel complesso il numero totale di cellule ottenute nelle fasi tardive della coltura sia diverso tra il sangue cordonale e il midollo osseo, è da ricercarsi in particolare nella frequenza stessa di queste cellule nei due tipi di campione che stiamo analizzando. Infatti, è noto che la frequenza di cellule della linea mesenchimale nel midollo osseo di adulto si aggira intorno a 1/ 3.4 * 104 cellule, in termini di unità di fibroblasti formanti colonie (CFU-F) (S.A. Wexler et al., 2003; M.Gutierrez-Rodriguez et al., 2000), mentre nel sangue di cordone ombelicale la frequenza di cellule staminali mesenchimali è nettamente inferiore e risulta variare tra 0 e 2.3 cloni su 108 cellule mononucleate (Bieback et al., 2004). La bassa resa cellulare in coltura del sangue cordonale rispetto al midollo osseo è da ricercarsi probabilmente anche nelle differenze relative alle condizioni di coltura richieste per i due diversi campioni. Potrebbero infatti influire la composizione del mezzo di coltura, del siero, il pH, gli effetti della tripsinizzazione e, ovviamente, l’errore dell’operatore. Si pensa che un punto fondamentale a tal proposito sia rappresentato dal periodo di tempo che intercorre tra la raccolta ed il processamento del sangue
cordonale, che non dovrebbe mai superare le 15 ore. Il volume netto di sangue, dal quale tentare l’isolamento di cellule staminali, inoltre, dovrebbe essere pari circa a 33 ml, se non addirittura superiore. Infine, nel campione ematico non deve essere presente alcun segno evidente di avvenuta coagulazione o di emolisi. (Bieback et al., 2004). In ogni caso, questo è tuttora oggetto di studio da parte di molti ricercatori. Quella che è stata però definitivamente dimostrata è la presenza, nel sangue di cordone ombelicale umano, di cellule staminali circolanti, non di natura emopoietica, assimilabili a cellule mesenchimali (Lee et al., 2004; Erices et al., 2000; Rosada et al., 2003).
1.6 La citofluorimetria 1.6.1Generalità La comparsa della citometria a flusso avviene negli anni 60 e determina un veloce ed intenso sviluppo delle tecniche istologiche e citochimiche. Lo scopo di questa procedura è quello di misurare proprietà multiple di singole cellule ad elevata velocità, con conseguente dettagliata analisi quali/quantitativa. La diffusione capillare avviene a partire dagli anni 80, con la messa a punto di nuovi fluorocromi, facilmente coniugabili con anticorpi monoclonali (mAb). Oggi sono disponibili mAb diretti contro una larghissima varietà di antigeni (Ag) di membrana o intracellulari. 1.6.2 Funzionamento del citofluorimetro In sintesi, nello strumento una sospensione di cellule, eventualmente marcate con fluorocromi, viene trasportata dal sistema di distribuzione alla cella di flusso, dove viene iniettata nell’unità di lettura. La focalizzazione idrodinamica fa in modo che singole cellule attraversino una dietro l’altra il punto di intersezione con il laser. Si creano perciò 2 flussi coassiali : quello interno, contenente le cellule e quello esterno, che le mantiene lungo l’asse del flusso laminare.
Agendo sul sistema pneumatico di trasporto che regola la differenza di pressione tra i due si regola la velocità di efflusso delle cellule , valutata in eventi/secondo” (200-2000/sec.). Come detto sopra, nello strumento circola una soluzione isotonica che inguaina laminarmente la sospensione cellulare, mantenendola allineata al centro della camera di flusso. Nel punto di misura ogni singola cellula interagisce con un fascio di luce del sistema di eccitazione (lampada o laser) generando segnali che dipendono dalle caratteristiche fisiche (diametro, volume, rapporto nucleo/citoplasma, granulosità interna, rugosità di superficie) e dalla presenza di marcatori fluorescenti sulla superficie, nel citoplasma o nel nucleo della cellula. Quando una cellula viene colpita dal fascio luminoso emette quindi segnali relativi alle sue caratteristiche fisiche e morfologiche. Il segnale generato dalla diffrazione è in funzione del diametro cellulare (Forward scatter, FSC); a parità di energia luminosa fornita, quanto più grande è la cellula tanto più elevato è il valore di emissione del FSC. Ortogonalmente al fascio si misura un segnale legato alla riflessione ed alla rifrazione che sono in funzione della granulosità interna e di superficie, del rapporto nucleo/citoplasma e del diametro della cellula (Side scatter, SSC). Dalla combinazione di questi 2 segnali ha origine un diagramma di dispersione (citogramma).Il campo applicativo di
questa tecnica è praticamente limitato solo dalla quantità di reagenti fluorescenti specifici, che sono in numero sempre crescente e permettono di studiare caratteristiche funzionali e strutturali di cellule sia normali che neoplastiche. Oltre ad essere una metodica essenziale per l’analisi citologica qualitativa e quantitativa, permette anche di separare fisicamente da una sospensione eterogenea sottopopolazioni di cellule sulla cui membrana è presente una struttura riconosciuta da un anticorpo monoclonale specifico. Questa procedura è chiamata ‘cell sorting’ e permette di ottenere popolazioni cellulari con una purezza maggiore del 95%.
I segnali emessi vengono raccolti da un sistema di lenti, specchi, filtri ed inviati ai sensori (fotomoltiplicatori) che ne amplificano e misurano l’intensità. Questi segnali elettrici sono inviati ad un elaboratore ed analizzati statisticamente. Uno dei più significativi aspetti è rappresentato dall’analisi multiparametrica, attuabile grazie alla possibilità di attuare una “separazione elettronica” (GATING) o “fisica” (SORTING). Come sorgente luminosa si utilizza una sorgente luminosa a ioni argon, centrata su una lunghezza d’onda di 488 nm. Esistono anche lampade a mercurio o xenon; la lampada a Hg ha uno spettro complesso, con picchi massimi in ultravioletto (UV), nel blu e nel verde; quella allo xenon ha spettro a banda larga e continua. Rispetto al laser, le lampade hanno scarsa stabilità della luce di emissione che decade rapidamente. I campi di applicazione della citometria di flusso sono moltissimi: ematologia, immunologia, microbiologia, oncologia, farmacologia, botanica e citologia. Si possono comunque individuare due scopi fondamentali per cui è impiegata questa metodica: l’immunofenotipizzazione (attraverso la valutazione di antigeni presenti sulla membrana cellulare o intracitoplasmatici) e la misura del DNA cellulare.
1.6.3 Emissione di segnali generati da composti fluorescenti La luce diffratta, rifratta e riflessa fornisce informazioni sulle caratteristiche fisiche della cellula (volume, granularità, rugosità, forma). Grazie alla emissione di fluorescenza da parte di fluorocromi legati alla superficie, al citoplasma od al nucleo cellulare, è possibile evidenziare la presenza, ed eventualmente la quantità, di specifici costituenti della cellula. La fluorescenza è un fenomeno dovuto a molecole dette fluorocromi che, quando vengono colpite (eccitate) da una luce di una certa lunghezza d’onda, emettono luce di lunghezza d’onda maggiore. Cio’ permette di separare la luce di eccitazione da quella emessa usando dei filtri ottici. Poichè ogni fluorocromo possiede una precisa lunghezza d’onda di eccitazione e di emissione, per poter osservare il segnale emesso il fluorimetro deve essere dotato di un gruppo di filtri di eccitazione e di emissione compatibili con le caratteristiche del fluorocromo prescelto. Un fluorocromo è una molecola
la
cui
brillantezza
è
particolarmente
elevata.
Le
caratteristiche spettrali devono essere adeguate allo strumento utilizzato; il coefficiente di estinzione deve essere elevato alla lunghezza d’onda impiegata. Gli spettri di emissione dei vari fluorocromi impiegati devono essere il più possibile separati. I
fluorocromi
devono
essere
compatibili
con
la
biologia
dell’esperimento (il legame deve essere specifico, proporzionale al numero dei siti da riconoscere, deve poter raggiungere il bersaglio). Quanto più intensa è la luce utilizzata per illuminare un campione, tanto maggiore è il numero di molecole di fluorocromo che vengono eccitate e quindi il numero di fotoni emessi. Se l’illuminazione è molto intensa, però, tutte le molecole di fluorocromo saranno allo stato eccitato per la maggior parte del tempo (saturazione). Se la luce di eccitazione ha una lunghezza d’onda e una intensità costanti, (per esempio quando si usa un laser come sorgente luminosa) il numero di fotoni emessi, e quindi l’intensità della luce fluorescente prodotta, è funzione lineare del numero di molecole di fluorocromo presenti. I traccianti fluorescenti più usati in immunochimica sono: fluoresceina isotiocianato (FITC), le rodamine, le ficobiline e alcuni umbelliferoni, mentre tra gli ioni di terre rare o lantanidi quelli di impiego comune sono Europio, Samario e Terbio. Tra i fluorocromi la FITC è la molecola d’elezione per studi di immunofluorescenza, dato che la procedura di coniugazione è estremamente semplice ed il segnale emesso è relativamente forte. In caso di analisi a due colori, sono ampiamente utilizzati anche i fluorocromi tetrametilrodamina isotiocianato (TRITC), il Texas Red (TR) e la ficoeritrina (PE). Gli
anticorpi coniugati a fluorocromi sono utilizzati in saggi di immunofluorescenza (Immunofluorescent Iassays - IFA), nella colorazione di cellule e tessuti (rilevabile con la microscopia in fluorescenza), in immunoblotting e nella marcatura di cellule per separazione (cell sorting). Oltre all’enorme scelta di fluorocromi, un altro vantaggio della fluorescenza, rispetto ad altri metodi, è rappresentato dalla stabilità degli stessi. Infatti, si possono conservare per oltre sei mesi anticorpi, sonde oligonucleotidiche e primers PCR coniugati a fluorocromi, senza il problema del decadimento che si verifica per i materiali radioattivi. La marcatura fluorescente permette così di ridurre le spese ed elimina la necessità di una frequente preparazione. La fluorescenza è influenzata da fenomeni locali (pH, ioni, fase acquosa/lipidica, concentrazione dei fluorocromi), e questo obbliga ad un accurato controllo delle condizioni del saggio.La marcatura fluorescente di antigeni di superficie permette di analizzare, ed eventualmente separare, diverse popolazioni di leucociti a seconda dell’ intensità di fluorescenza e delle proprietà di scattering della luce. Gli anticorpi commerciali ottimizzati per analisi in citofluorimetria di flusso includono anticorpi contro i numerosi antigeni della superficie cellulare (CD) umani. La fluorescenza può essere letta in scala lineare o logaritmica. I segnali emessi vengono raccolti da un sistema di lenti,
specchi semitrasparenti e filtri ottici ed inviati ai relativi fotomoltiplicatori e fotodiodi che ne misurano l'ampiezza. I segnali provenienti da ogni sensore vengono digitalizzati ed inviati ad un sistema elettronico per l'acquisizione, elaborazione e stampa dei dati. La visualizzazione dei dati può essere espressa con tre diverse rappresentazioni grafiche: 1) Istogramma: i segnali digitalizzati si accumulano in base al loro valore nei rispettivi canali creando un diagramma di distribuzione di frequenza ad istogrammi. I canali sono molto ravvicinati tra loro, il calcolatore ne mostra solo gli apici ottenendo così un grafico caratterizzato da picchi in ognuno dei quali si può computare il numero degli eventi. 2) Dot plot : correlando due parametri a scelta tra i quattro disponibili, si ottiene una visualizzazione per punti o diagramma di dispersione. Nei diagrammi di questo tipo possono essere individuate nuvole di particolare aggregazione dei punti, relative a popolazioni delimitate (cluster). 3) Contour plot : diagramma a contorni, è un perfezionamento del diagramma a due parametri correlati (dot plot). Visualizza le aree
aventi la stessa densità di probabilità mediante linee chiuse concentriche (Parks et al., 1989). Un campione di cellule non trattate con alcun fluorocromo rimane comunque misurabile dal citofluorimetro non solo per quanto riguarda i valori di FCS e SSC, ma anche rispetto ai corrispondenti valori di fluorescenza, questo perché qualunque oggetto colpito da luce ad una appropriata lunghezza d’onda può emettere un segnale di fluorescenza quantificabile,
che
nel
caso
delle
cellule
viene
definito
“autofluorescenza”.
1.7 La marcatura fluorescente del glutatione La 5-clorometilfluoresceina diacetata (CMFDA) è un reagente derivato della fluoresceina, che diffonde liberamente attraverso le membrane cellulari, e, una volta all’interno della cellula, viene idrolizzato dalle strasi citosoliche e convertito così in un composto fluorescente, la 5-clorometilfluoresceina. Questo composto è in grado di reagire con il glutatione intracellulare attraverso una reazione catalizzata dall’enzima Glutatione – S- transferasi, dando luogo così ad un complesso non più capace di attraversare la membrana cellulare e che si accumula quindi all’interno della cellula; occorre aggiungere
che è stato suggerito che la molecola potrebbe reagire anche con altri componenti cellulari come ad esempio i residui di cisteina delle proteine.
La CMFDA può essere eccitata da un laser ad Argon ed è compatibile con la citometria di flusso e la microscopia confocale. Questa proprietà della CMFDA è stata utilizzata per procedure di determinazione citifluorimetrica del GSH intracellulare (UehaIshibashi T et al, 2004; Tauskela JS et al., 2000; Coates A. et al., 1995), anche se in alcuni studi la specificità della CMFDA per il GSH è stata messa in dubbio (Sebastia J et al., 2003). Nel nostro caso il tracciante è stato impiegato allo scopo di marcare il glutatione intracellulare delle cellule nucleate del sangue cordonale, al fine di determinarne le condizioni iniziali dello stato redox e di confrontarle con quelle delle cellule circolanti di sangue di adulto.
Si suppone che il reagente fluorescente non coniugato al gruppo tiolico (-SH) del glutatione intracellulare venga comunque espulso (sebbene a velocità molto ridotta rispetto a quella di formazione) attivamente dalla cellula mediante una glicoproteina della membrana plasmatica di 170 kD, nota come glicoproteina-P o MDR ATPasi. (Van Luyn MJ et al., 1998). La MDR ATPasi è costituita da due metà identiche legate tra di loro, ognuna delle quali è costituita da una sequenza idrofobica con sei segmenti transmembrana, seguiti da una sequenza citoplasmatica idrofilica, che contiene una sequenza di consenso per un sito di legame per l’ATP. La proteina utilizza l’energia liberata dall’idrolisi dell’ATP per trasportare attivamente
fuori dalla cellula un’ampia varietà di farmaci. Molecole organiche diverse per tipologia e struttura, in grado di diffondere attraverso la membrana plasmatica, sono verosimilmente riconosciute da questa proteina ed attivamente espulse dalla cellula. Nonostante la funzione antitumorale degli agenti chemioterapici, la MDR ATP-asi li riconosce come intrusi cellulari e li espelle rapidamente. Non è ancora chiaro come questa grossa proteina possa riconoscere, legare e trasportare un gruppo così ampio di molecole diverse, ma è noto che la MDR ATPasi , insieme al trasportatore del fattore-a del lievito, rappresenta un componente di una superfamiglia di proteine di trasporto, di cui molte funzioni non sono ancora note.
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