Muntu La Comunicazione

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antonio vigilante

la comunicazione

Antonio Vigilante

http://www.muntu.tk © 2005-2006 Antonio Vigilante

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Muntu / La comunicazione

La comunicazione

Una definizione di comunicazione, 5 Il silenzio comunica, 7 Pragmatica della comunicazione, 8 Comunicazione e stati dell'io, 14 La comunicazione malata, 17 Palcoscenico e retroscena, 21 Breaching experiments, 24 Speaking, 26 La comunicazione non verbale, 29

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Ognuno di noi sperimenta gli effetti di una comunicazione difettosa, bloccata, inautentica. Quando ciò accade, proviamo sensazioni che vanno da disagio alla rabbia vera e propria. Non sentirsi compresi o non comprendere, accorgersi che le proprie affermazioni vengono travisate in modo intenzionale o involontario, venire offesi senza che l’altro ci abbia apparentemente detto nulla di offensivo: sono esperienze che comunemente ci infastidiscono, impedendoci spesso di mantenere buoni rapporti con gli altri. Ma la comunicazione può anche darci gioia. Poche cose trasmettono pace e senso di soddisfazione come l’aprirsi a qualcuno e sentirsi profondamente compresi. La comprensione del messaggio dell’altro è premessa per la partecipazione emotiva alla sua esperienza, e quindi per ogni profonda relazione umana. La comunicazione, insomma, è una cosa che può farci soffrire o darci gioia. Ci fa soffrire quando è malata, ci dà gioia quando è sana. Ma quando una comunicazione è sana, e quando è malata? È una domanda cui cercheremo di rispondere in questo percorso, con l’aiuto delle principali teorie. Ma la domanda da cui dobbiamo partire è un’altra: che cos’è la comunicazione?

Una definizione di comunicazione Un primo modo per cercare di rispondere alla nostra domanda è quello di osservare una situazione comunicativa comune. Immaginiamo dunque questa situazione: una persona parla con un’altra. Possono essere due amiche, due fidanzati, o una madre che parla alla figlia, o il dirigente che parla ad un impiegato. Il rapporto che c’è tra le persone che parlano è fondamentale, come presto vedremo. Ammettiamo, per ora, che le due persone che parlano siano due amici. Essi comunicano verbalmente, prendendo la parola a turno. La persona che parla ha una intonazione della voce che varia in base a quello che dice: può parlare a voce bassissima se sta riferendo un pettegolezzo o arrivare a gridare se sta raccontando un episodio che l’ha indignata. Anche la sua postura può variare. Può essere immobile, o agitarsi e gesticolare in modo più o meno teatrale. Questo dipende da diversi fattori: la personalità di chi parla, il contenuto della comunicazione (se si tratta di qualcosa di emotivamente coinvolgente, è

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più facile che si gesticoli) o dalla reazione dell’interlocutore. Quest’ultimo, infatti, può reagire in diversi modi. Può ascoltare in modo attento o distratto, può intervenire interrompendo l’altro, può manifestare noia ed impazienza attraverso i gesti e la postura del proprio corpo, ad esempio guardando spesso l’orologio o agitando una gamba. Nella situazione che abbiamo immaginato, vi sono dunque le seguenti cose: 1) un persona che parla, 2) ciò che dice attraverso le parole la persona che parla, 3) ciò che dice attraverso i gesti la persona che parla, 4) una persona che ascolta, 5) ciò che dice attraverso i gesti la persona che ascolta. Possiamo dare un nome a ciascuno di questi punti, seguendo l’analisi fatta dal linguista di origine russa Roman Jacobson nei suoi Saggi di linguistica generale. La persona che parla si chiama mittente, chi ascolta si chiama destinatario, ciò che l’emittente dice attraverso le parole è il messaggio verbale, ciò che l’emittente e il destinatario si dicono attraverso i gesti e le posizioni del corpo è il messaggio non verbale. Se consideriamo la situazione con più attenzione, emergono altri aspetti. Il messaggio inviato dal mittente al destinatario dev’essere compreso da quest’ultimo. La persona che ascolta compie un lavoro di interpretazione del messaggio ricevuto, cerca di capire il significato delle parole, non solo in generale, ma anche all’interno del loro contesto; analizza e valuta i gesti, dandone una interpretazione in rapporto al messaggio verbale (e, viceversa, interpreta il messaggio verbale Roman Jacobson anche in base ai gesti e alle posture); cerca di dedurre il significato di eventuali parole non ben comprese o sconosciute o prende atto di non aver compreso il messaggio, chiedendo ulteriori informazioni. Tutto questo lavoro si chiama decodifica. La situazione del destinatario non è diversa da chi si trova a decifrare un messaggio in codice. Ogni messaggio, infatti, utilizza un codice, vale a dire un sistema di segni cui è stato attribuito un particolare significato. Se il destinatario deve operare una decodifica del messaggio, l’emittente può comunicare solo attuando una codifica del suo messaggio, scegliendo cioè con quale codice esprimersi e traducendo il suo messaggio nei segni di quel codice. L’emittente può scegliere di esprimersi in un codice linguistico, gestuale, artistico, rituale eccetera, a condizione però che esso sia condiviso dal destinatario. È necessario, insomma, che i due interlocutori parlino la stessa lingua e condividano una cornice di significati. Ciò non è sempre garantito dall’uso di una stessa lingua nazionale, perché esistono anche i codici settoriali che, benché formalmente rispettosi delle caratteristiche

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della lingua nazionale, di fatto ritagliano un settore più ristretto di significati, non intelligibili a chi non abbia una formazione culturale in quel settore specifico. Ogni comunicazione, inoltre, avviene attraverso un canale particolare. La conversazione può avvenire faccia a faccia, o telefonicamente, per lettera, via internet. Ognuno di questi canali è esposto a rischi di ricezione imperfetta del messaggio, a causa di eventi disturbanti. Può succedere che io non senta bene cosa mi sta dicendo la persona all’altro capo del telefono perché c’è un’interferenza, o che non riesca a sentire bene nella confusione di una discoteca o per il traffico stradale, o che abbia difficoltà a decifrare la scrittura di chi mi ha mandato una lettera. Tutto ciò è il rumore. Possiamo definire la comunicazione come il passaggio di un messaggio codificato dall’emittente al destinatario attraverso un canale, in un contesto preciso, e con la presenza di qualche forma di rumore. Questo modello formale indica le caratteristiche generali di una comunicazione, ma non dà conto della differenza, spesso enorme, tra le varie situazioni comunicative concrete. Noi possiamo rivolgere un messaggio ad un destinatario con finalità molto varie: possiamo chiedere qualcosa, fare un rimprovero, domandare scusa, descrivere qualcosa. La teoria di Jakobson si completa con la precisazione delle differenti funzioni del linguaggio. Il linguista ne individua sei: funzione emotiva, persuasiva, referenziale, fàtica, metalinguistica e poetica. La funzione emotiva è centrata sul mittente, di cui esprime le emozioni e sensazioni, quella persuasiva è orientata verso il destinatario, che si cerca di convincere a fare o approvare qualcosa, quella referenziale dà informazioni su un fatto, un oggetto, una situazione, quella fàtica ha la funzione di stabilire e mantenere il contatto comunicativo, rimediando anche alle distorsioni dovute al rumore («Mi stai ascoltando?», «Hai capito quello che ho detto?»), la funzione metalinguistica ha come oggetto lo stesso codice, di cui dà chiarimenti («velocemente è un avverbio», «Weltanschauung vuol dire visione del mondo»), quella poetica, infine, pone in risalto il messaggio in se stesso.

Il silenzio comunica Consideriamo ora una situazione comunicativa piuttosto lontana da quella, molto quotidiana, che abbiamo immaginato nel paragrafo precedente. «Nei tempi antichi, durante una riunione sulla Montagna Spirituale, il Buddha raccolse un fiore e lo mostrò alla folla. Rimasero tutti in silenzio, tranne il santo Kashyapa, che sorrise. Il Buddha disse: 'Ho il tesoro dell'occhio della verità, l'ineffabile mente del nirvana, il più sottile degli

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insegnamenti sull'assenza di forma della forma della realtà. Non può essere espresso dalle parole, ma viene trasmesso in modo speciale al di fuori della dottrina. Io lo affido a Kashyapa l'anziano»1. Qui è il Buddha, una personalità eccezionale, che trasmette ai suoi discepoli il punto fondamentale del suo insegnamento: quello che riguarda la liberazione dell’uomo dalla sofferenza della vita (nirvana). Questa comunicazione avviene, viene detto, in modo speciale, mostrando semplicemente un fiore. Senza nemmeno una parola. In altre circostanze, il Buddha rispondeva con il silenzio alle domande che riteneva inopportune. Si chiama nobile silenzio, ed è anch’esso pieno di significati. Restando in silenzio quando gli si rivolgevano domande riguardanti questioni metafisiche, insegnava che i problemi di cui bisogna preoccuparsi sono solo quelli che riguardano la nostra situazione esistenziale, mentre tutte le altre sono inutili e dannose. Abbiamo visto nel paragrafo precedente che la comunicazione può anche essere non verbale. L’esempio del Buddha ci fa comprendere ora che questa comunicazione non verbale non è necessariamente di supporto a quella verbale (come i gesti che accompagnano le nostre parole), ma può comunicare autonomamente; può, anzi, comunicare cose che le parole non riuscirebbero a comunicare. Non solo. Lo stesso silenzio può comunicare.

Pragmatica della comunicazione Le nostre parole comunicano, i nostri gesti comunicano, il nostro silenzio comunica. Comunica, anche, il nostro modo di disporci spazialmente nei confronti degli altri. Comunica il nostro modo di vestirci. In un certo senso si può dire che realmente l’abito fa il monaco, perché vestendoci in un certo modo scegliamo consapevolmente l’immagine di noi stessi da offrire agli altri, decidiamo di rassicurarli, di spaventarli, di sedurli, di suscitare rispetto. Se è così, allora non c’è modo di non comunicare. Siamo condannati a comunicare. È proprio questa una delle conclusioni cui sono giunti tre studiosi del Mental Research Institute di Palo Alto, in California: Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson. In un libro pubblicato nel 1967, che è diventato un classico della psicologia, questi autori hanno studiato la pragmatica, ossia l’aspetto comportamentale,

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Wumenguan, 6 (a cura di Th. Cleary, Mondadori, Milano 2002, p.55). Il Wumenguan è una antica raccolta di koan, cioè di piccole storie che contengono insegnamenti fondamentali appartenenti allo Zen, una corrente del Buddhismo diffusa in Giappone.

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della comunicazione umana, giungendo a fissare alcuni assiomi della comunicazione. Primo assioma Il primo di questi assiomi è: non si può non comunicare. Comunicare è un comportamento. I comportamenti umani possono variare, ma non possono mai lasciare il campo ad un noncomportamento. Qualunque cosa l’uomo faccia, l’uomo sta attuando un comportamento; e, dal momento che ogni comportamento comunica qualcosa, ognuno di Paul Watzlawick noi comunica, qualunque cosa faccia. «L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda, o il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si rivolga loro la parola, e i vicini di solito ‘afferrano il messaggio’ e rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo, ovviamente, è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una discussione animata»2. Questa conclusione ha incontrato grande successo, ma anche diverse critiche. Sicuramente chi resta in silenzio comunica e, come abbiamo visto con l’esempio del Buddha, può comunicare anche qualcosa di profondamente importante. Ma, in genere, non definiamo comunicativa una persona molto silenziosa. Il suo silenzio comunica, ma comunica, paradossalmente, l’intenzione di non comunicare. Una persona che cercasse di chiarire i problemi con il proprio partner, e si trovasse di fronte un muro di silenzio, ne dedurrebbe l’incomunicabilità e la necessità di riconoscere la fine di quel rapporto. La persona che fa colazione alla tavola calda senza guardare nessuno sicuramente comunica, ma si tratta di una comunicazione che stronca sul nascere qualunque scambio con gli altri. L’uomo trasmette un messaggio al quale corrisponde l’evitamento da parte degli altri. Ugualmente, la persona che rifiuta il confronto provoca l’allontanamento del partner. In tutti questi casi c’è un unico scambio comunicativo che blocca tutti gli altri possibili scambi comunicativi. C’è una comunicazione che tronca la possibilità di un’ulteriore comunicazione. Ciò non avviene solo attraverso il silenzio. Risposte evasive, monosillabiche, fatte con tono infastidito, o affermazioni imperative, a voce alta, suscitano lo stesso effetto. Esse non trasmettono solo un 2

P.Watzlawick-J.H.Beavin-D.D.Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971, p.41.

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contenuto, ma impongono anche un comportamento all’interlocutore. Ugualmente, una risposta affettuosa, simpatica ad una semplice richiesta di informazioni (sull’ora, ad esempio) contiene un invito all’interlocutore ad approfondire la relazione. In altri termini, i nostri messaggi contengono un secondo livello, una specie di messaggio nascosto, con il quale cerchiamo di indurre gli altri ad assumere un determinato atteggiamento. Secondo assioma È quel che afferma il secondo assioma della pragmatica della comunicazione: «Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione»3. Detto in modo più semplice, ognuno di noi deve interpretare i messaggi che provengono dagli altri, badando al tono, alla gestualità, ad ogni aspetto che può incidere sul significato di quel messaggio. Un «Tu sei proprio stupido» può assumere molti significati diversi, a seconda che sia detto con un tono iroso, o ridendo, o facendo una carezza. Il tono, la risata e la carezza comunicano dunque qualcosa sul messaggio: per questo si tratta di metacomunicazione. Il secondo assioma della pragmatica della comunicazione ci consente di riconoscere alcune trappole della comunicazione quotidiana. Frequentemente utilizziamo la discrepanza tra aspetto di contenuto ed aspetto di relazione per spiazzare l’interlocutore, ricorrendo alla metacomunicazione come copertura e giustificazione del messaggio manifesto, o viceversa. A: «Sei proprio uno stupido» (sorride, ma è un sorriso non pienamente giustificato dal contesto). B: «Come ti permetti?» A: «Come sei permaloso. Stavo scherzando.»

In questo caso A ha utilizzato l’aspetto di relazione – leggero ed amichevole – per mascherare e far passare un messaggio manifesto offensivo. A: «Certo che hai fatto proprio un bel lavoro» (con un tono canzonatorio) B: «Perché mi dici così? Ho fatto del mio meglio.» A: «Ma sì, infatti ho detto che hai fatto un bel lavoro.»

In questo secondo caso il messaggio manifesto di A vale a coprire l’aspetto di relazione, che è offensivo. In entrambi i casi A può esprimere critiche verso B senza assumersene la responsabilità. 3

Ivi, p.46.

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Entrambe gli esempi riguardano situazioni comunicative che possono sfociare in un litigio. Quando ciò accade, ognuno dei comunicanti cerca di attribuire all’altro la causa dello scontro, individuandone l’origine in una sua precisa affermazione o presa di posizione; l’altro si difenderà sostenendo che la sua affermazione non era che una risposta ad una offesa ricevuta in precedenza. A: «Tu mi hai detto che sono uno stupido.» B: «È vero, non lo nego. Ma tu prima avevi detto che sono una persona superficiale.» A: «Ti ho detto che sei superficiale perché mi hai offeso con le tue osservazioni sul mio modo di vestire.»

Terzo assioma La schermaglia tra A e B può andare avanti all’infinito. Cosa stanno cercando di fare entrambi? Stanno cercando di individuare l’inizio di quel particolare scambio comunicativo in modo tale da poterne dare una interpretazione favorevole per sé. Detto con il linguaggio comune, si stanno confrontando su chi ha cominciato per primo. Detto con il linguaggio della Scuola di Palo Alto, ognuno dei due interlocutori cerca di punteggiare le sequenze di comunicazione, ponendo il punto d’inizio in un’affermazione dell’altro, in modo tale che le affermazioni proprie risultino essere semplicemente delle risposte, delle reazioni comprensibili e innocenti a provocazioni o altri comportamenti inaccettabili. Una persona esterna, cui A o B raccontassero del loro litigio, avrebbe molta difficoltà a farsene un’idea oggettiva. Se sarà A a raccontarglielo, concluderà che A è stato ingiustamente offeso da B e si è giustamente difeso; il contrario, se a raccontare il litigio sarà B. Lo scambio comunicativo avrà un significato assolutamente differente (contrario) a seconda che venga punteggiato da A o da B. È quello che indica il terzo assioma della pragmatica della comunicazione: la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti 4. Quarto assioma Abbiamo accennato precedentemente alla comunicazione non verbale. Di che tipo di comunicazione si tratta? Come rientra nel quadro teorico tracciato da questi assiomi? Essa si lega a quell’aspetto di relazione di una

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Ivi, p.51.

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comunicazione che il secondo assioma distingue dall’aspetto di contenuto. In altri termini, i messaggi significativi sul piano della relazione sono affidati soprattutto agli aspetti non verbali della comunicazione. E non è difficile verificarlo. Se un uomo dicesse «ti amo» ad una donna, mantenendo un’espressione imperturbabile, avrebbe poca possibilità di essere creduto. Nel campo della relazione, le affermazioni hanno una validità limitata. C’è un linguaggio del corpo, dei gesti, del volto che esprime più liberamente e più sinceramente la verità sulla relazione. Ma in cosa si differenziano una affermazione ed una carezza? Si tratta di espressioni di due linguaggi differenti. La prima fa ricorso ad un sistema di simboli, quale è appunto il linguaggio, per denotare un oggetto. Per indicare un gatto, dico o scrivo la parola gatto, la quale però, essendo semplicemente un insieme di lettere e di suoni, non ha nessun reale legame con l’animale che indica. C’è un altro modo di indicare un gatto: quello di disegnarlo. In questo caso c’è somiglianza tra il disegno e l’oggetto indicato dal disegno. Nel primo caso io ho adoperato un modulo numerico, nel secondo un modulo analogico. Quest’ultimo esprime dunque una realtà ricorrendo ad una immagine o a una rappresentazione fisica, tangibile. L’amore, l’affetto, la solidarietà vengono espressi con gesti che esprimono immediatamente la situazione relazionale: carezzare la guancia, toccare un braccio, guardare negli occhi. Questi gesti dicono i sentimenti ed i rapporti umani in un modo infinitamente più diretto ed efficace di qualsiasi parola. Hanno però dei limiti. Non è possibile, attraverso il modulo analogico, comunicare cose complesse ed astratte – ad esempio teoremi o idee filosofiche. Non è possibile fare con il modulo analogico un discorso ipotetico («se… allora»), oppure riferirsi al passato o al futuro. Il modulo analogico non conosce le distinzioni di tempo. Inoltre, il modulo numerico è spesso ambiguo, ed è una ambiguità che complica non poco i nostri rapporti con gli altri. Come fare per sapere se le lacrime di una persona sono di gioia o di dolore? Come distinguere il rossore dovuto alla timidezza da quello dovuto alla rabbia, o la freddezza dalla timidezza? Il modulo numerico e quello analogico hanno entrambi dei difetti, ed è per questo che li integriamo l’uno con l’altro. Al modulo numerico manca la capacità di esprimere efficacemente contenuti di relazione, a quello analogico la capacità di esprimere messaggi astratti, complessi e non ambigui. Detto con le parole del quarto assioma della pragmatica della comunicazione, «gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo

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che non sia ambiguo la natura delle relazioni»5. Il modulo analogico possiede unità di significato della relazione che mancano al modulo numerico, ma non sa come mettere insieme queste unità in modo tale da costruire un discorso che superi ogni ambiguità. È degno di rilievo anche il fatto che gli autori della Scuola di Palo Alto accostano il modulo analogico al processo primario di Freud e quello numerico al processo secondario.6 L’ambiguità del linguaggio analogico è la stessa ambiguità delle espressioni dell’Es, che è al di qua delle leggi della logica. Il modulo analogico risulterà così maggiormente presente nei bambini, nelle persone con ritardo mentale o con disturbi della personalità, in tutti coloro che non hanno un pensiero logico ben sviluppato. Questo non dovrebbe però indurre a considerare inferiore il modulo analogico, poiché si tratta di una modalità comunicativa fondamentale quando si tratta di saggiare la sincerità dell’altro: «perché è facile dichiarare qualcosa verbalmente, ma è difficile sostenere una bugia nel regno dell’analogico»7. Questa affermazione non è in contrasto con la considerazione del carattere ambiguo del modulo analogico, perché tale ambiguità si riferisce alla possibilità di interpretare in modi opposti una stessa espressione analogica, non alla possibilità di usare intenzionalmente il modulo analogico per ingannare. Si può piangere di gioia o di dolore, ma sicuramente un «mi dispiace» accompagnato da lacrime è considerato più sincero di un pentimento espresso in forma esclusivamente verbale (numerica). Resta tuttavia possibile esprimere intenzionalmente sentimenti falsi attraverso il modulo analogico; piangere, ad esempio, finte lacrime di dolore. Si tratta di una possibilità che i teorici della pragmatica della comunicazione sembrano ignorare, e che appare più come una patologia della comunicazione che come una modalità corrente. Quinto assioma Un ultimo, importantissimo aspetto da considerare, è la posizione dei comunicanti. Nella situazione che abbiamo immaginato, i due comunicanti sono amici, e quindi si trovano sullo stesso piano. Non tutte le situazioni comunicative seguono questo modello. Gli scambi comunicativi che avvengono tra madre e figlia, tra docente e studente, tra dirigente ed impiegato sono essenzialmente diversi. In uno scambio tra amici entrambi hanno la possibilità di alzare la voce, ad esempio, o di reagire scherzosamente alle affermazioni dell’altro; in uno scambio tra persone tra le quali vi è un ordinamento gerarchico ciò non è possibile: vi sono cose che sono consentire all’uno, e cose che sono consentite all’altro. Il dirigente 5 6 7

Ivi, p.57. Ivi, p. 56, nota. Ivi, pp.54-55.

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può rimproverare l’impiegato, ma non è vero il contrario. La prima situazione è simmetrica: il comportamento dell’uno rispecchia quello dell’altro. Nel secondo caso abbiamo una situazione complementare, poiché i comportamenti dei due comunicanti si completano l’un l’altro. Il quinto assioma della pragmatica della comunicazione afferma dunque: «Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza»8. La superiorità di uno dei due comunicanti nell’interazione complementare può essere il risultato dell’evoluzione della relazione tra i due (ad esempio nel caso in cui un coniuge abbia raggiunto una forma di prevalenza sull’altro) oppure essere legata al ruolo (la relazione tra docente e studente, ad esempio). Nel primo caso, la normalità delle interazioni complementari è la degenerazione di un rapporto che originariamente era simmetrico (presumibilmente da fidanzati avevano un rapporto paritario). Con il tempo, uno dei due è riuscito ad assumere una posizione dominante, posizionando l’altro un gradino più in basso. Per approfondire la modalità di questo posizionamento dell’altro nella comunicazione quotidiana abbandoniamo un attimo la scuola di Palo Alto, per rivolgerci all’Analisi Transazionale.

Comunicazione e stati dell’io L’Analisi Transazionale è una corrente psicoterapeutica creata dallo psicologo americano Eric Berne che distingue in ognuno di noi tre stati dell’io: Genitore, Adulto e Bambino. Uno stato dell’io è un insieme coerente di sentimenti, cui corrisponde un insieme di comportamenti. In altri termini, noi abbiamo di volta in volta, nelle diverse situazioni della nostra vita, sentimenti da bambino, da adulto e da genitore, e ci comportiamo di conseguenza. Siamo nello stato dell’io Genitore quando ci comportiamo come si sarebbero comportati i nostri genitori, dell’Adulto quando valutiamo una situazione in modo oggettivo, affrontiamo razionalmente i problemi e siamo concentrati sul qui ed ora, e del Bambino quando, pur essendo adulti, reagiamo come avremmo fatto da bambini, quando siamo creativi, spontanei, tesi al divertimento ed alla gioia9. 8

Ivi, p.60. Per completezza, è bene specificare che l’Analisi Transazionale distingue ulteriormente il Genitore in Genitore diretto e Genitore indiretto (il primo si ha quando ci comportiamo imitando i nostri genitori e identificandoci con loro, il secondo quando ne seguiamo gli insegnamenti) ed il Bambino in Bambino adattato e Bambino naturale (il primo è il bambino che conforma il suo comportamento alle richieste dei genitori, il secondo è il bambino libero). 9

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La personalità di un uomo e di una donna si può rappresentare quindi con il seguente diagramma strutturale (dove G sta per Genitore, A per Adulto e B per Bambino).

Questo diagramma rende molto più complessa la considerazione della situazione dalla quale siamo partiti (due persone che comunicano). La comunicazione, infatti, non è più soltanto tra persone, ma tra stati dell’io. Quando ci rivolgiamo a qualcuno, possiamo farlo trovandoci nello stato del Genitore, dell’Adulto o del Bambino. Se chiedo una semplice informazione, sono nello stato dell’Adulto, se faccio un rimprovero sono in quello del Genitore, se propongo un gioco o mi lamento in quello del Bambino. Non solo. Ogni nostra comunicazione – che nel linguaggio dell’Analisi Transazionale si chiama stimolo transazionale – può essere rivolta al Genitore, all’Adulto o al Bambino dell’altro. Nel momento in cui l’altro risponde (la risposta si chiama reazione transazionale) possono succedere due cose: a rispondere può essere lo stesso stato dell’io cui mi sono rivolto con la mia domanda, oppure uno stato diverso. Se lo stato dell’io è lo stesso, si parla di transazione complementare, semplificata dal diagramma che segue:

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Abbiamo qui uno stimolo transazionale da Genitore a Bambino cui risponde una reazione transazionale da Bambino a Genitore; uno stimolo transazionale da Adulto ad Adulto, cui risponde una reazione transazionale da Adulto ad Adulto; uno stimolo transazionale da Bambino a Genitore, cui risponde una reazione transazionale da Genitore a Bambino. Si tratta di situazioni piuttosto comuni, nelle quali i comunicanti provano una sensazione di soddisfazione ed armonia, perché c’è corrispondenza tra ciò che l’uno chiede e ciò che l’altro offre. Questa situazione si chiama transazione complementare, ed è una transazione (cioè uno scambio comunicativo) che procede senza ostacoli, e si interrompe solo per interventi esterni (ad esempio perché è tardi ed uno dei due comunicanti deve andare, o perché interviene una terza persona).Diverso è il caso di una transazione incrociata. Essa si ha quando ad uno stimolo transazionale si risponde con una reazione trasazionale che non proviene dallo stato dell’io cui era rivolto lo stimolo. Lo schema seguente mostra una transazione incrociata.

Come si vede, in questo caso le linee non procedono parallele, ma si incrociano. Una semplice richiesta da Adulto ad Adulto ha provocato una risposta da Bambino a Genitore. Ad esempio, il soggetto A ha chiesto una informazione, ed il soggetto B ha risposto come se quella domanda contenesse una critica. Come si può intuire, queste transazioni sono molto meno facili delle transazioni complementari. Se le prime procedono virtualmente all’infinito, le transazioni incrociate rappresentano un inciampo nella comunicazione, cui può seguire il silenzio oppure una transazione complementare (nel caso dell’esempio, potrebbe seguire una transazione complementare tra Genitore e Bambino). Questo genere di transazioni abbondano nelle relazioni tra persone che non si comprendono i cui scambi comunicativi lasciano una sensazione di fastidio, a volte anche di rabbia. Un terzo, importante genere di transazione è la transazione ulteriore. Nelle transazioni che abbiamo visto, interviene uno stato dell’io alla volta; in quelle ulteriori, gli stati dell’io che intervengono sono due. Queste transazioni, cioè, contengono un messaggio evidente ed un altro

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nascosto, si rivolgono in modo palese ad uno stato dell’io ed in modo occulto ad un altro. Semplifichiamo ancora con uno schema.

Qui abbiamo uno scambio comunicativo evidente tra Adulto ed Adulto, ed uno scambio contemporaneo tra Adulto e Bambino. Eric Berne illustra questa situazione con l’esempio di uno scambio di battute tra un commesso ed una casalinga. Il commesso sa che per vendere il suo aspirapolvere deve far leva sulla parte infantile della personalità delle sue clienti (strategia ampiamente sfruttata dai pubblicitari, come vedremo). Per questo mostra alla casalinga l’aspirapolvere più costoso, ed osserva: «Questo sarebbe il migliore, ma lei non se lo può permettere». Apparentemente, questa è una osservazione oggettiva: l’aspirapolvere costa realmente molto, ed evidentemente la casalinga non mostra di essere ricca. Si tratta di una transazione da Adulto ad Adulto. Ma l’osservazione contiene anche una provocazione ed una sfida rivolta alla parte meno razionale della casalinga, che infatti risponde: «E invece lo prendo»10. Le transazioni ulteriori, che costituiscono la parte più intrigante dei nostri scambi comunicativi, sono transazioni nelle quali l’aspetto di contenuto e l’aspetto di relazione di una comunicazione, individuati dal secondo assioma della pragmatica della comunicazione, si distinguono per il fatto di essere indirizzati ad aspetti differenti della personalità dell’interlocutore.

La comunicazione malata La parola comunicazione ha una etimologia che rimanda al rendere comune ciò che si possiede. Se da una parte dunque comunicazione indica una realtà cui non si può sfuggire – non si può non comunicare, abbiamo visto – dall’altra il senso della parola è realizzato fino in fondo solo in una realtà di compartecipazione e solidarietà, in cui più soggetti condividono

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E. Berne, A che gioco giochiamo, Bompiani, Milano 2003, p.36.

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conoscenza, sentimenti, progetti. Una tale realtà è possibile solo ove vi sia la volontà, da parte dei soggetti, di rendere realmente comune ciò che si possiede; occorre inoltre che si sia in grado di farlo, quando se ne abbia la volontà. La mancanza di questi due aspetti (la volontà di comunicare e la capacità di farlo in modo efficace) genera una comunicazione in cui manca l’aspetto essenziale del rendere comune, sostituito da diffidenza, incomprensione, ostilità. In questo caso si può parlare di comunicazione malata. Le patologie della comunicazione sono state studiate dalla Scuola di Palo Alto in stretta relazione con gli assiomi della comunicazione: per ognuno dei quattro assiomi esiste una forma particolare di patologia della comunicazione. Il primo assioma afferma, come sappiamo, che non si può non comunicare. Anche il silenzio comunica. A volte comunica anche troppo, per cui si preferisce evitarlo, e scegliere una forma di comunicazione verbale, anche se inadeguata. Un uomo ha passato la sera con una donna. A notte fonda torna a casa, dove la moglie lo attende agitata. Appena entra, gli chiede: «Tu mi tradisci?». L’uomo ha tre possibilità. Può non rispondere alla domanda, ma in questo modo alimenterebbe i sospetti della moglie, ed è come se avesse risposto di sì. Può dirle la verità, comunicando in modo pieno (rendendo comune, cioè, una verità per lei dolorosa). Oppure può scegliere di eludere la domanda rispondendo in maniera evasiva o criptica. Ad esempio può rispondere così: «Che cosa vuol dire tradire?». Oppure: «A questo mondo tutti quanti tradiamo». L’uomo ha accettato di rispondere alla domanda, ma senza accettare l’impegno di rendere comune ciò che si possiede, che appartiene alla comunicazione. In questi casi, che sono piuttosto frequenti, si ricorre a frasi generiche, oppure ad un linguaggio che può essere interpretato in molti modi (quello che gli autori della Scuola di Palo Alto chiamano schizofrenese), o ancora ci si può contraddire sfacciatamente, si possono interpretare le affermazioni dell’interlocutore in modo palesemente distorto: in altri termini, si cerca con ogni mezzo di squalificare la comunicazione. Una seconda patologia molto frequente, in relazione con il secondo assioma della pragmatica della comunicazione, è la disconferma. Il secondo assioma riconosce nella comunicazione un aspetto di contenuto ed un aspetto di relazione. Quest’ultimo riguarda la nostra identità. Comunicando, io propongo all’altro – al livello della relazione - una certa immagine di me stesso. L’altro ha tre possibilità: la conferma, il rifiuto e la disconferma. Madre e figlia sono un negozio di abbigliamento. La figlia ha tredici anni ed in famiglia è ancora considerata una bambina, mentre lei comincia a percepirsi come una «adulta». Nel negozio la figlia vede un abito un po’

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audace, certamente non infantile, e lo indica alla madre: «Mi compri quello?» Questa richiesta contiene, al di là del contenuto, un messaggio ben preciso a livello di relazione: «Io non sono più una bambina, ed è giusto che cominci ad indossare abiti da grande». La madre può accettare questa richiesta («Sì, penso che ti starebbe bene, lo prendiamo») e l’immagine di sé che ad essa è legata («In fondo non sei più una bambina»), o rifiutarla, mettendo in discussione l’immagine di sé proposta dalla figlia («No, quel vestito non va bene per te, sei ancora troppo piccola»), oppure può negare la legittimità stessa di quella richiesta: «Chi sei tu per scegliere cosa comprare? Si compra quello che dico io». La disconferma è un comportamento pericoloso, che ha conseguenze gravi sulla salute psichica di chi si trova a subirla. Gli studi hanno messo in luce il legame tra disconferma e schizofrenia, e ciò appare evidente se si considera che un soggetto che subisca una costante disconferma non riceve solo una negazione dell’immagine di sé («tu non sei così»), ma una negazione di sé come fonte legittima delle proprie affermazioni («tu non esisti»). Le ricerche sulla comunicazione hanno consentito di mettere in luce un altro fenomeno particolarmente importante nella genesi della schizofrenia: il doppio legame. Per doppio legame si intende una forma di comunicazione paradossale, vale a dire una situazione comunicativa contraddittoria che non consente alcuna soluzione. Il doppio legame si verifica in un contesto caratterizzato da relazioni interpersonali intense (nella famiglia, in primo luogo) allorquando un soggetto dà un messaggio che è intimamente contraddittorio, perché afferma qualcosa ed al contempo afferma una cosa contraria riguardante la propria affermazione, senza che il destinatario possa sottrarsi al dovere di reagire a quel messaggio. Il classico esempio è quello dell'ingiunzione «sii spontaneo»: per rispondere a questa ingiunzione bisognerebbe adeguarvisi, ma adeguarsi all'ingiunzione di essere spontaneo significa agire secondo quanto richiesto da un altro, e quindi non essere spontaneo. Situazioni comunicative di questo genere possono capitare sporadicamente, lasciandoci confusi ed irritati; quando diventano la norma delle relazioni comunicative, quando il paradosso diventa abituale, il sistema diventa schizofrenico. La malattia del sistema diviene evidente in uno dei suoi membri, ma è tutto il sistema ad essere malato. Lo schizofrenico va visto, in base a questa teoria, come il rappresentante di un sistema caratterizzato da un modello comunicativo schizofrenico. La terapia, di conseguenza, non può riguardare il singolo individuo, ma deve coinvolgere l'intero sistema, principalmente la famiglia. Una storia raccontata da Watzlawick in Istruzioni per rendersi infelici mostra in modo efficace e divertente il fenomeno della profezia che si

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autoavvera, che è la più frequente distorsione della punteggiatura delle sequenze comunicative: «Un uomo vuole appendere un quadro. Ha il chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha uno, così decide di andare da lui e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: e se il mio vicino non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto ed egli ce l'ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse un utensile, io glielo darei subito. E perché lui no? Come si può rifiutare al prossimo un così semplice piacere? Gente così rovina l'esistenza agli altri. E per giunta si immagina che io abbia bisogno di lui, solo perché possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre, e prima ancora che questi abbia il tempo di dire 'Buon giorno', gli grida: 'Si tenga pure il suo martello, villano!'»11 Tutti noi tendiamo a punteggiare a nostro favore le sequenze degli scambi comunicativi cui abbiamo preso parte, in modo tale da far apparire le nostre affermazioni (o insulti) come risposta a quelle altrui, ignorando o fingendo di ignorare la circolarità della comunicazione. Nelle profezie che si autoavverano questa punteggiatura avviene con sequenze comunicative non reali, ma solo possibili. Io interpreto la mia affermazione come risposta ad una possibile, ma certa, affermazione altrui. Purtroppo gli esempi di questa patologia della comunicazione non sono sempre innocui o divertenti come quello dell'uomo del martello. È proprio questo meccanismo, ricordano gli autori di Palo Alto, che scatena a livello mondiale la corsa agli armamenti. Lo stato A afferma di aver bisogno si armi sofisticate perché altrimenti lo stato B lo aggredirà. Lo stato B affermerà di ricorrere agli armamenti perché lo stato A si sta armando per scopi evidentemente aggressivi. C'è un'altra condizione che favorisce questa competizione tra nazioni o individui. Quando le relazioni sono simmetriche, c'è la tendenza di ognuno dei due comunicanti a prendere il sopravvento sull'altro, uscendo dalla situazione di uguaglianza per stabilirne una di dominio. L' escalation simmetrica è la patologia delle relazioni simmetriche. Anche le relazioni complementari hanno il loro risvolto patologico, che è più importante per la nascita di vere e proprie patologie psicologiche. In una relazione complementare c'è chi è in una posizione di dominio e chi in una posizione di inferiorità. In alcuni casi questa complementarità può essere particolarmente rigida e mostrarsi come una vera e propria follia a due, in cui la persona che occupa la posizione inferiore vive un senso di frustrazione costante, perché la sua identità viene disconfermata, e tuttavia non riesce, per una sorta di accordo perverso, ad uscire da quella 11

P. Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici (1983), Feltrinelli, Milano 1991, p. 29.

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situazione relazionale. È il caso di alcune famiglie in cui i figli (spesso figli unici) sono costretti anche in età adulta in uno stato di costante minorità psicologica; è anche il caso del sadomasochismo, in cui la crudeltà di un partner si amalgama con la sottomissione e l'umiliazione volontaria dell'altro. Come impresa rischiosa, la comunicazione può fallire o bloccarsi. Non sempre però ad essa segue il silenzio. A interrompersi è la comunicazione nel modulo numerico: il parlarsi. In genere però si continua a comunicare con l'altro modulo, quello analogico, il linguaggio dei gesti, dei simboli, dei rituali. Dopo un litigio il marito può far recapitare alla moglie dei fiori o azzardare una carezza. Ma il modulo analogico ha, come abbiamo visto, dei limiti ben precisi: non è possibile dire tutto e, soprattutto, non è possibile comunicare in modo non ambiguo. Quando si comunica con il modulo analogico si può verificare quindi una ulteriore patologia della comunicazione, nel momento in cui si sbaglia a tradurre il materiale analogico. Delle lacrime di rabbia, dopo un litigio dovuto ad accuse infondate, possono essere scambiate per lacrime dovute al senso di colpa, e quindi interpretate come una ammissione della colpa. In realtà, quando comunichiamo nel modulo analogico non facciamo affermazioni, ma invochiamo una relazione, facciamo proposte, domande, minacce che riguardano il nostro rapporto futuro con la persona cui ci rivolgiamo.

Palcoscenico e retroscena A meno che non ci troviamo in un paese di cui non conosciamo la lingua, non è difficile per noi chiedere un'informazione ad uno sconosciuto. Rispondere ad un saluto è per noi un atto quasi automatico: sappiamo quali sono le espressioni verbali e non verbali da impiegare con quella determinata persona; sappiamo che possiamo salutare un amico con un familiare «ciao», mentre per una persona con cui abbiamo relazioni più formali è preferibile un «arrivederci». Quando siamo in treno, sappiamo di non poter attaccare discorso con chi ci sta di fronte senza qualche fondato pretesto, se non vogliamo apparire poco educati. Tutte queste cose, che ci sembrano assolutamente naturali, comportano in realtà un complesso sistema di regolazione dei nostri rapporti interpersonali. Per quanto possa sembrarci spontanea, una semplice conversazione segue in realtà una serie di regole ben precise, il cui mancato rispetto provoca conseguenze vistose. Agli inizi del Novecento il sociologo Gabriel Tarde auspicava la creazione di una vera e propria «conversazione

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comparata»12, che confrontasse i modi di conversare nelle diverse culture. Da allora, molti progressi sono stati fatti nella comprensione dell'interazione umana e delle relazioni interpersonali. Nei nostri rapporti con gli altri siamo guidati da una fondamentale fiducia nel prossimo. Quando chiediamo un'informazione siamo certi che la persona interpellata farà di tutto per aiutarci, quando conversiamo siamo certi che il nostro interlocutore non se ne andrà bruscamente, quando salutiamo diamo per certo che l'altro risponderà al saluto. Su cosa si basa questa fiducia? Se l'altro fosse assolutamente libero di comportarsi come gli pare, probabilmente questa fiducia non sarebbe possibile. A chiunque sarebbe concesso di piantare di stucco l'interlocutore durante una conversazione e di andarsene. Ma questo succede raramente. La nostra fiducia si basa dunque sul fatto che gli altri nella vita quotidiana sono attori che seguono un copione con margini di improvvisazione limitati e con la necessità di ottenere il gradimento del pubblico. Questa metafora teatrale è stata impiegata dal sociologo Erving Goffman nel volume La vita quotidiana come rappresentazione (The Presentation of Self in Everiday Life, 1959). Secondo Goffman, quando siamo in presenza di uno o più osservatori cerchiamo di trasmettere loro le impressioni che preferiamo, mettiamo in scena una rappresentazione, impiegando una serie di tecniche di controllo delle impressioni che la sociologia ha il compito di studiare. In modo intenzionale o non intenzionale, noi costruiamo sempre una facciata. Se vogliamo ingannare qualcuno, dobbiamo fare attenzione a presentarci in modo da apparire come persone affidabili, trovare un tono adatto, vestirci secondo i canoni correnti di abbigliamento rispettabile. Anche quando siamo sinceri, però, facciamo ricorso a mezzi espressivi che facciano comprendere che stiamo dicendo la verità; costruiamo cioè una facciata. Noi siamo sempre immersi nella comunicazione con gli altri, ma non in tutte le situazioni si tratta dello stesso tipo di comunicazione. Aspettando un autobus, noi prendiamo atto della presenza degli altri e comunichiamo loro questa presa d'atto. Lo facciamo ricorrendo a forme di comunicazione non verbale: principalmente uno sguardo sfuggente, con il quale è come se dicessimo «so che ci sei, ma non ti darò disturbo». È il tipo di sguardo che le persone che non si conoscono si scambiano quando sono costrette a stare insieme in uno spazio ristretto. Questa è per Goffman l' interazione non focalizzata, caratterizzata dalla disattenzione civile (espressione contraddittoria per dire che non facciamo attenzione agli altri pur essendo consapevoli della loro presenza). 12

G. Tarde, L'opinion et la foule (1901), Les Presses Universitaires de France, Paris 1989, prefazione.

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Se alla fermata dell'autobus chiediamo a qualcuno a che ora passerà il prossimo autobus, passiamo da una interazione non focalizzata ad una interazione focalizzata. Possiamo così abbandonare la disattenzione civile e guardare il nostro interlocutore, anche se ci sono proibite molte altre cose: non possiamo dargli del tu, non possiamo avvicinarci troppo, non possiamo toccarlo; o meglio, non possiamo fare queste cose senza incorrere nella disapprovazione sua e di chi si trovasse ad assistere alla scena. Se ci capita di toccare inavvertitamente il corpo di qualcuno che non conosciamo, generalmente ce ne scusiamo. Insomma, nelle nostre interazioni sociali seguiamo un vero e proprio rituale. L'altro, nota Goffman, è paragonabile ad un oggetto sacro, che si può maneggiare solo a condizione di prendere una serie di precauzioni rituali, che sono appunto tutte le nostre regole di cortesia, le buone maniere, le norme non scritte sulla distanza personale, e così via. Poiché i rapporti umani sono reciproci, non soltanto gli altri sono sacri per noi, ma anche noi siamo sacri per gli altri. Nello scambio con l'altro, emergono quindi degli individui dotati di una identità forte, sacrale, intangibile. In questo senso, si può dire che la nostra identità non è soltanto condizionata dalla società, ma nasce realmente all'interno dell'ordine cerimoniale delle interazioni sociali. L'interazione umana, dunque, è simile ad una rappresentazione teatrale e ad un sistema cerimoniale. La vita di un teatro, però, non si svolge tutta sulla scena. Per Goffman, noi disponiamo di un retroscena, nel quale possiamo allentare la tensione che ci procura il fatto di dover recitare sul nostro palcoscenico quotidiano. Nel retroscena siamo molto più liberi, ci concediamo cose di cui ci vergogneremmo in pubblico, come «cantarellare, fischiare, masticare, rosicchiare, ruttare e avere flatulenze»13. Questo spazio privato e libero può essere assolutamente individuale, ma può anche essere condiviso Erving Goffman con altri. È il caso del mondo del lavoro. Dei commessi sono tenuti ad essere gentili e disponibili con i clienti, anche con quelli intrattabili; nei momenti in cui i clienti non sono presenti, sono liberi di sfogarsi, riempendoli di insulti o facendone la caricatura. Goffman riscontrò un atteggiamento simile nei camerieri di un hotel delle isole Shetland, ma è diffuso in tutti i settori lavorativi ed in tutti i gruppi umani. 13

E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (1959), Il Mulino, Bologna 1969.

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Breaching experiments Abbiamo detto che nell'interazione con gli altri siamo guidati da una fiducia assolutamente naturale sulla possibilità di prevedere le loro reazioni. Ma che succede quando l'altro non rispetta le nostre aspettative? Quale è la reazione di un uomo che all'improvviso si trova in una situazione comunicativa assolutamente imprevedibile, non rituale? È quello che si è chiesto Harold Garfinkel, fondatore dell' etnometodologia, una scuola sociologica che intende studiare i metodi usati dalla gente per dare significato alle loro azioni quotidiane, in modo che esse appaiano naturali, scontate, non problematiche. Per rispondere, ha escogitato quelli che forse sono gli esperiementi più singolari della storia della sociologia: i breaching experiments (esperimenti di rottura). In questi esperimenti, lo sperimentatore viola sistematicamente le aspettative caratteristiche delle interazioni quotidiane, allo scopo di metterne in rilievo l'importanza e di misurare le conseguenze della loro violazione. Durante la comunicazione, i soggetti giungono a comprendersi perché operano istintivamente alcune semplificazioni. Ogni comunicante, infatti, presuppone che il proprio punto di vista e quello dell'altro corrispondano (idealizzazione della interscambiabilità dei punti di vista) e che le differenze personali siano insignificanti, in modo da poter parlare dando per scontato che l'altro comprenda anche ciò che non viene spiegato espressamente (idealizzazione della congruenza del sistema di attribuzione di rilevanza). Quest'ultima certezza viene distrutta, nei Harold Garfinkel breaching experiments, facendo domande con le quali si chiedono spiegazioni su ciò che dovrebbe essere scontato. Ecco un esempio di esperimento (So sta per Soggetto, Sp per Sperimentatore): (So) «Ciao Ray, come sta la tua ragazza?» (Sp) «Cosa vuoi dire con 'come sta'?. Vuoi dire fisicamente o mentalmente?». (So) «Voglio dire come si sente. Che cosa ti prende?» (Sembrava risentito) (Sp) «Niente. Semplicemente vuoi spiegare un po' meglio quello che intendi dire?» (So) «Lascia perdere... Come va con le domande di iscrizione alla Facoltà di medicina?» (Sp) «Che cosa vuol dire con 'come va'?». (So) «Tu sai cosa intendo». (Sp) «No. Veramente non capisco».

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Muntu / La comunicazione (So) «Cosa ti prende, non ti senti bene?».14

In altri esperimenti viene violata l'interscambiabilità dei punti di vista, vale a dire la convinzione che gli altri, se fossero al nostro posto, interpreterebbero quello che sta succedendo come facciamo noi. In questo caso l'esperimento consisteva nell'entrare in un negozio, individuare un cliente qualsiasi e cominciare a trattarlo come un commesso, restando indifferenti alle sue proteste. Il cliente veniva disorientato dal fatto di non riuscire a far assumere all'interlocutore il suo punto di vista. Ma l'esperimento più significativo, e dalle conseguenze più gravi, era quello con il quale si violava l'aspettativa di inserire il singolo evento in un ordine sociale già stabilito e convidiso da tutti. Ognuno di noi sa che in certi ambienti – a casa, a scuola, in discoteca – avvengono certe cose, sono previste certe azioni e non altre, si parla di certi argomenti e lo si fa con un certo tono. L'esperimento ideato da Garfinkel consisteva semplicemente nel chiedere ai suoi studenti di comportarsi a casa dei loro genitori come se fossero degli ospiti di una pensione, e ciò per un periodo di tempo variabile dai quindici minuti ad un'ora. «I resoconti degli studenti – scrive Garfinkel – erano pieni di espressioni di stupore, sconcerto, shok, ansia, imbarazzo e collera, e di accuse che lo studente era meschino, gretto, sconsiderato, egoista, villano e scortese. I membri delle famiglie esigevano spiegazioni (...) Una madre, infuriata perché sua figlia le parlava solo quando veniva interrogata, cominciò ad urlare accusandola di mancanza di rispetto e di insubordinazione, e si rifiutò di essere calmata dall'altra figlia»15. Questi esperimenti finivano in qualche caso con una vera e propria esasperazione delle famiglie, che si allarmavano per la stranezza del comportamento dei figli. Queste reazioni sono assolutamente comprensibili, se si considera appunto l'importanza di uno schema condiviso di comunicazione nelle nostre interazioni. Ogni interruzione delle aspettative crea un piccolo shok, al quale si cerca di sottrarsi interpretando la situazione come uno scherzo. In effetti, gli esperimenti di Garfinkel hanno le stesse caratteristiche formali degli scherzi e della candid camera. Da essi possiamo apprendere che le reazioni che la gente ha agli scherzi, soprattutto a quelli ben congegnati – reazioni che vanno dall'angoscia alla rabbia, dal senso di smarrimento alla indignazione – oltre ad essere motivo di riso, possono insegnarci molto sulla rigidità dei meccanismi che regolano le nostre interazioni comunicative.

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H. Garfinkel, La fiducia. Una risorsa per coordinare l'interazione, Armando, Roma 2004, pp. 101-102. 15 Ivi, p. 111.

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Speaking La comunicazione è un fenomeno universale, ma il modo concreto in cui si realizza, le forme che assume, le modalità dello scambio sono strettamente legati al tipo di società e di cultura in cui avviene. Il modo in cui i figli parlano ai genitori nel nostro sistema socio-culturale è diverso da quello di un paese orientale o anche da ciò che avveniva da noi cento anni fa. Alcune situazioni comunicative sono presenti solo in alcune società. La conversazione telefonica, ad esempio, esiste solo nelle società tecnologicamente avanzate, in cui il telefono è entrato nella vita quotidiana. In queste società si è sviluppato un modello di comunicazione telefonica, che rende l'atto di parlare al telefono assolutamente automatico: ognuno sa come si risponde al telefono, quali formule si usano, come si mette l'interlocutore in attesa, come si chiude una telefonata (cambiando procedura a seconda dell'interlocutore: la conclusione di una telefonata di lavoro è diversa dalla conclusione di una telefonata con il partner). La televisione ha modalità comunicative proprie. Nel talk show, ad esempio, le persone comunicano in un modo e spesso con una agitazione che raramente si trovano al di fuori del contesto televisivo. Nei format televisivi più recenti compaiono persone che affrontano in televisione i propri problemi familiari o sentimentali. Non occorre molto acume per accorgersi che si tratta di comunicazioni non molto spontanee, che si adeguano ad uno standard che non tollera imprevisti. Nelle nostre culture i tipi di comunicazione socialmente stabiliti (la telefonata, la conversazione tra amici, con i genitori, con i colleghi e i superiori eccetera) si svolgono generalmente nel rispetto reciproco degli interlocutori e in un clima di cordialità. In altre culture il rispetto dell'altro è ulteriormente enfatizzato. In Giappone, ad esempio, è importante l'uso dei pronomi personali. Tu in giapponese si può dire anata, kimi oppure o mae. La prima forma è quella regolarmente usata, e corrisponde al nostro Lei, mentre le altre due forme vanno usate solo in circostanze particolari: kimi può essere usato solo tra ragazzi (non ragazze), mentre o mae può essere usato solo rivolgendosi ad una persona che sia in qualche modo in situazione di inferiorità. In ogni altro caso risulta offensivo. Al contrario, vi sono società in cui sono presenti forme di comunicazione caratterizzate da una notevole aggressività ed informalità. In quella messicana esiste l' albur, uno scambio verbale molto vivace, caratterizzato da allusioni e doppi sensi a carattere sessuale. Forme simili si trovano nelle culture mediterranee ed africana. Si può dire che alcune culture hanno sviluppato in modo anche piuttosto raffinato l'arte di prendere in giro il prossimo

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senza realmente offenderlo, inventando delle situazioni comunicative leggere e divertenti con le quali liberarsi momentaneamente dalla fatica di prendersi e prendere l'altro sul serio. L' etnografia della comunicazione studia le forme assunte dalla comunicazione nelle diverse etnie e culture. Uno strumento importante per lo studio della comunicazione in un contesto culturale è il modello SPEAKING elaborato dal sociolinguista Dell Hymes e che costituisce una revisione del modello di Jakobson. Questo modello individua le componenti universali di ogni forma di comunicazione, facendole rientrare in otto categorie. SPEAKING è un acronimo formato dalle iniziali di situation, participants, ends, act sequences, key, instrumentalities, norms e genres. Vediamo queste componenti una per una. La situazione (situation). Ogni comunicazione avviene in una situazione ben precisa. Questa situazione non va intesa solo come contesto fisico, ma anche come contesto psicologico. Uno stesso ambiente fisico può essere caratterizzato in momenti diversi da un clima psicologico diverso. Il salotto di casa è un contesto diverso, dal punto di vista psicologico, quando è l'ambiente in cui si svolge il rituale della presentazione ai genitori del fidanzato o una discussione che prelude alla separazione dei genitori. I partecipanti (partecipants). Ogni comunicazione, come sappiamo già dal modello di Jakobson, ha un emittente ed un destinatario, che normalmente si alternano i ruoli (il destinatario interviene a sua volta, diventando mittente). Il modello di Hymes però distingue l'ascoltatore (hearer) dal destinatario vero e proprio (addressee), perché spesso succede che colui al quale ci rivolgiamo non sia il vero detinatario del nostro messaggio. In Italia c'è il detto «parlare alla nuora perché suocera intenda», e spesso in effetti succede di mandare messaggi obliqui, soprattutto quando i nostri rapporti con il reale destinatario del nostro messaggio è qualcuno con cui non abbiamo buoni rapporti, per cui un messaggio diretto potrebbe provocare una lite. È anche degno di considerazione il fatto che il destinatario può essere anche assente. Questo consente di comprendere forme di comunicazione appartenenti alla sfera del sacro e del magico: la preghiera, la messa, la comunicazione con gli spiriti. I fini (ends). Chi comunica lo fa perseguendo uno scopo (goal), che però può essere spesso molto diverso dal risultato effettivamente raggiunto (outcome). Il docente che tiene la sua lezione è mosso dallo scopo di trasmettere agli studenti delle informazioni, ma spesso il risultato effettivo che ottiene è di annoiarli. Dal canto suo, lo studente che chiede spiegazioni su ciò che non ha capito persegue lo scopo di comprendere meglio l'argomento della lezione, ma può raggiungere il risultato di irritare il docente. Il linguista George Yule ha operato una ulteriore distinzione tra

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fini transazionali e fini interazionali. Quando cerchiamo di trasmettere informazioni perseguiamo un fine transazionale, quando cerchiamo di fare amicizia o al contrario di litigare perseguiamo un fine interazionale. Questa distinzione richiama quella tra aspetto di contenuto ed aspetto di relazione di una comunicazione, che già conosciamo. Le sequenze d'azione (act sequences). Ogni comunicazione attraversa varie sequenze, che rappresentano la sua strutturazione nel tempo. Una conversazione telefonica comincia con la formula del «pronto» da parte di chi risponde, prosegue con la presentazione da parte di chi chiama, quindi con la spiegazione del motivo della chiamata seguita da comunicazioni e digressioni varie; si conclude con le formule di saluto. La chiave (key) è assolutamente fondamentale per la comprensione di un messaggio. Una identica affermazione può avere due significati del tutto opposti, può essere un'offesa se detta con un tono duro e con un'espressione accigliata, mentre può suscitare il sorriso se detta in un contesto leggero e con tono scherzoso. La chiave è dunque il senso della comunicazione, per comprendere il quale è importante fare attenzione ai segnali non verbali, quali il tono, la postura, l'espressione del viso. Gli strumenti (instrumentals). Per comunicare in genere adoperiamo la lingua ed i gesti. Entrambi sono canali (channels) di comunicazione. Anche l'uso del canale linguistico, però, può variare. Sul lavoro e nelle situazioni formali si adopera usualmente la lingua nazionale, mentre in famiglia o tra amici può succedere di far ricorso al dialetto. Oltre ai canali esistono dunque diverse forme di parlata (forms of speech). Le norme (norms). Ogni forma di comunicazione è regolata da norme, che possono essere esplicite o tacite. In Parlamento i deputati hanno un tempo limitato per illustrare le loro interrogazioni ad un Ministro, superato il quale vengono invitati a concludere. Nelle famiglie di un tempo i figli si rivolgevano ai genitori dando loro del voi, ed era considerata una grave mancanza di rispetto da parte dei figli prendere la parola senza essere stati invitati a farlo. Ancora oggi esistono regole più o meno restrittive che riguardano la comunicazione tra genitori e figli. Anche nelle conversazioni più informali – quelle più libere – si segue almeno la norma tacita di non interrompere l'altro o di non sovrapporsi, ed ogni violazione suscita irritazione (nel caso del litigio le cose vanno diversamente, perché la sovrapposizione diviene la norma; ciò conferma il carattere ostile della sovrapposizione verbale). I generi (genres). In letteratura esistono i generi letterari: la satira, la commedia, la tragedia, l'epica eccetera. La stessa cosa accade in ogni comunicazione. Il rimprovero del padre al figlio rientra in un genere diverso dal racconto di una barzelletta o di un aneddoto divertente. I generi naturalmente variano socialmente e culturalmente. In certi

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ambienti è assolutamente inammissibile il racconto di barzellette sconce, come in altri sono poco praticati il genere della lezione o della conferenza.

La comunicazione non verbale Abbiamo accennato più volte alla comunicazione non verbale, vale a dire al linguaggio del corpo legato alla gestualità, alla postura, al tono della voce, alle espressioni del viso. Non si tratta di una forma di comunicazione secondaria e in qualche modo accessoria. In realtà, dalla comunicazione non verbale traiamo una quantità di informazioni ed indicazioni addirittura superiore a quelle della comunicazione verbale; parliamo, cioè, principalmente attraverso il corpo, e questa è una cosa positiva, perché la comunicazione non verbale è tendenzialmente più sincera, anche se, come vedremo, non esclude la possibilità della simulazione. Una prima importante forma di comunicazione non verbale è la posizione stessa del corpo di colui che comunica, che viene studiata dalla prossemica. La posizione dei corpi delle persone che comunicano non è mai casuale: dipende da una parte dalla relazione che esiste tra loro e dall'altra da regole culturali condivise. Esiste una specie di zona protetta intorno ad ognuno di noi – il cosiddetto uovo prossemico - che nessuno può invadere se non viene autorizzato da noi. Chi ci parla può quindi avvicinarsi fino ad un certo punto; se va oltre, proviamo una sensazione di fastidio, a meno che non si tratti di qualcuno con cui abbiamo una familiarità notevole. Poiché questa zona protetta è più estesa davanti a noi che lateralmente, avvertiamo meno il fastidio se qualcuno ci si avvicina di lato. Esiste una zona intima (che si estende quanto il nostro avambraccio) in cui consentiamo di accedere solo alle persone con le quali abbiamo maggiore familiarità, mentre generalmente la nostra conversazione avviene a distanza di un braccio con l'interlocutore (zona personale). Quando due zone personali entrano in contatto senza compenetrarsi, sì che la distanza tra le due persone sia pari a due braccia tese, si parla di zona sociale, mentre ad una distanza maggiore si parla di zona pubblica, propria delle comunicazioni pubbliche senza vero contatto personale (conferenze, comizi ecc.). La distanza tra le persone che parlano varia secondo il contesto culturale. Nell'Italia meridionale è normale che degli uomini passeggino a braccetto, mentre nei paesi nordici ciò sarebbe considerato indice di omosessualità. In tutti i paesi mediterranei la distanza interpersonale è piuttosto limitata, mentre nei paesi arabi è frequente il contatto fisico. Importante fonte di informazioni è anche la postura del corpo. Mentre qualcuno ci parla, possiamo tenere il busto curvato in avanti oppure dritto.

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Nel primo caso è evidente che siamo interessati a quello che ascoltiamo, mentre nel secondo caso mostriamo una certa freddezza. Una postura eretta con le braccia conserte, in genere, esprime indifferenza, se non ostilità. È piuttosto facile avvertire l'imbarazzo di un ospite dal modo in cui è seduto, se non si appoggia allo schienale della sedia e tutto il suo corpo sembra pronto ad alzarsi e andar via. Un ospite rilassato invece si abbandona letteralmente sulla sedia o sulla poltrona, lasciando andare le braccia e incrociando i piedi. Notevole è anche l'importanza del volto. Siamo convinti che il volto non menta, e per questo esigiamo che chi vuol dirci qualcosa di importante per noi lo faccia guardandoci in faccia. Una persona che tenga spesso il volto abbassato ci sembra timido, incapace di sostenere lo sguardo altrui, ma in qualche modo ci irrita anche, perché ci impedisce di leggergli in viso le emozioni che prova; così come ci irritano quelle persone che hanno un viso poco espressivo, che tacciamo di freddezza ed insensibilità. Entro certi limiti, le espressioni del viso sono universali. Ovunque gli uomini e le donne ridono e sorridono, piangono, esprimono tristezza, rabbia, piacere. Universali sono anche l' apertura e la chiusura del viso. Il viso aperto è caratterizzato dall'innalzamento delle sopracciglia e dall'apertura della bocca ed esprime sorpresa e felicità mentre quello chiuso, in cui gli occhi e le labbra sono serrati, indica disgusto e fastidio per qualche situazione spiacevole. Esistono però anche variabili culturali nell'espressione delle emozioni attraverso la mimica facciale. Benché il riso sia universale, la sua frequenza varia nei diversi popoli: in alcuni, come quelli mediterranei, è frequente il riso aperto, rumoroso, mentre in altri è più diffuso il riso soffocato. Esistono inoltre mimiche che appartengono solo ad alcuni popoli. Una molto singolare è stata studiata da EiblEiblesfeldt presso gli Eipo della Nuova Guinea, che quando provano una emozione fortemente piacevole si coprono il capo con entrambe le mani, come se si trovassero in pericolo. La mimica è stata interpretata piuttosto facilmente da Eibl-Eibesfeldt: quando una cosa suscita il loro entusiasmo, gli Eipo dicono che «fa paura»; di conseguenza esprimono l'emozione con la reazione che si potrebbe avere di fronte a qualcosa di realmente pericoloso. (È il caso di notare che il riferimento alla paura di fronte a situazioni emozionanti si trova anche da noi nel linguaggio giovanile, anche se non accompagnata da una mimica corrispondente. «Fa paura», «è da paura» sono espressioni correnti per indicare qualcosa di sorprendente.) La convinzione che le espressioni del volto siano sempre sincere non è del tutto esatta. È possibile mentire e simulare anche con la mimica facciale, benché sia estremamente più facile mentire con le parole. Entro certi limiti, la menzogna espressa attraverso la mimica facciale è parte

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Muntu / La comunicazione

integrante della vita sociale. In moltissime situazioni succede di dover mostrare sentimenti positivi anche se si provano sensazioni sgradevoli: capita così di adottare un sorriso di circostanza, che difficilmente appare come un sorriso naturale e spontaneo, ma che è comunque preferibile ad un'espressione tesa o triste. Il personaggi televisivi sono dei maestri in questa simulazione, dovendo esprimere una costante felicità che rassicura il telespettatore e gli trasmette buon umore. Fortunatamente, è anche possibile scoprire la falsità di un'espressione del viso. Lo psicologo Paul Ekman indica alcuni indizi per smascherare chi sta mentendo. Un primo indizio è la asimmetria del volto. Normalmente la mimica facciale è più intensa nella parte sinistra del volto, dal momento che l'emisfero destro del cervello (quello che controlla i muscoli della parte sinistra del corpo) è maggiormente coinvolto nell'elaborazione delle emozioni. Quando invece la mimica è più marcata nella parte destra del volto, è probabile che si tratti di simulazione. Un secondo indizio è la durata. La mimica facciale è estremamente mutevole: una espressione che dura più di qualche secondo appare forzata, e quindi falsa. Infine, bisogna considerare la sincronizzazione della mimica facciale con i movimenti del corpo e con l'espressione verbale. Se l'espressione di una emozione avviene contemporaneamente attraverso le parole, il movimento corporeo e la mimica facciale, quest'ultima è autentica; se invece compare in ritardo, è con ogni probabilità da ritenersi simulata16. In base alle sue osservazioni sull'espressione visiva delle emozioni Paul Ekman ha messo a punto con Vincent Friesen il FACS (Facial Action Coding System), una macchina che analizza la mimica facciale considerando il più piccolo movimento muscolare e confrontandolo con i dati immagazzinati in un complesso database, al fine di scoprire se chi parla è sincero o mente. Si tratta di uma macchina della verità estremamente sofisticata che sta incontrando un crescente successo. Infine, comunichiamo con le mani. Esistono linguaggi interamente basati sui gesti delle mani - come le lingue di segni usate dai sordomuti, a lungo considerate lingue minori, e di cui il linguista americano William Stokoe ha mostrato invece la completezza -, che quindi fanno un uso simbolico dei gesti. Un uso simile non è però riservato ai sordomuti. Ognuno di noi usa, insieme al linguaggio verbale, una quantità di gesti con un significato particolare: l'indice ripetutamente battuto sulla tempia vuol dire «questo è matto», l'indice ed il medio congiunti vogliono dire che va tutto bene (Ok), il dito medio sollevato con il pugno chiuso è un insulto piuttosto diffuso tra i giovani, e così via. Questo uso simbolico dei gesti varia da cultura a cultura, e può essere sorprendente notare come per indicare una cosa 16

P. Ekman, I volti della menzogna, Giunti Barbera, Firenze 1989.

Antonio Vigilante

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semplice – come ad esempio il bisogno di bere – i popoli usino gesti assolutamente diversi. Non tutti i gesti che facciamo sono espressamente simbolici. Il più delle volte gesticoliamo durante il discorso, senza nemmeno badare al movimento delle nostre mani. Sono questi i gesti illustratori, che cioè servono ad illustrare, sottolineare, rafforzare quello che stiamo dicendo. Se un uso moderato di questi gesti può servire effettivamente a rendere più efficace il discorso ed a sottolineare le fasi salienti (ad esempio facendo precipitare il palmo della mano destra, di taglio, sulla mano sinistra aperta, per enfatizzare una frase; oppure usando la cosiddetta presa di precisione – in cui sembra che la mano afferri qualcosa – per rendere più convincente un passaggio complesso), un uso eccessivo risulta il più delle volte fastidioso ed è stigmatizzato, quasi rilevasse una incapacità di esprimersi attraverso le parole. Per questo motivo alcune culture scoraggiano l'uso della gestualità, che in Europa è più diffuso nei paesi del sud (nella stessa Italia vi sono differenze notevoli tra il nord ed il sud). Vi sono alcuni gesti, molto significativi, che possono anche risultare spiacevolmente in contrasto con quello che stiamo dicendo. Si tratta dei gesti di automanipolazione, con i quali trasmettiamo involontariamente delle informazioni riguardanti la relazione (anche se spesso l'interlocutore non è in grado di interpretare quei segnali). Questi gesti possono esprimere interesse o rifiuto. Sono segni di interesse diversi gesti che riguardano le bocca come mordicchiarsi le labbra o una penna oppure lo spostamento di oggetti verso se stessi, mentre l'accarezzarsi i capelli o la stimolazione del padiglione auricolare svelano un interesse anche affettivo o sessuale. Sono gesti di rifiuto lo sfregamento del naso, l'atto di spolverarsi l'abito e l'allontanamento degli oggetti. La tensione è invece espressa dal gesto di grattarsi, il più delle volte nella zona del naso.

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Il presente percorso fa parte di Muntu, un progetto per la divulgazione delle scienze sociali presente in internet all'indirizzo http://www.muntu.tk Questo testo può essere liberamente riprodotto e distribuito, a condizione che ciò avvenga senza fine di lucro, senza alcuna alterazione del contenuto ed indicando l'autore e la provenienza. Data di rilascio: 21 agosto 2005 Revisione: agosto 2006 Visita il sito di Muntu per verificare la presenza di una versione ampliata di questo testo. Per informazioni e comunicazioni: [email protected]

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