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SAGGI PER IL CORSO MONOGRAFICO 1999-2000 Il mito della fenice nella poesia romanza del medioevo
AVVERTENZA: Le abbreviazioni contenute nelle note rinviano alla Bibliografia inserita alla fine dei tre saggi.
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1. Francesco Zambon Il bestiario igneo di Giacomo da Lentini
Quello che si potrebbe definire come il “bestiario igneo” di Giacomo da Lentini è quasi interamente racchiuso in due sonetti, anche se il suo alone simbolico si allarga a molti altri testi (non solo di Giacomo) attraversando alcuni dei nuclei tematici fondamentali del suo canzoniere e di tutta la poesia siciliana. Si tratta di Sì como 'l parpaglion c'à tal natura e di Lo badalisco a lo specchio lucente; il secondo, in verità, di paternità dubbia, essendo attribuito al Notaro dal Laurenziano Rediano 9 e dal Parmense 1081, mentre il Vaticano Barberino 3953 lo assegna a Monaldo [d'Aquino]. Ma le considerazioni che qui si faranno non possono che avvalorare gli argomenti interni portati da Antonelli a favore dell'attribuzione a Giacomo da Lentini. Converrà partire da qualche osservazione circa le fonti delle similitudini zoologiche. Come si sa - specie dopo le minuziose analisi di Bruni e di Brugnolo1 - l'immagine del parpaglione deriva da quella del parpaillos che fer el foc nella canzone Sitot me sui a tart di Folchetto di Marsiglia, combinata - in virtù del comune campo metaforico (incendio d'amore) e della esplicita o sottintesa presenza in entrambe della candela (che ricorre, come si vedrà, anche altrove in Giacomo) - con la similitudine dell'“enfan / cui la candela platz” e che vi si scotta di Abril ni may di Elias Cairel. Il tema del fuoco si prolunga nell'emblema finale della fenice, comunque si voglia leggere il verso 14, “rendendo vita come la finise” (Antonelli: “restituendo al cuore la vita non appena la finisce”)2 o rendegli vita com'a la finise (Panvini: “gli restituisce la vita, come avviene alla fenice”).3 Del mito feniceo è qui evocato il dato essenziale dell'incendio e della rinascita; ma per la probabile aequivocatio su fenise si dovrà risalire anche in questo caso - oltre che alle tradizioni oitaniche indicate da Antonelli (Roman de la Rose e Cligès)4 - alla poesia trobadorica, e a due grandi trovatori: Raimbaut d'Aurenga e Peire Vidal. La canzone Apres mon vers vueilh sempr'ordre di
1
Cfr. Bruni 1990, pp. 210-273 e Brugnolo 1995, pp. 265-337. Giacomo da Lentini, Poesie, p. 346. 3 Panvini 1994, p. 99. 4 Cfr. Antonelli 1979, pp. 346-347. 2
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Raimbaut, incentrata sul tema della fedeltà amorosa, si chiude con il distico (ed. Pattison, vv. 64-65): Plus qe ja fenis fenics non er q'ieu non si' amics. [Come mai non muore la fenice / non sarà mai che io non vi sia amico]
Analago il senso del bisticcio con il verbo fenir, ancora, nella seconda tornada del sirventese Pos ubert ai mon ric tezaur di Peire Vidal (ed. Avalle, vv. 90-94), dove pure fenics rima con amics ed è già presente il tema siciliano della gioiosa autodistruzione dell'amante nella donna amata (o nel fuoco amoroso): Amiga, tan vos sui amics, qu'ad autras en paresc enics e volh esser en vos fenics, qu'autra jamais non amarai et en vos m'amor fenirai. [Amica, tanto vi sono amico, / che verso le altre sembro nemico / e voglio essere in voi fenice, / poiché non amerò mai altra donna / e in voi compirò il mio amore]
E animale della fine (del testo) la fenice lo è anche in Giacomo: cifra in un certo senso - se è vero che il sonetto si scrive dalla fine - del sonetto stesso, della sua circolarità. Quanto all'altro sonetto, Lo badalisco a lo specchio lucente, non hanno bisogno di commento le similitudini del cigno, del pavone (la “natura”, che figura già nel cosiddetto Physiologus bizantino,5 è ripresa in molti bestiari o enciclopedie del medioevo come il De avibus di Ugo di Fouilloy, il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, il Tresor di Brunetto Latini)6 e, di nuovo, la fenice. Più complessa, invece, è l'origine della prima immagine, quella del basilisco, le cui fonti sono state finora indicate solo molto vagamente: Sanguineti7 cita L'iconographie de l'art chrétien di Réau a proposito di un capitello di Vézelay, dove è raffigurato un personaggio che oppone uno scudo di cristallo al basilisco per proteggersi contro i suoi malefici. La leggenda cui Giacomo allude è, in prima istanza, quella notissima - e già attestata da Plinio - secondo cui il basilisco ha la proprietà di uccidere con lo sguardo (Nat. hist. XXIX,19,66: “qui hominem, uel si aspiciat tantum, dicitur interemere”); a essa fa direttamente riferimento il distico iniziale di un altro sonetto (dello stesso Giacomo? di Rinaldo d'Aquino?): Guardando basalisco velenoso / che 'l so isguardare face l'om 5
Cfr. Fisiologo, pp. 204-205. Si vedano i riferimenti in Carrega e Navone 1983, pp. 470-471. 7 Cfr. Sanguineti 1965, p. 35. 6
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perire.8 L'uccisione del mostro per mezzo di un cristallo o di un vetro opposto al suo sguardo è descritta, fra i bestiari, soltanto dalla versione lunga del Bestiaire di Pierre de Beauvais, composta però tra il 1245 e il 1268: “Chi volesse uccidere questa bestia dovrebbe avere un vaso traslucido di cristallo o di vetro, attraverso il quale possa vedere la bestia chiaramente. In modo che, quando tiene la testa dentro al vetro o al cristallo, il basilisco non possa vedere colui che vi si trova dentro e il suo sguardo si fermi sul vetro o sul cristallo: giacché esso ha una natura tale per cui, quando lancia il suo veleno attraverso gli occhi e questo si ferma su qualche ostacolo, il veleno rimbalza su di esso e ne provoca la morte”9. Le fonti di questo capitolo non sono state ancora studiate adeguatamente: manca del resto a tutt'oggi una esauriente Storia del basilisco. Florence McCulloch si limita a classificare la descrizione di Pierre de Beauvais (o piuttosto di un suo continuatore) fra il “materiale non-bestiario” contenuto nella sua opera.10 Tale descrizione ci riporta in realtà a una tradizione molto precisa, e cioè ai temi magico-fantastici inclusi nelle leggende orientali e bizantine relative ad Alessandro Magno. La tecnica per uccidere il basilisco opponendo uno specchio al suo sguardo è uno dei consigli di Aristotele ad Alessandro contenuti nel Secretum secretorum, risalente a un originale (Kitâb Sirr al-‘asrâr) che sarebbe stato tradotto dal siriaco in arabo da Yahya ibn al-Bitriq (IX secolo) e poi diffuso in Occidente attraverso varie traduzioni latine e volgari; sappiamo che il maestro Teodoro lo riassunse per l'imperatore Federico II.11 Il tema si ritrova poi nei Gesta romanorum e in alcune redazioni interpolate della Historia de preliis Alexandri Magni. Nei Gesta si legge: “Alessandro regnò, ottenendo il dominio di tutto il mondo. Una volta gli accadde di radunare un grande esercito e di assediare una città: in questo stesso luogo subì numerose perdite fra i suoi soldati e fra altre persone senza che fossero feriti. Meravigliandosi molto di ciò, chiamò i filosofi e chiese loro: "Maestri, come può accadere questo, che i miei soldati muoiano improvvisamente senza ferite?" Quelli risposero: "Non c'è da stupirsi, giacché sopra le mura della città c'è un basilisco, dal cui sguardo i soldati sono avvelenati e muoiono". Chiese allora Alessandro: "Che rimedio c'è contro il basilisco?" Gli risposero: "Si ponga uno specchio in alto fra l'esercito e le mura, dove si trova il basilisco; quando guarderà nello 8
Se ne veda il testo in Giacomo da Lentini, Poesie, pp. 400-401. Art. XVb: Basilecoc, in Pierre, Best. (ed. Rebuffi), p. 178,13-22: “Qui ceste beste voldroit tuer, il li covenroit avoir I cler vaisel de cristal ou de voire, par coi il peüst veïr la beste parmi la clarté. Que quant il aroit la teste el voire ou el cristal, que il ne peüst celui aperchoivre qui dedens seroit, et que li regars de la beste arestast al cristal ou al voire, que la beste a tel nature, quant ele gete son venin per les ex et s'il areste encontre alcune cose, qu'il resorst sor lui ariere; et si l'en covient morir”. 10 Cfr. McCulloch 1962, pp. 199-200. 11 Cfr. Kantorowicz 1994, p. 306. 9
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specchio, il riflesso del suo sguardo tornerà verso di lui e così morirà". E così fu fatto”.12 La storia è ripresa in termini ancor più immaginosi nella Historia de preliis, che peraltro un letterato della mouvance fredericiana, il giudice Quilichino da Spoleto, versificò nei distici della Historia Alexandri Magni.13 Nella cosiddetta recensione J3 si racconta: “Inoltrandosi per il passaggio orientale, camminò per sette giorni su quel sentiero strettissimo; l'ottavo giorno trovarono un basilisco orribile e fetido a causa della decrepitezza, che era talmente velenoso da corrompere l'aria non solo con il puzzo ma con lo stesso sguardo, per quanto esso si estendeva. Così, passando, Macedoni e Persiani cadevano senza vita al solo sguardo del serpente. I soldati, scorgendo tale pericolo, non andavano oltre dicendo: “Davanti a noi sul cammino sta il potere degli dèi, che ci mostra come non dobbiamo proseguire oltre la traversata”. Allora Alessandro si avviò da solo sulla cima del monte, in modo da poter scorgere da lontano la causa di una simile peste. E stando sulla cima del monte, vide il basilisco che stava in mezzo al passo e dormiva sempre. Ma quando sentiva avvicinarglisi un uomo o un animale, apriva gli occhi e tutti quelli che guardava morivano immediatamente. Visto ciò, Alessandro scese subito dal monte e stabilì dei limiti che nessuno doveva oltrepassare. Poi fece costruire un grande scudo lungo sei cubiti e largo quattro, e all'esterno fece inserire sulla supercifie dello scudo un grandissimo specchio e fece fare delle calzature di legno alte un cubito. Preso lo scudo sul braccio e indossate le calzature ai piedi, si avviò in direzione del basilisco tenendo contro di sé lo scudo, in modo che non si vedessero assolutamente né il capo né i fianchi né i piedi. E ordinò a tutti i suoi soldati di non tentare assolutamente di superare i limiti. Quando fu vicino al basilisco, quello aperse gli occhi e guardò lo specchio con rabbia: contemplando se stesso nello specchio, subito fu ucciso. Quando si accorse che era morto, Alessandro gli salì sopra, chiamò i suoi soldati e disse: “Venite e guardate chi vi uccideva”. Accorsi, quelli videro il basilisco morto. E subito, per ordine di Alessandro, lo bruciarono, elogiando fra loro la sapienza di Alessandro”.14 Con qualche variante, che la avvicina alla 12
Gesta Romanorum, cap. 139; cfr. Oesterly 1872, pp. 493-494: “Alexander regnavit, qui dominium tocius mundi obtinuit. Accidit semel quod grandem exercitum collegit et quandam civitatem circumdedit, et in eodem loco plures milites et alios sine vulnere amisit. Cum vero de hoc multum miraretur, philozophos vocavit et ait eis: O magistri, quomodo poterit hoc esse, quod subito sine vulnere milites mei moriuntur? At illi dixerunt: Mirum non est; est enim quidam basiliscus super murum civitatis, cujus aspectu milites inficiuntur et moriuntur. Ait Alexander: Quale remedium est contra basiliscum? Cui dixerunt: Ponatur speculum elevatum inter exercitum et murum, ubi est basiliscus, et cum in speculum respexerit, reflexus ejus intuitu ad se ipsum redit et sic morietur. Et factum est”. 13 Cfr. Pfister 1912, pp. 249-301. 14 Cfr. Historia de preliis, pp. 152-154: “Et dum per medium transitum orientis intraret, ambulavit per dies VII et per illud artissimum iter; VIII vero die invenerunt basiliscum 137
notizia del Bestiaire di Pierre de Beauvais, la narrazione si trova anche nel I libro del Tresor di Brunetto Latini: “Sappiate che Alessandro li trovò e fece fare delle grandi ampolle di vetro in cui entravano alcuni uomini e potevano vedere i basilischi, senza che questi li vedessero; e i soldati li uccidevano con le frecce: in tal modo il suo esercito ne fu liberato”.15 Vi è in tutte queste descrizioni del basilisco un evidente incrocio con il mito antico di Medusa - una delle tre Gorgoni - quale è narrato da Apollodoro (II,4,2): essa è uccisa da Perseo, il quale si serve di un lucentissimo scudo nel quale può osservare l'immagine riflessa del mostro (che ha capelli di serpenti) prima di tagliargli la testa; fra gli oggetti magici impiegati nell'impresa vi è anche l'oscuro elmo di Ade che rende invisibili.16 La fusione tra questa leggenda e quella del basilisco è stata probabilmente favorita dal racconto di Lucano, secondo cui dal sangue di Medusa gocciolato al suolo sarebbero nati tutti i serpenti velenosi del luogo e fra questi il basilisco “che emette sibili capaci di atterrire tutti gli altri mostri, e uccide prima ancora di mordere e attorno a sé per largo tratto mette in fuga ogni vivente per regnare solo sulle sabbie deserte”.17 Come osserva Massimo orribilem et dierum antiquitate fetidum, qui tante venositatis erat, ut non solum fetore sed ex ipso visu, quantum contemplari poterat, aerem corrumpebat. Transeuntes itaque Macedones et Perse solo visu serpentis cadebant exanimes. Milites cernentes tale periculum non amplius procedebant dicentes: “Deorum virtus ante nos in itinere consistit, que nos amplius non transire demonstrat”. Tunc Alexander cepit solus per superiorem partem montis ascendere, ut a longe posset causam tante pestilentie previdere. Et cum in superiori parte montis consisteret, vidit basiliscum in medio tramite consistentem, et dormiebat continuo. Cum autem sentiebat hominem vel animal appropinquare sibi, aperiebat oculos et quotquot aspiciebat, ilico interibant. Quod cum vidisset Alexander, continuo descendit de monte et constituit terminos, quos nullus presumeret excedere. Et fecit fieri clipeum magnum longum cubitis VI et latum cubitis IIII, et ab exteriori parte in superficie clipei fecit speculum maximum interponi fecitque sibi subtellares ligneos per cubitum altos. Et accipiens clipeum in brachio suo et subtellares in pedibus cepit contra basiliscum opposito sibi clipeo incedere ita, quod nec caput nec latera nec pedes ullatenus videri poterant. Et precepit universis militibus suis, ut nullus terminos excedere attemptaret. Cum autem propinquus esset basilisco, aperuit ille oculos et irato animo inspiciens speculum semet ipsum contemplans in speculo illico extinctus est. Alexander itaque sentiens illum exanimem ascendit super eum et vocans milites suos ait: “Venite et videte occisorem vestrum”. At illi festinantes viderunt basiliscum mortuum. Et continuo illum iussu Alexandri Macedones cremaverunt et laudabant omnes ad invicem sapientiam Alexandri”. La stessa descrizione si legge, in forma abbreviata, anche nelle Guerre di Alessandro medioinglesi (XV secolo): cfr. Alessandro, pp. 295-297 (testo e traduzione a cura di C. Bologna) e 604-605 (commento dello stesso studioso). 15 Tresor, cap. 140: “Et sachiés que Alixandres les trova, et fist faire grandes ampoles de voirre ou homes entroient dedens ki veoient les basiliques, mais il ne veoient ceaus, ki les ocioient des saietes; et par itel engin en fu delivrés il et son ost”. 16 Cfr. Graves 1963, pp. 295-296. 17 “[..] sibilaque effundens cunctas terrentia pestes, / ante uenena nocens, late sibi summouet omne / uulgus et in uacua regnat basiliscus harena”, Phars. IX, 724-726; trad. it. in Lucano, Farsaglia, p. 471. 138
Izzi, qui “troviamo la ragione per cui di tutte le valenze velenose del basilisco, è quella legata allo sguardo che acquista la preminenza: si tratta di una fusione tra due elementi della mitologia classica, la Gorgone dallo sguardo pietrificante e il suo figlio naturale, il basilisco che sparge la morte con la sua sola presenza”.18 Il mito della Gorgone, del resto, è incluso fra le descrizioni di animali e di mostri contenute nella redazione bizantina del Fisiologo; vi si legge che il suo capo fu usato da Alessandro per sbaragliare i nemici: “Chi veda un serpente o un altro animale, oppure un proprio nemico, e gli mostra per arte [magica] la testa della Gorgone, lo incenerisce, come faceva il re Alessandro, che per mezzo di essa dominò tutti i popoli”.19 In un capitolo extravagante, contenuto in alcuni manoscritti del Physiologus greco, si legge anche che il basilisco - capace di disseccare gli arbusti e di rendere deserte le città con il suo fiato - cammina con il capo rivolto all'indietro; per ucciderlo, i dotti lo abbagliano dirigendo i raggi del sole verso i suoi occhi per mezzo di uno specchio: l'animale, non vedendo più la propria ombra, muore.20 Nella misura in cui Giacomo da Lentini poteva conoscere queste leggende, legate anche alla magia catottrica, la sua similitudine è dunque evocatrice di un ricco complesso leggendario e simbolico: Alessandro Magno, l'Oriente, Perseo e Medusa, gli specchi magici... Tuttavia anche qui la fonte immediata, già indicata di sfuggita da Gaspary21 ma non segnalata da Fratta,22 è provenzale. A proposito della similitudine fra lo sguardo micidiale della donna e quello avvelenato del basilisco, Garver - citato anche da Vuolo - rileva come non abbia precedenti nella poesia trobadorica.23 Quella dell'uccisione del mostro per mezzo dello specchio è invece sviluppata nella celebre canzone Si com l'arbres per sobrecargar di Aimeric de Peguilhan, anche in altri punti utilizzata dai Siciliani (ed. Shepard-Chambers, vv. 25-32): No sai nulh “oc” per qu'ieu des vostre “no”, per que soven tornon mei ris en plor; et ieu cum folhs ai gaug de ma dolor et de ma mort, quan vei vostra faisso. Quo·l bazelesc qu'ab joy s'anet aucir, quant el miralh se remiret e·s vi, tot atressi etz vos miralhs de mi, que m'aucietz quan vos vei ni·us remir.
18
Izzi 1982, p. 110. Fisiologo, pp. 246-247. Per l'incrocio fra la leggenda del basilisco e il mito della Gorgone nella tradizione del Fisiologo, cfr. Goldstaub 1895, p. 379. 20 Cfr. Fisiologo, pp. 246-247. 21 Cfr. Gaspary 1882, p. 105 nota 2. 22 Cfr. Fratta 1996. 23 Cfr. Garver 1907, p. 280, e Vuolo 1962, p. 136. 19
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[Non conosco nessun “sì” con il quale scambierei il vostro “no”, cosicché spesso il mio sorriso si volge in pianto; ed io come un pazzo provo gioia del mio dolore e della mia morte, quando vedo il vostro viso. Come il basilisco che gioiosamente va a uccidersi quando si guarda e si vede nello specchio, così voi siete specchio di me, giacché mi uccidete quando vi vedo e vi guardo].
La dipendenza di Giacomo da Aimeric è provata soprattutto dal suo con isbaldimento, che non ha alcun fondamento nelle leggende tradizionali e riprende invece l'ab joy del poeta provenzale. Si tratta, questa volta, di un evidente incrocio con il mito di Narciso e con la sua evocazione in Bernart de Ventadorn, cui rinvia il miralh de mi di Aimeric. Del resto la similitudine del basilisco che si specchia è ripresa anche da Bondie Dietaiuti nella canzone Madonna me è avenuto simigliante:24 Madonna, ben ò inteso che lo smiro aucide 'l badalischio a la 'mprimera; di voi similemente m'è avenuto per un vedere ond'io piango e sospiro, che 'nmantenente m'allumò la spera, onde coralemente son feruto. Oimé, chiaro miraglio ed amoroso, sì per lo primo sguardo vi 'maginai, ond'ardo, né del mio cor non fui mai poderoso.
A proposito di questo passo, che riassume i temi più tipici del Notaro, le postille di Torraca edite da Aniello Fratta rimandano precisamente ad Aimeric, in associazione - per i versi finali - a Bernart de Ventadorn, Can vei la lauzeta mover: “Miralhs, pus me mirei en te, / m'an mort li sospir de preon” [“Specchio, dopo che mi sono mirato in te, / i sospiri mi hanno ucciso dal profondo”].25 In ogni caso, con l'evocazione del basilisco, siamo nel cuore di una costellazione tematica e simbolica che comprende quasi tutti gli ingredienti fondamentali del laboratorio poetico di Giacomo da Lentini: fuoco, luce, vetro, specchio, sguardo, immagine... Molti di essi sono presenti o impliciti anche nelle altre similitudini dei due sonetti considerati: in essi infatti gli emblemi animali non sono semplicemente giustapposti come tessere di un prezioso mosaico, ma in parte si sovrappongono conferendo rilievo e spessore simbolico particolari ad alcuni temi o parole chiave, secondo una tecnica applicata sistematicamente in quegli stessi anni da Richard de Fournival nel Bestiaire d'amours. È intorno a questi temi e a queste parole, in realtà, che si agglutina e orbita il bestiario di Giacomo. Nel sonetto Sì como 'l parpaglion, infatti, i temi del fuoco e dell'incendio sono comuni a parpaglione e fenice 24 25
Panvini 1962, p. 293. Cfr. Fratta 1996, p. 21. 140
(nonché allo zitello), quello del gioco / diletto al parpaglione e allo zitello, mentre quello della rinascita è esclusivo della fenice: il cuore dell'amante è dunque una sorta di “mostro dei mostri”, in cui si assommano le proprietà meravigliose di più creature. Analogo, ma più complesso, il caso del sonetto Lo basalisco a lo specchio lucente. Ai temi della luce e del fuoco (che qui associano fenice e basilisco, anche perché secondo molte descrizioni - da Isidoro fino a Hildegart von Bingen - il fiato di quest'ultimo è infuocato e incenerisce ogni cosa), della morte (che affianca gli stessi due animali al cigno) e della rinascita (ancora riservato alla sola fenice), si aggiungono quelli dello sguardo (basilisco e pavone), del canto (cigno) e del turbamento (pavone), mentre si intensifica quello della gioia, già presente nell'immagine dello zitello in Sì como 'l parpaglion; questo tema - fondamentale nel Notaro - è anzi la vera filigrana del sonetto, attraversando tutte le “nature” zoologiche come dato accessorio rispetto a quelli più caratteristici e insoliti (lo specchio in cui si vede il basilisco, l'incendio della fenice ecc.). La rete di collegamenti potrebbe essere facilmente estesa anche agli emblemi animali o mitologici di altri componimenti - dello stesso Giacomo o di poeti diversi: in particolare alle due sequenze di sonetti nelle quali Santangelo aveva creduto di poter riconoscere due tenzoni poetiche fra vari autori, rispettivamente “sul canto e l'amore” e “sul parpaglione e il fuoco d'amore”.26 Del primo gruppo fanno parte, oltre a Lo basalisco, Un oseletto, che canta d'amore di Rinaldo d'Aquino, l'adespoto Quando gli ausignuoli e gli altri agielli, Quando l'aire rischiara e rinserena di Bondie Dietaiuti, L'usciel fenice quando ven'al morire di Giovanni d'Arezzo, Guardando basalisco venenoso (attribuito da Santangelo a Rinaldo) e l'adespoto Guardando la fontana, il buon Narciso. Al secondo appartengono, insieme a Sì como 'l parpaglion (anche questo attribuito da Santangelo a Rinaldo d'Aquino), gli adespoti Lo mio folle ardimento m'à conquiso e Lo parpaglion, guardando a la lumera, infine Chi non avesse mai veduto foco dello stesso Giacomo. Più che di vere e proprie tenzoni, si tratterà di quel lavoro in collaborazione o di variazione su temi fissi - o testi trobadorici sul quale insistono gli studiosi più recenti della Scuola poetica siciliana.27 Il confronto fra tutti questi componimenti, in ogni caso, permette di osservare l'espansione ulteriore di alcuni temi chiave - come quelli del fuoco (che genera anche l'immagine della salamandra) e dello sguardo (che si articola intorno al mito di Narciso in Guardando la fontana, il buon Narciso ed è presente anche nella lunga similitudine della pantera nella canzone Pir meu cori allegrari di Stefano Protonotaro). Esso lascia affiorare anche collegamenti sotterranei come quello fra il cigno e la fenice, in virtù del 26 27
Cfr. Santangelo 1928, pp. 204-230. Cfr. in particolare Bruni 1990, p. 255. 141
canto in punto di morte (che è anche un dato tradizionale del mito feniceo); nel sonetto L'uscel fenice di Giovanni d'Arezzo, infatti, il riferimento al favoloso uccello ingloba sia il tema del canto sia quello dell'incendio:28 L'uscel fenice quando ven' al morire, dice la gente che fa dolce canto, ed è gran meraviglia, a lo ver dire, cantare de la cosa onde vien pianto. [...] Or avenisse a me com' adovene a lo fenisce che more cantando, e ardendo di se stesso si riface: se lo foco d'amore che me tene, aucidendo mi gesse recriando, sofereria da Amor la morte in pace.
Non solo le similitudini zoologiche di Giacomo da Lentini non si riducono - come in molti epigoni - a esteriori ornamenti retorici ma, a un attento esame, esse si rivelano una presentazione cifrata della sua intera filosofia amorosa. Nel sonetto Sì come il sol che manda la sua spera, il dardo di Amore che attraversa gli occhi e colpisce il cuore, accendendo un fuoco “ch'arde dentro e fuor non pare”, è paragonato al raggio di sole che attraversa un vetro e va a riflettersi su uno specchio. In Or come pote sì gran donna entrare, lo stesso processo è descritto con altre immagini: la donna amata è paragonata alla candela che arde nella lucerna e la cui luce attraversa il vetro “sanza far rottura”; allo stesso modo la figura della donna - quella pintura interiore di cui Giacomo parla in Meravigliosamente e in altri componimenti - si imprime nel cuore dell'amante. Come hanno mostrato Favati e la Bianchini,29 sono esattamente i termini in cui l'innamoramento è descritto da Alexandre nel Cligès di Chrétien de Troyes, dove però è il cuore a essere paragonato alla candela accesa nella lanterna (“Donc est li cuers el vantre mis, / ausi com la chandoile esprise / est dedanz la lenterne mise”):30 l'immagine proveniente dall'esterno attraversa gli occhi come il raggio di sole che attraversa il vetro della lucerna oppure una vetrata, senza romperla (“Ja n'iert si forz ne anterine / que li rais del soloil n'i past, / sanz ce que de rien ne la quast”),31 e si riflette nello specchio del cuore (“li mereors au cuer”). Questa teoria e le immagini che la raffigurano sono cifrate nel mosaico zoomorfo dei due sonetti Sì como 'l parpaglion e Lo badalisco: basta 28
Santangelo 1928, pp. 213-214. Cfr. Favati 1963 e Bianchini 1996, pp. 26-47. 30 Cligès, vv. 714-716, in Chrétien, Oeuvres, p. 190. 31 Cligès, vv. 724-726, in Chrétien, Oeuvres, p. 191. 29
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sciogliere il rebus e si troverà in essi la più completa esposizione della dottrina amorosa di Giacomo da Lentini. La similitudine del parpaglione è forse scattata, per interferenza con i testi di Folchetto e di Elias Cairel, a partire da quella della candela in Chrétien; ma il parpaglione attiva inoltre i temi del fuoco, della luce, dell'incendio. Nel primo sonetto, la fenice evoca ancora incendio, poi morte e vita nel fuoco; nel secondo il basilisco condensa fuoco, sguardo, vetro, specchio, morte; la fenice - di nuovo incendio e morte / vita nel fuoco. Le altre similitudini dei due sonetti zitello, pavone, cigno - aggiungono o ricalcano i temi della luce / fuoco, dello sguardo, del canto. Un basilisco-fenice (o un parpaglione-fenice) è dunque l'amante che accoglie nello specchio del cuore, attraverso il vetro degli occhi, l'immagine (il dardo igneo) della donna e ne brucia di un fuoco nascosto e inestinguibile. Giacomo ripete spesso che questo fuoco appiccato dalla pintura interiore è esperienza propriamente ineffabile (cfr. almeno la canzone Amando lungiamente): l'araldica zoologica è la soluzione poetica a questo problema espressivo. Sintomaticamente, in Madonna dir vo voglio (vv. 24-31), è proprio l'emergenza di questa tematica a sviluppare l'altro emblema equivalente del “bestiario igneo” di Giacomo, quello della salamandra, la cui evocazione si dissolve in una dichiarazione di impotenza a dire gli effetti della vita nel foc'amoruso:32 Foc'aio al cor non credo mai si stingua; anzi si pur alluma: perché non mi consuma? La salamandra audivi che 'nfra lo foco vivi stando sana; eo sì fo per long'uso, vivo 'n foc'amoruso e non saccio ch'eo dica [...]
32
Giacomo da Lentini, Poesie, pp. 12-13. 143
2. Francesco Zambon Il bestiario della Sapienza celeste
La sezione zoologica che occupa la maggior parte del terzo libro dell’Acerba di Cecco d’Ascoli, è stata fatta risalire alle fonti più disparate, senza che si sia potuti approdare finora a conclusioni davvero soddisfacenti. Agevolati dalla fondamentale somiglianza di quasi tutti i trattati sugli animali dall’XI al XIII secolo, gli studiosi che si sono occupati della questione hanno di volta in volta indicato questo o quel testo, non senza lasciar trasparire in questo modo le personali interpretazioni dell’opera 33 cecchiana. Così G. Castelli era convinto che il “bestiario” dell’Acerba derivasse, almeno in parte, dal folklore ascolano o comunque italiano; Friedrich Lauchert,34 specialista del Fisiologo greco e latino, lo pretese appunto ricavato da quest’ultimo; F. Crespi,35 curatore di una fra le più importanti edizioni del poema e cui premeva mettere in evidenza la ricchezza e la qualità della dottrina scientifica di Cecco, cercò di dimostrarne la stretta dipendenza dal De animalibus di Alberto Magno, largamente citato nel suo commento; E. Frizzi propose il Tresor di Brunetto Latini,36 altri parlarono di semplici fole o superstizioni popolari. A prima vista la proposta più fondata appare quella del Lauchert, il quale afferma letteralmente che il bestiario del terzo libro non è “altro che una diretta rielaborazione del Fisiologo”:37 e pur dovendo ammettere che le applicazioni morali e spirituali annesse alle singole descrizioni zoologiche sono originali, fa tuttavia notare che Cecco “può aver appreso tutta questa tecnica solo dal Fisiologo”.38 Effettivamente, dei 46 animali trattati nell’Acerba poco meno della metà è compresa nel Fisiologo; lo studioso ne elenca 18: fenice, aquila, pellicano, salamandra, struzzo, notticora, pernice, upupa, tortora, sirena, aspide, vipera, coccodrillo, leone, iena, pantera, castoro, unicorno. A questi andrebbero aggiunti almeno il caladrio e la scimmia. Ma si può forse concluderne che la sezione zoologica dell’Acerba 33
Cfr. Castelli 1892. Cfr. Lauchert 1890, pp. 1-12. 35 Cfr. Crespi 1927. 36 Cfr. Frizzi 1877. Si vedano anche Palermo 1860, II e Bariola 1879. 37 Lauchert 1890, p. 4. 38 Ibid., p. 4. 34
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costituisca semplicemente “una rielaborazione in versi del Fisiologo”,39 paragonabile ai Bestiaires francesi di Philippe de Thaün e di Guillaume le Clerc? In realtà, se alla sua base si trovano in effetti le “nature” del Fisiologo, vi compare anche un numero considerevole di notizie supplementari che sarebbe inutile cercare nel bestiario greco o nelle sue versioni latine e volgari. Certo, i versi di Cecco sull’unicorno (III,XLV,4-6: “Dentro nel cor li prende umilitade; / vedendo la pulzella a·lei s’aplica, / così lo prende la virginitate”)40 ripetono la leggenda tradizionale: “…gli mettono davanti una casta vergine; allora l’animale balza nel suo seno, e lei lo riscalda e lo nutre: poi lo conduce al palazzo regale”.41 Ma i versi che precedono (ibid., 1-3: “Quante l’alicorno è fera forte, / che l’alinfante combatte e nimica / e molte volte l’uom conduce a morte!”) non trovano alcun riscontro nel Fisiologo. Sicché, se si volessero integrare i riferimenti “fisiologici” con tutte le altre fonti necessarie a spiegare il testo dell'Acerba, bisognerebbe risalire a Plinio, Solino, Ambrogio, Isidoro e altri ancora. Ma non ci s’inganni: quest’opera di raccolta o, se si preferisce, di “incrostazione”, di nuovi materiali intorno allo scheletro dell’opuscolo greco fu dovuta non tanto all’erudizione o alla fantasia del poeta ascolano, quanto alla folta schiera dei compilatori di enciclopedie e bestiari latini, specialmente a partire dal XII secolo.42 Cecco d’Ascoli utilizzò una di queste compilazioni: e precisamente il De rerum proprietatibus di Bartolomeo Anglico, la cui larga diffusione nell’Italia settentrionale è stata già da tempo riconosciuta. In particolare, Vittorio Cian ne ha studiato un volgarizzamento mantovano nella sua ampia monografia su Vivaldo Belcalzer e l’enciclopedismo italiano,43 studio più recentemente approfondito da Ghino Ghinassi.44 Dante stesso, sembra, era a conoscenza dell’opera e del resto, come notifica un documento citato dal Cian, “il De proprietatibus rerum era il manuale classico di scienze naturali più in uso nelle scuole di Parigi”, tanto che “lo troviamo registrato nell’elenco ufficiale dei testi che i librai parigini davano in prestito agli studenti a un prezzo determinato da apposita tariffa”.45 E non soltanto la versione di messer Vivaldo ne documenta la diffusione tra Lombardia, 39
Ibid., p. 4. Le citazioni dell'Acerba sono tratte dall'edizione di B. Censori ed E. Vittori indicata in bibliografia. Gli eventuali emendamenti al testo fornito in questa edizione, piuttosto corrotto, sono stati inseriti fra parentesi uncinate < >: le correzioni sono state operate sulla base del confronto con le edizioni dell'Acerba fornite da Rosario 1926 e Crespi 1927. Per la sezione zoologica, si veda ora anche Morini 1996. 41 Carmody 1941, p. 128. 42 A questo proposito si vedano specialmente Sbordone 1949 e Mc Culloch 1962. 43 Cfr. Cian 1902. 44 Cfr. Ghinassi 1965. 45 Cian 1902, p. 49. 40
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Veneto e Toscana intorno ai primi decenni del ‘300 - periodo in cui si colloca verosimilmente la composizione dell’Acerba - ma lo stesso Brunetto Latini nella sezione zoologica del Tresor, che il suo più recente editore, il Carmody, ritiene derivato in massima parte dal terzo libro del De Bestiis,46 sembra in realtà aver utilizzato l’enciclopedia di Bartolomeo.47 Della sua fortuna negli ambienti scientifici e culturali italiani l'Acerba offre una ulteriore, precisa testimonianza, come si potrà concludere da un dettagliato confronto fra i due testi. In alcuni casi, Cecco non andò oltre una trascrizione pressoché letterale del testo latino, come nel capitolo sulla “noticora” (III,XIII,1-6): Noticora, querendo 'l cibo, grida; di notte canta, in volando preda. Dove son corpi morti, ivi s'anida; vede la notte, ma dal giorno è cieca; agli altri uccelli è ‹angosciosa e feda›; com' più risguarda 'l Sol più 'l viso a‹cc›eca.
Bartolomeo:48 Nocticoras est noctis corvus; sic dicitur eo quod noctem amat, quia de ncte volans cibum querit et querendo clamitat: cuius clamor est volucribus odiosus, ut dicit Isi(dorus). Est autem avis lucifuga et solem videre non potest; sepulchra et loca mortuorum inhabitat et frequentat; in parietibus et in locis rimosis nidificat; ova columbarum et monedularum frangit et devorat et cum eis pugnat. Hec dicitur noctua quasi de nocte acute tuens; de nocte autem videt, ex orto autem splendore solis eius visus hebetatur.
La traccia evidente dell'originale si ritrova, oltre che nell'andamento paratattico e accumulativo del discorso, soprattutto nei ricorrenti latinismi: “noticora” (nocticorax), “querendo 'l cibo, grida” (cibum querit et querendo clamitat), “viso” (visus); ma l'intera descrizione segue scrupolosamente il capitolo latino, contratto a volte in formule più icastiche come nell'antitesi di luce e cecità dell'ultimo verso: “com' più risguarda 'l Sol più 'l viso a‹cc›eca”, che introduce efficacemente la similitudine con l' “alma viziosa e rea”. In altri casi, invece, l'Ascolano operò un più o meno riuscito intervento di taglio e di ricomposizione sul tessuto non di rado prolisso del trattato latino: 46
Erroneamente attribuito a Ugo di San Vittore; il testo è edito in PL 127, coll. 15-164. Sull'attribuzione, cfr. Mc Culloch 1962, addenda p. 31. 47 Cfr. Introduzione a Brunetto, Tresor, p. XXVII. Lo studioso peraltro avverte che questo bestiario “non basta a spiegare l'origine delle conoscenze del Latini”: certo, almeno per alcuni capitoli, sembra si possano sostituire i numerosi rimandi di Carmody con il solo riferimento all'enciclopedia di Bartolomeo. 48 Bart. Anglico, De propr. rerum, XII,287. 146
così, dovendo ricondurre il leopardo alla significazione dell'astuto e crudele Tentatore, ritaglia solo poche indicazioni dal lungo capitolo di Bartolomeo (III,XL,1-12): Di leonessa liopardo nasce e lo leone gia' con leoparda. Nud'è di piatà quando se irasce;49 disdegna si non prende ‹in› quattro salti, e per vergogna in terra si si guarda; pensando sdegna delli vili asalti. Enganna il lion nella sua caverna, qual' ha due bocche et è in mezzo stretta: così natura vuol che qui discerna. Vedendo lo leon, prende a fuggire, e lo leon lui consegue in fretta: come tu sai, li convien morire.
Bartolomeo (XVIII,65, con omissione dei numerosi brani non ripresi da Cecco): Leopardus est bestia sevissima de leonis et pardi adulterio generata, ut dicit Isi(dorus) li.xii. Nam ut dicit Pli(nius) leone cum parda aut pardo cum leena concubente [...]. Saliendo non currendo insequitur predam: et si in tertio saltu predam non rapit vel in quartu, pre indignatione sistit et victus retrocedit; [...] unde timens leonem, facit foveam subterraneam duplex orificium habentem, unum per quod intrat et aliud per quod exit. Est autem fovea illa in utroque orificio valde ampla et in medio magis stricta. Veniente itaque leone in foveam se mergit, quem persequens leo foveam cum impetu subintrat, ubi triumphare putat de leopardo, sed propter magnitudinem corporis per medium fovee, ubi strictior est, libere transire nequit, quem sciens leopardus ita in strictura impeditum, illam foveam egreditur, et nunc in parte opposita foveam intrans, leonem a tergo morsibus et unguibus aggreditur [...]. Leopardus quando egrotat sanguinem capre agrestis bibit.
Della leggenda dell'astuta vittoria riportata sul leone, Cecco conosceva forse anche la versione contenuta nella terza parte del Bestiario Toscano:50 ma se pure nell'Acerba si risente un'eco di quest'ultimo (“fugendole dinanci”, “...è facta con due bocche tanto strecte...”, “cussì ingannandolo”), 49
Il testo di Crespi ha “capro si pasce”, notizia che trova un preciso riscontro in Bartolomeo: “sanguinem capre agrestis bibit”. Quello del Rosario ha: “quando se pasce”. 50 Eccone il testo: “...lo suo ingengno vince e confunde lo leone in cotale mainera, che fugendole dinanci per la sua leggereçça e schifando la sua potentia alla quale non potrebbe resistere, conducendolo a la sua thana, la quale ingengnosamente è facta con due bocche tanto strecte iscarsamente quant'elli tanto solamente possa esciere. Fugendo per quella tana entro passa, però che puoe. Lo leone si li adiriçça diriecto, credendo passare e prenderlo, e non può per la strecteçça del luogo né girare né volcere non può. Allora lu leopardo lo quale è iscito per altra bocha, torna da la parte dirieto del leone, e cussì ingannandolo lo conquide a morte” (Garver e McKenzie 1912, pp. 85-86). 147
la precisione della descrizione (“qual ha due bocche et è in mezzo stretta”) presuppone nell'Ascolano la conoscenza diretta dell'originale (“in utroque orificio valde ampla et in medio magis stricta”), frainteso dal volgarizzamento toscano: “la quale ingegnosamente è facta con due bocche tanto strecte iscarsamente quant'elli tanto solamente possa esciere”.51 Certo, non sarebbe difficile ricomporre il mosaico di notizie offerto dai capitoli dell'Acerba attingendo ora al Fisiologo, ora a Brunetto, ora ad Alberto Magno e agli altri testi addotti dagli interpreti: tutti attingevano a loro volta ad un comune patrimonio naturalistico-simbolico. Ma in nessuno di questi testi è possibile ritrovarle interamente e nell'ordine osservato da Cecco, tranne che nel De rerum proprietatibus di Bartolomeo.52 Inoltre, nei non rari casi di discordanza tra le varie fonti, la versione adottata dal poeta è sempre quella di Bartolomeo, spesso in evidente contrasto con le altre. Crespi, che sosteneva la derivazione dal De animalibus di Alberto, si è trovato spesso nella necessità di attribuire alla “fantasia” o a clamorose sviste di Cecco le divergenze che risultavano dai suoi raffronti. Così per il capitolo sul grifone; Alberto, dopo aver descritto il misterioso animale mezzo aquila e mezzo leone che abita nei monti iperborei ed è tanto robusto da sollevare un cavallo col cavaliere in groppa, conclude:53 Dicunt autem in montibus illis esse aurum, et gemmas, et maxime smaragdos. Dicunt etiam, quod si gryphes in nidis sunt, propter speciale iuvamentum ponunt achates lapides
Cecco avrebbe confuso gli smeraldi con le agate e aggiunto un riferimento ai serpenti velenosi, assente in Alberto (III,xx,1-6): Lo grifone è assai forte ma pur teme per molti animali che sono in monti, che per lor corpo lo tossico freme. Sempre nel nido lo smiraglio pone, sicché non sieno li suo nervi punti: per questa pietra fa defensione.
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Camus (1909, p. 10) scrive: “Abbiamo qui un primo esempio dei miscugli in questione. Scavarsi un tana non è proprio di un felino, ma della iena, e tutto ciò che abbiamo letto dovrebbe figurare sotto la rubrica 'De la natura de la hiena', nel capitolo che segue quello del leopardo nell'Acerba”. Ma neppure qui la confusione, se confusione c'è, è attribuibile a Cecco. 52 Partendo dalle indicazioni contenute nella prima edizione del presente saggio (1974), Costantini e Camuffo 1988 hanno mostrato come il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico sia anche una delle principali fonti del lapidario che segue la sezione zoologica dell'Acerba. 53 Alberto Magno, De animal., p. 638. 148
Ma basta leggere il succinto paragrafo di Bartolomeo de griphe per scagionarlo completamente dall’accusa (XIII,19): Griphes inter volatilia recitantur Deuteronomio xiiii. Et dicit ibi glosa: quod griphes est quadrupes, capite et alis aquile similis et reliquo corpore similis est leoni et habitat in hyperboreis montibus, equis et hominibus maxime infestus; in nido suo reponit lapidem smaragdum contra venenosa animalia montis.
Da un’analoga svista nascerebbero due versi sulla cicogna (III,XI,7-8): D’animali venenosi si nutrica e lor veleno giamai no·ll’offende.
Nel De animalibus si legge infatti (p. 618): Avis aquatica est plusquam terrestris, et piscibus pascitur, et lumbricis, et ranis, et aliquibus non venenatis serpentibus: […] venenata vero, ut buffones, non comedit.
Ma anche in questo caso la diversa notizia è riportata dal De rerum proprietatibus (XII,8): Quamvis autem venenosa comedant […] venenum tamen naturam earum non superat nec immutat.
Del resto l’intero capitolo sulla cicogna deriva puntualmente da Bartolomeo: oltre a trarne la leggenda del suo amor filiale, che si legge anche nel Fisiologo e in Alberto Magno, Cecco riferisce ulteriori notizie assenti in questi ultimi testi e reperibili solo in pochissimi altri bestiari medievali (III,XI,1-3): Cicogna, quando ha ‘l mal, be·llo conosce, che beve a forza dell’acqua marina, così da lei fuggir fa l’angosce. Ciconia vel ibis est avis fluvialis que seipsam purgat rostro suo; quia quando ex ciborum multitudine sentit se gravatam aquam marinam intra rostrum recolligit quam per anum ad interiora infundit; que remolliendo cibi compacti duriciam mordicando intestina superflua ejicit et emittit.54
ibid., 4-6: 54
Qui effettivamente Cecco ha commesso un errore di interpretazione, facile a spiegarsi con il ricorso alla fonte: egli ha tradotto con “beve a forza dell'acqua marina” il latino “aquam marinam intra rostrum recolligit”, trascurando il resto della frase “quam per anum ad interiora infundit”. Si può tuttavia pensare anche agli strani pudori del poeta, su cui si veda Alessandrini 1955, p. 183. 149
Se mai in fallo truova suo compagna, a sdegna, e mai con lei non s’avicina: sola pensando va per la campagna. …femine fidem servat in qua si masculus aliquo casu adulterum concubitum persenserit, ultra secum non coabitat, sed rostro si potest eam transverberat atque necat.
ibid., 9: naturalmente le serpe nimica. …serpentibus est inimica.
Castelli, senza alcun serio fondamento, affermò non soltanto che Cecco d’Ascoli conoscesse di prima mano Platone, Aristotele, Euclide, Avicenna e tutti gli altri autori citati nelle sue opere, ma “che egli abbia avuto altresì piena conoscenza delle opere di Alberto Magno, da cui Dante attinse a larga mano, dei [sic] Livres dou Tresor di Brunetto Latini, della Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo, di tutte le moralisasiones [sic], dei lapidarii, bestiarii, physiologi, dei trattati e delle enciclopedie più accreditate nelle scuole d’allora, e del libro dottrinale più notevole del sec. XIII, lo Speculum majus di Vincenzo di Beauvais”.55 Ma, per quanto i trattati latini e i capitoli astrologici dell’Acerba presuppongano una cultura non superficiale, lo studio del bestiario può far sorgere qualche dubbio sull’effettiva ampiezza della erudizione di Cecco, e soprattutto sulla sua presunta “chiaroveggenza” scientifica.56 Lo stesso raffronto tra il poema e il De animalibus di Alberto Magno (che costituirebbe solo uno degli innumerevoli testi noti a Cecco!) mostra come, se Alberto sottoponeva non di rado al vaglio della critica e dell’osservazione sperimentale le “nature” tradizionali, l’Ascolano si accontentasse invece di quanto trovava nell’enciclopedia di Bartolomeo o nei pochi altri compendi da lui consultati. Dello struzzo aveva scritto Alberto (p. 645): De hac ave dicitur, quod ferrum comedat et digerat: sed ego non sum hoc expertus: quia ferrum a me pluribus struthionibus obiectum comedere noluerunt.
Mentre il secondo non fa che ripetere la leggenda corrente (III,IX,1-3): Astruzzo per la sua caliditate en nutmento lo ferro converte, non vola in aire per sua gravitate.
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Castelli 1892, pp. 99-100. Castelli (1892, p. 115) pretende ad esempio che Cecco sia stato il solo, nel suo tempo, “a parlare del tuono in maniera da divinare quasi l'elettricità”.
56
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Anche qui le sue parole riecheggiano chiaramente quelle di Bartolomeo (XXX,33): …sed propter ponderositatem sui corporis cum avibus in aera non levatur […] Tante enim caliditatis est quod ferrum digerit et consumit.
Lo spazio dottrinale che separa Alberto Magno da Cecco può essere misurato ancor meglio mettendo a confronto i rispettivi brani sulla salamandra. L’immagine dell'Acerba (III,VII,1-2: “La salamandra, che nel foco vive, / e l’altro cibo la sua vita sprezza, / non sono in lei potenzie passive”) è modellata sulle stilizzazioni dei rimatori amorosi: “La salamandra audivi, / che dentro al foco vive stando sana” (Giacomo da Lentini), “La salamandra nello fuoco vive, / ed ogni altro animale ne perisce” (Chiaro Davanzati).57 Alberto, invece, non soltanto critica l’antica favola (“Multi autem sequentes Iorach Philosophum dicunt, quod hoc animal vivit in igne: et hoc est falsum”), ma cerca di individuarne il probabile fondamento scientifico (pp. 670-71): “Ciò è falso, se si eccettua quanto dice Galeno nel Libro delle complessioni, e cioè che se la salamandra resta nel fuoco per poco tempo, il fuoco non la attacca; ma se vi rimane a lungo, il fuoco la brucia”.58 Così egli respinge la pretesa che la talpa si cibi di sola terra, il camaleonte di sola aria ecc., secondo l’associazione di quattro animali agli elementi della natura frequente nei bestiari medievali: è evidente che Cecco introduce nel poema tale associazione non come una dottrina scientifica, ma come semplice emblema di verità spirituali. In un solo caso il poeta ascolano si consente, a sua volta, una critica nei confronti di quanto affermava l’enciclopedia di Bartolomeo (e Alberto stesso riferisce credulo); si tratta del capitolo sul pavone, di cui si legge nel De rerum proprietatibus (XIII,31): …cuius caro est tam dura ut vix putredinem senseat nec facile coquitur
Cui Cecco ribatte (III,XXI,1-6): Ciò che·si dice, dico, non è vero che, morto, lo paon non si corrompa: quel che già vidi tocca ‘l tuo pensiero. Ben si conserva assai, ma non d’agosto o quando ‘l Sol in Cancro mostra pompa: di lui s’acorge ‘l naso e anche ‘l gusto.
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Cfr. anche Menichetti 1965, Introd., pp. LVIII-LIX. Castelli 1892 (p. 129-130) sosteneva una poco probabile origine popolare di questi versi dell'Acerba. 58 “…falsum nisi pro tanto sicut dicit Galen(us) in libro complexionum, quod videlicet salamandra si in igne parvo tempore moretur, ignis impressionem non efficit in ea: sed si diu moretur, adurit eam ignis”. 151
Un giudizio dunque, eccezionalmente nell’Acerba, fondato sull’osservazione sperimentale, per quanto elementare (“quel che già vidi…”, “di lui s’acorge ‘l naso…”); ma forse la sua segreta ragione sta nell’allusione astrologica, inutile e compiaciuta: “o quando ‘l Sol in Cancro mostra pompa”. Ben nota è l’importanza dell’astronomia e dell’astrologia (cui è interamente dedicato il primo libro dell’Acerba) nella cultura di Cecco,59 e non è strano quindi che egli vi si riferisca di continuo anche trattando degli animali, i cui occulti rapporti di simpatia e antipatia con gli astri venivano indagati sin nelle più antiche tradizioni.60 Dall’enciclopedia di Bartolomeo egli ne desunse numerosi esempi, come testimoniano tra gli altri i capitoli sullo struzzo e sull’ostrica,61 ma in qualche caso tali riferimenti sembrano introdotti nella materia zoologica dallo stesso poeta: l’intero paragrafo sullo scorpione, del tutto estraneo alla tradizione dei “bestiari”, è stato aggiunto da Cecco nella sezione dedicata ai rettili: “Quando la Luna inluma Scarpione, / la prima faccia che figura scolpe / non può da scorpion aver lesione” (III,XXXV,1-3). Circa la possibile conoscenza da parte di Cecco di bestiari italiani, Goldstaub e Wendriner si sono pronunciati negativamente scrivendo che “non è possibile constatare un influsso dei nostri bestiari su Cecco”.62 Frizzi, smentito poi da Bariola e da Lauchert, aveva dal canto suo affermato che le notizie dell’Acerba sugli animali e sulle pietre preziose “sembrano attinte al Tesoro di Brunetto Latini, seppure [Cecco] non ricorse direttamente alla tradizione volgare, essendo allora quelle cognizioni abbastanza note e comuni”:63 ad ogni modo, i brani che egli cita in appoggio alla sua tesi (sull’aquila e sul pellicano) derivano chiaramente, specie il secondo, da Bartolomeo Anglico.64 In realtà, per alcuni capitoli, Cecco utilizzò 59
Sulle numerose opere astrologiche di Cecco si vedano soprattutto Boffito 1898, 1903, 1905a, 1905b e Thorndike 1949 (Commento alla Sfera del Sacrobosco). 60 Se ne riconoscono ampie vestigia nel Fisiologo greco, poi passate nelle sue versioni latine e romanze. 61 Dello struzzo, ad esempio, scrive l'Ascolano: “De giugno, quando vede quelle stelle / lobatte in oriente bene aperte, / sotterra l'uova, scordasi di quelle” [III,IX,4-6]. E Bartolomeo, nel capitolo De struthione: “Item quando venit tempus ut ova pariat, ad stellas que vocantur virgilie sive pleiades oculos levat; non cum ova ponit nisi quando illa stellatio oritur vel ascendit: cum enim viderit stellam circa mensem Iunii arenam fodit et ibi ponit ova sua”. 62 Goldstaub e Wendriner 1892, p. 187 nota 2. 63 Frizzi 1877, p. 486. 64 L'Acerba: “Il policano col paterno amore / tornando al nido fatigando l'ale, / tenendo li suo nati sempre al core, / vedei uccisi dall'impio serpe / e tanto per amor de lor li 'incale / che lo suo lato fin al cor discerpe. // Piovendo 'l sangue sopra li suoi nati / dal cor, che sente le gravose pene, / de mort<e> alla vita son tornati” [III,VI,1-9]. Bartolomeo, De propr. rerum: “Hanc autem naturaliter odit serpens, propter quod serpens dum pro pastu mater exit nidum repens per arborem pungit et interficit pullos suos super quos mater rediens lugere 152
effettivamente un bestiario italiano, e cioè la versione toscana del Tresor falsamente attribuita a Bono Giamboni,65 della cui lettura recano traccia numerosi passi del terzo libro dell’Acerba. Della iena per esempio si legge (III,XLI,1-9): Cava li morti della sepoltura ienna, e contrafà l’umana boce per devorar l’umana criatura. Muta ‘l sexo, animal sodomito, e quanto può a li can sempre nuoce, sua voce onni animal sta quito. Giase con leonessa, questa fera, e nasce di costor animal feroce che, chi la vede, di vita dispera.