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Giustizia Alternativa Ottobre 2009
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Adr: una nuova sigla? Sotto questa sigla si raggruppano diverse alternative per la soluzione delle controversie, dall’arbitrato alla conciliazione e infine alla mediazione. A differenza del procedimento davanti al giudice o all’arbitro, dove ci sarà sempre un vincitore e un soccombente, nella mediazione possono ristabilirsi dei rapporti tra le parti su basi completamente diverse da quelle che avevano generato il conflitto di Luigi Vannutelli
A
dr, alternative dispute resolution, è forse per molti una sigla nuova che viene ad aggiungersi ai già tanti acronimi che costellano le nostre comunicazioni, sia scritte che verbali. Sotto questa sigla si raggruppano diverse «alternative» per la soluzione dei conflitti, dall’arbitrato nelle sue diverse forme alla conciliazione e infine anche alla mediazione. È soprattutto di quest’ultima che voglio parlare. Si è detto «una nuova sigla», ma a pensarci bene la mediazione è un procedimento vecchio come il mondo. O meglio: è un diretto corollario del postulato giuridico fondamentale pacta sunt servanda. Da sempre, quando succede qualcosa che infrange questo principio basilare, in tutte le epoche, antiche e più recenti, si cerca di intervenire, magari con l’aiuto di un «terzo» super partes, per comporre il conflitto. Gli esempi sono molteplici, dalle controversie internazionali, nelle quali il lavoro delle diplomazie è spesso finalizzato a questo obiettivo, ai conflitti familiari nei quali accade di frequente, e non sempre con successo, di vedere tentativi di «buona volontà» di amici e parenti rivolti a ricostruire un’armonia tra i contendenti.
UN ATTO DI FIDUCIA Nel momento in cui si decide di ricorrere alla mediazione, la maggior parte del cammino verso la soluzione della vertenza è già stata compiuta La vera novità della mediazione sta in ciò che vorrei definire come la «istituzionalizzazione» del processo di soluzione negoziata delle controversie. Si tratta, in definitiva, dell’intervento di un «terzo neutrale», altamente qualificato per questo ruolo, che si pone come «facilitatore», o meglio «catalizzatore», tra le parti per favorire la negoziazione e la soluzione del conflitto. Il mediatore, quindi, non deve stabilire chi abbia torto o ragione, né decidere sul merito, ma piuttosto favorire l’incontro delle parti sulle tematiche che possano condurre a risolvere il problema. A differenza del procedimento davanti al giudice, o al collegio arbitrale, dove ci sarà sempre un vincitore e un soccombente (win-lose o «gioco a somma zero»), il procedimento di mediazione, quando ha successo, permette il ristabilirsi dei rapporti tra le parti, spesso su basi completamente diverse da quelle che hanno generato il conflitto (win-win). La mediazione così intesa sta trovando un campo di applicazione molto interessante anche nel settore del business come modalità di soluzione delle controversie commerciali, in alternativa al procedimento giudiziario. I vantaggi di tale alternativa sarebbero, almeno
sulla carta, molto evidenti. La durata media di una causa civile per inadempimento contrattuale è, nel nostro paese, tra gli otto e i dieci anni. Questo è dovuto sia alla purtroppo nota crisi nella amministrazione della giustizia, sia – e forse soprattutto – al frequente ricorso a tattiche dilatorie, ovviamente favorite dalla situazione di crisi, attuate dalla parte in causa che spesso ha tutto da guadagnare dal trascorrere del tempo prima di arrivare a una sentenza definitiva. Se a questo si aggiungono i costi della conduzione della vertenza e il fatto che la gestione della controversia non è più sotto il controllo della parte in causa, si vede bene come la scelta della soluzione giudiziaria sia poco conveniente. Il problema, però, è un altro. Il ricorso alla mediazione presuppone una cultura diversa, forse non ancora abbastanza radicata nella nostra mentalità; e questo anche se, spesso, si sente ripetere la «solita» frase: «è meglio una cattiva transazione subito che una causa vinta dopo anni». Cultura della mediazione significa rendersi conto che con buona volontà – che deve necessariamente essere reciproca – si possono ricercare strade, modalità e strumenti per superare le situazioni di conflitto, magari trovando, come spesso accade, le basi del nuovo accordo su posizioni o settori completamente diversi da quelli che sono stati all’origine del conflitto. Se poi questo ha anche l’effetto di ridurre drasticamente i costi e i tempi di un’azione legale, i vantaggi sono più che evidenti. Altra considerazione da fare è che anche nei rapporti commerciali esiste quello che vorrei definire come l’aspetto emotivo o psicologico. È stato più volte affermato, da Pareto in poi, che il cosiddetto homo oeconomicus esiste solo nei trattati di economia. Le decisioni aziendali non solo vengono molto spesso assunte sulla base di processi razionali, ma sono influenzate, talvolta anche determinate, da posizioni di tipo emotivo da parte dei manager responsabili. E questo avviene abbastanza di frequente nelle decisioni di «fare causa» contro chi, a giudizio dell’attore, sia venuto meno al rapporto di fiducia stipulato e sancito dal contratto a suo tempo firmato dalle parti. Subentra una sorta di desiderio di vendetta, magari anche giustificabile in base agli eventi accaduti, che però non sempre tiene conto in maniera razionale degli effetti e delle conseguenze che potranno derivare da questa «dichiarazione di guerra». Il ricorso alla mediazione permette, nella maggioranza dei casi, di trovare vie e modalità di soluzione in modo sicuramente più rapido e meno costoso, ma spesso anche ottenendo una soddisfazione reciproca che favorisce la prosecuzione di rapporti commerciali su basi migliori. Si dice spesso che, nel momento in cui le parti decidano di ricorrere alla mediazione, la maggior parte del cammino verso la soluzione della vertenza sia già stato fatto. Questo è vero, ma è altrettanto vero che molto difficil-
mente, nel momento in cui un conflitto sia divenuto contenzioso conclamato, le parti sono disposte a concordare e accettare l’intervento di un mediatore. In quel momento, chi deve assumere una decisione è già emotivamente provato dai ripetuti tentativi di far valere le sue ragioni e dal deterioramento dei rapporti per essere in grado di valutare serenamente – e razionalmente – l’opportunità della mediazione. Inoltre, anche se una delle parti fosse disponibile, difficilmente potrà trovare l’accordo della controparte, data la situazione di tensione dei rapporti tra loro.
DIFFONDERE LA CULTURA DELLA MEDIAZIONE Basta inserire in ciascun contratto una clausola che preveda il ricorso alla mediazione all’insorgere di controversie prima di poter adire le vie legali ordinarie
Esiste tuttavia un modo per superare questo ostacolo e, al tempo stesso, per favorire una maggiore diffusione della cultura della mediazione. Basta inserire in ciascun contratto che viene stipulato con i propri clienti, fornitori, partner eccetera, una clausola che preveda, in modo tassativo, il ricorso alla mediazione all’insorgere di conflitti o controversie, prima di poter adire le vie legali ordinarie, da parte di chi ne abbia interesse. Tale clausola deve prevedere anche a quale istituzione di mediazione fare riferimento (indicandone tutti gli estremi e coordinate utili) e anche il tempo per poter giungere alla soluzione negoziata, ad esempio tre mesi dall’inizio della mediazione, trascorso il quale senza esito positivo la parte che ne avesse interesse potrà adire il tribunale competente. Questo suggerimento si ispira al noto adagio secondo cui «prevenire è meglio che curare» e presenta molti vantaggi. In primo luogo, l’inserimento di questa clausola nella contrattualistica standard delle società commerciali è abbastanza semplice – anche se si suggerisce l’intervento di un esperto in materia – e soprattutto non presenta particolari difficoltà nella fase di negoziazione del contratto, quando cioè gli animi degli addetti ai lavori non sono soggetti alla tensione tipica della fase di contenzioso. Inoltre, la stessa presenza della clausola nel contratto determina una sorta di incentivo, nei confronti di coloro che hanno la responsabilità della esecuzione del contratto, a cercare e trovare soluzioni negoziate nei momenti in cui dovessero sorgere sintomi di conflitto o di divergenze di opinioni.
Infine, nel momento in cui la clausola dovesse divenire operante a causa dell’insorgere di un conflitto, le procedure di attuazione del processo di mediazione sono molto semplici e si possono attuare con tempi molto ristretti e con risultati percepibili con immediatezza dalle parti coinvolte. Ovviamente l’esito della mediazione dipende in buona misura dalla collaborazione delle parti. In questo, le statistiche sono decisamente favorevoli: la percentuale di soluzione negoziata attraverso la mediazione è elevata e si posiziona intorno al 75-80 per cento di risultati positivi. A tutto questo si deve aggiungere un fattore non trascurabile. La presenza nel contratto di una clausola di mediazione fa sì che l’eventuale rifiuto di una parte di dar luogo al procedimento di mediazione porrebbe tale parte in una situazione certamente non favorevole anche nei confronti del giudice, nel caso in cui la controversia dovesse essere rimessa alla giustizia ordinaria. La diffusione della clausola di cui sopra nei contratti commerciali contribuirebbe in maniera determinante alla diffusione di una «cultura della mediazione» anche nel settore del business e potrebbe contribuire ad alleggerire il numero delle cause giacenti nei tribunali. Ma il risultato più importante, a mio giudizio, è un progresso di civiltà.
Luigi Vannutelli, consulente contratti Ict. Laureato in giurisprudenza (diritto comparato ItaliaUsa), ha maturato una esperienza di lavoro all’Ibm dove, in qualità di specialista in contrattualistica, ha ricoperto diversi ruoli nell’ambito delle negoziazioni a livello sia locale che internazionale. Dal 1981 al 1985 ha fatto parte della task force a Parigi per la difesa della Ibm nel procedimento antitrust promosso dalla Commissione delle Comunità europee, che si è concluso con successo per la Ibm. Dal 1995 svolge attività di consulente sia nei confronti di clienti per negoziazioni contrattuali che come docente per corsi di formazione. Nel settore accademico, tiene seminari presso le università di Verona, di Torino e il politecnico di Milano. Attualmente, fa parte dello staff docente della facoltà di legge di Milano-Bicocca dove sta svolgendo un corso per il dipartimento di informatica giuridica. È socio del Clusit, associazione italiana per la sicurezza informatica.
Le leggi ci sono: basta applicarle - Estratto del libro IV del codice civile TITOLO III Dei singoli contratti CAPO XXV Della transazione 1965. Nozione. — La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già inco-
minciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro. Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti. 1966. Capacità a transigere e disponibilità dei diritti. — Per transigere le parti devono
avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite. La transazione è nulla se tali diritti, per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti. 1967. Prova. — La transazione deve essere provata per iscritto, fermo il disposto del n. 12 dell’articolo 1350.
1968. Transazione sulla falsità di documenti.. 1969. Errore di diritto 1970. Lesione. 1971. Transazione su pretesa temeraria. 1972. Transazione su un titolo nullo. 1973. Annullamento per falsità di documenti. 1974. Annullabilità per cosa giudicata. 1975. Annullabilità per scoperta di documenti. 1976. Risoluzione della transazione per inadempimento.