L'arcobaleno Apr / Mag 2009 - Anno Ii Numero 3

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Anno II, n. 3

aprile - maggio 2009

2 euro

l‘arcobaleno L

a crisi economica, della quale abbiamo diffusamente parlato nel numero precedente, non solo continua a conquistare i titoli di testa di giornali e tg, ma sembra essere divenuta la colonna sonora della nostra vita, un sottofondo triste ed ininterrotto di dati sconfortanti e di prospettive nere che ci accompagna ormai in ogni vicenda. Siamo ben consapevoli dell’intensità e delle dimensioni di questa crisi, e siamo ben lontani dal minimizzarla o di pensare di contrastarla con un ottimismo fuori luogo e fuori tempo. Fare dell’ottimismo, quando la disoccupazione procede con la voracità biblica delle cavallette, è un tentativo, estremo quanto inutile, di mascherare con una spolverata di fondotinta gli squarci inferti alla carne viva della comunità. Esiste il rischio che, a poco a poco, la crisi di questa economia ci spinga a vivere ed a pensarci nella dimensione di un’economia di crisi; ma questo rischio è ancora nulla al confronto di un altro, quello che si vada radicando una cultura della crisi che inneschi a sua volta un’ulteriore e drammatica crisi della cultura. La cultura, imprigionata tra i cappi della necessità, sacrificata ai paradigmi delle “oggettive” priorità, verrebbe così relegata a mero accessorio, un diversivo voluttuario, quindi superfluo, quindi inutile, al confronto con la dura realtà di bilanci in rosso scarlatto. Noi pensiamo, invece, che la cultura, che dovrebbe significare critica spietata e spregiudicata dell’esistente ma anche proposta e creazione di ciò che ancora non esiste, possa diventare una risorsa per uscire dalla crisi. Disincrostare atteggiamenti acritici, passivi e fideistici nei confronti di quella che un economista senza simpatie rivoluzionarie come John Kenneth Galbraith ha chiamato l’economia della truffa, può essere un primo passo per ricostruire in modo diverso l’edificio della produzione e del consumo. Non abbiamo bisogno di indici di borsa che tornino a realizzare prodezze per un’infima minoranza di privilegiati, né di indici del prodotto interno lordo che ci assicurino altre massicce dosi di consumo superficiale e sprecone. Dalla crisi possiamo uscire producendo in modo diverso cose diverse, attingendo a fonti energetiche diverse. Pensare, indagare, scegliere, applicare

queste diversità è compito squisitamente culturale che non può essere affidato agli stessi criminali che hanno generato l’attuale disastro. Per questo occorre una Primavera, un vento salutare che spazzi le nubi ed il tossico che le ha generate, e risvegli una natura umana non assopita dall’inverno, ma pervertita dai colossi della comunicazione totale e totalitaria. La nostra Primavera non è la speranza autolesionista di giochi e lotterie che, di questi tempi, aumentano il loro già enorme fatturato. Si chiama studio, impegno, curiosità, creatività, energia, di quei giovani che, senza retorica, sono l’unica scommessa su cui conviene puntare soldi e fiducia. Per questo dedichiamo gran parte di questo numero alla Primavera, ai molteplici aspetti di questa stagion che il mondo foglia e fiora. Dedichiamo anche uno spazio a Fabrizio De André. A lui dedichiamo uno spazio sul giornale ed un concerto, interpretato da Carlo Ghirardato, presso l’Auditorium dei Benedettini. Di De André non celebriamo il decennale della morte, ma il segno che di lui ci rimane, non la speranza degli ultrà della fede, ma la consapevolezza che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior...

Primavera arte romana metà I sec. d.C.

Primavera / clima

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Primavera / Praga

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Primavera / Botticelli 4 Primavera / Fenoglio

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Primavera / rondini

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Sicilia resistente

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Il valore dello zero

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G8 ambiente

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Ubuntu

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Pi greco

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Quale repubblica?

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Pubblicità regresso

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Speciale De André 14/16

Questo è l’ultimo numero per quest’anno scolastico.

Arrivederci a settembre!

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ambiente Potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera

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a frase di Pablo Neruda anche quest’anno promette di avverarsi e di ribadire che, nonostante tutti i nostri tentativi di distruzione dell’ambiente, contro il luogo comune che le stagioni non sono più quelle di una volta, le gemme si apriranno e lasceranno spuntare i germogli, e torneranno le rondini insieme agli altri uccelli migratori. Noi ci lamenteremo degli anticipi di caldo così come dei ritorni di freddo, e proprio la ripetizione del più classico dei luoghi comuni ci darà la misura di quanto poco sia in realtà cambiato finora il clima, se da decenni lo stesso argomento va a riempire i vuoti delle conversazioni durante le attese

livello degli oceani. Nel frattempo, le parole chiave sono diventate due: mitigazione e adattamento: ed è su queste che è iniziato il gioco a stravolgere il significato dei termini positivi per continuare a fare scelte disastrose per l’ambiente e la collettività. Si parla di mitigazione per indicare tutto ciò che va intrapreso per rallentare il riscaldamento del pianeta riducendo le emissioni di CO2 e degli altri gas “serra” nell’atmosfera. Secondo quanto previsto dal Protocollo di Kyoto, il trattato del 1997 che per la prima volta ha vincolato i paesi industrializzati a ridurre le emissioni, ogni paese deve modificare il proprio modo di produrre e consumare energia, che ancora in gran parte si basa sui combustibili fossili.

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Qualcuno si sarà accorto che si tratta di azioni che andrebbero comunque intraprese, anche indipendentemente dai cambiamenti climatici. La nostra vita, le nostre attività, il nostro territorio, devono tenere conto del clima in cui ci troviamo e dei possibili fenomeni estremi che, anche se raramente, possono accadere. Normalmente quello che avviene è invece un “disadattamento”: ci si allontana dagli equilibri, pur precari, costruiti in secoli di storia, rendendoci sempre più vulnerabili. Sempre più spesso assistiamo così ad una farsa: il territorio è devastato, aggredito, addirittura il governo con il “pacchetto casa” ha deciso adesso di permettere un aumento del 20% della cementificazione del territorio. Quando poi accadono le

���������������������������������� ���������������������� di Luigi Pasotti *

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alle fermate degli autobus. Destino strano in Italia, quello dell’emergenza cambiamenti climatici. Il mondo intero si sta muovendo per recuperare il tempo perduto, ora che la fine dell’era Bush ha permesso all’America di togliersi le bende dagli occhi. Il nostro paese è arrivato invece negli ultimi mesi a invocare il protocollo di Kyoto per giustificare la scelta del ritorno al nucleare, e al tempo stesso si è battuto in sede europea per evitare di prendere impegni significativi per rispettarlo. La primavera che sta arrivando potrebbe allora trasformarsi in una stagione da incubo, proprio perché il tema dei cambiamenti climatici, dopo essere stato negato, comincia ad essere manipolato e usato a fini di propaganda da parte di chi sta al governo. Ma torniamo un attimo indietro: sicuramente il dibattito internazionale ha fatto negli ultimi anni passi avanti significativi: oggi non ci si chiede ormai più se il clima stia cambiando, e se veramente sia necessario limitare le emissioni di gas serra: il riscaldamento del pianeta, stimato in circa 1,6 °C dal 1860 al 2000, è un fatto ormai accertato. Oggi il problema è capire quanto, e come, riusciremo e rallentare il ritmo di crescita della concentrazione dei gas serra in atmosfera, e quale degli scenari ipotizzati dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change -foro intergovernativo sul mutamento climatico) si realizzerà di qui al 2100 in termini di aumento della temperatura media del pianeta e di innalzamento del

��������� C’è chi ha visto in questo vincolo un’opportunità per ridurre la dipendenza economica dall’estero e per competere ed affermarsi sui nuovi mercati. Parliamo di paesi come la Spagna, la Germania, tutti i paesi scandinavi. Per carità, non stiamo dicendo che questi paesi siano diventati virtuosi cambiando il loro modello di sviluppo e rendendolo sostenibile. Tuttavia hanno investito nella giusta direzione, e hanno conquistato i mercati dell’energia eolica, del solare, dell’energia da biogas, da biomasse, anche quello italiano. Il nostro governo parla invece di mitigazione per giustificare il ritorno all’energia nucleare, una scelta che probabilmente si perderà nel nulla, essendo totalmente antistorica ed antieconomica, che oggi viene sbandierata solo perché in Italia produce nell’immediato facile consenso e consente di saccheggiare la finanza pubblica con ulteriori grandi opere che ingrassano i conti di poche multinazionali, pronte ad appoggiare il potente di turno. Anche il concetto di adattamento permette di essere facilmente stravolto. Con questo termine si intende tutto ciò che deve essere fatto per adeguare il territorio ai cambiamenti che comunque ci saranno in futuro: ad esempio, razionalizzare l’uso delle risorse idriche per saper fronteggiare eventuali siccità, consolidare le aree a rischio di frane, adottare pratiche agricole che frenino la desertificazione, adottare nell’edilizia l’architettura bioclimatica così da soffrire meno per le sempre più frequenti ondate di calore.

alluvioni, gli incendi, le frane, sempre più spesso la colpa viene data ai cambiamenti climatici, ed è diventato un modo fenomenale per scaricare le proprie responsabilità di fronte alle tragedie annunciate. Il malgoverno del passato viene magicamente azzerato, ed il cambiamento climatico diventa il capro espiatorio su cui scaricare calamità e tragedie. E’ il caso, ad esempio, di Annalisa Bongiovanni, annegata a Catania in Via Galermo il 16 ottobre 2003 durante un nubifragio per una banale caduta in motorino, per la quale nessun responsabile ha pagato. Che fare dunque? Lasciare che questa primavera venga oscurata dalle nubi del periodo forse più nero, per la difesa dell’ambiente, da decenni a questa parte? La meteorologia, cambiamenti climatici permettendo, insegna che dopo il temporale torna il sereno, e che nei giorni di pioggia si approfitta dell’occasione per prepararsi al tempo migliore che arriverà. alcuni indirizzi utili per saperne di più www.ipcc.ch www.generazioneclima.wwf.it www.stopthefever.org www.spegnilospreco.org www.unclimadigiustizia.it www.perautomenoinquinanti.net * COPE (Cooperazione Paesi Emergenti) dirigente del Servizio informativo agrometerologico siciliano

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storia L

a primavera di Praga è un evento avvenuto in una nazione che oggi non esiste più. Nel 1968 Praga era la capitale della Cecoslovacchia, uno stato creato dopo la prima guerra mondiale unendo diverse nazionalità e popolazioni che possedevano storie differenti. Dopo la seconda guerra mondiale lo stato divenne una repubblica socialista, si trovò dunque nella sfera di influenza sovietica, non solo come risultato del volere delle grandi potenze, ma anche perché una gran parte della popolazione vedeva nell’idea di una repubblica socialista l’unica strada per il miglioramento delle condizioni di vita di tutti. Si trattava di una situazione anomala, la maggioranza della popolazione credeva negli ideali socialisti, ma lo schema burocratico imposto all’organizzazione dello stato si era rivelato ben presto molto lontano da ciò che si aspettava. Il malumore serpeggiò per anni all’interno di tutta la società cecoslovacca, furono però gli scrittori i primi a porre apertamente il problema. Nel 1967 durante il IV Congresso degli scrittori, si manifestò il primo grande slancio verso il cambiamento. Molti dei partecipanti, stravolgendo l’ordine dei lavori, chiesero apertamente la libertà di stampa e accusarono tutto l’apparato dirigente dello stato di aver commesso abusi e aver limitato la libertà nel paese. Gli eventi si susseguirono velocemente; sull’onda del consenso attribuito agli scrittori dissisenti, Alexander Dubcek divenne segretario del partito comunista, quindi assunse la guida del paese. La pressione esercitata dalle nuove idee era fortissima, il nuovo segretario iniziò a presentare una lunga serie di riforme che avrebbero dovuto realizzare una nuova società, più libera e più giusta.

��������� �������� di Salvo Torre Con il termine primavera di Praga si indica dunque un periodo di sussulti politici e grandi aspirazioni di cambiamento che ha coinvolto la popolazione della Cecoslovacchia, ma anche la maggior parte dell’opinione politica mondiale, tra il 5 gennaio e il 20 agosto del 1968. Durante quei pochi mesi riemersero e trovarono voce tutti i problemi della popolazione, dalla divisione tra cechi e slovacchi alla mancanza di libertà d’espressione. Si pensò, ad esempio, di trasformare radicalmente l’economia del paese e di riammettere il pluralismo nel sistema politico. Ma era ancora poco per ciò che chiedeva la maggioranza del paese; alcuni intellettuali scrissero il cosiddetto Manifesto delle duemila parole un documento che si spingeva molto più in là nella richiesta di una società diversa. Ciò destò le preoccupazioni dei dirigenti dell’Unione Sovietica, che intravidero nella primavera di Praga una minaccia per il patto di Varsavia e per tutti gli equilibri geopolitici europei. La notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia. La situazione nel paese rimase incerta per oltre un anno, non si trovò subito qualcuno disposto a sostituire Dubcek e ancora negli anni emersero molti conflitti sociali. Per cercare di riportare l’ordine, venne approvata una riforma istituzionale che affrontava uno dei grandi problemi: lo stato assunse la forma di repubblica federale composta dalle regioni ceca e slovacca. Oggi la primavera di Praga possiede ancora un grande valore simbolico, soprattutto perché per un’intera generazione di giovani europei quegli eventi hanno rappresentato un momento di svolta nella visione del mondo. Sembravano dimostrare, infatti, che era possibile scontrarsi con i più grandi poteri per affermare la propria libertà, ottenendo il consenso generale. I media occidentali si appassionarono alla vicenda, anche perché scompaginava il quadro precostituito, si trattava infatti di giovani socialisti che criticavano lo stato sovietico. La primavera di Praga scosse l’opinione pubblica mondiale e si guadagnò il sostegno della maggior parte dei movimenti occidentali, fu la primavera degli scrittori, dei giovani e delle grandi speranze di cambiamento.

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Leggere la PRIMAVERA

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andro Botticelli dipinse la Primavera nel 1478 per Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici probabilmente con una funzione pedagogica allo scopo di distinguere l’amore intellettuale da quello carnale. L’opera è una delle più misteriose della storia dell’arte per le difficoltà interpretative di una scena in cui l’artista, che faceva parte della cerchia neoplatonica fiorentina, traspose gli ideali filosofici dell’umanesimo. La Primavera è la rappresentazione di un ideale paradiso umanistico, totalmente immerso nella natura, in cui rifugiarsi dalle miserie della realtà, abitato da un’umanità eternamente giovane e bella e retto dalle leggi dell’armonia universale. Le figure, poste davanti ad un rigoglioso ed ombroso boschetto, sono allineate, una accanto all’altro, su un prato fiorito. I personaggi appaiono isolati, singolarmente o a gruppi, ma in realtà sono collegati tra loro da un movimento ad onda che ha al centro, nella figura di Venere, un punto di equilibrio. I nove personaggi che popolano la composizione sono atte g g i a t i nei più diversi stati (movimento impetuoso, passo leggiadro, nobile stasi) e nei più diversi atteggiamenti espressivi (timore, gioia, estasi, contemplazione). Nell’analisi dell’opera, partendo da destra, troviamo Zefiro (1), venticello tiepido di primavera, che afferra la ninfa Cloris (2) che, impaurita, tenta di sfuggirgli ma che poi, cedendo alle sue avances, diventa sua sposa e cambia il suo nome in Flo-

ra (3), raffigurata con una veste bianca riccamente decorata di fiori e nell’atto di spargerne con generosità. Al centro Venere (4), riconoscibile anche dal drappo rosso sulla veste candida, atteggiata in un gesto tra il saluto e la ritrosia, stende la mano verso le tre Grazie (5-6-7-), coperte di veli trasparenti mentre danzano allacciate tra loro. Dall’alto Cupido (8) alato scocca una freccia infuocata. Chiude il quadro, all’estrema sinistra, Mercurio (9), che tocca (o forse disperde o forse ancora indica) le nuvole con il caduceo, la verga con cui viene tradizionalmente rappresentato e con la quale componeva le liti, volgendo le spalle agli altri personaggi. Il significato da attribuire alla scena descritta è molto incerto. Aver dato un nome a tutti i personaggi non vuol dire definire il senso complessivo dell’immagine. Alcuni studiosi hanno l’opera come una celebrazione di Venere che, casta e completamente vestita, rappresen-

di Marianna Casa

terebbe l’amore intellettuale. Altri invece vedono nella metamorfosi di cui siamo spettatori non una semplice modificazione della natura, bensì la conciliazione tra castità (Flora), voluttà (Zefiro) e bellezza (le Grazie) attraverso Venere, dea dell’amore e della bellezza al tempo stesso. Il movimento che va dal cielo verso la terra, e dunque orientato ai piaceri carnali, di Zefiro, sarebbe portato a compimento da Mercurio, che guarda verso il cielo, e dunque verso una dimensione spirituale, passando attraverso le varie fasi dell’amore terreno.

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uasi tutti i romanzi di Beppe Fenoglio raccontano dell’esperienza partigiana vissuta nelle Langhe. Esistono due redazioni di Primavera di Bellezza: la prima narra i giorni trascorsi dal protagonista, Johnny, ad Alba prima della chiamata alle armi, la sua vita di allievo ufficiale, il suo servizio militare a Roma, il suo viaggio avventuroso fino al ritorno a casa dopo l’8 settembre del 1943; nella seconda redazione, pubblicata dall’autore nel 1959, il romanzo inizia dalla vita di Johnny come allievo ufficiale, e nel finale procede con una breve narrazione della sua vita partigiana, che culmina con la sua morte. Sin dalle prime pagine l’opera è dominata da un’atmosfera di vigilia. Per quasi tutto il romanzo Johnny si misura con le più diverse forme di apprendistato, ma per una ragione o per l’altra tutte quelle occasioni gli sfuggono. L’esame di maturità viene soppresso per legge; un ridicolo servizio militare si conclude con l’8 settembre; e quando Johnny si decide ad unirsi ai partigiani, perde la vita nella prima azione di guerra. I partigiani di Fenoglio sono assorbiti dall’attesa e dalla noia prima che dalla guerra, proiettati verso qualcosa destinato a non arrivare mai: nessuno dei suoi eroi, né Johnny né Milton, giungerà a vedere la fine del conflitto. Il vero tema del romanzo risulta essere quindi l’attesa di un avvenimento significativo che non accade e che pare suggerire una rilettura pessimistica della tradizione otto-novecentesca del romanzo di formazione, insieme alla critica verso l’ottimismo vuoto della retorica di regime. Non a caso il titolo, Primavera di bellezza, allude alla definizione della giovinezza data da un inno ufficiale fascista alla quale Fenoglio, come tanti altri autori della letteratura europea, fra cui Primo Levi, oppone la verifica dell’impossibilità di attribuire un significato a quanto è avvenuto, mentre la guerra restituisce l’immagine di una realtà tragica e priva di senso. Anche il rapporto di Fenoglio con il neorealismo è conflittuale. Lo scrittore non si prefigge l’obiettivo di offrire

Beppe Fenoglio Primavera di bellezza di Silvia Mazzucchelli

modelli di comportamento positivi e si fa inoltre interprete di un drammatico dissidio: quello del “reduce”, in bilico perenne tra la tentazione e l’impossibilità di abbandonare il ricordo dell’esperienza di guerra, nel suo caso, quella della Resistenza da lui vissuta in prima persona nelle Langhe. Per questo la sua Primavera è una stagione soprattutto interiore, utopica, come un sogno ricorrente ma impossibile da realizzare, e tuttavia cercata, con una volontà estrema e assoluta

Beppe Fenoglio trascorse la sua intera esistenza nelle Langhe. Nato ad Alba il 1 di marzo 1922, frequentò il liceo nella sua città e poi la Facoltà di Lettere a Torino. Fu costretto a interrompere gli studi per la chiamata alle armi; in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 riuscì a fare ritorno da Roma e si arruolò tra i partigiani ad Alba. Dopo la liberazione, rimase sempre nella sua terra d’origine, lavorando come procuratore per una casa vinicola, e dedicandosi alla narrativa: il suo primo volume pubblicato fu la raccolta di racconti I ventitrè giorni della città di Alba (1952), seguito dal breve romanzo La malora (1954), ambientato in un mondo contadino dominato da dolore e violenza, ed infine Primavera di bellezza (1959). Mentre era impegnato in vari progetti di riscrittura delle sue opere, che in seguito avrebbero generato fra gli studiosi numerosi problemi critici e filologici, fu colpito da una grave malattia che lo portò alla morte il 18 febbraio 1963. Tra i suoi manoscritti, raccolti ad Alba in un apposito Fondo Fenoglio, furono ricavati vari volumi, tra i quali nel 1968 Il partigiano Johnny. Dell’altro fondamentale romanzo di Fenoglio, Una questione privata, da molti ritenuto il suo capolavoro, sono giunte tre redazioni, l’ultima delle quali apparve poco dopo la sua morte insieme ai racconti Un giorno di fuoco. L’autore nutrì inoltre una fortissima passione per la letteratura inglese. Fra le sue numerose traduzioni, molte delle quali inedite, compare The Rime of the Ancient Mariner (La ballata del vecchio marinaio) di Coleridge pubblicata nel 1955, ed inoltre la riduzione teatrale di Wuthering Heights (Cime tempestose) di Emily Brontë, col titolo La voce della tempesta, stampata postuma nel 1974.

come solo i grandi scrittori e i grandi esploratori sanno fare. Fenoglio in una lettera dell’estate 1959 così diceva: alla radice del mio scrivere c’è una primaria ragione che nessuno conosce all’infuori di me. Un’affermazione che tende a scoraggiare il lettore, ma nello stesso tempo lo spinge a domandarsi qual è l’oscuro legame che tiene saldamente unite l’esperienza di vita della guerra partigiana con quella della scrittura, e che induce a chiedersi ancora oggi, cosa significa veramente un’altra affermazione dello scrittore piemontese: Partigiano, come poeta, è parola assoluta. La risposta si potrebbe trovare nelle parole e nella vita di un altro scrittore assoluto ed estremo: Marcel Proust, che dopo aver passato vent’anni chiuso in una stanza a scrivere la sua monumentale opera À la recherche du temps perdu, morì per l’enorme fatica, o in quelle di Franz Kafka, che non riusciva a vivere senza scrivere, anche se per lui voleva dire nello stesso tempo morire. Forse come affermava Kostantinos Kavafis, ciò che conta non è l’approdo ma il viaggio e la quête che esso comporta. Per questo è possibile riconoscere Lestrigoni e Ciclopi, se il pensiero resta alto e come scrive il poeta greco un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.

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ecologia U

na rondine non fa primavera, è vero, ma quando si cominciano a vedere a gruppetti anche poco numerosi, di alcuni individui che volano bassi sulle nostre campagne allora è primavera veramente. E le rondini stanno arrivando proprio in

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tornano sempre di meno. La LIPU-BirdLife ha calcolato che negli ultimi 20 anni il numero di rondini che torna a nidificare è diminuito del 40%, con punte anche del 60%. Un vero e proprio tracollo dovuto ai pesticidi utilizzati rondone in agricoltura e alla scomparsa delle stalle tradizionali sotto i cui tetti nidificava oggi sostituite da capannoni industriali privi di finestre da dove entravano le nostre piccole amiche. La vera Rondine (Hirundo rustica) è quella di colore blu elettrico nelle parti superiori e con la lunga coda forcuta, e vive nelle campagne. In città invece vive un’altra rondine, il Balestruccio, con le parti superiori nere su cui spicca il groppone bianco e le parti inferiori bianche. Nidifica sotto i balconi o sotto i cornicioni delle case e dei palazzi. Il Balestruccio (Delichon urbica) è la rondine di città, di abitudini coloniali si può trovare spesso nei palazzi lungo il lungomare di Catania, a Piazza Nettuno, sebbene piccole colonie si possano trovare in singoli palazzi all’interno della città o nei capannoni della Zona industriale. Una storia a parte è invece il Rondone (Apus apus), che non è una rondine appartenendo ad un altro Ordine, gli Apodiformi. I rondoni sono quegli uccelli che riempiono il cielo con i loro voli e le loro grida. Hanno le zampe quasi atrofizzate, da qui il nome dell’Ordine e se cadono a terra non riescono a darsi la spinta per ripartire, e sono condannati a morire. Ma in volo sono dei veri signori dell’aria. Pensate che fanno tutto ma proprio tutto in volo: mangiano in volo, dormono in volo, si accoppiano in volo! Sono di dimensioni maggiori di Rondine e Balestruccio, completamente scuri sia superiormente che inferiormente e non si fermano mai se non per covare ed alimentare i piccoli nei nidi realizzati sotto le tegole.

Una rondine

questi giorni, quest’anno dal 10 di marzo. L’aria è più tiepida, le giornate più luminose e sempre più lunghe, i fiori cominciano a sbocciare colorando di mille colori i prati che prima in inverno erano monocromatici, di un verde intenso, ed ora cominciano a diventare gialli come le margherite o viola

di Giuseppe Rannisi

non fa

come l’erba viperina, rosso carminio come i papaveri o rosso cardinale come la sulla. E sui fiori cominciano a sciamare gli insetti, dalle piccole farfalle alle tante specie di “mosche” di tutte le dimensioni. Ed ecco arrivare loro, le rondini che di questi insetti fanno scorpacciate; ogni rondine ne man-

primavera!

gia al giorno fino a 170 grammi. Arrivano dall’Africa, spesso da paesi a sud dell’equatore dove hanno passato al caldo il periodo corrispondente al nostro inverno. Hanno attraversato con un solo volo il deserto del Sahara, se si fossero fermate per riposarsi in pieno deserto non sarebbero più riuscite a ripartire per la disidratazione dovuta all’eccesso di calore. Hanno attraversato con un sol volo gli oltre 200 km di mare del Canale di Sicilia e dopo un volo di migliaia di km arrivano allo stesso tetto da dove erano partite sei mesi prima a settembre. La loro rotta è incredibilmente esatta. Basterebbe sbagliare rotta anche di un solo grado dal paese africano di partenza perché invece di arrivare in Sicilia orientale arrivassero in Sicilia Occidentale o in Sardegna. Che sistema “gps” preciso ed invidiabile hanno nel loro cervello! Purtroppo ogni anno ne

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viaggiatrici instancabili e temerarie

rondine La LIPU da alcuni anni organizza a primavera un grande evento europeo di birdwatching (osservazione degli uccelli) da parte di bambini, scuole e famiglie che possono segnalare gli arrivi di Rondine, Rondone, Cicogna e Cuculo nei diversi comuni di tutta Europa per tutta l’estate.Il progetto chiamato “Spring Alive”, ossia “Primavera viva”, permetterà a tutti di osservare come quattro specie simbolo della primavera: Rondine, Rondone, Cicogna e Cuculo tornano dai loro siti invernali e quindi come la primavera avanza nel nostro paese e in tutto il continente. Partecipare al progetto è semplice basta inserire tutte le osservazioni su di un modulo appositamente creato sul sito web: www.springalive.net (disponibile già in tutte le lingue d’Europa) o inviare le osservazioni alla LIPU tramite la posta. Con i dati delle osservazioni, il computer produrrà delle mappe che vengono aggiornate giornalmente. Partecipare a “Primavera viva” può essere anche un buon modo di mostrare quanto sia importante la questione della conservazione del patrimonio naturale europeo. Inoltre, i dati collezionati sono scientificamente interessanti, infatti negli anni l’analisi dei dati potrebbe rivelare tendenze nel cambiamento delle date di arrivo delle quattro specie e potrebbe mostrare l’influenza dei cambiamenti climatici sugli uccelli e le loro migrazioni. Il progetto è quindi una grande opportunità scientifica ed educativa, ma può essere anche l’occasione per celebrare la fine dell’inverno con un’atmosfera gioiosa di esperienze e attività balestruccio al nido nella natura. Allora, godetevi gli arrivi primaverili con il progetto Spring Alive e incoraggiate i vostri amici a registrare le loro osservazioni on-line!

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anniversari stata storicamente la levatrice e poi l’equivoca erede di tutti i fascismi. L’antifascismo a cui dovremmo richiamarci è al contrario forte e propositivo, che coltiva cioè proposte di cambiamento radicale della società, di democrazia diffusa, di equa distribuzione delle ricchezze, che possano rendere improponibile il ricorso e il ritorno agli antichi regimi. E’ questa l’idea di libertà coltivata dalla stragrande maggioranza dei partigiani che combatterono nel Nord Italia, ma è anche la speranza che accompagnò le lotte popolari che si accesero subito, nell’immediato dopoguerra, in tutto il Meridione. In Sicilia, contrariamente a quel che si crede, il fascismo stentò moldi Natale Musarra tissimo ad affermarsi, tant’è vero che non si contano gli episodi di resistenza eroica e di brutale repressione che si succedettero per il Ventennio, con il ricorrente tentativo da parte di anarchici, socialisti, azionisti, comunisti, separatisti e perfino massoni, dapprima isolati poi raccolti in un “Fronte unico antifascista italiano”, di scatenare l’insurrezione liberatrice. Alla vigilia dello sbarco degli Alleati, diversi gruppi armati erano già operativi in diverse località dell’isola (a Sciacca, Bagheria, Barcellona, Catania), e questo molto prima che ne sorgessero nel resto d’Italia. A questi gruppi si unì l’opposizione spontanea della gente comune, che assunse forme diverse, cruente nel caso di Mascalucia e Pedara i cui cittadini insorsero armi i è una resistenza al fascismo e alla mano contro i tedeschi, punite con stragi di civili inermi ad Adrano, ai totalitarismi (di marca naziCalatabiano e soprattutto Castigliosta, stalinista, maoista, ecc.) che non iniziò in Italia l’8 settembre 1943 ne (16 morti e 20 feriti il 12 agosto bensì negli anni ’20 e non finì il 25 1943), commesse dai paracadutisti aprile 1945 ma prosegue ai giorni della divisione “Goering”, tragica anteprima dei grandi eccidi dagli nostri. E’ la resistenza di coloro che oppostessi perpetrati nel continente. Se la “lotta di Liberazione” dei due sero a quei regimi dei principi e delle anni seguenti non toccò la Sicilia, prospettive di vita radicalmente diformai occupata dagli Alleati, deve ferenti e perciò mai scesero né scentuttavia ricordarsi il notevole conderebbero a patti con essi. tributo che vi fornirono i siciliani, a Il loro antifascismo non è quindi Roma, in Toscana e sulle montagne contingente, legato ai tempi e alle dell’Alta Italia. Alcuni di questi (Giesigenze della politica e dell’econorolamo Li Causi, Pompeo Colajanmia, ma è un mezzo per opporsi a ni e Concetto Marchesi) assursero quelle condizioni e forme d’imbara ruoli di rilievo nazionale. Altri (è barimento sociale che hanno peril caso dei 50 decorati con medaglia messo e permetterebbero nuovaal valore della sola città di Patermente la vittoria del fascismo. nò) rappresentarono degnamente, I principali valori sui quali si fonspesso sacrificando le loro vite in da il fascismo di ieri e di oggi sono combattimento, la voglia di riscatto l’autoritarismo, l’intolleranza, la die di rinascita civile delle popolazioni scriminazione sessuale e razziale, il dell’isola. disprezzo per le minoranze, il culto Ma da noi la guerra ebbe anche un della violenza e della guerra. Sarebbe altro epilogo, legato alle sommosse facile ma anche sbagliato caratterizche tra il dicembre 1944 e il gennaio zare semplicemente “in negativo” i valori dell’antifascismo (antiautoritarismo, tolleranza, ecc.), perché si 1945 divamparono in tutta l’isola contro il richiamo alle armi. Al grido finirebbe specularmene col dar credito anche a quella presunta de- di “Non si parte ma indietro non si torna”, i siciliani si rifiutarono in mocrazia, liberale e borghese, che, messa in difficoltà dalle rivendica- massa di servire nel nuovo esercito italiano, creato sotto il comando zioni di maggior giustizia sociale provenienti delle masse popolari, è di generali ex fascisti per reinnalzare le sorti del re Vittorio Emanuele III fortemente screditato. In diversi paesi vennero persino costituite Cara Linuccia mia, cara mamma, fratelli, sorelle e nipoti cari, […] Addio! addio a tutti. La mia memoria resti anche per i miei compagni. Che lo scopo delle “repubbliche indipendenti” a prefisso sia raggiunto, ma quello buono, non quello che la mia morte non servirebbe a imitazione di quelle dei partigiani del Nord, con programma “pane e niente. Ho voluto sempre la felicità degli altri perché la mia credevo non avesse importanza. Fatela pace”, sciolte dalle truppe sabaude dopo un mese di scontri e circa un voi la felicità di tutti i poveri e che non soffrano più. centinaio di morti. Addio di nuovo a tutti e la pace sia per tutti la stessa. Era l’inizio sanguinoso di una “nuo[…] Francesco va” Resistenza, che dura tuttora, (dall’ultima lettera del partigiano Francesco Rossi, fucilato il 23 gennaio 1945) contro il fascismo risorgente e per la “Liberazione sociale” dell’isola.

Resistenza in Sicilia

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pensiero S

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va ancora bene bisognerà rassegnarsi a scomodare quegli oscuri sapientoni indiani che, già nel V secolo a.C. avevano costruito un sistema di numerazione con queste caratteristiche: 1. era formato da 9 numeri (da 1 a 9) ciascuno rappresentato da un simbolo; 2. il valore del numero dipendeva dalla sua posizione; 3. comprendeva lo zero. Questa numerazione venne adottata dagli arabi, dai quali fu importata ad opera

numero preponendolo o posponendolo ad un altro: IX o XI), e si passa a quella posizionale, dove il numero assume un valore a seconda della sua posizione (unità, decine, centinaia, migliaia …). Questa geniale costruzione della mente è possibile grazie all’invenzione dello zero. Lo zero, che in origine rappresenta uno spazio vuoto, significa anche niente, nullo (zero si dice null in tedesco). E’ affascinante constatare come sia proprio l’idea del nulla, completamente fuori dalla concreta esperienza, a generare uno degli strumenti più potenti ed efficaci di conoscenza e di gestione operativa. Ciò dimostra come il dubbio sia più fecondo delle certezze, perché, ammettendo altre possibilità, schiude la via alla ricerca del nuovo. Se gli indiani, e prima di loro i maya, non si fossero posti il problema dell’essere e del non essere, del pieno e del vuoto, lo zero non sarebbe stato inventato e adesso, forse, i nostri scienziati sarebbero dotati di avanzatissimi pallottolieri. Se rappresentassimo la diffusione della matematica nel Medioevo, ci apparirebbe come un reticolo di interdipendenze e di reciprocità, un gioco di dare ed avere di cui tutti si avvantaggiano. In questo gioco la Sicilia ha un ruolo da protagonista perché fa da ponte tra diverse tradizioni e culture: è la Sicilia del confronto e della comprensione, della pacifica convivenza tra cristiani, arabi e mussulmani, non quella del sospetto per lo straniero, dell’odio etnico, dei nostri giovani che partono per il Nord o di quelli, altrettanto giovani, ma molto più disperati, che vengono dal Sud. In queste brevissime note si è parlato di popoli, di paesi, di lingue, di storia, di scienziati e persino di poeti: e poi dicono che la matematica sia arida. L’aridità sta nella testa di chi non riesce a vedere nella matematica un meraviglioso strumento di comunicazione. Secondo le stime fatte dai glottologi, oggi al mondo si parlano circa 1500 diverse lingue. Tra tutte queste l’unica che può aspirare ad essere considerata universale è proprio la matematica.

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e ci soffermassimo ad indagare su quante volte, nel corso di una giornata, facciamo ricorso a misure, numeri ed operazioni algebriche, ci stupiremmo nel riscoprirci un’insospettabile indole matematica. Che si tratti di tempo, di oggetti, di denaro o di baci (come non ricordare Catullo: da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum...), i numeri ed i calcoli sono lì, ad attenderci al varco delle loro inesorabili leggi. Confrontare, misurare, contare, sono atti così naturali che, nella maggior parte dei casi, vengono compiuti inconsapevolmente. Ma, a ben vedere, lo stesso numero “naturale” (1, 2, 3, …) è, in realtà, figlio di una lunga e complessa elaborazione culturale. I numeri bisogna inventarseli, e solo attraverso un processo di astrazione si è arrivati alla soluzione di rappresentare una quantità con un simbolo. Un sistema di numerazione molto intuitivo è quello che utilizza le mani. I un dito, II due dita, III tre dita, V una mano aperta, X due mani aperte: abbiamo un sistema di numerazione decimale. E i piedi? Allora la base di calcolo diventa 20. Non si dice ancora, in francese, quatre-vingt, quattro volte venti per dire 80? Ma vi sono anche, utilizzati per gli angoli ed il tempo, sistemi sessagesimali, basati sulla geometria pratica elaborata dai sumeri. E vi sono persino sistemi che utilizzano solo 2 numeri, 0 e 1: quella numerazione binaria che, inventata dai cinesi, studiata da Leibniz e ripresa da Boole, sta alla base dell’attuale era digitale. A proposito di digitale, vale la pena di ricordare che la parola deriva da dito, quel dito che serviva da simbolo per il numero, tant’è vero che, fondandosi l’informatica su sequenze di numeri, correttamente i francesi la traducono con numérique. Una volta inventati i numeri, bisogna saperli calcolare. Adesso, se siete convinti della superiorità culturale dell’occidente, provate a moltiplicare IV per IX o a dividere LC per XVI. Scomodo, vero? C’è sempre la possibilità di calcolare, cioè di prendere delle pietruzze (calculi) e disporle secondo l’ordine voluto. Se non

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ZERO

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di Quinto Osaneo di Leonardo Fibonacci. Il matematico pisano, che si trovava in Algeria con il padre, rappresentante di mercanti, imparò dagli africani il sistema che espose poi, nel 1202, nel Liber Abbaci. Il libro inizia con le seguenti parole: “Le nove cifre degli indiani sono queste: 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Con queste nove cifre, e con questo simbolo: 0, che in arabo si chiama zephir, si può scrivere qualsiasi numero, come si vedrà più avanti.” In realtà la parola zephir è la trascrizione che Fibonacci fa del termine sifr , zero, da cui deriva la parola cifra. E così grazie a Fibonacci, ai mercanti algerini ed ai sapienti indiani, la numerazione cessa di essere additiva (come quella romana, per cui si aggiunge o si sottrae un

supplemento a Sicilia Libertaria n.283 aprile 2009 - Direttore responsabile: Giuseppe Gurrieri. Registrazione Tribunale di Ragusa n. 1 del 1987. Stampato in proprio. Progetto grafico e impaginazione: Marina La Farina. Redazione: il “Comitato di reLazione” si riunisce periodicamente. Per contattarci EMAIL: [email protected]

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otto la sigla G8 si nasconde la riunione che gli “8 Grandi”, i paesi più sviluppati al mondo (Stati Uniti, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia, Canada e Russia), tengono ogni anno per “definire i futuri assetti del pianeta”. Sigla e parole altisonanti coprono in realtà bugie e intenzioni niente affatto benevole. Intanto la grandezza dei paesi partecipanti è data dal PIL (il prodotto interno lordo), che non è certamente l’unità di misura adatta per determinare il benessere di una popolazione, quanto piuttosto le fortune dei gruppi economici su di essa dominanti. La qualità della vita degli abitanti della Svezia e della Svizzera, per citare due nazioni che non fanno parte del G8, è senza dubbio più elevata di quella di chi risiede in Italia. La ridistribuzione del reddito – di modo che fasce

mica, sociale ed ambientale, alle esigenze del capitalismo internazionale e dei suoi principali organismi (la Banca Mondiale, il Fondo Mondiale Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio). Sono questi che, pur non possedendo alcuna investitura democratica, hanno realmente diretto negli ultimi vent’anni la cosiddetta “rivoluzione neo-liberista” che ha condotto, con la complicità e la sudditanza appunto degli “8 Grandi”, alla privatizzazione, alla mercificazione e al degrado di ogni ambito di vita. I G8 hanno spacciato per buona, e imposto sovente con la forza, l’idea peregrina che eliminando ogni regola, violando i diritti più elementari, sconvolgendo le usanze di milioni di esseri e gli assetti naturali di enormi territori, si sarebbe giunti infine ad una nuova era di felicità e di pace per tutti.

“Città martire” sacrificata ad un’idea di sviluppo industriale disancorato dai reali bisogni del territorio e della sua gente, essa potrebbe risollevarsi se finalmente si procedesse alla bonifica dei suoi luoghi contaminati, utilizzando fondi europei che già sono stanziati allo scopo. Ma la ministra Prestigiacomo, che nell’industria chimica siracusana ha ingenti interessi, ha deciso altrimenti. E quindi propone nuovi impianti inquinanti, un rigassificatore, una centrale nucleare e, più in generale, la revisione degli accordi di Kyoto, del resto ampiamente disattesi ovunque. La filosofia è quella degli inquinatori di sempre, che subordinano il lavoro pulito, il recupero e la valorizzazione ambientale, la tutela del territorio e delle sue fonti di vita, lo sviluppo di un turismo e di un’agricoltura di qualità, per cui la

di Natale Musarra

La bella e la bestia

la Sicilia e la devastazione ambientale

la farsa del G8 ambiente sempre più consistenti di cittadini accedano alle risorse e alla ricchezza comune – è molto più accentuata in Lussemburgo e negli Emirati Arabi piuttosto che negli Stati Uniti. Ma restando al PIL, anche in considerazione dell’attuale crisi economica, non è oggi possibile sostenere che gli Stati rappresentati nel G8 siano tra i “primi 8”: non lo è mai stato la Russia; il Canada e l’Italia hanno fatto diversi passi indietro; le “tigri asiatiche” (Cina, l’India, Corea del Sud, Taiwan, Malesia, Indonesia, ecc.) hanno già effettuato o sono in fase di sorpasso. Perciò molti commentatori ritengono che il prossimo G8, che si terrà blindatissimo nell’isola della Maddalena dall’8 al 10 luglio, sarà l’ultimo (probabilmente sostituito in futuro da un più ampio ed eterogeneo G20). Il fatto che i G8 si svolgano in luoghi remoti, irraggiungibili dai comuni mortali, evidenzia la loro impopolarità. Difatti, il vero scopo degli “8 Grandi” è sempre stato quello di adeguare le politiche dei singoli Stati, specialmente in materia econo-

Fidando nella presunta autoregolamentazione dei mercati (e specialmente di quello finanziario – il più avido e corrotto -), contro ogni logica ed ogni “limite” naturale, abusando della fiducia e delle illusioni della gente comune, calpestando il sentimento umanitario, si sono invece prodotti disastri immani, miseria, precarietà, imbarbarimento di ogni senso morale nelle stesse nazioni che si credevano progredite e civili. Ora il G8 ritorna, ma non sembra affatto aver cambiato indirizzo. Difatti, prima della Maddalena, dal 22 al 24 aprile prossimi sbarcherà a Siracusa, luogo prescelto dalla ministra Prestigiacomo per farsi pubblicità planetaria, con uno specifico “vertice” sull’ambiente. Tutto, dal luogo alle ultime dichiarazioni della ministra, rivela gli scopi di questo G8 atipico. Siracusa e il suo hinterland sono uno dei territori più degradati d’Italia, emblema del malaffare ambientale che per un cinquantennio ha prosperato senza remore sulla pelle, la salute e l’esistenza stessa di migliaia di cittadini.

nostra terra è vocata, ad una economia di rapina, che ha già prodotto autentiche “cattedrali nel deserto” e altre ne creerà, all’insegna dell’arricchimento rapido di pochi privilegiati che oggi annaspano nella crisi, da loro stessi provocata, e sperano di uscirne in questo modo. Perciò il 23 aprile 2008, a Siracusa, si terrà una grande manifestazione di protesta del popolo inquinato, di giovani, donne, studenti provenienti da tutta la Sicilia, che rifiutano di accollarsi i costi terribili dell’ultima crisi e rivendicano invece il diritto a riappropriarsi del proprio territorio e decidere del loro futuro. Cosa vogliamo per la nostra terra? – chiedeva Danilo Dolci - Uno sviluppo pulito, libero da mafie e corruzioni, gestito direttamente dalle comunità locali, oppure la costruzione di grandi opere inutili e nocive, sulle quali non avremo alcun controllo, imposte dagli interessi dei grandi capitali? Siamo nuovamente chiamati a scegliere, e speriamo che stavolta sia per il meglio.

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costituzione di Teo Quasinono

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na delle prime cose che si imparano a scuola è che Monarchia significa governo di uno solo, mentre, invece, Repubblica viene dal latino res publica, cioè cosa di tutti. Con questo, senza ulteriori domande, ci facciamo l’opinione che una repubblica, essendo di tutti, non può che essere una forma di governo intrinsecamente democratica. Basta soffermarsi un po’ a riflettere per scoprire, però, che le cose non sono così semplici. Esiste una Repubblica presidenziale, quella degli U.S.A., per esempio, in cui il popolo elegge direttamente il capo del governo. Forte di questa investitura popolare, il presidente detta tutti gli obiettivi da perseguire e tutte le politiche da attuare, decidendo anche tutti i nomi della “squadra” di governo, i cosiddetti segretari di Stato. Il Congresso, formato dal Senato e dalla Camera dei rappresentanti, anche se appartenente ad uno schieramento avverso a quello del presidente, non può paralizzarne l’azione, ma solo renderla meno spedita e fluida. Si comprende bene che questa forma di repubblica attribuisce ad Obama poteri enormemente più ampi di qualunque regina o re di qualunque Stato europeo, con la sola eccezione del Vaticano. Una variante del presidenzialismo è la Repubblica semi-presidenziale, di cui un esempio ben collaudato è il sistema francese. Qui il presidente della Repubblica, eletto direttamente dal popolo, nomina a sua volta il capo del governo, con il quale condivide l’esercizio del potere. Ma, per poterlo effettivamente esercitare, necessita della fiducia dal Parlamento, anch’esso ovviamente eletto dal popolo. In questo modo la tendenza del presidente ad assumere un ruolo predominante viene attutito e bilanciato, almeno in parte, dal peso del Parlamento. La Repubblica parlamentare, infine, prevede che il Governo, formato dal presidente del Consiglio dei ministri e dai ministri e nominato dal presidente della Repubblica, sia investito della pienezza dei poteri solo attraverso il voto di fiducia da parte del Parlamento. Il presidente della Repubblica, in questa forma di governo, non viene eletto direttamente dal popolo, ma dal Parlamento stesso. Quindi l’unico organo ad essere destinatario della volontà del corpo elettorale è il Parlamento. La Costituzione della Repubblica Italiana, agli artt. 92-96 si esprime molto chiaramente. In particolare nell’art. 92 secondo comma è scritto: Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri. Ora guardiamo questi simboli elettorali: Obama contro McCaine. Il popolo è chiamato a scegliere tra due canObama didati. Chi dei due vince diventa presidente degli Stati Uniti d’America. Non ci sono altre regole; non è previsto il coinvolgimento di altri orgacontro ni. McCain E’ la Repubblica presidenziale.

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Veltroni contro Berlusconi

Veltroni contro Berlusconi. Il popolo è chiamato a scegliere tra due candidati. Chi dei due vince diventa presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana. Ma sono queste le regole previste nella Repubblica parlamentare?

La risposta è ovviamente no! E allora, l’articolo 92 della Costituzione? E il potere di nomina del presidente della Repubblica? Seguiamo attentamente questa descrizione dovuta alla penna di Costantino Mortati:

In primo luogo, per quanto riguarda la formazione del governo, la scelta del “premier” avviene sulla base della volontà manifestata dagli elettori, nel senso che il ***** (a cui formalmente spetta la scelta) deve nominare il “leader” del partito vincitore. In realtà si tratta dunque di un’investitura automatica in base alla quale si realizza quella che può essere considerata una “unione personale” tra la figura del capo del governo e la figura di leader del partito di maggioranza. In secondo luogo, per quanto riguarda l’azione e l’organizzazione di Governo, è nelle mani del Premier che si accentra il potere di direzione politica, sia per quanto riguarda la composizione del Ministero e del Gabinetto, sia per quanto riguarda la direzione ed il controllo sullo svolgimento dell’indirizzo politico. (…) In terzo luogo, per quanto riguarda i rapporti tra Governo e Parlamento, le posizioni si invertono: il Governo cessa di essere il “comitato esecutivo” della maggioranza parlamentare per diventarne invece il “comitato direttivo”, riuscendo così ad assumere la responsabilità non solo della funzione esecutiva, ma anche di quella legislativa (perché essenzialmente il Parlamento, attraverso la sua maggioranza – che è maggioranza strettamente partitica, e vincolata alla disciplina di quel partito di cui il premier è capo – si limita ad approvare i disegni di legge presentati dal Governo, od almeno adotta soltanto quelle leggi che ricevono l’approvazione del Governo). Costantino Mortati (1891–1985) è considerato tra i più autorevoli giuristi ed uno dei più grandi costituzionalisti italiani del Novecento. Nel 1946 fu eletto deputato all’Assemblea costituente e fece parte della Commissione dei 75, dove fu uno dei protagonisti.

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Il passo è tratto da C. MORTATI, Le forme di Governo, Cedam Padova 1973, pp. 171-2.

Chiunque, leggendo questo scritto di quasi quarant’anni fa, non faticherà a riconoscere, nella forma di governo descritta, l’attuale situazione istituzionale. Deve solo sostituire gli asterischi con le parole “presidente della Repubblica”. Solo che, nell’originale, la parola è “Re”, perché la forma di governo descritta è quella dell’Inghilterra contemporanea, una monarchia parlamentare da sempre fondata sul sistema maggioritario e sul bipartitismo, tutte cose a noi da sempre sconosciute. Come se tale confusione non fosse sufficiente, Veltroni, il “leader” sconfitto, ha costituito il “governo ombra”, lo shadow cabinet, uno dei pilastri della democrazia parlamentare inglese. L’attuale leader del P.D., Franceschini, ha pensato bene di azzerarlo, ma credo più per opportunità politica che per amore verso la Costituzione. Una Costituzione, la nostra, deliberatamente e concordemente raggirata proprio mentre, in ogni occasione, se ne strombazzano i meriti. Una cultura costituzionale che sembra marmellata: meno se ne ha e più la si deve spalmare.

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matematica cune delle più importanti leggi della fisica: compare nella semplice equazione del moto di un pendolo, ma anche nella legge che descrive un campo elettrico, senza dimenticare le più recenti apparizioni nel principio di indeterminazione di Heisenberg (il fondamento della meccanica quantistica) e nell’equazione di campo di Einstein della relatività generale (quella che afferma la curvatura dello spaziotempo in presenza di massa, per intenderci ).

toccando una delle linee è esattamente uguale a 2/π. C’è inoltre chi si è prodigato nel cercare di memorizzare più cifre decimali del pi greco, fino allo stabilirsi di una vera e propria gara al Guinness World Record, detenuto attualmente da Lu Chao che, in 24 ore e 4 minuti, è riuscito a declamare a memoria, e senza errori, 67.890 cifre decimali. Il trucco? Spesso si ricorre a filastrocche che facilitano la memorizzazione. Contando ad esempio il numero di

io ne im ”.

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uante volte avete sentito nominare o avete fatto ricorso al “pi greco” ? Forse non ogni giorno, ma se avete una qualche conoscenza di matematica, fisica o geometria analitica senza dubbio vi ci siete imbattuti più di una volta. Probabilmente l’uso più comune, e quindi più conosciuto, di π è quello che se ne fa nel calcolo della circonferenza di un cerchio. Sì, per qualche strano motivo se si ha un certo segmento lungo r, per costruire un cerchio avente r come rag-

“Tre im per fet ti b il e

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laz n etipo di quella serie che svela, h e c r r volgendo circolare, mirabil o oa n (An g e

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li “pi greco”

di Andrea La Rosa gio bisogna moltiplicarlo per 2π.. Vale a dire un segmento lungo r calza perfettamente 2π volte in una circonferenza. Se ci pensate è un po’ strano che un numero dotato di infinite cifre decimali (3,14 è solo un’approssimazione) non periodiche (cioè che non si ripetono mai in modo ciclico), e quindi in qualche modo non perfettamente conoscibile, ricopra così bene questo ruolo. Ed ancora più strana è la storia del pi greco. Sebbene l’etimologia sia di origine greca, il primo uso da noi conosciuto di tale costante risale ai Babilonesi (XX sec. a.C.). Da allora questa misteriosa lettera ha fatto la sua comparsa in al-

Proprio per l’importanza che riveste nell’ambito scientifico, e per l’alone di mistero che lo circonda, π è stato anche protagonista di numerosi aneddoti curiosi. Nel 1897, un deputato della Camera nello stato USA dell’Indiana avrebbe presentato un disegno di legge per cercare di fissare il valore di π a 3, proposta che fu addirittura approvata in un primo momento, per venire poi rigettata. Nel diciottesimo secolo il naturalista francese Georges-Louis Leclerc, scoprì che lasciando cadere un ago su un pavimento con disegnate delle linee parallele distanti fra loro quanto la lunghezza dell’ago, la probabilità che quest’ultimo cada

lettere di ogni parola della frase nel titolo si individuano le prime 14 cifre decimali di π: 3,14159265358979. Per chi ha voglia di cimentarsi, i margini di miglioramento sono molti, dato che attualmente si è arrivati a calcolare i primi mille miliardi di cifre. E magari l’occasione giusta potrebbe essere un 14 Marzo, dato che nei paesi anglosassoni il 14/3 di ogni anno si celebra il pi greco day. L’incanto del pi greco ha insomma affascinato generazioni di matematici e fisici, autori e artisti (non sono in pochi ad avergli dedicato scritti o testi di canzone o addirittura film), e senza dubbio continuerà a farlo.

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umuntu ngumuntu ngabant muntu ngumuntu ngabant umuntu ngabant di Davide Di Paola

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nno 1991: dall’unione dell’ingegno di un allora giovane studente finlandese di nome Linus Torwalds e dall’unione dei componenti GNU creati da Richard Stallman (compilatore gcc, libreria Glibc e altre utility) nasce GNU/Linux, il sistema operativo libero e gratuito, che sin dalla sua prima apparizione ha fatto moltissima strada. Sono passati diciotto anni ed oggi GNU/Linux è un sistema maturo che ha cambiato il panorama dell’informatica mondiale. Ma cosa è esattamente il software libero? Perché GNU/Linux viene definito un sistema operativo libero e didatticamente più vantaggioso? Per definire il software libero ci atteniamo alle indicazioni di uno dei suoi creatori, Richard Stallman, il quale ci dà una definizione precisa di cosa è il software libero. Il Software libero si distingue da quello proprietario per 4 libertà che vengono lasciate ai fruitori del software. Secondo Richard Stallman e la Free Software Foundation da lui fondata, un software per poter essere definito libero deve garantire quattro “libertà fondamentali”: •Libertà di eseguire il programma per qualsiasi scopo (chiamata “libertà 0”) •Libertà di studiare il programma e modificarlo (“libertà 1”) •Libertà di copiare il programma in modo da aiutare il prossimo (“libertà 2”) •Libertà di migliorare il programma e di distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio (“libertà 3”) Grazie al software libero gli studenti possono risparmiare i quattrini per le licenze software ed avere davanti un panorama di applicazioni libere molto più ampio e a portata di click, il tutto nel pieno rispetto della legalità. Inoltre anche didatticamente il software libero è migliore ed offre più spunti d'insegnamento, proprio perché lascia agli studenti la possibilità di mettere le mani sul codice sorgente, capendo e studiando cosa c’è dietro il funzionamento di un software, piuttosto che essere meramente addestrati all’uso di quest’ultimo. Negli ultimi anni, molte nazioni lungimiranti come la Francia, la Germania, la Finlandia, la Norvegia, la Spagna hanno investito cifre considerevoli nello sviluppo di free software ed hanno anche fatto migrare una parte delle loro

amministrazioni all’utilizzo di software libero. Intere nazioni Sudamericane come il Brasile, il Venezuela, il Perù, hanno abbracciato la filosofia del software libero dando vita ad un circolo virtuoso che ha coinvolto le scuole, gli enti e le amministrazioni pubbliche. Anche nel mondo asiatico il sistema operativo del pinguino ha avuto un largo seguito: due anni fa la Banca Centrale Cinese ha adottato GNU/Linux per 1.000.000 di server con notevoli risparmi per le proprie finanze. Addirittura è stato sviluppato un progetto per dare vita ad una distribuzione dal nome Asianux dedicata alle popolazioni asiatiche. Numerose sono anche le aziende informatiche che hanno investito su GNU/Linux, tra queste anche colossi come IBM, HP, Intel e Samsung. Per non fare confusione è opportuno introdurre il concetto di distribuzione; GNU/Linux non è un solo sistema operativo, ma poiché è formato dall’unione di più software liberi ha dato

del 2004 ad opera di Mark Shuttleworth che, dopo essere diventato bilionario vendendo la sua azienda di certificazioni digitali, ha deciso di reclutare i migliori programmatori di software libero e di dare vita alla distribuzione (o “distro” nel gergo) Ubuntu. Ubuntu è scaricabile gratuitamente dal sito www.ubuntu.com oppure per chi non parla l’inglese dal sito www.ubuntu-it.org. Tra i diversi partner di Ubuntu, Catania ha la fortuna di ospitare una software house chiamata Ephestus, che è Ubuntu affiliate ed Ubuntu Solution Provider. Un’opportunità per chi vuole scoprire da vicino GNU/Linux. Anche sulla nostra isola qualcosa si muove: alcune scuole hanno già adottato delle soluzioni basate su software libero, altre hanno investito nella creazione di laboratori dual-boot con doppio sistema operativo Windows e GNU/Linux, così da far contenti tutti i docenti delle varie discipline. Purtroppo però sono ancora tante le realtà dove, un po’ per pigrizia un po’ per l’arretratezza mentale di certi docenti, il software libero non è ancora stato scoperto, con una grave perdita di opportunità per i ragazzi e la scuola stessa. Tra le scuole lungimiranti del pa-

possibilità a diverse aziende di prendere questo software, di pacchettizzarlo ed organizzarlo secondo i propri gusti, dando cosi vita a diversi sistemi operativi ed interfacce grafiche per soddisfare le diverse esigenze. D’altronde maggiore libertà e flessibilità si traducono in vantaggi innumerevoli per chi utilizza il software. Tra tutte le distribuzioni create, quella che sicuramente ha raggiunto la massima diffusione nel mondo è stata Ubuntu (che usa come interfaccia grafica GNOME), essa esiste anche nelle versioni Kubuntu (che usa come interfaccia grafica KDE) Edubuntu (versione arricchita con software per l’apprendimento) e Xubuntu (che usa come interfaccia grafica XFCE). Ubuntu nasce

norama catanese possiamo annoverare, l’Ipsia E. Fermi, il Liceo Classico M. Cutelli, il Liceo Classico Gulli e Pennisi, l’Istituto Comprensivo Tomasi di Lampedusa, l’Ettore Majorana di San G. La Punta e l’ITIS G. Marconi di Catania. Se le parole non sono solo segni e suoni, ricordo che Windows significa finestre, riferendosi al tipo di interfaccia grafico, mentre Ubuntu è un’espressione in lingua bantu che indica “benevolenza verso il prossimo”. È una regola di vita, basata sulla condivisione della condizione altrui, il rispetto dell’altro. Appellandosi all’ubuntu si è soliti dire Umuntu ngumuntu ngabant, “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”. Non solo due sistemi operativi, ma due diverse visioni del mondo.

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diritti umani E R ’ ITA

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O S S E R G di Antonio Squeo

Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini goevrni che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzare i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità. Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America 4 LUGLIO 1776

Vendite all’incanto, aste; i linguaggi e le tecniche della pubblicità inaugurano l’era dei consumi di massa. Ma il commercio, qui, è di esseri umani! Questi manifesti vanno dal 1840 al 1859: sono già passati circa settant’anni dall’orgogliosa affermazione delle verità per se stesse evidenti, che gli uomini sono creati eguali e che hanno diritto alla vita e alla libertà. Allo schiavo n° 59 della Vente al’Encan riprodotta qui a sinistra, a John Garret, 40 anni, non resta che fuggire, diventare marroneur, forse per quel suo mauvais caractére. Un cattivo carattere che vorremmo avessero avuto tutti i suoi compagni di sventura. Perché alle catene, di tutti i tipi, ci si può fare anche l’abitudine. E rimanere schiavi nonostante le affermazioni di diritti e le dichiarazioni di libertà. Attraversando un secolo e mezzo ed un oceano, le storie di queste persone ci portano un messaggio ancora del tutto attuale: non basta aver conquistato un diritto, bisogna continuamente riaffermarlo se non lo si vuol vedere definitivamente calpestato.

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speciale De André

l‘arcobaleno

“If you cannot be a poet, be the poem” (D. Carradine)

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uest’articolo, estorto facendo leva su promesse irriferibili, vorrebbe essere un avviso ai lettori, si spera giovani e ancora poco inquinati da tutte le scorie della cosiddetta età adulta, a diffidare di concerti e celebrazioni dedicati a musicisti equivoci e fuori dalle righe, a personaggi amanti della poesia e della libertà; e appunto per questo modelli sicuramente da evitare. Nel nostro caso, Fabrizio De André: uno che frequentava, nella sua poesia ma anche nella vita, personaggi che oggi come oggi sono oggetto di ronde, espulsioni, carceri, manicomi. Ovvero emarginati, prostitute, travestiti, zingari e, non ultimi, anarchici.

per circa dieci anni, dal 1969 al 1979, fu sottoposto a controlli da parte delle forze di polizia e dei servizi segreti italiani, in quanto ritenuto un “simpatizzante delle BR”; a rafforzare queste ipotesi, dal punto di vista degli investigatori, il fatto che a Genova De André avesse contatti con persone di sinistra o appartenenti a gruppi anarchici. A tale proposito, Faber diceva: “Da un punto di vista ideologico sono sicuramente anarchico, sono uno che pensa di essere così civile da riuscire a governarsi per conto proprio e, con fiducia, attribuisce agli altri le sue stesse capacità”. Anche per questi motivi De André non è proprio un tipo da

In verità, De André non credeva di essere un poeta, e anzi non gliene importava proprio. Fernanda Pivano, anche lei un cattivo esempio da additare alle nuove generazioni per diversi motivi, non ultimo quello di aver fatto conoscere i poeti e gli scrittori beats – un manipolo di omosessuali, capelloni drogati e pacifisti - agli italiani, una volta, durante una premiazione, definì De André uno dei più grandi poeti del Novecento italiano. Il nostro, che era presente, ribatté subito dicendo che forse questa era un po’ grossa, e che lui si accontentava di essere un cantautore. Una terza via, insomma, rispetto al “o poeta o cretino”, di Benedetto Cro-

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Non certo Luigie Pallavicini cadute da cavalli, fiori a cui si tendevano pargolette mani o cinque maggi orbi di tanto spiro al cha-cha-cha. Perché a volte, la poesia, non è quella cosa che si legge nei libri di scuola, da mandare a memoria e che non si capisce a cosa serva. A volte, la poesia, può cambiare la vita e spingerci in territori da dove si ritorna da fuorilegge, stranieri, innamorati. E appunto per questo, può diventare pericolosa. Prendete De André, ad esempio: lui raccontava che tutto era iniziato ascoltando un disco di un altro poco di buono, tale George Brassens, un poeta, ubriaco, cantante, scrittore e anarchico. Un uomo di cattiva reputazione, insomma: “Mauvais reputation”, come Brassens stesso chiama il suo primo disco. E quindi: attenti ai dischi che ascoltate, potrebbero farvi fare una brutta fine. De André, per dirla tutta, era uno che

portare a modello; né tantomeno da celebrare in modo così istituzionale e perbenista, come i media hanno fatto nell’occasione del decennale della sua scomparsa. Ma tant’è: nel tritacarne dello spettacolo tutto, alla fine, può diventare recuperabile. Basta che non abbia diritto di replica, cosa che di solito i morti non posseggono. A conferma delle stranezze di De André, un episodio: dopo che lui e sua moglie furono rapiti dall’anonima sequestri sarda e tenuti in ostaggio per quattro mesi, all’indomani della liberazione ebbe parole di pietà per i suoi carcerieri: «Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai». Cose che dette ora, mentre razzismo, molotov sui campi degli zingari e ronde da giustizia sommaria sono ormai diventate normalità, fanno una certa impressione. I poeti sono strane creature, come dice la canzone.

ce, nome che troneggiava nei programmi ministeriali di qualche anno fa, prima che arrivassero la scuola impresa, supermercato o discarica che dir si voglia. Per finire, Fabrizio De André pare che dicesse le parolacce, bevesse e forse sputasse anche per terra; di sicuro amava la poesia, quella di Edgar Lee Master, Prevert, Leonard Cohen, Bob Dylan, per esempio. Tutte cose altamente da sconsigliare, e foriere di cattivi destini. Questo, perlomeno, in un mondo dove le priorità sono le fotine su facebook, gli sms tvtb, i lucchetti sui ponti, i sabati in discoteche, le domeniche agli stadi, il lunedì tra la prigione dei banchi di scuola. Insomma vizi, o passioni, quelle di De André, che non sono certo esempi da sottoporre ai giovani. I quali dovrebbero invece, come da recenti programmi ministeriali, dedicarsi alle “tre i” o, per meglio dire e in ossequio all’attuale riforma scolastica, all’unica “i” rimasta: quella dell’ignoranza. E quindi, non andate al concerto su De André con Carlo Ghirardato – anche lui, credetemi, un altro poco di buono - organizzato dal giornale che avete tra le mani: potreste ammalarvi di una cosa pericolosa, fuori dal recinto, da sconsigliare fortemente a chi vuole vivere indifferente e addormentato. La Poesia.

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speciale De André N

el 1971, mentre le brigate rosse facevano il primo vero atto della propaganda armata (l’attentato dello stabilimento Pirelli di Lainate), Fabrizio De André, rivoluzionario della poesia e della musica novecentesca, iniziava un nuovo lavoro, che lo porterà alla trasformazione di una parte de “ L’Antologia di Spoon River”, in ballate,

donato ad un “ricordo” quasi foscoliano - la struttura ci fa immediatamente pensare al “Sui Sepolcri” del Foscolo, l’ ambientazione del cimitero e il racconto corale dei defunti di Spoon River - ? è molto difficile rispondere, forse la vita, quella che raccontava il

Fernanda Pivano

Edgar Lee Masters composizioni musicali e poetiche, che erano la forma espressiva ideale per fabrizio dove l’ intrerpretazione è complicata dalla struttura ritmica e dalla composizione musicale, che alterano rima e sistema versificativo dell’ opera originaria. Così è nato il quinto album di studio di De André: “Non al denaro, né all’amore né al cielo”. La raccolta poetica che ha attirato Faber (nomignolo dato all’ artista genovese da Paolo Villaggio), che svela il meglio di Edgar Lee Masters , è una grande “sineddo-

cantautore, era anche e soprattutto un ricordo, se si guarda sotto la patina del messaggio superficiale. Ma non dobbiamo dimenticare che “L’Antologia di Spoon River” è anche la storia di Cesare Pavese, Fernanda Pivano, Giulio Einaudi, nonché di Gaetano Polverelli. Infatti fu Cesare Pavese, nel 1937, a fare leggere alla Pivano l’opera,

ca. Giulio Einaudi la pubblicò e Gaetano Polverelli e il suo ministero approvarono l’ opera senza censurarla, ma in seguito Fernanda Pivano fu costretta al carcere per la pubblicazione e la traduzione di questo testo americano nell’ origine e nello stampo, troppo scomodo al regime fascista. Allora, forse, il poeta genovese ha cantato un brano che rappresenta l’ opposizione contro chiunque voglia controllarci e plasmarci. Fabrizio ci ha toccati a tal punto con la sua reinerpretazione che spoon river è diventato la storia di Morgan, cantante dei bluvertigo e giudice di X factor, e William Willinghton, talentuoso fotografo e giornalista. Il primo ha realizzato un remake del disco, quasi un’ edizione critica dato il rispetto e la soggezione del cantante nell’ interpretarla. Il secondo, ispirato dalla musica del

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che” dell’ umanità che di Antonio Giuliano partendo dalla provincia americana ci coinvolge tutti, in qualche modo “racconta i narratari”. Fabrizio era rimasto molto colpito dalle poesie, che parlavano di vite vissute, le uniche, secondo Lee Masters, che potevano essere raccontate senza sentimento, e sono vere perché solo le cose che non ci sono più possono esserlo, non essendo condizionate dalle vicende terrene. Ma perché Fabrizio De André, che fino che la tradusse in italiano, affascinata ad allora aveva raccontato storie che van- dall’ anadiplosi di una frase, che ancora no capite nella loro spannung, si è abban- non sapeva essere una citazione platoni-

cantautore, ha realizzato un percorso fotografico che mostra i paesaggi che sono alla base di tutto, “Spoon River, ciao“. Queste persone che insieme con Fabrizio ci hanno trasmesso le loro emozioni non ci possono lasciare indifferenti, infatti per Ferdinanda Pivano De André “ha aggiunto umanità […] ha fatto diventare queste storie storie d’amore mediterranee” e, per questo, la storia di Elmer, Herman, Bert, Tom, Charley, Ella, Kate, Maggie, Edith, Lizze e Jones, diventerà anche la nostra storia.

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