Gennaio

  • October 2019
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  • Words: 18,362
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���������������������������������������������������������������������������������������������������������� Coordinamento scientifico-editoriale Elio Matassi - Ivana Bartoletti - Carmelo Meazza

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Adesioni

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Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (deputato), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Maurizio IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Alessandro PAGNINI (Univ. di Firenze), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Gennaio-Febbraio 2008, n° 4. (Numero 5, 28 Febbraio 2008) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: [email protected] Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.

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La crisi italiana, la postdemocrazia e le risposte del Partito Democratico di ELIO MATASSI

p. 3

La Sapienza del poi di UMBERTO CURI

p. 5

La politica e il sacro di CARMELO VIGNA

p. 10

Alcune domande a Virgilio Melchiorre a cura della Redazione

P.

17

L’aborto, il male morale e la pazienza del diritto di ANDREA TAGLIAPIETRA

p. 19

L’Università e il Papa di MAURO VISENTIN

p. 22

Sul Manifesto dei Valori del Partito Democratico di ELIO MATASSI

P.

Quali diritti e per quale libertà di MASSIMO DONÀ

p. 31

L’inverno civile della Repubblica di CARMELO MEAZZA

p. 38

27

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La crisi italiana, la postdemocrazia e le risposte del Partito Democratico di Elio Matassi ��������� La crisi del governo Prodi, le modalità che ne hanno determinato la ‘caduta’ impongono una riflessione di più ampio respiro che coinvolga quella che il politologo inglese Colin Crouch ha definito “postdemocrazia”, per determinare il modello verso cui, dopo una storia che ha conosciuto momenti molto ‘alti’ di democrazia sostanziale, tendono le democrazie occidentali. La postdemocrazia rappresenta una fase discendente della parabola della democrazia in cui “anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, mentre la massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi ai segnali che riceve…”. Sembra quasi un’analisi condotta sulla più immediata attualità politica italiana, in cui il governo in carica entra in crisi per motivi esclusivamente extraparlamentari e le forze di centrodestra spingono per elezioni politiche anticipate senza porsi il problema della modi

fica della legge elettorale e di altri aspetti decisivi di riforme istituzionali. A questa accelerazione sul piano elettorale corrisponde su quello della massa dei cittadini una sfiducia crescente nelle istituzioni, un sentimento sempre più diffuso dell’antipolitica (Grillo è pronto a scendere in campo con proprie liste civiche), che sembra fin’ora colpire l’area del centrosinistra ma che finirà col travolgere anche il centrodestra. La drammaticità della situazione che sta investendo il nucleo forte della democrazia rappresentativo-liberale e che il centrodestra si illude di poter gestire, impone scelte coraggiose per l’immediato ed una lungimirante politica che torni ad accorciare le distanze tra élites politiche e massa dei cittadini. Il Partito Democratico è nato proprio per soddisfare un’esigenza di questa natura e dovrà farsene carico in un grande congresso di respiro ideale e politico. Sul piano della più immediata attualità, il Partito Democratico dovrà battersi fermamente per una ‘decantazione’ (l’espressione non è esteticamente elegante ma rende con efficacia il fine che un tale governo dovrebbe proporsi), e dunque per un governo a termine, tecnico-istituzionale che consenta di modificare una legge elettorale assurda e che, tra l’altro, impedisce ai cittadini di potersi esprimere liberamente nella scelta dei candidati, una legge, dunque, che drammatizza invece di ridurre lo scarto tra aspettative e situazione reale della democrazia. Chi crede, in maniera puramente opportunistica, di poter eludere questo problema, potrà magari avere risultati favorevoli nell’immediato ma avrà contribuito ad allargare quello scarto. Visione miope, non lungimirante, che potrebbe essere devastante per il futuro stesso della democrazia. Ritorno ancora a Colin Crouch ed alla sua analisi della democrazia liberale: la democrazia non può limitarsi ad insistere sulla partecipazione elettorale come attività prevalente per le masse di cittadini, mentre lascia un ampio margine di libertà alle attività delle lobby, con possibilità assai più ampie di coinvolgimento soprattutto a quelle economiche. Si tratta di un modello puramente elitario che risulta scarsamente interessato al coinvolgimento di cittadini o al ruolo delle organizzazioni al di fuori dell’ambito economico. Il Partito Democratico è nato, invece, per far sì che aumentino per le masse le opportunità di partecipare attivamente, non solo attraverso il voto, ma con la discussione ed attraverso organizzazioni autonome, alle definizioni delle priorità della vita pubblica. Invece di andare in tale direzione, verso una democrazia “durevole”, “densa”, una democrazia di prossimità, il cartello elettorale (perché anche in questo caso si tratta semplicemente di un puro matrimonio di convenienza) del centrodestra spinge verso elezioni immediate, con una legge elettorale che, di fatto, esautora i cittadini dalla possibilità di scegliere di candidarsi. Si invocano le elezioni per tornare a dar voce al popolo e, nei fatti, si tradisce questa intenzione, rifiutandosi di modificare un sistema che perpetua le distanza tra élites politiche e massa; credo sia sufficiente questa constatazione per dimostrare la pretestuosità argomentativa del cartello elettorale del centrodestra. Il Partito Democratico dovrà invece assumere una posizione responsabile per contribuire a ridurre quello scarto che potrà produrre la crisi irreversibile della democrazia.

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La Sapienza del poi di Umberto Curi

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Dopo tanti discorsi astratti sulla laicità, con la convinzione ormai diffusa di aver raggiunto un buon grado di consapevolezza su un tema così delicato, è bastato un episodio di per sé marginale, quale l’annunciata presenza del Papa all’inaugurazione dell’anno accademico alla Sapienza, per far franare tutto miseramente. Dei sottili distinguo, delle dotte disquisizioni, delle raffinate precisazioni – presenti anche nelle pagine di questa rivista, e in almeno un paio di seminari svoltisi nell’arco degli ultimi mesi – non sembra essere rimasta alcuna traccia consistente. Alla prima occasione, è prevalso il riflesso condizionato ingenerato dall’abitudine, o si è imposto il richiamo alla Realpolitik. Con buona pace della “novità” che dovrebbe essere rappresentata dal Partito democratico. Raramente, ad essere schietti, si sono visti atteggiamenti così poco “nuovi”, così convenzionali, così ispirati a considerazioni meramente tattiche, a valutazioni contingenti. Il fatto che tutti si siano precipitati ad esprimere solidarietà al Papa, neanche fosse stato oggetto di chissà quale aggressione, la dice lunga sul persistere di una cattiva coscienza, quasi che si dovesse comunque espiare per il solo fatto di non essere credenti. Accorrere in piazza San Pietro, accogliendo il richiamo tutto spudoratamente “politico” del cardinal Ruini, come hanno fatto tanti dirigenti del PD, mescolandosi a personaggi talora di dubbia reputazione, gomito a gomito con Borghezio e Gasparri, è stato un segno di una persistente subalternità culturale, dalla quale non sembra si sia capaci di liberarsi. Giunti a questo punto, non si sa se possa avere ancora un senso proporsi di svolgere un ragionamento “laico”, viste le ambiguità e gli equivoci che su questo termine si sono addensati in

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questa circostanza così incresciosa. Pur con queste avvertenze, si può almeno tentare di mettere in fila alcune considerazioni del tutto obbiettive. Forse non saranno laiche - speriamo che almeno appaiano di buon senso. Anzitutto, è necessario chiarire la “cosa”, vale a dire quale sia stata la natura effettiva dell’iniziativa assunta dai 67 docenti della Sapienza. Come da più parti si è cercato di precisare – inutilmente, visto l’uso che ne hanno fatto i mass-media – circa un paio di mesi prima dell’inaugurazione, costoro si sono limitati ad inviare al Rettore una lettera con la quale esprimevano il loro dissenso circa l’ipotesi di affidare al Papa l’incarico di tenere una lectio magistralis. La lettera, pur non essendo riservata, non era tuttavia destinata ad essere pubblicata, e rifletteva un’opinione (non importa quanto condivisibile) di alcuni membri del corpo accademico, rivolta a colui che svolge un ruolo di rappresentanza del corpo accademico nella sua totalità. La lettera contiene alcune valutazioni, in particolare per quanto riguarda l’atteggiamento di Ratzinger nei confronti della scienza, e di Galileo in particolare, che sono del tutto opinabili. In dettaglio, ad esempio, si contesta al Papa di aver rilanciato – citandolo – il giudizio fornito da Paul Feyerabend a proposito della controversia fra lo scienziato pisano e la Santa Inquisizione. Nel merito di queste contestazioni, vi sarebbe da osservare che si tratta di una catena di equivoci. Non si è capito, per cominciare, che la presunta “critica” di Feyerabend a Galileo riproduce in realtà un’argomentazione per antifrasi, nel senso che ciò che l’epistemologo rileva, e cioè che le tesi dello scienziato non erano suffragate da evidenze sperimentali incontrovertibili, non è affatto finalizzato a ridimensionare l’importanza di Galileo ma, esattamente al contrario, vuole sottolineare che quel modo di procedere, non necessariamente inchiodato a prove indiscutibili e a modelli logici rigorosi, è precisamente il modo col quale, a suo giudizio, la scienza cresce e si sviluppa. Insomma, secondo Feyerabend, Galileo sarebbe il fondatore della scienza moderna, proprio in quanto avrebbe canonizzato un “metodo” nel quale il caso, la fantasia, gli elementi irrazionali – e non il rigoroso rispetto di un codice di astratta razionalità – sono fattori determinanti. Da questo punto di vista, è difficile dire se, citando Feyerabend, Ratzinger intendesse associarsi al suo elogio di Galileo, e dunque anche del suo anarchismo metodologico, ovvero se volesse distorcere il “senso” della posizione di Feyerabend, per muovere un’accusa allo scienziato pisano. Ad essere franchi, la questione non è fra le più appassionanti; ma la si sarebbe tranquillamente, e più opportunamente, potuta affrontare in chiave di dibattito epistemologico in un’occasione e mediante strumenti diversi da quelli di un’inaugurazione accademica. Chiarito questo, il secondo passaggio che va sottolineato è che il “caso” è nato – ed è stato artificiosamente gonfiato, per scopi tutt’altro che nobili – nel momento in cui la lettera è stata pubblicata dai giornali, tradendo le “intenzioni” degli stessi sottoscrittori. Altro è, infatti, l’espressione di un dissenso rivolta privatamente ad un collega primus inter pares, altro è il rendere di pubblico dominio il contenuto di questo dissenso. Con questo atto, la questione, originariamente appartenente al novero delle questions de bagatelle, è stata trasformata in un vero e proprio casus belli, sul quale hanno affondato tutti coloro che, soprattutto nel centrodestra, ma anche nello stesso centrosinistra, aspettavano l’occasione buona per rilanciare polemiche ideologiche del tutto prive di senso, oltre che (si sperava, almeno) completamente anacronistiche. A partire da questo vero e proprio turning point, è accaduto di tutto e di più. La discesa in campo degli “atei fedeli”, come Giuliano Ferrara o Marcello Pera. La scomposta corsa a “chiedere scusa” al Pontefice, neanche avessero fatto un’altra breccia a Porta Pia. Il compiaciuto intingere il biscotto in que-

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sta insperato zabaione di stupidità da parte di Bruno Vespa ed Enrico Mentana, alla ricerca di qualche argomento con cui sostituire il delitto di Cogne o l’omicidio della studentessa americana a Perugia. Il frenetico succedersi di dichiarazioni di amore sempre più ardente per il Papa, anche da parte di agnostici incalliti, ma provvisti di dosi elevate di pelo sullo stomaco. Come se qualcuno avesse davvero messo in discussione il diritto ad esprimersi da parte del Pontefice. Come se davvero da qualche parte si fosse impedito con la violenza la sua partecipazione alla cerimonia della Sapienza. Ci si imbatte qui nel terzo punto, sul piano di questa cronaca tutt’altro che esaltante. Ciascun Ateneo, per tradizione ormai plurisecolare, costituisce una comunità governata da regole scritte e da consuetudini non scritte, le quali insieme concorrono nel sottolineare un dato di fondo, vale a dire l’autonomia formale e sostanziale di tutte le sedi universitarie. Con i provvedimenti legislativi assunti negli ultimi anni, fra l’altro, questa autonomia è stata altresì ulteriormente rafforzata anche dal punto di vista amministrativo. Ebbene, è cosa perfettamente normale che l’occasione annuale più solenne e significativa nella vita di queste comunità venga organizzata e gestita secondo criteri definiti in piena autonomia dagli organismi di governo delle università. In particolare, il Senato Accademico, o lo steso Rettore, possono ritenere opportuno invitare questo o quel personaggio, al quale si riconosca, per motivi diversi, la capacità di riscuotere la stima e il consenso della comunità che lo invita. Ma è del tutto evidente che, poiché l’invitato non può che essere di volta in volta uno solo, coloro che non siano stati invitati non sono stati, per ciò stesso, privati della parola, censurati, messi coercitivamente a tacere. Sarebbe come se il rabbino capo di Roma protestasse per non essere stato invitato all’inaugurazione dell’anno accademico. La stessa cosa varrebbe per esponenti di altre chiese, o anche per rappresentanti delle istituzioni o dei partiti politici, i quali non è verosimile si sentano discriminati per non essere stati invitati. Perché, ad esempio, Fini o Berlusconi o Franceschini non si lagnano di non essere stati invitati a tenere una lectio magistralis? E dunque, per ritornare al contenuto della famigerata lettera: si chiedeva di non invitare il Papa, con motivazioni certamente del tutto discutibili, ma non si lanciava nessuna fatwa contro il Santo Padre, non si chiedeva che fossero portate fascine di legna a Campo dei Fiori, non si auspicava che riaprissero le celle di Castel Sant’Angelo. Semplicemente, si dichiarava di ritenere preferibile che altri, e non lui, fossero invitati. Poiché nessun “obbligo”, di nessun genere, né alcuna prassi o consuetudine più o meno consolidata, induceva ad invitare proprio il Papa (invece che, che ne so, del Ministro per l’Università, o di qualche Premio Nobel), gli sfortunati 67 chiedevano di soprassedere sulla decisione assunta. Tutto qui. Un’autentica banalità. Un episodio del tutto irrilevante se, come si è visto, non ci si fossero buttati a pesce da tutte le parti: settori della stessa università romana, presunti maître à penser, intrattenitori televisivi, giornalisti d’assalto, esponenti politici. Uno spettacolo indecoroso. Un segno, fra i molti, del grave deterioramento culturale e civile del nostro paese. Dal quale è poi scaturito il tocco finale a questa avvilente telenovela: il raduno dei 200 mila in Piazza san Pietro, per acclamare il martire, per testimoniare la propria illibata fede nella Chiesa di Roma. Tentiamo qualche considerazione riassuntiva. Le questioni - quelle sì, serie – della laicità e del doveroso rispetto nei confronti delle religioni, di qualunque religione, non c’entrano assolutamente nulla con la farsa o il vaudeville andati in scena a ridosso della cerimonia della Sapienza. E’ vero: se ci si riferisce unicamente agli interessi della coalizione di centrosinistra, e all’incerto e travagliato futuro del PD, visto il putiferio che ne è seguito sarebbe stato

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meglio che quella lettera non fosse stata scritta, o almeno che non fosse stata resa pubblica. In questa prospettiva, di pura opportunità tattico-politica, si può perfino condividere il giudizio espresso da Massimo Cacciari (“cretinismo politico”), palesemente infastidito dal sentirsi messo in difficoltà per le conseguenze di un’iniziativa certamente poco “tempestiva”, se gli unici “tempi” che si devono tenere presenti sono quelli della politica quotidiana. Il fatto è che, oltre agli interessi più immediatamente politici, vi sono, o vi dovrebbero essere, anche esigenze di genere diverso, attinenti al piano scientifico e culturale, e a quello delle scelte di valore. E allora non si vede perché si dovrebbe sempre soggiacere all’iniziativa degli altri, perché farsi trascinare a rimorchio nell’ossequio – tra l’altro, puramente formale – al capo della Chiesa di Roma, perché non avere il rigore di denunciare le mistificazioni e le volgari strumentalizzazioni messe in campo senza alcun autentico “riguardo” nei confronti del Papa, al solo scopo di suscitare difficoltà al centrosinistra. Poteva essere questa l’occasione per un colpo d’ala, per una testimonianza concreta di un modo nuovo, più maturo e coerente, di concepire i rapporti fra Stato e Chiesa, fra scienza e religione. Si poteva cogliere lo spunto per chiarire tutta la radicale differenza che sussiste tra fede e religione, l’incondizionato rispetto dovuto a tutte le espressioni della prima, la necessaria vigilanza “critica” (che non vuol dire affatto pregiudiziale svalutazione) nei confronti della seconda. Si poteva far capire lo scarto tra laicità e laicismo, fra la preziosa autonomia di due ambiti fra loro pienamente compatibili, quali sono quelli della fede e della ricerca, e l’aprioristica opposizione verso tutto ciò che appartiene ad un’istituzione ecclesiastica. Tutto ciò avrebbe richiesto alcune fondamentali distinzioni, senza le quali rischiano di risultare inevitabili pasticci come quello recentemente accaduto. Si è proceduto, invece, nella direzione esattamente opposta, mettendo insieme e confondendo piani e temi diversi ed eterogenei. Nell’invito al Papa, anzitutto, non è in discussione la questione della fede – argomento troppo importante, delicato e degno di rispetto, per potere essere mescolato con le contingenze di quell’avvenimento. Se è coerente con la propria posizione, e col riconoscimento della propria indigenza, il non credente sa bene di essere compagno di strada del credente, poiché con lui condivide il punto decisivo, vale a dire la consapevolezza dell’impossibilità di un compiuto “render ragione”, e dunque del limite costitutivo ed insuperabile dell’esercizio della propria ragione. Altra cosa è il problema del rapporto con il massimo esponente di una religione che, in tutta obbiettività, almeno in Italia non può essere messa sullo stesso piano di altre confessioni. Questo rapporto, e quello ad esso collegato della relazione con colui che è anche Capo di uno Stato straniero, indipendente da proprie opzioni di fede, esige da parte di tutti accortezza e senso dell’opportunità. Cosa diversa è, ancora, la valutazione della linea tenuta da Benedetto XVI nel campo della pastorale e del magistero, dove molte e legittime possono essere le obiezioni, soprattutto in rapporto alle direttrici seguite dai Pontefici precedenti, essendo tuttavia attenti a motivare nel merito – non sulla base di “simpatie” epidermiche, ma nel dettaglio anche tecnico di certo orientamenti – la propria opposizione. Altra cosa ancora, infine, del tutto diversa, è la posizione di Joseph Ratzinger come studioso e intellettuale, rispetto al quale sono ovviamente del tutto leciti il dissenso e la polemica, scegliendo tuttavia accuratamente il terreno e le forme per esprimere le proprie convinzioni. Insomma, per essere davvero fedeli alla propria responsabilità di studiosi e di intellettuali, queste perfino elementari distinzioni avrebbero dovuto essere presenti fin dall’inizio, sconsigliando dunque l’assunzione di atteggiamenti massimalistici, ed evitando dunque di cadere nel trappolone

convinzioni. Insomma, per essere davvero fedeli alla propria responsabilità di studiosi e di intellettuali, queste perfino elementari distinzioni avrebbero dovuto essere presenti fin dall’inizio, sconsigliando dunque l’assunzione di atteggiamenti massimalistici, ed evitando dunque di cadere nel trappolone escogitato dai propri avversari politici. Disgraziatamente, così non è stato. Si è preferito attingere al repertorio di formule e atteggiamenti ormai inservibili, rispolverare antichi slogan, farsi catturare nelle angustie di una querelle di infimo profilo. Alla fine, accettando di fatto che altri gettassero lo scompiglio nel proprio stesso campo, intellettuali ed esponenti politici del centrosinistra hanno finito per perdere tutti, oscillando fra un logoro anticlericalismo e l’ipocrita compunzione di chi abbia chissà cosa da farsi perdonare. Insomma, dopo questa brutta vicenda, sarà probabilmente necessario ricominciare daccapo. Ripartendo dal concreto di casi come questi, piuttosto che discettando sui massimi sistemi.

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La politica e il sacro di Carmelo Vigna

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1. Il sacro può ancora avere a che fare con il politico? La domanda può parere un po’ peregrina nell’Occidente laico, anzi nell’Occidente da tempo secolarizzato. Ma troppi segni dicono che la secolarizzazione, se ha drasticamente ridotto l’impatto sociologico del sacro, non ha tuttavia ridotto l’impatto profondo del sacro negli esseri umani. Il quale, infatti, rispunta qua e là sotto molte forme, ivi compresa una ripresa dell’interesse per la fede cristiana. In sede poi di filosofia politica, la riedizione del sacro appare soprattutto, a mio avviso, come coltivazione, sempre più insistita, e dell’etica politica e, soprattutto, della teologia politica. Non voglio qui riproporre tematiche à la Schmitt. Più semplicemente intendo svolgere un gruppo di considerazioni che possono condurre sino a lasciar apparire il sacro come un inevitabile rimando delle relazioni politiche, se queste sono da pensare come strategie di buona vita per una comunità di persone. Per ottenere (spero) questo “effetto” devo fare un giro un po’ lungo. Prego perciò il lettore d’avere un po’ di pazienza. 2. Prendiamo le mosse dal politico in generale. Il problema di sempre del politico è quello delle condizioni del convenire, per un verso, e della progettazione delle forme della vita collettiva, per altro verso. Questi due lati fanno circolo, per la verità. Ma qui possiamo anche trattarli come principio e fine del politico. Ebbene, da un certo punto di vista si può dire che, dopo l’ultimo mezzo secolo di discussione intorno alle forme della politica, ci troviamo quasi nella necessità di difendere non più un progetto di costruzione del “bene comune”, bensì un progetto di salvaguardia delle semplici condizioni

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del convenire o del convivere. Ogni progetto di costruzione del “bene comune” sembra in effetti inevitabilmente consegnato alla totalizzazione ideologica. All’impegno politico si presenta, dunque, uno spettacolo molto diverso da quello di cinquant’anni fa. Cinquant’anni fa dominava ancora, appunto, il tema della progettualità socio-politica e le grandi ideologie gareggiavano nel disegnare il futuro della comune convivenza (da noi, come si sa, esse erano principalmente tre: quella cristiana, quella marxista e quella laica). Oggi il tema della progettualità socio-politica ha abbandonato ogni pretesa totalizzante e si è trasformato, nel migliore dei casi, in una ingegneria complessa, in cui prevale l’intervento circostanziato e limitato a tempi brevi. Fondamentalmente (e semplicisticamente) il cittadino oggi chiede una certa equità nel versamento di contributi destinati a tenere in piedi la macchina statale e una certa efficienza nella erogazione dei servizi da parte di tale macchina. Da tempo si è anche passati, come si dice comunemente, dai diritti civili ai diritti sociali, e quindi da uno stato garante ad uno stato erogatore di servizi. Purtroppo di frequente il cittadino non ottiene né l’una né l’altra cosa, almeno da noi. Anzi, in tempi recenti, non solo lo stato come erogatore di servizi, ma anche lo stato come struttura organica costituzionalmente protetta, è entrato in crisi. O meglio: è entrata in crisi la modalità rigida della rappresentanza politica mediata dalla forma-partito. Questo però è discorso che per ora può essere lasciato da parte. 3. Sfrutto l’osservazione appena fatta per suggerire che, se oggi siamo dinanzi ad un certo tramonto del politico, almeno nell’Occidente post-industriale, lo siamo nel senso che la società civile, negli ultimi decenni, ha assorbito in sé ciò che una volta era, almeno in parte, contenuto della sfera politica; ma lo siamo soprattutto nel senso che il compito politico sembra troppo difficile da eseguire ed è in effetti non di rado tradito da coloro che ne sono in prima battuta responsabili. Ad una sorta di processo di disseminazione di progettualità creativa in seno alla società civile sembra corrispondere una sorta di discredito e di scetticismo quanto alla sfera politica. La sfera politica sembra non riuscire più ad occuparsi della cosa comune ed essere diventata, piuttosto, il luogo di una distribuzione corporativa delle risorse. Il cittadino medio se ne ritrae o semplicemente cerca di profittarne. 4. Di fronte al discredito della politica, si capisce perché vi sia un generale movimento di conversione dai fini ai fondamenti della comune convivenza. Ma questa conversione a me pare, in realtà, non tanto una conversione dalla progettualità politica all’amministrazione della società civile, quanto, come già osservavo, una qualche conversione dalla politica all’etica e dall’etica, attraverso l’etica politica, in alcuni casi sino alla teologia politica. L’etica, in effetti, è essenzialmente una purificazione dell’ethos mediante la critica della ragione. E l’ethos è precisamente quell’insieme di regole del convivere che valgono di fatto. Il passaggio dalle regole di fatto alle regole di diritto è ciò che si invoca, quando le regole di fatto sono contestate da più parti o meglio disattese. Ora, in politica proprio questo negli ultimi tempi è accaduto. Una serie di “patti” sociali, che han fatto costume (il costume democratico), è stata calpestata. Sembra a molti che l’etica sia il rifugio sicuro per trarre in secca la nave e ripararla, prima di rimetterla in acqua. E l’etica confina poi con una qualche percezione del sacro. 5. Proprio a questo punto compaiono, però, nuove difficoltà. Ci si è convertiti all’etica, quasi per esaurimento della sfera politica. Ma l’etica non pare offrire uno spettacolo diverso dalla politica, nonostante oggi la si chiami fuori, l’etica, per dirimere, quasi giudice supremo, i conflitti tra il politico, il so

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ciale e il privato; anche l’etica, infatti, ha i suoi problemi, né suscita consensi facili, quando si va a determinare caso per caso che cosa può dirsi garantito dall’etica. Sono note ad es. le polemiche sulla bioetica, tanto per citare uno dei temi oggi forse più rilevanti, anche per le sue immediate ripercussioni in ambito politico. Dobbiamo dunque mettere sul conto della nostra quotidianità una eclisse anche dell’accordo sulle convinzioni etiche? Così pare. E la situazione multiculturale che anche in Europa sta diventando dominante, spinge nello stesso senso. Fino a qualche anno fa la trasgressione prendeva di mira la legge politica; oggi quel tipo di trasgressione sembra rientrata e sembra, appunto, presa di mira l’etica. Ognuno vede l’enorme gravità della nuova condizione, appena mascherata dal chiasso delle difficoltà in cui è finito il nostro assetto istituzionale. La trasgressione “nobile” del politico veniva e viene infatti condotta, non di rado, in nome dell’etica (in nome della giustizia o in nome della libertà o in nome dei diritti); la trasgressione dell’etica sembra invece priva di riferimenti valoriali, anzi sembra a volte la negazione di tali riferimenti. Cito solo un sintomo, ma vistoso: ciò che si discute con sempre maggiore frequenza è la possibilità di stabilire regole per tutti che siano regole puramente convenzionali o formalistiche, anche sul piano “etico”. L’area anglosassone, più sperimentata in fatto di multiculturalismo, ha avanzato non poche proposte in tal senso. E una quota crescente dei politologi italiani fa eco. Ma bisogna pur dire che ogni formalismo convenzionalistico contiene in sé il difetto radicale di valere tanto per le cose buone quanto per quelle malvagie, sicché serve solo a scansare il problema fondamentale, anzi che a risolverlo. Ed è qui che il bisogno di stare al sostanziale tende alla compensazione dell’etica politica con la teologia politica. Almeno nel senso di ricorrere ad elementi o frammenti di rimandi all’etica e al sacro, per ottenere coesione e consenso. Una certa fiducia nell’universale rispetto dell’essere umano e un certo rimando ad una fede paiono non di rado un collante più potente di qualsiasi considerazione ideologica, visto il discredito su larga scala patito dalle ideologie novecentesche. 6. Si può ragionevolmente supporre che gli “spostamenti” cui ho accennato siano stati propiziati soprattutto da mutamenti significativi nella vita materiale della gente. Ad es., l’esperienza dell’assenza di “comuni evidenze etiche” può essere legata, se letta in senso socio-politico, all’esperienza della complessità dei giochi planetari - il fenomeno, ormai all’ordine del giorno, della “globalizzazione” - e del loro sostanziale cinismo; essa riflette probabilmente la percezione dell’insignificanza della iniziativa del singolo rispetto a questi grandi movimenti storici. 7. Ma dell’etica e della politica, in realtà, nessuno può fare a meno. Detto in altri termini, l’etica, come tutte le cose “necessarie” per la vita degli uomini, si raccomanda da sola. Come tutte le cose “necessarie”, l’etica ricompare e persino domina anche là dove la si vuole a tutti i costi esorcizzare. E così pure la politica. E, come vedremo, pure il rimando al sacro. Solo che tutte queste cose prendono vesti diverse da quelle di una volta, si frantumano in molti rivoli o assumono andamenti carsici. Per esempio, l’etica e la politica diventano oggi cura del mondo della natura o riscatto del femminile, lotta per l’integrazione delle etnie o sostegno per gli emarginati. Il sacro compare come sacralità della vita umana o come speranza diffusa in un destino trascendente di salvezza. Comunque, quando e a misura che appaiono onorate, queste dimensioni del senso della vita umana rendono possibile la convivenza, perché esse sono ciò che accomuna gli esseri umani nel profondo. Più

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di quanto accada alla fattualità dell’ethos. L’etica e la politica e il rimando al sacro, infatti, sono qualcosa di infinitamente più prezioso dell’ethos. Sono il giudizio sull’ethos a partire dalla verità del desiderio umano, se intendiamo per ethos ciò che appare come la realizzazione storico-fattuale del desiderio collettivo. 8. Abbiamo evocato la “verità” a proposito del desiderio umano. In effetti, l’etica e la politica sono solitamente intese come il luogo del riferimento all’”oggettività” normativa. Il sacro, a modo suo, contribuisce potentemente al rinsaldo. Ma l’”oggettività” qui che cos’è, se non l’universale regno della ragione, cioè appunto la “verità” di quel che il desiderio del singolo o della collettività desidera? Una certa eclisse dell’etica e della politica, in particolare, sembra l’eclisse della consapevolezza di questo legame originario con l’universale della dell’esistenza, anche se il rimando al sacro pare offrire qualche compensazione consolatoria. 9. E allora? Come far fronte a questa “sfida” paradossale dei nostri tempi, che vorrebbero fare a meno dell’universalità, proprio mentre la invocano per governare la frammentazione delle esperienze dei singoli e dei molti? Semplificando non poco, io azzarderei questo tipo di risposta. Un codice universale di natura teorica sembra diventato di fatto improponibile. Questo non significa che sia impossibile. Significa semplicemente che la cultura dominante, incline al relativismo e allo scetticismo, non lo cerca. Ne dispera. E tenta di rimediare a questo fallimento epocale mediante la ricerca di un codice pratico. E’ degna di rilievo la circostanza che gli “ultimi fuochi” della “fondazione” di qualcosa siano, nel pensiero filosofico occidentale, di tipo etico-pratico. Ma anche la fondazione dell’eticità, purtroppo, è… un che di teorico. Perciò non funziona più di tanto. Ossia: anche l’etica e la filosofia della politica dividono. Sembra che unisca, piuttosto, la pratica tout court, e in particolare la pratica del sacro, forse perché nella pratica ci si deve necessariamente determinare così e così. La pratica è “reale”, si pensa, o è almeno la riconduzione del pensiero alla realtà (laddove la teoria è la riconduzione della realtà al pensiero e quindi sembra offrire un margine maggiore alla variazione soggettiva). Ma non ci si illude anche da questa parte? 10. E’ vero. La pratica, come alternativo terreno di intesa, sembra più efficace della teoria, perché si orienta al reale, e il reale tendenzialmente unifica, se e quando ci è dinanzi (almeno in qualche modo), più di quanto non accada alla teoria, che soffre degli equivoci insuperabili della comunicazione. Quando però la pratica si realizza per davvero, ci si accorge che anch’essa può dividere facilmente. Perciò mi pare di poter congetturare che la via d’uscita dall’aporetica della universalità che cerchiamo non stia da questa parte, cioè non stia dalla parte dell’oscillazione tra il teoretico e l’etico, né dalla parte dell’oscillazione tra il teoretico e la teoria dell’etico. Consenso o dissenso, in realtà, sono ottenibili e ottenuti solo in base ad una certa teoria o ad una certa pratica, anche se non sono necessariamente legati alla verità di una teoria e alla giustezza di una pratica. Ogni essere umano può dire di no alla verità e al bene, come e quando vuole. Il consenso e il dissenso sono, in sé e per sé, opzioni della soggettività interpellata. Se abbandoniamo l’illusione, tipica di non pochi pensatori contemporanei, di teorizzare l’appello alla prassi per salvarsi dai guasti della teoria (come se la prassi non avesse i guasti propri), possiamo con un po’ di tranquillità concedere pure che ci sono tempi in cui è più opportuno (nient’altro che questo…) insistere sulla prassi anzi che sulla teoria, per meglio convenire con altri. In passato, la teoria lasciava ancora speranze nel convenire, oggi ne lascia molto meno. Anzi, in qualche caso non ne lascia

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affatto. 11. In passato. Storicamente parlando, in effetti, l’universalità da noi cercata era, nella modernità occidentale, trovata nell’universale della ragione, erede dell’universalità medievale della fede cristiana, erede a sua volta dell’universalità un po’ naturalistica della ragione greco-classica. Fu l’illuminismo, come si sa, ad imporre la ragione moderna come codice universale in Occidente. Quell’universale della ragione, però, esigeva una teoria univoca della ragione. La ragione illuministica era, in effetti, la kantiana “ragione pura”. Univoca, appunto. Solo che la ragione, da Kant in avanti, è progressivamente diventata “impura” e l’univocità è diventata una vera e propria “equivocità”. Per proseguire e inseguire gli sviluppi del pensiero occidentale contemporaneo, bisogna aggiungere che si è passati dalla ragione impura alla ragione “destrutturata” o “decostruita”, cioè alla ragione che ha rinunciato al senso dell’Intero e si è racchiusa nella descrizione del puro “frammento”. E’ soprattutto questa destrutturazione che, negli ultimi decenni, ha determinato la fuga dall’ontologia e il rifugio un po’ consolatorio nella (presupposta) efficacia della prassi, di cui prima si è fatto cenno. Ma universale (trascendentale) non è la prassi in sostituzione della teoria. Universale è qualcosa della prassi come qualcosa della teoria. Universali sono propriamente i primi principi della teoria e i primi principi della prassi. E sono anche principi conosciuti e onorati da gran tempo: l’opposizione tra positivo e negativo è poi il principio di tutti i principi, sia teorici sia pratici; opposizione custodita, nella teoria, dal principio di non contraddizione (impossibile che qualcosa insieme sia e non sia) e, nella pratica dalla “legge naturale” elementare (fa il bene ed evita il male). Ma, certo, delle indicazioni tanto generali non bastano per noi, che cerchiamo il legame tra il politico e il sacro. 12. Una maggiore approssimazione al nostro obbiettivo richiede, in effetti, una manovra teorica aggiuntiva, cioè una individuazione antropologica di questi generalissimi principi. Noi dobbiamo cercare ciò in cui gli esseri umani possono convenire. Ora, la vivente individuazione antropologica del principio di non contraddizione è nient’altro che la ragione umana come abito dell’intellezione dei principi speculativi; così come la vivente individuazione antropologica dei principi pratici (il male da fuggire e il bene da seguire) è il desiderio umano come abito della “sinderesi”. Questo ogni essere umano, sul piano del buon senso, lo intuisce e lo pratica quotidianamente. Ma il buon senso non riesce poi a districarsi nella difficoltà di intendere come mai la ragione umana onori fino ad un certo punto la verità e come mai il desiderio umano segua sino ad un certo punto il bene. In alcuni pensatori, la difficoltà si trasforma nella impossibilità di sapere cos’è la verità della ragione e nell’impossibilità di determinare qual è l’oggetto buono del desiderio. E anche nell’impossibilità di indicare il vero luogo del sacro. Motivo? L’eterogeneità indecidibile delle opinioni e delle pratiche in merito. Come se non fosse compito proprio della teoria stabilire, tra molte opinioni e molte pratiche, qual è quella vera. 13. Questa convinzione diffusa di indecidibilità va in qualche modo contrastata, anche se ha molte ragioni storico-fattuali dalla propria parte. Essa presuppone l’impossibilità apriorica di stabilire un codice comune tra gli esseri umani e un loro comune sentire. Eppure, gli esseri umani si intendono, nonostante le differenze culturali, e convivono, nonostante i conflitti endemici. Il pluralismo, in sé e per sé, non può essere un ostacolo assoluto. Evidentemente, ci deve essere un senso secondo cui il pluralismo attacca la possibilità stessa di reperire un’unità di codice e un senso secondo cui non osta. E in effetti, un altro senso c’è: l’unità di codice attaccata è sostanzialmente quella

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di un codice egemonico. Ciò che si rifiuta, in altri termini, quando ci si scaglia contro una proposta di universalità di codice, non è tanto l’universalità o l’unità di codice in sé, quanto lo spettro della dipendenza di una cultura da un’altra, che si proclama universale, cioè egemone. Ciò che si difende è, quindi, l’indipendenza culturale. Il problema è, allora, di tipo etico-politico, non di tipo teorico-ontologico. Si rifiuta la forma del dominio, non la possibilità di convivere mediante il riferimento all’universale. 14. Ma si può convivere senza la forma del dominio? Questo è, in ultima istanza, il vero problema, depurato dai suoi falsi equivalenti. E qui l’etico e il politico volgono rapidamente verso i luoghi del sacro. Che lo sappiano o meno. Per capire il senso di questa indicazione, in certo modo finale, dobbiamo introdurre una breve presentazione di quel che si può determinare come l’opposto di una relazione di dominio, cioè dobbiamo richiamare per l’essenziale la forma del reciproco riconoscimento. 15. Che il riconoscimento reciproco sia l’opposto della relazione di dominio, è tesi facilmente intuibile, oltre che nota. Così come è intuibile la conflittualità permanente che il dominio di un uomo sull’altro uomo scatena. Un po’ meno intuibile è l’effetto risolutore, rispetto al conflitto, della relazione di riconoscimento. Ma lo si può argomentare, tale effetto, anche mostrando che la relazione riconoscente è l’unica relazione pratica intersoggettiva in cui due o più soggettività possono convivere in tutta la grandezza della loro trascendentalità. Ogni soggettività, infatti, ha bisogno d’essere riconosciuta come un orizzonte di senso inoltrepassabile, cioè intenzionalmente infinito, perché tale essa è per via della propria trascendentalità. Ma non si riesce facilmente a capire proprio questo, come, cioè, due o più trascendentalità possano coesistere nella loro infinità intenzionale. Sulle prime, più infinità, per quanto semplicemente intenzionali, sembrano incompossibili. L’una sembra togliere all’altra proprio tale carattere. Di qui l’impulso al conflitto e quindi alla potenziale esterminazione dell’altro. E in effetti l’esito è inevitabile, se ogni soggettività viene innanzi, come accade nella relazione di dominio, esigendo anzitutto dall’altra il riconoscimento signorile. Cioè imponendolo. L’altra, per lo più, farà lo stesso con la prima. Così entrambe le soggettività finiranno per lottare per la vita e per la morte. Non così, se ogni soggetto, anziché esigere d’essere riconosciuto nella sua signoria, viene innanzi offrendo anzitutto il riconoscimento della signoria dell’altro. Non così, se l’altro, riconosciuto, viene innanzi riconoscendo a sua volta la signoria del primo. Poiché la signoria in tal caso non è predata, ma reciprocamente offerta, accade che ognuna delle due coscienze sia resa signorile dall’altra, mentre ognuna delle due si professa serva dell’altra. E poiché si professa liberamente serva, resta nella propria signoria anche quando serve. Due signorie, così chiasmaticamente incrociate, non sono più incompossibili, anzi si sostengono e si alimentano a vicenda. L’inciampo dell’ostilità è qui tolto in via di principio. 16. Concordo, dunque, sostanzialmente con quanti (Levinas, Ricoeur, Taylor, Honneth, ecc.) valorizzano a fondo questa cifra onto-etica, che è di grande importanza anche in ambito politico. L’indicazione, naturalmente, non va intesa come esclusiva d’altro, ma come una ragionevole preferenza del nostro tempo. Un essere umano, alla fin fine, capisce sempre qualcosa di quel che gli si dice, perché ha in comune con un altro essere umano molte più cose di quanto non si sia disposti ad ammettere (anzitutto, naturalmente, il fatto d’essere un essere umano). Tra queste, non si può negare che vi sia il buon uso della ragione. Quindi il rimando ai grandi principi della ragione non può non toccarlo. Si discuterà pure del senso della ragione, eppure sempre secondo ra-

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gione. Ma un essere umano vuole, ancor prima e ancor più, essere riconosciuto come tale, cioè essere accolto come un essere umano. Gli umani lo sanno da molto tempo e non per nulla hanno chiamato questo tipo di relazione con un nome importante: “regola d’oro”. Il primo codice trascendentale e il più efficace è proprio questo. 17. Il primo codice e il più efficace. In effetti, il movimento di riconoscimento si riferisce all’intero dell’esistenza di un essere umano, mentre il codice legato all’universalità della ragione ha un impatto più circoscritto. Lavora nella forma dell’universalità, senza alcun dubbio, ma tende a mettere tra parentesi le altre modalità di relazione, da una parte; d’altra parte, esige un alto grado di formazione per essere esercitato e anche recepito come tale. In altri termini, la ragione è un codice universale, ma il suo esercizio pieno è un fatto aristocratico. Il riconoscimento è un codice universale più complesso, ma più praticabile dai più, perché prende a veicolo l’intero dell’esistenza, mentre si rivolge all’intero dell’esistenza dell’altro. Un gesto di riconoscimento può esser fatto da chiunque lo voglia, un discorso razionale può essere costruito solo da chi è stato addestrato. 18. Orbene, il luogo del riconoscimento è il luogo stesso del sacro. Come dire che il sacro propriamente appare ogni qual volta appare una relazione di riconoscimento. Se questo è vero, ne segue che la politica si rapporta in profondità al sacro ogni qual volta si orienta verso la costruzione di tali rapporti. I quali poi altro non sono che la tradizionale “amicizia politica”. Ma questo è vero? Il legame tra la politica e il sacro è propriamente tutto in questo snodo; su cui sosto un poco, a modo di conclusione del nostro piccolo viaggio. 19. Perché si può ragionevolmente sostenere che il luogo del riconoscimento è il luogo stesso del sacro? Perché il riconoscimento è una dinamica dello spirito sicuramente implicata – in modo più o meno esplicito - in tutte e tre le grandi “religioni del Libro” e in tutte le grandi culture della terra che hanno una orientazione trascendente. La diffusione considerevole della “regola d’oro” in quest’ambito universalistico ne è il segno più eloquente. La regola d’oro è, infatti, una intuizione difficilmente comprensibile, se non la si interpreta come una elementare e sapienziale formulazione delle dinamiche del riconoscimento reciproco. 20. Proviamo ora a ripercorrere in ordine inverso la sequenza che abbiamo appena ragionato. Ne viene che l’amicizia politica, se è la relazione di riconoscimento possibile tra molti, la quale non si esaurisce nei rapporti politici, ma si radica nei rapporti improntati all’etico, rimanda, come a sua forma suprema, alla relazione che è il sacro. E’ quel che si voleva sostenere. Partendo, è vero, un po’ da lontano.

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Alcune domande a Virgilio Melchiorre 1. Quale contributo la tradizione e l’esperienza cristiana possono apportare all’interno del dibattito laico?

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La tradizione cristiana fiorisce dall’esperienza di un incontro storico, ha il suo fondamento nell’evento pasquale del Risorto, quale conferma di un annunzio che travalica ogni intuizione umana e che tuttavia in se stesso lascia trasparire l’apertura di un Regno di giustizia. Questa duplicità è così, nello stesso tempo, un intreccio di cognizione e di fede. Potremmo indicarla in sintesi come itinerario di una fede riflettente. Pertanto la tradizione cristiana, nei suoi aspetti più autentici si è tradotta incessantemente in un continuo confronto di culture e di ragioni: non a caso, nell’area occidentale, si è ben presto incrociata, nel bene e nel male, con il logo della tradizione greca. Se per laicità s’intende un umanesimo guidato dal principio di ragione, si può ritenere che fra laicità e professione cristiana debba esercitarsi un rapporto di felice reciprocità. Alla ragione la fede cristiana chiede i principi ermeneutici per interrogare i propri contenuti e le proprie iniziative nel mondo. E, per contro, alla ragione la fede ripropone continuamente il richiamo a un’ulteriorità di senso, di là dai limiti della ragione finita: come tale assume anche il ruolo di coscienza critica e costituisce uno stimolo incessante al superamento di ogni cultura storica, una sollecitazione verso la condizione sempre contingente della ragione umana. Kant ha disegnato il rapporto fra religione razionale e religione storica nel modo di due cerchi concentrici, dove la religione razionale è data come il circolo interno, principio di intelligenza e di

critica nei riguardi della religione storica, che a sua volta e nella sua maggiore ampiezza ricomprende la religione razionale, proponendole contenuti che da sola non avrebbe potuto dispiegare e in cui può infine riconoscersi. Un rapporto dialettico, mai concluso, estremamente fecondo dai due lati. E questo sia che ci si riferisca alla laicità che deve presiedere la stessa vita del credente, sia che ci si riferisca alla laicità praticata dal non credente: nei due casi dobbiamo pensare a un modo d’essere che sa non chiudersi dogmaticamente in se stesso. 2. In tema di diritti della persona e di diritti delle relazioni quali principî devono essere ritenuti non prevaricabili e non negoziabili rispetto a questioni come le coppie di fatto, l’omosessualità, l’eugenetica, l’eutanasia e l’aborto?

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Nella tradizione cristiana sono principi fondamentali e inalienabili il rispetto della vita dall’inizio alla fine e l’unicità del rapporto uomo donna nella famiglia, quale nucleo essenziale della comunità umana. Le questioni a confronto qui richiamate vanno lette in conseguenza, secondo moduli diversi. Quando e solo quando l’omosessualità sia costituita da una condizione naturale, va rispettata senza pregiudizi moralistici e senza prevaricazioni di tipo giuridico. Ciò, però, non comporta che essa debba essere configurata nei modi in cui dev’essere configurato e sorretto l’istituto della famiglia, inteso come principio di generazione (nel senso fisico e spirituale del termine) che per se stesso richiede una figura femminile e una figura maschile. Anche le coppie di fatto, che oggi costituiscono un dato storico sempre più rilevante, spesso generato dall’impossibilità di configurarsi altrimenti, devono essere oggetto di rispetto e come tali possono essere garantite relativamente ad alcuni bisogni vitali. Anche in questo caso non si tratta, però, di creare una pratica omologazione con l’istituto familiare, che va conservato nella sua identità essenziale, anche come richiamo per una possibile evoluzione delle coppie di fatto. Quanto all’eugenetica, il rispetto della vita esige che la condizione naturale dell’uomo sia salvaguardata e assicurata nella sua più completa e ideale identità. Questa attenzione, doverosa per ogni impresa scientifica, non può tuttavia mai tradursi nella pretesa di modificare o di costituire la vita diversamente dal modo in cui c’è stata donata. La storia dell’eugenetica messa in atto dal nazismo, con la sua pretesa di onnipotenza e con la sua mancanza di pietà, vale ancora oggi come un esempio di quanto tragica possa diventare la causa di uno sfrenato esercizio eugenetico. Di nuovo, il rispetto della vita si oppone all’uso dell’aborto e dell’eutanasia. Ciò non toglie che, quanto alla pratica diffusa dell’aborto, si ponga il problema di una configurazione giuridica e sanitaria capace di configurare, nei fatti, il minor male possibile. In ogni caso, resta allo Stato il compito di offrire all’intenzione dell’aborto la concreta possibilità economica e sociale di un’alternativa umanamente dignitosa. Quanto all’eutanasia, sia chiaro che la sua negazione non deve coincidere con una pratica indiscriminata della cura. La saggezza del medico deve avvertire il punto in cui la cura si tradurrebbe nella innaturalità dell’accanimento terapeutico, deve altresì prodigarsi nel fornire i mezzi perché sia consentito al proprio paziente una morte dignitosa e il meno sofferente possibile.

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L’aborto. Il male morale e la pazienza del diritto di Andrea Tagliapietra

Benché la maggior parte delle legislazioni degli stati moderni preveda la depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, ciò non significa che l’aborto smetta di essere considerato, anche da coloro che ne riconoscono la liceità, un autentico male morale. Infatti, lo spirito con cui le varie legislazioni nazionali ne ammettono la legalità si richiama, in modo più o meno evidente, al laico principio del male minore. Si ritiene, cioè, che l’interruzione di gravidanza sia ammissibile confrontando questa tragica scelta esistenziale in rapporto alle conseguenze psicofisiche che si otterrebbero per la vita della donna qualora non vi si facesse ricorso. Il primo conflitto che la questione controversa dell’aborto sembra porre in evidenza è, cioè, quello fra la vita in quanto tale e la vita in quanto legata a quei progetti, interessi e motivazioni che caratterizzano la biografia di un individuo, nella fattispecie quella della donna che decide di interrompere la gravidanza. Questo stesso

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conflitto parrebbe riproporsi, nella casistica abortiva, in termini proiettivi, là dove l’interruzione avvenga in presenza di una malformazione del nascituro di tale gravità da non consentirgli di avere una biografia, ovvero di condurre quella che si definisce una vita degna di essere vissuta. Tuttavia, sarebbe un errore modellare le argomentazioni “pro” e “contro” affidandosi alla presunta risposta tecnica della scienza, quale sapere in grado di stabilire differenze e criteri di giudizio validi in modo assoluto. La scienza ci fornisce dati e formula teorie falsificabili ma non si può sostituire alla fatica dell’interpretazione, ovvero alla responsabilità umana del senso degli atti e delle decisioni. Infatti, è evidente che il conflitto fra “vita in quanto tale” e “vita degna di essere vissuta” viene interpretato in modo diverso dai singoli individui in base alle differenti visioni della moralità e ai contesti storico-sociali in cui essi si trovano a vivere. È un fatto storico, quindi, che le legislazioni abortiste si siano sviluppate, nel corso del Novecento, sull’onda dei movimenti di emancipazione della condizione femminile e che, di conseguenza, appaiano spesso descritte in termini di acquisizione di “diritti” e di analisi politiche e sociali. A questa caratterizzazione dell’aborto sul piano delle libertà civili ha corrisposto, in campo antiabortista e cattolico, l’argomento dei “diritti” del feto come “persona”, ovvero come essere umano “in potenza”. Oggi, in presenza di mutati orizzonti storico-culturali, non c’è da stupirsi che nuove sensibilità mettano in luce maggiormente altri aspetti della questione, distinguendo più nettamente la depenalizzazione giuridica dell’aborto dal problema morale che esso solleva. Si veda, in proposito, l’eccellente volume di Massimo Reichlin Aborto. La morale oltre il diritto (Carocci, Roma 2007) che, dopo un ampio esame delle argomentazioni morali a favore dell’interruzione volontaria di gravidanza sviluppate nel dibattito filosofico contemporaneo scrive: «la conclusione generale, quanto alla riflessione etica sull’aborto, è che gli argomenti elaborati dalla riflessione morale recente non forniscono un sostegno consistente alla tesi, largamente accettata dal senso comune, secondo cui l’aborto sarebbe, nella maggior parte dei casi, una scelta moralmente lecita». Per Reichlin i principi della legittima difesa e dell’autonoma gestione da parte della donna del proprio corpo possono giustificare moralmente l’aborto solo nei casi di serio pericolo per la vita e per la salute della madre o nel caso della violenza sessuale. Si può anche prevedere una liceità morale di quelle casistiche abortive precoci, indotte dall’uso di contragestativi come la pillola del giorno dopo, in virtù della fase di latenza dell’embrione nei primi giorni dopo la fecondazione. Invece, appare quantomeno «discutibile estendere il concetto di pericolo per la salute a comprendere generiche situazioni di disagio psichico, o di condizioni psicologiche non propriamente patologiche», là dove, tuttavia, ci si inoltra in un campo, precisa Reichlin, «in cui occorre un giudizio caso per caso», e che mal si accorderebbe, aggiungiamo noi, con le prescrizioni restrittive, necessariamente generali, di un dispositivo legislativo. Del resto, sottolineare il contrasto fra la depenalizzazione giuridica e la valutazione morale non può essere che un fatto positivo, soprattutto dal punto di vista liberale di quei laici che non attribuiscono alla legislazione statale un valore pedagogico di imposizione etica, ma solo di strumento pragmatico limitato e strutturalmente imperfetto nei confronti dell’autonomia e della libertà di coscienza dell’individuo. Laicamente il diritto insegna alla morale l’esercizio della pazienza. Come osserva Giampaolo Azzoni (intervento tenuto il 30 maggio 2006 nel quadro di un convegno organizzato a Pavia dal Collegio Universitario Giasone del Maino (http://www.unipv.it/deontica/scritti. htm#azzoni)), il diritto può essere pensato come una vera e propria istituzio

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nalizzazione della pazienza. Nel diritto, egli scrive, sembra essere all’opera «una caratteristica essenziale della pazienza: il differimento della volontà buona. Non si tratta di un semplice differimento di una volontà in quanto istinto, pulsione ancorata in bisogni naturali o desiderio individuale: sicuramente nel diritto v’è anche questo: infatti il diritto, in quanto cultura, partecipa, insieme alle altre forme della cultura, ad una secondarizzazione degli istinti, ad una loro civilizzazione. Ma il diritto è istituzionalizzazione della pazienza in un senso più proprio: nel senso di un differimento non di una volontà qualsiasi, ma di una volontà buona, cioè di una volontà che ha buone ragioni per attuarsi immediatamente, e che, invece, differisce pazientemente la propria attuazione. Il diritto è l’istituzionalizzazione di questo differimento. Grazie al diritto, questo differimento della volontà buona non è lasciato alla buona volontà, all’arbitrio, dei singoli. Il diritto istituisce la pazienza». Nella tensione fra diritto e morale che costituisce il significato profondo della legge 194 del 22 maggio 1978, ovvero come atto legislativo dello stato italiano che ha l’obiettivo dichiarato di prevenire e rimuovere le cause che conducono all’aborto, è possibile cogliere in opera, nella sostanza oltre che nella forma, il meccanismo di quel paziente differimento. Infatti, dire che, malgrado la sua legittimità nelle modalità previste dalla legge, l’aborto è un male morale induce a provocare e, quindi, a sensibilizzare le coscienze dei cittadini nei confronti di tutte quelle misure culturali e sociali che, nel corso del tempo, hanno contribuito a ridurre statisticamente il ricorso all’interruzione di gravidanza. Se l’aborto è una libera scelta, lo deve essere anche la sua eventuale rinuncia. Insomma, se c’è un’analogia tra la moratoria universale nei confronti della pena di morte e la problematica delle legislazioni abortiste degli stati questa non riguarda fattori sostanziali, ossia l’appello ad una presunta “sacralità” della “vita in quanto tale”, ma, semmai, è di carattere formale negativo, ossia concerne le garanzie, vale a dire la limitazione dei poteri che lo stato può esercitare sulle biografie degli individui. Lo stato non può uccidere anche colui che si è macchiato dei crimini più orrendi così come non può obbligare una donna né a interrompere, né a portare a termine una gravidanza contro la sua volontà.

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L’università e il Papa di Mauro Visentin ���������� Avevo previsto, per questo mio quinto intervento su InSchibboleth, di affrontare il tema del contributo modernista alla formazione politica dei cattolici democratici in Italia nel corso del novecento e della sovrapposizione fra questione etica e questione sociale che il richiamo alle origini evangeliche della fede cristiana aveva in qualche misura favorito e promosso non solo fra i modernisti, ma anche – per una non meglio definibile “osmosi” culturale, forse favorita dal rapporto polemico e dalla concorrenza fra modernisti e socialisti per la tutela e la rappresentanza dei ceti subalterni – tra coloro che, richiamandosi a Marx, esprimevano allora e hanno continuato ad esprimere in seguito, da noi, posizioni socialmente e politicamente “antagonistiche” rispetto agli assetti di potere prevalenti nelle democrazie industriali dell’occidente capitalistico (quindi comunisti e massimalisti, molti dei quali, del resto, essi stessi di estrazione famigliare e culturale cattolica). Ma la cronaca di questi ultimi giorni registra, con un’enfasi che può apparire spropositata rispetto al fatto in se stesso, ma che proprio per questo risulta tanto più significativa e sintomatica di uno stato di cose che merita qualche pacata riflessione, un episodio esemplare del grado di deterioramento cui le relazioni tra laici e cattolici sono andate soggette in Italia da qualche tempo a questa parte in maniera sempre più accentuata: l’invito rivolto al papa dal rettore dell’Università La Sapienza di Roma ad intervenire in occasione dell’apertura solenne dell’anno accademico, con il seguito di polemiche cui esso ha dato luogo e la finale rinuncia del pontefice ad accoglierlo dopo averlo, in un primo mo

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mento, accettato. Rimando perciò ad una prossima occasione l’intervento che avevo inizialmente previsto e mi permetto alcune considerazioni in-pertinenti a proposito della vicenda di cui ho appena richiamato le linee essenziali. Impertinenti le mie considerazioni potranno apparire sia ai molti che si sono scagliati (animati da un furore che mai più di ora si potrebbe adeguatamente definire “sacro”) contro la “censura” “laicistica” che ha “impedito al papa di parlare” in una sede nella quale, come ex docente universitario, la sua presenza doveva considerarsi tanto appropriata quanto opportuna, sia a coloro che hanno ritenuto, sui due fronti, di esprimere con pertinenza le proprie posizioni, chiedendo da una parte, che l’invito venisse annullato e, dall’altra, bollando, se ne è appena fatto cenno, come “censoria” questa richiesta. Il primo rilievo da fare riguarda l’inopportunità dell’invito. Nel sottolinearla, opponendosi ad esso, alcuni docenti della facoltà di Fisica hanno sollevato un autentico pandemonio e hanno spinto un gruppo di studenti malaccorti ad inscenare una protesta vistosa, con l’occupazione simbolica di un’aula, contro la decisione del Rettore. Riguardo alla protesta degli studenti, che chiedevano la revoca dell’invito non c’è da dire altro se non che, per insensata e villana che fosse (e che certamente era) è stata di peso irrilevante visto il numero esiguo di chi vi ha preso parte, e non si è svolta in forme violente, per cui, dopo averla stigmatizzata si poteva tranquillamente ignorarla. Più complesso il caso della protesta dei docenti anche perché, non avendo avuto modo di leggere il loro appello, non so se sia stato formulato nella fase in cui l’invito era ancora da formalizzare, e se dunque contenesse solo la richiesta di non inoltrarlo, o se, invece, la sua redazione sia successiva all’ufficializzazione dell’invito, né se, in questo secondo caso, esso intendesse semplicemente sottolinearne l’inopportunità senza chiederne la revoca o pretendesse proprio il suo ritiro. I tre casi sono, infatti, da valutare in modo molto diverso. Condivisibile l’iniziativa dei docenti di Fisica nel primo, per le ragioni che adesso dirò, lo sarebbe stata molto meno nel secondo e niente affatto nel terzo. Se l’appello avesse preceduto la formalizzazione dell’invito, i docenti che lo hanno redatto si sarebbero limitati a manifestare le loro più che sensate riserve sulla presenza del papa (e di questo papa, in particolare) in una circostanza non generica ma specifica e dotata di un rilevante valore simbolico come l’inaugurazione dell’anno accademico. E’ vero, come sottolinea sconsolatamente Adriano Prosperi sulla Repubblica di oggi (16 gennaio), che tale rito annuale, non ha, da noi, la solennità che riveste altrove, per esempio nelle università europee, nelle quali è l’occasione per presentare un bilancio dello stato di avanzamento della ricerca nei vari settori del sapere scientifico e per fare il punto sul contributo specifico che a questo avanzamento ha saputo dare l’Ateneo nel suo complesso nonché i singoli ricercatori che ne fanno parte e che sono impegnati sui fronti più “caldi” e avanzati dell’indagine settoriale. Non c’è dubbio che nelle nostre università questa celebrazione si risolva, ormai da tempo immemorabile, in un evento teatrale e retorico. Ma non direi che per questo si debba rinunciare del tutto a far valere alcuni principi di base, come quello che, retorica o meno che sia o risulti essere la circostanza, l’inaugurazione di un anno accademico è sempre, o dovrebbe, almeno formalmente, essere (e, se non essere, quantomeno, apparire) la celebrazione dell’autonomia del sapere e della libertà della ricerca scientifica. Che cosa ha a che fare con tutto questo un’autorità religiosa che incarna la posizione metafisica secondo la quale la verità è “rivelata”, la sua essenza è in primo luogo morale, e il sapere acquisito e acquisibile deve comunque essere subordinato ai dettami di questa volontà-verità etica? Certo, da parte

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dei credenti, libertà di indagine e vincolo etico-religioso imposto alla ricerca non sono in contrasto, così come non sono in contrasto fede e ragione, ma, appunto, “per chi crede”. Ossia, come si è detto e ripetuto da più parti e come dovrebbe essere ormai acquisito per tutti, che la fede e la ragione non siano in contrasto è una verità di fede, non di ragione ed non è compatibile con quanto risulta a quest’ultima secondo le sue regole. A questa considerazione di ordine generale si può aggiungere un secondo rilievo, che riguarda più specificamente la posizione, la persona, il pensiero, l’atteggiamento e la politica dell’attuale pontefice. Benedetto XVI è senza dubbio un papa assai poco disposto e disponibile al confronto e al dialogo con la cultura moderna. Innanzitutto, per storia personale (come è noto, dopo una prima fase “conciliarista” – in cui i suoi orientamenti nei confronti del Vaticano II non differivano troppo da quelli dei teologi progressisti, che delle maggiori aperture del Concilio in tema di dialogo interreligioso, di rapporto con il mondo politico e sociale, di adeguamento e semplificazione del rituale canonico furono alfieri e promotori, come Hans Küng –, Joseph Ratzinger ha assunto progressivamente un atteggiamento sempre più critico e distante dalle novità così introdotte nella Chiesa, e molti dei passi iniziali del suo pontificato lasciano intravvedere quella che a diversi osservatori appare – o può e potrà più accentutamente apparire in futuro, se le cose proseguiranno nel senso in cui si direbbe abbiano preso ad andare ora, per sua volontà ed impulso – come una direzione restauratrice di posizioni e valori preconciliari). In secondo luogo, per orientamento conservatore (maturato negli anni in cui ha rivestito il ruolo di garante dell’ortodossia come capo dell’ex Sant’Uffizio). Da ultimo, per iniziative assunte (direttamente o sotto la sua egida) nei campi dell’affermazione della sacralità della vita, della difesa della famiglia nella sua veste tradizionale ed esclusiva, dell’impegno a caldeggiare la necessità che i principi ispiratori della legislazione pubblica si discostino il meno possibile, sui temi eticamente rilevanti, da quelli della morale cattolica. Tutto questo fa sì che, come ho già detto, l’invito a lui rivolto dal Rettore Guarini sia legittimamente apparso, ad alcuni docenti, tenuto conto della particolare circostanza nella quale Benedetto XVI sarebbe intervenuto, del tutto inopportuno e forse frutto di una scelta dettata da ragioni più politiche (come l’esigenza, in vista di un rinnovo del mandato rettorale, di acquisire credito presso le componenti cattoliche dell’Ateneo) che culturali, quantunque, evidentemente, anche poco lungimiranti, visto che, in una situazione di lacerazione fra laici e cattolici come quella in cui viviamo oggi e che la Chiesa ha, per parte sua, contribuito non poco a produrre, prevedere che sarebbe potuto succede quello che, di fatto, è poi accaduto, non doveva essere troppo difficile. A questo punto, tacciare di intolleranza chi avanzi una riserva di questo tipo, argomentandola come ho appena fatto, o attribuirgli un intento censorio è possibile solo se chi lancia simili accuse ha della tolleranza un’idea tanto vaga e approssimativa da non rendersi conto di essere lui stesso, in questo caso, l’intollerante, e da risultare, perciò o uno sprovveduto o in malafede. Ma con altrettanta fermezza occorre dire che non meno inopportuna dell’invito rivolto al papa in questa circostanza è o sarebbe stata la richiesta rivolta al rettore di annullare l’invito già inoltrato (come ho già detto non ho avuto modo di leggere il documento dei 67 professori della facoltà di Scienze, anche perché i giornali, che si sono impegnati a diffondere e ad amplificare quanto più possibile la notizia, non hanno ritenuto degno di pubblicazione, nemmeno in una forma abbreviata che ne riprendesse solo i punti salienti, questo testo, impedendo, di fatto, ai loro lettori di potersi adeguatamente

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informare in merito al contesto in cui l’evento si è prodotto). Se i professori di Fisica, anziché intervenire prima che il Senato Accademico formalizzasse questo invito, fossero intervenuti dopo, con l’intento, non di manifestare un civile dissenso, ma piuttosto di ottenere una revoca dell’invito stesso, oltretutto già accolto dal Vaticano, allora la loro iniziativa sarebbe da censurare nettamente e per diverse ragioni. In primo luogo, per inciviltà e maleducazione. In secondo luogo, per impoliticità (essendo ovvio che un simile modo d’agire non avrebbe potuto ottenere che un effetto opposto rispetto a quello che si riprometteva di raggiungere, ossia quello di concedere alla Chiesa e al peggior clericalismo un’arma efficacissima per mostrarsi vittime dell’intolleranza laica, anzi “laicistica” come, con un neologismo di conio tanto grossolano quanto rozzo è l’intento spregiativo che esso vorrebbe manifestare, è invalso il malvezzo di definire le posizioni che i cattolici oltranzisti e i politici che più o meno opportunisticamente se ne servono non gradiscono). Da ultimo, per integralismo laico: come se l’inopportunità dell’invito non potesse essere cancellata che dal suo annullamento. Una posizione in qualche misura simmetrica (ossia uguale e contraria) a quella del Vaticano. Un laicismo di questo tipo sarebbe portatore di una visione assoluta del mondo e delle cose e mostrerebbe di volere cancellare la religione dalle coscienze esattamente come la religione vorrebbe cancellare le altre religioni e la miscredenza o l’ateismo dalla realtà spirituale dell’essere umano finito. Personalmente non voglio e neppure auspico che la religione, anzi, le religioni spariscano dalla faccia della terra: mi limito ad esigere che non pretendano di impormi comportamenti coerenti, bensì, con i loro principi, ma non con i miei. Una volta indirizzato ufficialmente l’invito al papa a presenziare all’inaugurazione dell’anno accademico, l’unica cosa che restava da fare era vigilare perché, nelle forme dovute (che non sono, in una simile circostanza, quelle di un pubblico dibattito o di un contraddittorio, come sembra, stranamente, credere il direttore di Repubblica Ezio Mauro), una eventuale provocazione da parte di Benedetto XVI, non restasse priva di un contraltare tanto cortese quanto, nella sostanza, fermo nel ribadire il principio che non c’è altro limite all’indagine scientifica se non quello imposto dalle risorse tecniche disponibili e dal grado storico di evoluzione raggiunto dal sapere. Benedetto XVI è il primo a rendersi conto del fatto che, quando si parla ex cathedra, non ci sono vincoli di cautela politica che richiedano di essere rispettati (come dimostra l’episodio della lectio accademica da lui tenuta all’università di Regensburg il 12 settembre 2006, nel corso della quale inserì l’incauta citazione dei Dialoghi con un persiano di Manuele II Paleologo, che suscitò tanto scandalo nel mondo islamico. Sempre che essa non fosse il frutto di una scelta studiata a tavolino e suggerita da un intento volutamente provocatorio). Ma sarebbe il caso di osservare che nessuno ha “vietato” al papa di parlare, come si legge oggi, non senza stupore, in alcuni interventi poco meditati: non avevano il potere di farlo, anche se lo avessero voluto, né i 67 docenti né il drappello di studenti malconsigliati e decisamente assai poco responsabili che hanno simbolicamente occupato, per protesta, un’aula del rettorato. Il papa ha declinato l’invito (dopo averlo accettato e dopo averne, anzi, confermato l’accoglimento anche in seguito alla diffusione della notizia dell’appello ostile rivolto dai docenti di Fisica al Rettore). Perché lo ha fatto? Difficile credere che sia stato per ragioni di sicurezza. Forse per non turbare l’ambiente o per l’offesa al senso della propria dignità che l’opposizione di una sia pure sparuta minoranza poteva rappresentare ai suoi occhi? Può darsi, sebbene Joseph Ratzinger abbia da tempo scelto di essere un papa militante, che non unisce

ma divide e che proprio per questo non può non attendersi che la propria presenza susciti, insieme, entusiasmi e rifiuti. Ma il fatto che la cancellazione dell’impegno sia avvenuta dopo un giorno di riflessione, nel corso del quale televisione e stampa avevano dato il massimo risalto all’episodio, ci induce a sospettare, da laici, che la ragione, quella autentica, stia altrove: nell’essersi il Vaticano accorto della splendida occasione che una simile, inaspettata risonanza mediatica gli offriva per portare acqua al suo mulino. E di fronte a questa sagacia politica che ha saputo afferrare al volo l’opportunità ad essa offerta dall’imperizia e dall’ingenuità, culturalmente grossolane e arruffone, di docenti (non escluso il Rettore e chi lo consiglia) e discenti, la domanda che viene fatto di porsi è una sola: saprà mai uscire, il laicismo italiano, dalla condizione di minorità in cui la presenza storica del soglio di Pietro a Roma lo ha da sempre costretto, e riuscirà prima o poi ad evadere dalla retorica vuota e declamatoria per sollevarsi all’altezza dei compiti cui il presente lo chiama? L’episodio che abbiamo esaminato (e che ha riempito per qualche giorno le pagine dei quotidiani) dimostra due cose: che siamo ancora lontani da un simile obiettivo e che l’aria che tira, visto l’unanimismo irriflessivo che una Chiesa battagliera e ben attrezzata allo scopo sa suscitare a suo favore, è assai brutta.

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Sul Manifesto dei Valori del Partito Democratico di Elio Matassi

���������� La stesura della ‘bozza’ del Manifesto dei Valori del Partito Democratico da parte di Alfredo Reichlin ha suscitato reazioni diverse, alcune delle quali rivelano un’anima ‘identitaria’ molto radicale; penso in particolare all’editoriale di Piero Ostellino, apparso sul “Corriere della sera” dell’11 gennaio 2008, titolato con intenzione polemica esplicita, Un tuffo nel passato, che ripropone, a livello argomentativo, la consueta tesi de Le due libertà di Isaiah Berlin e l’altrettanto consueto e generico antihegelismo d’accatto. La bozza del Manifesto del PD manifesterebbe una subalternità intellettuale al veteromarxismo nel prendere le distanze da un modello di libertà esclusivamente ‘formale’ e sarebbe permeata sostanzialmente da una filosofia della storia, espressione che ricorda immediatamente lo hegelismo “nella convinzione che la teoria proceda verso un fine ultimo e che compito della politica sia quello di prevederne il cammino e di gestirlo, mentre la storia procede secondo la regola della ‘prova e dell’errore’”. Spiego in primo luogo perché ho definito ‘identitaria’ una simile prospettiva. Scelgo come ausilio per tale spiegazione il paragrafo, Oltre le culture del Novecento de La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi di Walter Veltroni in cui si recita: “Tutti i grandi partiti riformisti europei sono alle prese con i problemi, in gran parte inediti, del nostro tempo e sanno che nessuna

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delle pur grandi culture del Novecento, separatamente presa, dispone delle categorie culturali necessarie a comprenderli, prima ancora che ad affrontarli. Non a caso, tutti i partiti riformisti europei, che si chiamino o meno socialisti, sono caratterizzati da un’elevata contaminazione di culture e tradizioni politiche. E la loro elaborazione culturale e programmatica è caratterizzata dalla confluenza e dalla mescolanza di apporti che provengono non più solo dalla tradizione socialista in senso classico, ma anche dal pensiero liberaldemocratico e dalle varie declinazioni dell’ispirazione cristiana, dall’ambientalismo non fondamentalista e dal pensiero femminile. Al punto che è oggi pressoché impossibile reperire nel dibattito pubblico presenze di ciascuna di queste soggettività culturali, per così dire, ‘allo stato puro’, non rielaborate dall’incontro con le altre suggestioni e proposte”. La differenza tra una proposta-prospettiva identitaria ed una non-identitaria come quella espressa dal Manifesto sta proprio in questo: Ostellino ritiene che sia autosufficiente quella liberale classica, nelle sue varie declinazioni, mentre Veltroni ed il Manifesto presumono correttamente che sia venuto il momento di feconde ibridazioni-contaminazioni tra le varie ispirazioni e che proprio alla luce di ciò vada respinta fermamente l’argomentazione di chi presume di potersi attenere in maniera rigidamente autarchica ad un’unica coordinata politico-culturale, una prospettiva che definisco ‘identitaria’ e veteronovecentesca. Una posizione analoga a quella di Ostellino è stata, per esempio, sposata radicalmente da chi, come Francis Fukuyama, ha ritenuto di vedere nel trionfo del liberalismo il segno della fine, non solo degli ideali della sinistra, ma anche della storia stessa. A simili prospettive che sono entrambe fondate su un’interpretazione di Hegel, riproposta con ostinazione e con argomentazioni unilaterali e semplicistiche, si potrà sempre contrapporre l’ideale egualitario di chi ancora crede nella sinistra, anche se non in una sinistra identitaria, in una sinistra che avrà adeguatamente sedimentato la ‘libertà dei moderni’, secondo l’ossimoro del socialismo liberale di Norberto Bobbio. Contro gli Ostellino ed i Fukuyama d’occasione si possono sempre ricordare le parole dello stesso Norberto Bobbio comprese in uno dei saggi della silloge, Destra e sinistra, Fukuyama, il motore ed il fine della storia: “In un mondo di spaventose ingiustizie, come è ancora quello in cui sono condannati a vivere i poveri, i derelitti, gli schiacciati da irraggiungibili ed apparentemente immodificabili grandi potentati economici, da cui dipendono quasi sempre i poteri politici, anche quelli formalmente democratici, il parere che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere … La democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stesi problemi da cui era nata la sfida comunista?”. Essere ‘identitari’ significa, dunque, chiudere gli occhi, rimanere ancorati alla esclusiva matrice liberale, che rimane comunque sempre la condizione imprescindibile in quanto libertà formale, libertà dei moderni, mentre assumere un atteggiamento non-identitario significherà, invece, avere il coraggio di andare ‘oltre’ senza cadere per questo in tentazioni totalizzanti e totalitarie. Per Ostellino esiste, invece, un rapporto di causa ed effetto, un meccanismo necessitante tra il concepire un ulteriore polo di riferimento al di là della libertà dei moderni e l’assunzione di una prospettiva totalitaria. Un automatismo teoricamente e politicamente inaccettabile per chi non crede più nel culto dell’identità ma in quello produttivo dell’ibridazione. Un discorso a parte merita quello che ho definito ‘antihegelismo d’accatto’

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e, specularmente, hegelismo d’accatto Ostellino e Fukuyama ne sono contrassegnati in misure decisamente rilevanti. Consiglierei a Ostellino e quanti la pensano nello stesso modo la lettura di alcuni saggi della nostra migliore tradizione politologico-giuridica, non certo viziati di ideologismo come, ad esempio, Il concetto hegeliano di società civile di Gioele Solari e Le glosse del giovane Marx a Hegel di Giuseppe Capograssi ed, ancora, Hegel e la Rivoluzione francese di Joachim Ritter, uno dei filosofi tedeschi contemporanei più intellettualmente spregiudicati. Sono letture molto stimolanti che aiutano a capire meglio la prospettiva hegeliana sulla storia, molto più problematica di quanto possano presumere tutti i lettori occasionali. Le semplificazioni ‘finalistiche’, sempre ritornanti, hanno goduto di un certo successo ermeneutica ma sono in larga misura inaccettabili. L’unica condizione a risultare storicamente data è la progressiva universalizzazione della libertà dal cristianesimo alla Rivoluzione francese, la libertà del cittadino, appunto, la libertà formale di Ostellino. Questa diventa la nuova condizione imprescindibilmente ermeneutica della modernità, anche se la storia non può esaurirsi in tale riconoscimento ma dovrà continuare ad esercitare la sua funzione critica. Altrettanto interessante è la categoria dello hegelismo d’accatto in cui rientra compiutamente Francio Fukuyama, per le tesi argomentata nel libro del 1992 The End of History and the Last Man; il fondamento delle argomentazioni di Fukuyama (Hegel è per eccellenza il filosofo della fine della storia) e le sue conclusioni (non possiamo più uscire dai confini del dominio geopolitica degli Stati Uniti) portano esplicitamente verso un assunto che grosso modo può essere formulato nei termini seguenti: a) non esiste una prospettiva alternativa a quella della globalizzazione interpretata come primato economico-politico e culturale degli Stati Uniti; b) Hegel, data la sua concezione della fine della storia può essere considerato il profeta ante litteram dell’irreversibilità di tale processo storico. Come si può facilmente constatare Hegel, da due campioni del liberalismo identitario, viene per così dire piegato a sostenere o l’irreversibilità del liberalismo o quella di una sua limitazione. La prospettiva di Hegel, almeno per chi lo conosce, è molto più complessa e non rientra a rigore in nessuno dei due canoni prestabiliti semplicisticamente. Hegelismo ed antihegelismo d’accatto finiscono con l’essere speculari. Il Manifesto di Reichlin chiarisce una volta per tutte l’appartenenza ad una tradizione come quella europea che “rappresenta, su scala internazionale, un modello di identità nella differenza che il Partito Democratico intende realizzare al suo interno ed auspica di promuovere nell’intero Paese”. Una prospettiva dunque, un’appartenenza, se si può usare questo ossimoro, nonidentitaria che costituisce il DNA più segreto, politico-culturale del Partito Democratico, un DNA che non può essere eluso con il ricorso a semplicistiche formule, queste sì, del passato. Del resto, una lettura attenta del Manifesto, per esempio della sezione IV, dimostra in maniera inequivoca quali siano le fonti a cui attingere per definire la libertà sostanziale che si contrappone a quella semplicemente formale: “Vogliamo una società che consideri le persone in base alle loro qualità, premiando il merito e non i privilegi. Vogliamo che a ciascuno sia garantita la libertà di realizzarsi secondo i suoi talenti e le sue inclinazioni, senza distinzioni di genere o di provenienza sociale, di opinioni politiche o religiose. La libertà, più in particolare, deve rispondere alle seguenti esigenze, fortemente sentite dalla società civile, dal mondo dell’imprenditoria e del lavoro, dalle parti della popolazione non ancora pienamente inserite nel tessuto della vita nazionale: ampliamento delle opportunità e delle

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aspettative delle persone; sviluppo delle iniziative dei singoli e delle imprese, troppo penalizzate da ostacoli burocratici e da regole rigide e soffocanti; lotta contro le vecchie e nuove esclusioni sociali; mercato libero da interessi corporativi e da monopoli ed oligopoli che alterino il leale svolgimento della concorrenza…”. Leggo in queste affermazioni ed in questo programma-progetto accenti analoghi a quelli argomentati in un brillante e fortunato pamphlet di Alberto Alesina-Francesco Gavazzi, Il liberismo è di sinistra, senza che questo provochi in me alcuna forma di ripugnanza identitaria. Per quanto concerto l’ulteriore argomentazione di Ostellino, il Manifesto rappresenterebbe “la retroguardia della cultura di oggi” ed, ancora, “il risultato di uno scavo archeologico nel socialismo utopistico”, gli consiglierei, in quanto evidentemente chiude gli occhi sulla crisi della democrazia rappresentativa e di una libertà puramente formale, la lettura di un autore come Prudhon, cui si deve in larga misura l’attuale rinascita del movimento associativo. Sono proprio le debolezze attuali del sistema rappresentativo-formale a determinare il ricorso a quella tradizione (il socialismo utopistico), tanto demonizzata da Ostellino. L’interesse teorico-speculativo del Manifesto sta, invece, proprio nel ricorso, intellettualmente sofisticato-spregiudicato all’ibridazione, al confrontodialogo fra tradizioni culturali eterogenee che, da sole, non riuscirebbero a risolvere problema alcuno. Penso, in particolare, ancora alla parte conclusiva della sezione III, dove si recita: “Noi concepiamo la laicità non come il luogo di una presunta ed illusoria neutralità, ma come rispetto e valorizzazione del pluralismo degli orientamenti culturali, e quindi anche come riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica, e non solo privata, delle religioni, dei convincimenti filosofici ed etici, delle diverse forme di spiritualità”. Il Manifesto sceglie correttamente la via del ‘plurale’ che non è il percorso di un banale eclettismo ma il riconoscimento della pari dignità fra orientamenti filosoficoculturali diversi. Un riconoscimento che rappresenta anche il DNA più profondo della nostra rivista e che può diventare produttivo, secondo la via indicata dal Manifesto, per la stesura di un codice generale dei principi di bioetica che si differenzi da tutti gli altri, concepiti ancora in maniera radicalmente identitaria. Un Manifesto di bioetica che, in nome di una laicità inclusiva e della ragione pubblica, della convivenza, riesca a realizzare una sintesi elevata all’altezza dei tempi e delle necessità. I punti di riferimento filosofico-culturali per una tale sintesi sono quelli di Habermas e di Rawls. Anche questi nomi rappresentano “la retroguardia” della cultura contemporanea? La domanda è ovviamente retorica e la risposta non può che essere negativa. La via maestra sta nella legge dell’ibridazione e non nel rifugio difensivo delle identità, si tratta di un monito-precetto di cui devono tener conto tutti, liberali inclusi.

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Quali diritti e per quale libertà? Spunti per una riflessione sul concetto di “diritti umani”. di Massimo Donà ����������

1) Quella dei diritti umani è una questione tutt’altro che semplice. Lo si capisce subito, là dove si riesca ad essere anche solo un po’ esigenti con se stessi. Sempre che non ci si voglia accontentare dei luoghi comuni, derivati peraltro da una nobile ed importante tradizione che la storia occidentale ha coltivato e che ancora continua a custodire nello scrigno prezioso delle sue ‘irrinunciabili’ conquiste. D’altro canto, è solo la fase più recente di questa storia ad aver posto al centro del dibattito etico-politico la questione dei cosiddetti ‘diritti umani’, intesi per l’appunto come diritti connaturati alla natura umana indipendentemente dalla razza, dal ceto sociale o dalla nazione di appartenenza . Ed è in quanto figli di questa storia, o meglio delle sue fasi più recenti , che tutti noi consideriamo tale concetto (quello dei ‘diritti umani’, appunto) un punto fermo ‘a partire dal quale’, solamente, ci si potrebbe magari attardare a discutere e riflettere sullo stato delle cose, mossi dall’intenzione di trovare una soluzione ad ognuno dei diversi problemi che di volta in volta l’umanità si troverebbe

a dover affrontare. L’umanità è giunta al punto di decidersi a stilare una carta dei diritti – intesa come ‘principio’ universale valevole per tutti gli umani… con la pretesa di farlo valere anche per chi non vi si voglia riconoscere. Una sorta di garanzia per tutti, quindi; anche per chi non intenda essere in alcun modo garantito, sentendosi dalla medesima carta davvero ‘protetto’ e riconosciuto nella propria autonomia e specificità. Eppure l’Occidente ritiene che solo essa possa salvaguardare la libertà degli uomini; rispettando così tutte le singole libertà senza naufragare nella hybris che in ognuno potrebbe sempre e comunque tornare ad esplodere. E’ dunque in questo contesto che ci sembra particolarmente utile tornare ad interrogarci intorno al concetto di “diritti umani”; per vedere se per caso in esso non siano custodite (magari ben nascoste agli sguardi “indiscreti”) anche tutta una serie di aporie che non potremmo davvero continuare ad ignorare. 2)

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Da ciò, dunque, l’opportunità di una riflessione - che qui ci proponiamo solamente di avviare, con il proposito di mettere a fuoco solo alcune delle aporie di fondo connesse alla nostra questione. Se non altro per impostarla correttamente. E soprattutto per continuare a praticare l’esercizio del dubbio (attitudine eminentemente “’filosofica”, quest’ultima), ossia per tenere vivo e continuare a promuovere quello spiritus interrogante di là dal quale “davvero misera cosa” sarebbe qualsivoglia pratica filosofica. Ma, si badi bene; oggetto della nostra riflessione non sarà né questa né quella ‘carta dei diritti’. Ma piuttosto il concetto stesso di ‘diritti umani’ – prima di qualsivoglia sua determinazione storica concreta. Per analizzarlo appunto in relazione alle sue originarie implicazioni concettuali. Solamente a partire da tale presupposto, infatti, abbiamo ritenuto di dover concentrare le nostre riflessioni su di un “testo” indiscutibilmente fondamentale della nostra tradizione: il pensiero hegeliano. Perché proprio dalle analisi hegeliane sarebbero stati portati alla luce i tratti di una aporia originaria. Dell’aporia concernente la sostanziale ambiguità del concetto di ‘diritti umani’: in quanto, se per un verso Hegel vuole attribuire all’essere umano in quanto tale la possibilità di costituirsi come detentore di diritti, per un altro sono le sue stesse analisi a costringerci a riconoscere che il vero soggetto di tali diritti non può essere invero se non ciò che nell’uomo stesso dice appunto l’assolutamente altro dalla sua umanità. Vale a dire: l’essere animale. E’ evidente: Hegel vale come l’akmé di tutta la modernità; e in quanto tale non avrebbe potuto mancare di dire cose decisive anche a questo proposito (così come a proposito di molte altre questioni). Ci riferiamo ad Hegel, comunque, anche per un altro motivo: ossia perché è proprio in lui e nella sua opera che ci sembra siano stati condotte all’estrema coerenza alcune delle decisive implicazioni dell’effettivo rapporto tra individuo e comunità, tra universalità e particolarità, tra libertà e necessità. Indipendentemente da Hegel, infatti, difficilmente saremmo riusciti a comprendere, nella loro portata autenticamente ‘rivoluzionaria’ e soprattutto paradossale, tali implicazioni. Hegel, dunque. Egli ritiene innanzitutto che, “una volta configurata in realtà di un mondo, la libertà (die Freiheit) riceva la forma della Necessità (die Form von Notwendigkeit)” . Un fatto è certo – ed Hegel lo sa bene -: la libertà, per il semplice suo declinarsi come libertà di individui esistenti sempre

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e comunque l’uno in relazione all’altro, non può che presentarsi nella forma della più rigorosa ed inflessibile “necessità”. Ciò che si costituisce come il sistema delle determinazioni della libertà, di fatto, a livello fenomenico, si palesa infatti come condizionato dal riconoscimento reciproco (quello per cui ogni esistente libero, può appare a se stesso come libero, solo là dove venga di fatto riconosciuto dal proprio altro secondo una determinazione universalmente reciproca). Insomma, “la sua connessione fenomenica è come la potenza, l’essere riconosciuta (das Anerkanntsein)” . E’ evidente: solo nella misura in cui la mia libertà non si dà se non nell’orizzonte relazionale per cui io sono sempre come ‘altro’ da un altro, e solo per il semplice fatto che io comunque “ek-sisto” (ossia mi ritrovo a costituirmi come “io empirico” in relazione ad una molteplicità di soggetti empirici che necessariamente ‘mi limitano’, ossia mi de-terminano), possiamo parlare di “diritto” come di ciò che abbraccerebbe l’esistenza di tutte le determinazioni della libertà. “Questa realtà in generale, in quanto esistenza (Dasein) della volontà libera (des freien Willens) , è (infatti) il Diritto (das Recht) ” – rileva Hegel. Ma per ciò stesso, “ciò che è un diritto è anche un dovere” . Ossia, “a un diritto del mio lato corrisponde un dovere in un Altro” . Insomma, solo nell’orizzonte di un’umanità intesa come insieme di individui esprimenti ognuno una volontà sostanziale e libera ha senso parlare di ‘diritto’. Anzi dell’esistenza stessa come un diritto. Infatti, come dice lo stesso Hegel, è l’esistenza della volontà sostanziale libera a costituirsi tout court come ‘diritto’. Dove, però, va anche tenuto ben presente che tale struttura è vera solo nella misura in cui sia vero anche il suo ‘rovescio’: dunque, solo a condizione che ogni soggetto di ‘diritto’ sia anche soggetto di un corrispettivo ‘dovere’. Quello stesso esistere che è per me un ‘diritto’, e quindi un luogo che mi fa detentore di diritti, è dunque anche la condizione di un ‘dovere’ che mi lega all’altro in quanto condizione essenziale al mio stesso differenziarmi come volontà soggettiva e singolare. Sin qui, il discorso hegeliano esprime in forma filosofica rigorosa quello che fa ormai parte delle nostre convinzioni più radicate. Ossia, del senso comune... di ciò che tutti ci accomuna in quanto abitatori del medesimo Occidente. Ma dove si radica, più precisamente, agli occhi di Hegel, tale dialettica – vale a dire la dialettica connaturata al mio essere sociale… ossia all’originarietà del mio “cum” ? Insomma, perché io, detentore di ‘diritti’, dovrei per ciò stesso anche rispondere di altrettanti e non meno essenziali ‘doveri’ ? Almeno per un motivo: per il fatto che io non sono solo – ossia perché sono ‘finito’. Ma il mio essere originariamente finito è implicato innanzitutto dal mio stesso costituirmi come ‘volontà’. Ossia dalla parte cosiddetta ‘animale’ della mia natura. D’altro canto, è solo in quanto animale che io esprimo una volontà, un desiderio, un appetito, una brama… ossia che io soffro di una costitutiva penìa. Ogni esperienza della volontà è infatti esperienza di una mancanza; nulla vorrei, infatti, se nulla mi mancasse. Sì che la mia finitezza concerne innanzitutto – prima che il mio essere sociale – la mia natura desiderante… cioè il mio essere incessante espressione di ‘volontà’ . Dunque, noi siamo finiti – per dir così – già prima della presenza di una ‘alterità’ simile a noi (della presenza di altri esseri umani); siamo “finiti” innanzitutto perché qualcosa (nel senso più generale del temine) ci manca. E quindi la nostra volontà è libera innanzitutto in quanto non ha limiti in relazione al proposito ed alle possibilità di colmare tale mancanza. Ma il fatto è che l’essere umano è nello stesso tempo ‘persona’. Con ciò Hegel

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ci sta dicendo: noi siamo anche “il sapersi” da parte di tale libertà. Come dire: non solo io sono libero nel mio volere, ma – ben di più - ‘so’ di essere tale. In ciò un elemento che mi distingue nettamente dal semplice ‘essere animale’. E quindi dalla mia stessa animalità. Perciò posso mettere in atto tutta una serie di strategie al fine di riempire la mia costitutiva mancanza (ciò che mi fa ‘finito’) – innanzitutto rivolgendomi ad una ‘cosa’ esteriore. Rileva Hegel che questa cosa è una entità priva di volontà e di diritti – trattandosi di un ‘altro’ puramente oggettuale ed oggettivo… che ha senso solo in relazione alla ‘mia’ mancanza, ossia che dice ciò che manca ‘a me. E quindi “è altro” solo in relazione alla ‘mia mancanza’ soggettiva… e rispetto a quest’ultima ha dunque la forma della mera ‘oggettività’. Solo una tal ‘cosa’ è resa ‘possesso’ – è resa tale dal mio anelito e dal suo sempre possibile appagamento. E solo il raggiungimento di tale possesso darà luogo alla ‘proprietà’. In questo senso, sempre secondo Hegel, la proprietà è davvero il “fine” del mio esistere in quanto esistenza di una persona – ed il possesso è un mezzo necessario al suo (della proprietà) raggiungimento . Ma, come già dicevamo, io ho originariamente a che fare anche con ‘altre persone’, detentrici di un analogo diritto di proprietà. Ossia, io sono anche animale sociale, politico. “Ho l’esistenza della mia personalità nell’essere di altre persone, nella mia relazione ad esse e nell’essere riconosciuto da esse – il quale essere-riconosciuto è reciproco” . In modo che il riconoscimento reciproco debba passare anche attraverso la mediazione del “contratto”. Ossia attraverso la mediazione costituita da un accordo che io devo stipulare con gli altri, in quanto anch’essi, come me, detentori di possessi e proprietà. Insomma, io devo riconoscere che il mio possesso e la mia proprietà possono divenire anche quelli di un altro. Doppiamente “finita” è dunque la mia natura – in quanto de-terminata dalla cosa (grazie a cui soddisfo la mia volontà animale, e divengo ‘proprietario’, appunto attraverso il possesso di ciò che mi manca), e in quanto determinata dagli “altri” intesi come altri soggetti proprietari tanto quanto lo sono io… vere e proprie esistenze libere, espressioni di una analoga volontà sostanziale, e dunque di una medesima penìa. Una cosa però va subito rilevata: ossia che da un certo punto di vista, se nel caso della volontà animale (quella che non “si sa” libera e che dunque non riconosce neppure la libertà altrui) si parla di libertà in senso ‘improprio’, è solo in relazione all’essere umano, ossia di colui che sa di essere libero e che è tale in quanto riconosce la libertà altrui, che si può e si deve senz’altro parlare di “libertà”; in quanto è solo in relazione alla coscienza di essere libero che io posso riconoscere nella libertà altrui ciò che potrebbe anche convincermi a limitare la soddisfazione della mia libertà. Insomma, è solo la libertà dell’altro (di un altro libero come me) ciò rispetto a cui potrei anche fare diversamente da come la mia natura (animale) mi indicherebbe. D’altro canto, essere liberi non può significare se non essere anche liberi di limitare la propria libertà. Laddove, l’animale non ha davvero motivi per non cercare soddisfacimento nei possessi e nelle proprietà. Per non volere ciò che vuole; o meglio, per porre freni alla volontà di soddisfare la propria volontà. Perciò l’animale non è veramente libero; e dunque non è libero affatto. Infatti, solo là dove si sia liberi anche di contraddire la propria libertà e la volontà in essa esprimentesi, si è veramente liberi. L’uomo è libero per ciò che in esso dice dunque vera e propria innaturalità, ossia razionalità, coscienza – per tutto ciò che contraddice insomma la propria animalità, ossia la propria naturalità immediata. Il fatto è che la libertà implica la coscienza di sé, il ‘sapersi’ e dunque, per ciò

stesso, il potersi limitare. Se il limite, la finitezza, presuppongono la coscienza di sé e dell’altro, è questa stessa coscienza a farci capaci di limitare e frenare la nostra volontà, appunto in rapporto alla volontà altrui. Magari secondo calcolo; ma anche senza ‘prova ed errore’ – ossia in modo del tutto aprioristico. Ché, per prova ed errore, anche gli animali riescono a frenare (ma, si badi bene, solo per posticiparne il soddisfacimento) la propria volontà. La ragione dice dunque un a-priori; un sapere presupposto da ogni possibile esperienza. Ma proprio per quanto detto sin qui, si dovrà anche riconoscere che la specifica natura dell’essere umano, ossia la sua libertà, produce un radicale paradosso: quello per cui tale esistente, dovendo stipulare contratti, stabilire diritti e doveri (perché l’altro e la sua libertà sono originari tanto quanto la mia libertà), finisce per trovarsi a vivere in un mondo tutto dominato dalla necessità… un mondo fatto di ‘leggi’ che ‘regolano’ inflessibilmente le singole libertà individuali. Anche se ‘per consentirne’ magari la perfetta estrinsecazione. 3)

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L’animale, dunque, non è libero – l’animale pro-cede al possesso, a prescindere dall’altro, che gli apparirà sempre e comunque come un semplice ostacolo. Un ostacolo che solo esperienzialmente, ossia di fatto, può limitare la soddisfazione del suo appetito – magari costringendolo ad un rinvio del soddisfacimento. Insomma, l’animale non conosce libertà perché non è in grado di non-volere, ossia di negare a-prioristicamente la propria volontà. Aprioristicamente: ossia, a prescindere dagli ostacoli esterni che possono di volta in volta suggerirgli di non cercare il soddisfacimento immediato. Insomma, l’altrimenti non gli appartiene; non dice una sua possibilità a-priori; ma può conseguire solamente quale opportunità dettata dall’incontro con un ostacolo esterno… sempre da sperimentarsi, comunque. In questo senso l’altrimenti è per lui un vero altro (non è “il suo altro, la sua alterità), ossia è “altro” nel senso di “ciò che non lo riguarda”; tutto volto, com’è, al soddisfacimento di una libertà che non conosce vincoli al proprio volersi soddisfare, e che ha sempre e solamente nel soddisfacimento il suo unico vero ‘fine’. L’animale non nega mai tale fine; neppure in forza di un eventuale incontro con l’altro, che può solamente costringerlo a posticipare il soddisfacimento vero e proprio. L’unica regola per tale volontà è dunque la soddisfazione del proprio anelito; e non l’esistenza. Così come l’esistenza altrui è per lui un assolutamente ‘altro’; tanto ‘altro’ da non essere neppure altro-da-lui. Da essere cioè un altro che è innanzitutto ‘altro’ dal suo stesso esser-altro (nel senso di eteron). Insomma l’esistenza altrui è per l’animale un non-altro; e perciò la sua estraneità è ‘assoluta’. E l’animale è quindi un essere originariamente a-sociale . 4) Ma – ed ecco il punto ! – la questione può essere considerata anche da un altro punto di vista. Infatti, se è vero che per l’animale il prius è la volontà, mentre per l’uomo lo è l’esistenza, è anche vero che per un altro verso la volontà può esser detta davvero “libera” solo là dove essa valga come ‘prius’ assoluto; e, stante che per l’animale l’altro ‘non-è’ un ente così come lo è la volontà da cui è mosso, tale “altro” non dice la ‘sua’ alterità, un altro originario (così come

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lo è la sua - dell’animale – volontà). E’ un ‘altro’ nel senso di ‘estraneo’ – al punto che può darglisi come ‘altro’ in modo del tutto accidentale, occasionale, eventuale. Ma può anche non darglisi in quanto tale . Non è ab origine ‘suo’; non lo ‘de-limita’ da sempre. Può capitare che gli faccia da ostacolo… ma ciò è solo possibile. E se gli si contrappone, si tratta per lui solo di un ostacolo temporaneo che mai lo smuoverà dalla volontà di soddisfacimento della propria volontà. D’altro canto, se fosse originario, ossia co-originario rispetto alla sua volontà, tale “altro” renderebbe quest’ultima inevitabilmente limitata – in quanto, appunto, necessitata dall’altro….. E invece no. Non la limita, non la necessita. Perché per l’animale l’altro è totalmente eventuale, accidentale. Ciò che rimane originario, nel suo esistere è dunque una volontà che è per ciò stesso realmente ‘assoluta’. Ossia, ‘libera’ – proprio perché non costretta al vincolo dell’altrimenti, inteso come apertura originaria ad ‘altre possibilità’. Dicevamo: l’altro non è un ‘ente’, per l’animale. Non è un vero ‘positivo’ – è qualcosa che ‘può’ essere, ma potrebbe anche non essere mai. Che potrebbe anche non presentarglisi mai di fronte. E che, quando è, esiste ‘per lui’ solo come ostacolo temporaneo…. sempre in linea di diritto superabile. Non è per lui mai ‘fine’. Certo, può capitargli di dover fare i conti con esso, ma solo se esperienzialmente gli sarà dato di constatarlo. Insomma, esso è un vero e proprio in-esist-ente; Ma, se tale esistenza non è per lui in alcun modo essenziale… allora lui stesso dovrà essere inteso come un perfetto in (esist) ente – un in/ente. Infatti, il non esistere dell’altro implica – secondo la verità del ‘dialettico’ – il non esistere neppure di ciò rispetto a cui l’altro dovrebbe appunto costituirsi come ‘altro’. Di ciò bisogna però trarre le logiche conseguenze. Ossia: se si dispone di diritti solo in quanto si è ‘liberi’, o meglio solo in quanto si incarna una volontà sostanzialmente libera, e se si è ‘assolutamente’ liberi solo in quanto non si sia ‘condizionati’ da alcunché (in quanto si sia originariamente in-condizionati), è necessariamente vero che solo l’animale è originariamente e perfettamente ‘libero’. Solo in quanto in-ente, dunque, l’animale dispone di ‘diritti. Appunto perché non si costituisce come un ‘esistente’ originariamente contrapposto ad un ‘altro’ come lui originariamente “esistente”. Perciò è davvero “libero”. Stante che soggetto di diritti – stando all’ottica hegeliana (ossia, secondo la nostra ottica occidentale moderna) – è solo colui che può dirsi appunto ‘libero’. Perciò solo l’animale può rivendicare un diritto naturale, originario… il diritto a far incessante riferimento alla propria libertà-assoluta, originaria. Un diritto che non ha da esser mediato; che non necessita di compromessi, di contratti. Perché la negazione dell’altro non è mai ‘per lui’ il contenuto di un divieto; non si costituisce mai come un non debet. Anzi, è del tutto naturale. Ossia, coincide più propriamente con lo stesso essersi originariamente negato da parte di un altro che non è mai come “suo” altro. Stante che – come abbiamo appena visto - l’esistenza ‘sua e degli altri’ non è in alcun modo essenziale. Essa è semplicemente ‘possibile’, ‘seconda’.. consequenziale… appunto, al mantenimento incessante (esso sì prioritario) della volontà – che proprio per ciò è “libera” ed “assoluta”. L’esistenza è condizionata solo dal mantenimento del suo (dell’animale, o meglio della sua volontà) in-finito soddisfacimento. Vale a dire: dalla sua ‘infinitudine. D’altro canto, solo l’animale è veramente infinito; proprio perché non v’è per lui un “altro” che lo renda originariamente limitato. Perciò la sua esistenza

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non è affatto condizionata. La situazione ci si è dunque rovesciata tra le mani. Dapprincipio ci sembrava di poter dire che solo l’uomo è libero, proprio in quanto costituentesi come esistente solo nella e per la ‘libertà’ altrui; ora invece, stiamo vedendo come, a dire il vero, si debba nello stesso tempo dire che solo l’animale è veramente libero (e non l’uomo – ossia, non l’animale “in quanto razionale”); quello stesso che poco sopra avevamo visto essere costituito da forze puramente istintuali, e che proprio per ciò ritenevamo di non poter considerare invece affatto ‘libero’. Non a caso, proprio dell’animale lo stesso Heidegger si era premurato di sottolineare il destinale risolversi in questo o quello specifico ‘mondo’ di appartenenza. Quali sono dunque i diritti ‘propriamente’ umani… quelli che l’uomo può rivendicare, cercare di difendere, voler vedere rispettati etc. etc. ? Quelli che riguardano la sua volontà libera (e dunque una disposizione che non prevede originarie relazioni d’alterità, e quindi non poggia sulla presupposizionalità di un ‘altro’ valevole come sua mera condizione di possibilità) oppure quelli che fanno riferimento alla sua (sempre dell’essere-umano) ‘esistenza’ determinata, vale a dire all’esistere di un ‘esistente’ che è libero sempre e solamente in relazione alla propria ‘alterità’? Quale tipo di ‘libertà’ viene messa in gioco dal soggetto di volta in volta proclamante i propri ‘diritti’? Una libertà ‘assoluta’ o una libertà ‘relativa’? A queste domande si dovrebbe innanzitutto rispondere, là dove si intendesse davvero pensare la questione dei diritti umani – e ci si proponesse di sapere davvero cosa si vuole là dove vengono rivendicati quelli che consideriamo gli ineliminabili ‘diritti’ dell’essere-umano. Insomma, quale ‘uomo’ è quello che rivendica il diritto di difendere i propri ‘diritti’ ? E poi ancora: è davvero solo l’esistente “libero” quello che può far appello ai propri diritti ? Tutte questioni aperte, per rispondere alle quali è davvero necessario tornare ancora una volta a ‘pensare’ il percorso che ci ha portati sino a questo punto – sino a farci sentire senz’altro autorizzati a reclamare qualcosa come i nostri diritti. E, proprio in questo senso, il confronto con il precedente hegeliano ci sembra di particolare interesse; se non altro in quanto costringe ad un confronto radicale con alcuni dei “paradossi” fondamentali implicati dalla questione relativa al nesso ‘diritto’-‘libertà’, o anche da quella, forse ancora più originaria, del rapporto ‘animalità’-‘razionalità’. D’altro canto, è proprio Hegel ad averci insegnato – sino a farcelo sembrare ‘evidente’ – che la volontà soggettiva, “come potenza di essere al di sopra del Diritto, è per sé un qualcosa di nullo” . E dunque che interrogarsi sulla questione del diritto equivale ad interrogarsi sull’impossibilità, per la nostra libertà individuale, di prescindere dall’orizzonte di una qualche ‘coercizione’ (il quale varrebbe comunque come ‘rimozione’ di una più originaria coercizione, essa sì davvero imprescindibile, nella misura in cui di là da essa potremmo solamente ritirarci da ogni esistenza, “anzi dall’ambito di ogni esistenza, cioè dalla vita” ). Questa, infatti, la nostra libertà: la medesima che, per sfuggire ai paradossi implicati dal suo dover fare continuamente i conti con ciò che la nega e la costringe a riconoscersi veramente esistente solo nel suo ‘esser-sempre e comunque originariamente negata’, può solamente vanificare l’esistenza sua propria – e quindi ancora una volta negarsi, dimostrando davvero che (come avrebbe detto Andrea Emo) “l’Io è un progressivo negarsi, un progresso (o regresso) all’infinito del negarsi” .

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L’inverno civile della Repubblica di Carmelo Meazza ���������� 1. Inverno civile. Interminabile inverno della Repubblica. Sono le parole che ha usato Ilvo Diamanti in un editoriale . Persino la Chiesa Cattolica sembra ritirarsi dall’Italia e guardare oltre la Repubblica. Più attenta a preservare la comunità dei fedeli che la comunità nazionale. Forse per la prima volta dal secondo dopoguerra una generazione avverte fino in fondo il sentimento dell’impotenza. In tempi in cui la volontà ha una performance straordinaria, la volontà civile del Paese vive la stessa paralisi dei napoletani verso i propri rifiuti. Si ricorderanno a lungo quelle immagini, che corrono per il mondo, di uno spazio pubblico, strade, piazze, slarghi, vie, occupate da montagne di spazzatura. I più anziani avranno avuto l’impressione di scivolare in immagini già viste, di rivedere le rovine del 1945, gli stessi cumuli, lo stesso caos, la stessa polvere, le stesse camionette dei militari, la stessa impotenza. Cumuli di detriti in uno spazio pubblico. Cosa c’è di più evidente del declino di un ethos comune? Del declino di una civitas? Per un’analogia forse non troppo bizzarra l’enorme fatica dello smaltimento napoletano rimanda all’enormità del nostro debito pubblico. L’enorme cumulo che viene dall’eredità del nostro recente passato. Dimensioni colossali come pochi altri nel mondo a saturare le vie d’accesso verso il futuro prossimo, a richiedere energie straordinarie e tuttavia appena sufficienti per scostarlo ai lati delle strade della Repubblica.

2. Le dimissioni di Romano Prodi non aprono solo una crisi di governo. Mentre si celebrano i sessant’anni della Costituzione italiana dobbiamo parlare con lucidità di crisi della Repubblica. I Vescovi italiani hanno evocato l’inedita immagine dei coriandoli per illustrare un’Italia che si scompone. Chissà come e da dove è venuta questa nuvola policroma, senza peso, perfetto emblema della sagra carnevalesca, perfetto simbolo di un tempo leggerissimo e sospeso, come una collana di perle che prima di perdere l’ultimo filo resta per aria volteggiando ancora in vita prima di toccare terra. La crisi italiana è grave, incomparabilmente più grave, rispetto ad altri momenti critici della nostra storia più recente. L’abitudine a tenere basso lo sguardo impedisce, il più delle volte, di sentire la forza di spinte che vengono da lontano e cambiano i lineamenti dei paesaggi storici nei quali viviamo. Una pressione enorme sui nostri confini e sulle giunture e i cardini della nostra statualità viene innanzi tutto da fuori. Proviene dai nuovi equilibri demografici ed economici che le nuove potenze dell’Asia stanno imponendo al mondo. I confini della statualità sono poi da tempo logorati dai mercati globali, da merci e denari che viaggiano senza confini nazionali, da economie immense che si moltiplicano o si dileguano nelle reti informatiche. Tutto questo produce energia centrifuga, incide sulle giunture tra un territorio e l’altro, tra una regione e l’altra, aumenta, in generale, lo spirito di secessione.

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L’Europa perde peso, rapidamente, e noi ci troviamo nel punto di massima tensione. Fra non molto tempo i Paesi forti dell’Europa non avranno più alcun interesse a condividere l’unità politica e l’ideale europeista si ridurrà a un mercato comune di merci e denaro. (Non dovrebbe essere questo per noi uno dei problemi più assillanti, il piano su cui la stessa vocazione del riformismo gioca tutte le sue carte? ) Il Paese in cui si inventa, nella modernità, l’arte della politica, questa tecnologia dello spazio e del tempo pubblico, tra sovranità e statualità, è oggi nella paralisi della politica e delle funzioni pubbliche dello Stato. Sempre più sul piano inclinato di una deriva che potrebbe essere inarrestabile. Alle tensioni che vengono da fuori si sommano le tensioni che provengono dall’interno, dalla nostra storia recente e lontana, dagli errori e omissioni commessi nel corso degli anni. Le diagnosi sono note, ripetute tante volte. Inutile soffermarsi. Se la crisi è così profonda, se essa ha uno dei suoi epicentri nel sistema della politica, nelle sue forme e nelle sue regole, che senso avrebbe sciogliere il Parlamento e tornare al voto? Se la legge elettorale attuale, la regola aurea per la formazione delle classi dirigenti, contribuisce a deprimere la sovranità popolare, ad aumentare il dispotismo dei partiti e il peso delle elites dirigenti, se la sua stessa legittimità è in qualche modo compromessa da un referendum che ne richiede l’abrogazione, come può essere una buona cosa affidarle la formazione del prossimo parlamento? Quando il futuro è molto basso all’orizzonte le cose tendono a ripetersi. Rivediamo dunque le volontà di rivincita e di vendetta, il rullo dei tamburi, spostamenti di truppe da un campo all’altro, le gioie sadiche dei fedelissimi, la costernazione degli incerti, le paure dei traditori. Come si sa, nella ripetizione c’è sempre un po’ di farsa soprattutto quando i cicli sono di brevissima durata. Tutto questo nell’onda di un’opinione pubblica mobilissima e mutevole, disperata, disposta a grandi investimenti di fede ma anche a repentini

abbandoni e giudizi inappellabili. Romano Prodi non è stato lungimirante nel trascinare la crisi in Parlamento. Ora il clima è rovente e non c’è molto spazio per il buon senso. Un ostinato stile di autosufficienza ha pesato anche in altri momenti di questa breve esperienza di governo. Nonostante alcune apparenze, è mancata la giusta dose di umiltà, di coraggio, di realismo. Ci vorrà troppo tempo per riconoscere le buone cose realizzate. Forse il Partito Democratico ha compiuto un errore a non proseguire nello slancio dello spirito delle primarie. C’è stata come una sospensione e un ripiegamento che ha fatto perdere un po’ la corsa e la tensione. Le strutture dei Ds e della Margherita almeno formalmente non ci sono più ma le nuove forme del partito maturano con tempi troppo lenti e con troppe incertezze e paure. La transizione appare troppo lunga rispetto alla velocità della crisi della Repubblica e anche rispetto alla crisi del Governo. Ci vorrebbe un’accelerazione delle tappe costituenti e l’individuazione più chiara di uno sbocco congressuale. Dovremmo chiederci quanto stia pesando nel clima di impotenza che domina il paese, questa lunga gestazione.

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2. Magris ha scritto le seguenti parole sulla laicità: “Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede”. Concordiamo. Ci permettiamo di variare un po’ su questo tema sempre più aspramente al centro del nostro dibattito pubblico. Non dobbiamo sentirci troppo sicuri di sapere che cosa sia un atto di fede. E, ancor meno, di presumere di sapere (di un sapere certissimo) che cosa sia la ragione. Inoltre, può essere un errore, isolare l’esperienza di fede nell’esclusivo ambito del religioso. Come se gli oggetti del religioso potessero chiarire l’atteggiamento di una fede. Come se non fosse più prudente distinguere le fedi dalle religioni, innanzi tutto , e poi inserire l’esperienza della fede in un campo più vasto in cui si rinvia, ad esempio a un rosario di temi armonici tra loro come: fiducia, fidatezza, fedeltà, confidenza, ecc. Se prendessimo queste precauzioni capiremmo forse meglio la stessa fede delle religioni e quanto esse possano essere persino d’ostacolo e di impedimento alla forza delle fedi. Non solo, dopo queste acquisizioni faremo fatica a separare con un taglio netto le fedi dalle ragioni. Si vedrebbe che la linea che le divide in qualche modo le unisce. Si vedrebbe che quella linea non è propriamente ciò che siamo portati a intendere per ragione né ciò che siamo portati ad intendere per fede. Se la laicità avesse un luogo di residenza occuperebbe il lavoro di questa linea. Si può forse ripetere tutto questo con un’immagine quasi domestica. Che cosa accadrebbe se affrontassimo gli orientamenti di una metonimia (...bere un bicchiere d’acqua) con il metodo di una sicura dimostrazione? Se ci orientassimo in essa con l’unica forza della volontà dimostrativa? Se perdessimo una certa fidatezza? Forse si può dire così: perderemmo la salute della lingua e la possibilità di intenderci con qualcuno. Se la volontà di chiarezza e la prova dimostrativa prendesse il soppravvento sull’offerta di un “bevi un bicchiere d’acqua”, potrebbe incominciare una certa follia. Si potrebbe cadere persino nella lettera di quel nome. E la lettera di quel nome significherebbe perdere la metonimia e bere il vetro del bicchiere. In questo caso sarebbe irragionevole essere razionali e muoversi a tutti costi con il principio di ragion sufficiente. Dobbiamo convincerci che una

certa malattia della nostra esperienza si manifesta sempre nel corso estremo di una volontà assoluta di accertamento e di chiarezza. La follia può essere una ragione accecata dalla chiarezza assoluta. Come se potessimo dire: si cade dentro i nomi che pronunciamo, nella follia, non quando si perde la ragione ma quando si perde una speciale attitudine a sopportare, in una certa fidatezza, una qualche forma di tolleranza. Il folle sarebbe allora non colui che smarrisce la ragione ma piuttosto colui che si ritrova in essa nella condizione di non sopportare più il rischio dell’indeterminazione. E tra fidatezza e indeterminazione dev’esserci un discreto rapporto quando siamo in buona salute con le nostre parole. Parafrasando una questione di cui i vecchi scolastici erano molto esperti si può dire: la fidatezza non contraddice la ragione, in qualche modo le si oppone ma come tutti gli opposti condivide con essa qualcosa di comune. Pochi cenni (con approssimazione...) per cose molto complicate. Solo per suggerire molta prudenza nelle delimitazioni. E un giusto esercizio della laicità.

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