SECONDO VIAGGIO IN INDIA (1968)
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Se un indiano vuol venderti qualcosa, non opporti: comprala subito. Nell’albergo di Nuova Delhi un indiano sorridente aveva stabilito di vendermi una camera, parola ambigua, poiché v’è la camera da letto, la camera del lavoro, la camera del cannone e la camera dell’occhio. La sua era una camera cinematografica, cioè un apparecchio da presa, di marca giapponese. Gli dissi che venivo ali Tokyo, ma non valse. Gli dissi che neanche ero capace di fotografare, ma valse ancor meno. Sorridente, enumerava i vantaggi. Gli voltai le spalle, ma lo ritrovai sollecito al mercatino tibetano, dove mi diede ottimi consigli prima d’illlustrarmi da capo l’utilità d’una camera. Gli voltai le spalle, ma lo ritrovai premuroso alla compagnia aerea, dove m’ottenne la difficile prenotazione per Benares: poi ricominciò il discorso sui vantaggi. Il primo era ch’egli stesso m’avrebbe insegnato, senza nessun impegno, solo comprando da lui le pellicole. Sorrideva, convincente. Adesso so come gli indiani hanno conquistato i commerci costieri dell’Africa, sino alle Canarie. Tanta insistenza indusse l’Arcangelo al sorriso. Accettai la prova ed egli divenne la mia guida turistica. Vi sono venti tombe d’imperatori a Nuova Delhi: le ho cinematografate tutte; sette città si sono succedute sullo stesso spazio in nove secoli: le ho riprese tutte; ho tutte le inquadrature del Forte rosso, della Porta dell’India, dell’urna cineraria di Gandhi. In qualche giorno l’indiano sorridente m’aveva venduto la camera, gli accessori, non so quante pellicole e m’aveva inoculato il bacillo della cinematografia. M’accompagnò sino all’aereo per Benares e nel lasciarlo ero convinto ch’egli fosse l’approfittatore della mia fanciullaggine. Invece m’ha reso un grandissimo servigio. Gli debbo d’aver qui la testimonianza vivida, mossa, colorata d’una così
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lunga peregrinazione in India. È tutta qui, in queste quarantun pellicole, disordinate, mal numerate, incomprensibili per chiunque, salvo per me.
Le scelgo alla meglio, le proietto sul piccolo schermo e nel buio, narro al dittafono la mia storia di vagabondo lungo il continente degli entronauti.
Film n. 1. Benares, pomeriggio, aeroporto. Gruppo di cani tigrati, pezzati, bastardi presso l’aereo, avidi di qualche cibo. Scheletrici, rognosi, tremanti. Penso al mio bulldog tondo, festoso e amato. Ingiustizia fra i cani. Primo piano della testa d’un cane bianco. Sguardo intelligente e interrogativo, occhio umano, diremmo. Paragone sbagliato: quale uomo mai ha uno sguardo tanto espressivo? Gruppo di risciò verdi rossi gialli, intorno ai viaggiatori. Il figlio del coolie s’è fatto ciclista. Gesticolano per indurre qualcuno a salire sul loro triciclo. Esili, vestiti d’un cencio. Penso ai nostri facchini ruvidi, pasciuti e bevuti. Ingiustizia fra gli uomini. Perché l’ingiustizia? L’Arcangelo tace. Ecco, nella ressa dei risciò, ecco: quello è Rao. Sì, quello che sta dietro, timido: ora rinuncia e se ne va. Rao, che poi diventò il mio conduttore abituale. Tutti i passeggeri scelgono l’autobus per andare all’albergo. E il Gange? Dov’è il Gange?
Film n. 5. Benares, alba, in barca sul Gange, a venti metri dalla riva. Il battelliere mi rivolge frasi incomprensibili:
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annuisco. Cinepresa puntata verso l’est, aspettando il Sole. Orizzonte livido, poi pallido, adesso ambra. Trasale rosata l’aurora indiana. Eccola, annunciatrice impetuosa, affacciarsi al deserto. (Fra poco vedremo Kapila, il maestro tantra incontrato qui, in questo giorno). Il deserto su d’una sponda, la babele sull’altra, in mezzo grandissimo il Gange nobile, lento, verde giada: questa è Benares. Sponda sud, deserto: sabbie, dune, ghiaie, non un albero o un’erba, né una strada, una casa, un abitatore, un viandante, un vivo, salvo qualche avvoltoio a terra, immobile, sinistro, in attesa che il fiume gli porti carogne. Silenzio, vuoto, solitudine. È la sponda morta, maledetta, è la luna. Sponda nord, Babele: scialuppe bragozzi navicelle, sulla riva scale gradinate rampe che portano in alto, ai templi edifici colonnati verande, gente da per tutto in ogni posa, cani scimmie colombi loreti, lampade fuochi fumi, tamburi campane cori. È la sponda viva, benedetta, è l’uomo. - Perché da millenni costruite solo qui, in salita, abbandonando la pianura di fronte? - Questa riva soltanto è sacra. Sacra? Cosa vuol dire? Per noi, niente. Per noi sono sacri i valori commerciali dei terreni e non lasceremmo il Tevere, la Senna, il Tamigi e l’Hudson costruiti da una parte e dall’altra no. Come capire gli indiani? Forse essi hanno accesso a una dimensione ove un luogo è sacro e un altro profano. Romolo, prima di fondare Roma, scelse il punto sacro. Noi non edificheremmo in una pianura di sabbie mobili e pericolose. Così Benares rifiuta il luogo inadatto alle costruzioni spirituali.
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Al mio cenno, il battelliere torna presso la riva. Cinepresa puntata verso la gente mentre sorge il Sole. L’uomo dell’India non è costretto nelle misure occidentali: è vivo per altre speranze. (Sì, si: fra poco vedremo Kapila).
Film n. 6. Benares, mattino, in barca sul Gange, presso la riva. La gente entra nel fiume: sino alla testa gli uomini, nudi salvo un perizoma; sino al fianco le donne, avvolte in mussoline che l’acqua incolla ai corpi pudicamente. Entra nel fiume e sosta: gli occhi fissi sul Gange, le labbra vibranti in sillabe arcane, i gesti rituali, le mani alzate a battezzare il capo, le fisionomie intente o assenti o radiose. Entra, sosta, esce: figure scultoree, lavate e lucenti, scuri bronzi vivi, chiari marmi antichi, soavi sinuosità di fanciulle, fiere nudità di efebi, semplicità dell’eterna forma umana. Perfino l’Arcangelo ha la forma d’un uomo, alato. La cinepresa si sposta in panoramica fra teste piedi spalle ginocchia in moto, sale sulle gradinate, incontra l’immobilità solitaria d’un asceta e lo fissa: egli sta su d’un basamento isolato, gambe incrociare, fronte al Sole, avvolto in un telo ocra donde esce solo la testa, neri i lunghi capelli e la barba. È Kapila.
Film n. 12. Benares, mezzodì, all’ombra d’un albero. È il gruppo di Kapila. (Prima di questo, vi sono altri cinque film, ma non li trovo, forse confusi nel disordine o smarriti in viaggio). È il gruppo che seguiva Kapila. Molte facce mi sono sconosciute. Le persone cambiavano sempre, chi arri-
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vava, chi partiva, salvo pochi fedeli. Ad esempio Freddy, l’americano: è quello lì, rosso di pelo, nudo salvo il perizoma. È quello con le efelidi e le cicatrici sul petto, cicatrici da guerriero antico. Sta parlando con un altro fedelissimo scuro di pelle, Raman il bengalese, che poi ha un altro nome, ma tutti lo chiamano così. Del resto m’avevano affibbiato il nomignolo d’Italian e non me lo tolsero più. Si può a Benares parlare delle tre stirpi elvetiche? Ed ecco la testa di Kapila: ha la pelle chiara d’un mediterraneo e la nobiltà di certi visi arabi. La camera lo prende di profilo e non lo si vede bene. Solo incontrandone gli occhi, t’accorgi di chi è. Tutto è successo perché m’ha guardato.
Film n. 10. (È uno dei film precedenti, l’ho trovato per caso in un angolo insieme al n. 7 e all’11). Benares, giorno, vagando sul triciclo di Rao. Tutti gli stili dell’India, tutte le meraviglie d’Oriente: portici arabi, bulbi persiani, piramidi egizie, pagode cinesi. Scorci: casba d’Algeri, calle di Venezia, albaicin di Granada. Mi par d’uscire dal presente: l’alta Roma medievale con la calca dei pellegrini, le folle dai volti pluricolori di Cartagine, gli abiti bizzarri delle moltitudini di Babilonia. In quale luogo mi trovo, in quale tempo? Grava su Benares una forza che lentamente ti invade: la senti vibrare intorno, poi penetrare nella testa e nel ventre, portando all’estremo le tue inquietudini. Arcangelo, Arcangelo, dove mi conduci? Forse da una civiltà mediterranea a una civiltà planetaria. Lungo un milione d’altari cammino fra Dei gesticolanti e colorati: rosso Ganesci pachiderma, giallo Hanuman antropoide, violetto Visnù onnipotente, nero Lingam generatore,
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occhi bianchi Kalì divoratrice, azzurro Krishna musicante. I volti di Dio sono tanti, quante le anime degli uomini. Rao ha vent’anni, magro e povero, pedala tutto il giorno, suda sotto il sole tropicale eppure gli piace di conversare e mi dà risposte da metafisico. - Rao, gli Dei sono reali? - Certo. - Reali come noi? - Oh, molto di più. Forse ha ragione: cosa v’è di reale in noi, cosi fragili, effimeri e fuggenti? Politeismo, diciamo, facili condannatori: e invece significa che la misericordia divina si offre a ciascuno, così come ciascuno la può intendere e immaginare. - Al Gange, Rao, torniamo al Gange. Voglio rivedere l’asceta dell’altra mattina, immobile sul basamento, avvolto nel telo ocra. Rao sa tutto di Benares: - È Kapila, il maestro tantra. Tantra? Rao pronuncia la parola con timore reverente. I tantra sono asceti capaci di dominare le potenze scatenate nell’atto generativo. Perciò sono casti. Tantra? Il timore di Rao diveniva in me un’imperiosa attrazione. Ma prima ero andato ai roghi ed ecco il film.
Film n. 7. Benares, tramonto, ai roghi. Ai roghi arrivi seguendo i cadaveri, assai diversi dai nostri. Vedi? Niente becchini, niente casse opprimenti, niente strazi. Sono cadaveri leggeri. Guardali: tutti avvolti in mussoline rosa, assicurate con qualche spago e ciò basta a semplificare la forma umana, a toglierle l’individualità. Due bambù da capo a piedi
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fanno da barella, due parenti davanti e dietro la portano facilmente a spalla, pochi amici intorno e i discorsi pacati. Non vi sono donne, neanche ai roghi. Potrebbero piangere e le lacrime non s’addicono al rito. È il crepuscolo. Laggiù, sulla riva, le fiamme: mai si spengono, giorno e notte, mai estinte da diecimila anni, forse da ventimila. Già accese quando a Benares venne Buddha, l’eretico che l’India ha respinto, come la latinità, Lutero. Primo piano d’un rogo, con la legna ben distribuita, È piccolo, basso, ci vuol poco a divorare la forma umana. Intorno necrofori dalla pelle nera, abili nel maneggiare le pertiche. Lingue infocate e luminose, poi basse e corte, sfavillanti fra dense volute di fumo nutrito della nostra materia. Rapida la fiamma trasforma il corpo in cenere e vapore, lo rende tanto volatile che l’immagine stessa della morte scompare. Ormai il resto è soltanto brace nella brace. Ultime fiamme azzurre passano a brividi. È finito: le ceneri nel Gange. Arriva un altro cadavere, altri parenti stanno tranquilli a guardare. Il giovane vedovo ha l’incarico d’accendere il primo legno. Come mai quest’uomo non piange la sposa perduta? Per me la morte è definitiva, per lui passeggera. Egli stesso è il morto di tutte le sue passate esistenze.
Film n. 11. Benares, mattino, prima l’albergo, poi il Gange. L’albergo: vecchiotto, coloniale, comodo. Tè del primo mattino, colazione, pranzo, tè del pomeriggio, cena. Profusione di servitori in alte uniformi. Punto la cinepresa sulla faccia d’un turista americano indignato: - Roghi disgustosi. Non rispettano i morti. Noi li abbelliamo, li atteggiamo al sorriso, li esortiamo a riposare, li ada-
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giamo in casse preziose, li trasportiamo in luoghi panoramici, li poniamo in tombe a prova d’atomica, rallegrati da musica filodiffusa e con garanzia scritta di pace per cinquecento anni. - Illusio perpetua, amen. - Come? Voi siete europeo: il rispetto della vita, capite? La vita umana è preziosa... Forse a Nuova York, non a Benares. La vita umana copre sterminatamente la Terra e nei millenni si è riprodotta in miliardi d’esemplari. Non uno si è salvato: tutti finiti in cenere. Quando proclami «la vita umana è preziosa», in verità pensi soltanto alla tua pelle. Basta con l’ipocrisia: la vita umana non è preziosa. Sappiamo bene che non vale niente. Invito Rao a fermarsi, per girare la scena d’un gruppo di malati che si fan condurre al Gange nella fiducia di spirare in quel luogo privilegiato. Poi una fila di vegliardi, venuti qui ad attendere la fine. Per un indiano non v’è miglior sorte che morire a Benares. Superstizione, dichiara l’americano, per non sovvertire il suo catalogo mentale. - Rao, è superstizione? E se fosse vibrazione? Non capisce, non risponde. Forse tutto è vibrazione. Nei corpi è certo vibrazione il calore, il suono, la luce, l’atomo. Negli animi è vibrazione la collera, l’amore, il trepidare. Nella mente oscillano i pensieri. Negli spiriti i ritmi beati dell’empireo e i fremiti dell’ala d’un Arcangelo. Se tutto vibra, l’alta tensione di Benares può trasmettersi alle anime e garantire la buona morte e oltre. Allora la superstizione diviene sapienza, in un universo ondulatorio.
Sono le ultime sequenze del film n. 11. Laggiù Kapila, vicino alla riva, all’ombra d’una muraglia, con intorno cinque o sei persone. Il film finisce, ma il ricordo comincia.
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M’avvicinai cautamente, senza mostrarmi, spinto dalla speranza, frenato dal timore. Speranza di capire la morte, come in qualsiasi vedovo indiano. Timore della parola tantra, che sottintende occulti poteri. Kapila stava ascoltando or l’uno or l’altro del crocchio. Parlavano inglese, lingua che ormai detestavo, al punto da trovare nobiltà nel malconoscerla. Perché i romani non vinsero l’Asia? I testi tantra sarebbero in latino e latina la parlata di Kapila. Idee balorde, generate dalla mia stanchezza. Di colpo mi sentivo sfinito. Stanco di tanti aeroplani, di tanti cibi e bevande indigeribili, di tanti letti diversi, di tanti idiomi, ero sovrattutto stanco di me: di ritrovarmi al mattino, di portarmi in giro tutto il giorno, di mettermi a letto la sera, d’ascoltarmi pensare, senza requie pensare, il solito pensare. Stanco d’assistere al perpetuo variare del mio animo, ora soddisfatto ora infastidito, per le minime cose: il bello o cattivo tempo, le parole o i silenzi altrui, le nostalgie, le speranze. Continue variazioni, espansioni di piccole letizie, contrazioni di mediocri scontenti. Basta. Stanco infine d’una ricerca che non concludeva, che mi faceva cambiar cieli ma non animo, che mi mostrava le altrui grandezze lasciandomi quel che ero, spettatore immutato. Di colpo non ne potevo più. M’appoggiai alla muraglia, tentando d’incrociare le gambe, ma non m’è mai riuscito: sùbito mi dolgono le giunture. Mi lasciai andare, sdraiandomi per terra, come un mendicante. Fu allora che Kapila mi vide. Stava a qualche passo e mi guardò. Nobiltà del suo viso un po’ arabo, occhi grandi, lunghi e luminosi. Mi fissava e lo sguardo era straordinariamente dolce, penetrante nella mia amarezza. Penetrante e fraterno: il cuore mi si liberava dal peso, ne nasceva un acquietamento, un sospiro di sollievo,
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un’indifferenza di me, un emergere. Che miracolo è questo? Arcangelo, Arcangelo, è un tuo dono o suo? Non mi muovo più, nemmeno quando Kapila si alza e con gli altri s’avvia, dopo un indugio a guardarmi. Parlare? Ah no, finalmente taccio.
Film n. 15. (Dedicato a Freddy). Freddy, rosso statunitense, peso mediomassimo, efelidi, capelluto, barbuto, mentre si tuffa nel Gange come fosse a Long Island, senza gesti rituali, anzi con grandi nuotate, schiume e allegria. Le cicatrici sul petto non lo deturpano: lo rendono glorioso. Freddy è il tipo dell’americano di trent’anni, nella parlata, nei gesti, nel ridere, nel fumare la pipa. Potrebbe essere un marinaio. Ti domandi com’è naufragato in India, come s’è messo al seguito di Kapila. Poi, da una parola, un gesto, una decisione, t’accorgi che ha un animo profondo, delicato e soccorrevole. Questa è un’altra scena. Freddy, carico di cibarie, cerca di distribuirle, ma stenta: gli indiani, che van celebri per la fame, sono difficilissimi da nutrire. Macilenti a milioni, mai viene loro la tentazione d’uccidere una mucca e di mangiarsela. Piuttosto muoiono e muoiono davvero. Mangiare in India è una faccenda assai complicata, con regole severe, forse igieniche o sociali o religiose: basta lo sguardo d’un passante impuro per rendere immangiabile un cibo e l’assetato mai berrebbe nel recipiente ove un altro già ha bevuto. I nostri bicchieri, posate, piatti sono per loro sconcezze. È un film tutto dedicato a Freddy, per riconoscenza. Ho voluto portare con me la sua immagine, per potermela riguar-
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dare. Gli debbo molto, fin dalla prima volta. Senza farsi notare, si era messo nelle mie vicinanze. Kapila se n’era andato: sdraiato a terra, all’ombra della muraglia presso il Gange, ero sbalordito dal miracolo d’una pace che mi stava invadendo, tanto da farmi piangere. Una pace e un perdono: assolto dagli errori e dagli smarrimenti, tolto il peso del tempo e della vita. Ne piangevo. Lacrime pacate, che trapelavano da sole, fitte, senza singhiozzi, senza dolore, anzi dolci a versarsi, come chi ritrovi la casa della giovinezza. Una pace tale che lo scriverne è tradirla. O dovrei chiamarla sacra, ma chi osa, oggi che a parlare di sacro si passa per sacrestani? Piangevo, sì: piangevo a causa d’uno sguardo. Freddy mi sorvegliava discosto, pronto ad aiutarmi. Non ve ne fu bisogno. Tre giorni dopo avevo perduto tutto, perfino la valigia.
Film n. 21. (Dedicato a Kapila). Un regista mi disse: «Per riprodurre sullo schermo un colpo di cannone, non bisogna riprendere una vera cannonata: sembrerebbe falsa. Si deve invece fabbricare una cannonata cinematografica, l’unica che dà il senso del vero». Infatti il Kapila che appare in queste riprese gli somiglia appena. Dov’è il suo sguardo, dove la sua persona? Solo un grande pittore potrebbe farne il ritratto. Anzi (l’ho scoperto stanotte), anzi un grande pittore già glielo ha fatto, cinque secoli fa, sul finire del 1485, a Firenze. L’asceta bruno che Sandro Botticelli ha dipinto a destra della Madonna de’ Bardi, quello è Kapila. Identico volto, identica magrezza, i capelli, il naso, la barba, perfino il gesto della
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mano, la bocca che sta parlando e sovrattutto lo sguardo, con la sua dolcezza arcana. Alba. Kapila s’è svegliato: sta recandosi sulla riva del Gange per aspettarvi il Sole. Eccolo in primissimo piano: gambe incrociate, immobile, dritto, illuminato dai primi raggi, chiuso in un raccoglimento assoluto. Vedi? Le mosche gli camminano sul viso, sulle nari, sull’angolo degli occhi ed egli non se n’accorge. È lontano, entronauta, fuori dall’attrazione terrestre, a una distanza incalcolabile, verso chissà quale astro, donde riporterà una vibrazione felice. Perciò un suo sguardo può darti la pace. Mezzodì. Kapila mangia, unico pasto quotidiano, due pugni di riso bollito, contenuti in una piccola ciotola di metallo. Oltre alla ciotola, possiede un lungo bambù da pellegrino e il telo ocra che lo copre e che ogni giorno lava. Mangia il riso con le mani, come noi il pane. Sorride, ascolta chi gli sta vicino, scherza con gli scoiattoli, Sono due, li vedi? Piccini, rigati, graziosi. L’India ne è piena: scendono dagli alberi, confidenti, ma non tanto da mettersi a portata di mano. Invece se passa Kapila, gli corrono incontro, gli salgono addosso, ne ha sempre qualcuno sulle spalle. Dicono che ciò avviene da quando fu anacoreta nella giungla. Lo chiamano Kapila degli scoiattoli. Pomeriggio. Kapila circondato dalla gente che gli chiede consigli: chi per la salute dell’anima o del corpo, chi per l’ascesi, chi per l’amore, chi per la famiglia, chi per l’ingiustizia, chi sollecita una benedizione, chi cerca uno sguardo. Le sue sono le risposte del taciturno: brevi. Qualcuno si fa un merito, mettendo nella ciotola i due pugni di riso bollito che il giorno dopo nutriranno l’asceta. Una donna porge un frutto ch’egli darà a un bambino, un’altra un fiore ch’egli porterà ad un tempio. In India l’asceta deve consigliare: è la sua fun-
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zione sociale. Anche da noi, nei secoli che furono cristiani, al tempo degli eremiti.
Film n. 22. È una sequenza confusa, tutta fuori o dentro i treni. Sì, questa è una carrozza indiana di terza classe. Cavalli 8 uomini 40? No: cavalli 8 uomini 100. Al terzo giorno che seguì il mio pianto, Kapila lasciò le gradinate sul Gange, per recarsi alla stazione ferroviaria di Benares. Lo precedeva un vecchio mai visto prima, lo seguivano Raman il bengalese e Freddy. Stavo accanto all’americano ed ero inquieto: - Parte? - Non so. - Tu che fai? - Lo seguo. - Gli debbo parlare. - Vieni. - Dove? Ho tutto all’albergo, la valigia, la cinepresa, gli assegni, il passaporto. Dove andate? Per due giorni avevo cercato di parlare a Kapila, invano. Impossibile al mattino, intento com’era alle ascensioni interiori. Impossibile nel pomeriggio, a causa della gente che aveva intorno: come avrei potuto raccontare in pubblico del suo sguardo, della pace, del mio pianto? Impossibile la sera: Rao veniva a prendermi col triciclo per riportarmi all’albergo, ove finalmente mangiavo. Nel coricarmi, mi ripromettevo di parlare il giorno dopo. Quand’ecco, se n’andava. E non sapevo dove: nelle immensità dell’India. No, dovevo parlargli, assolutamente. Già il treno era entrato sbuffando nella stazione. Freddy si decise
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a interrogare Raman, Raman interrogò il vecchio e questi disse d’aver invitato Kapila ad Agra e mostrò i due biglietti. Freddy e Raman corsero a prendere i loro e io appresso, in coda allo sportello: Freddy, debbo parlargli. Domani vi raggiungo ad Agra con l’aereo. - Domani? Chissà dove saremo. - Che faccio, Freddy? - Ti compro il biglietto. Conosci le terze classi indiane? Lo comprò: arrivati, avremmo telegrafato all’albergo. Mi trascinò al treno, mi spinse dentro una carrozza già colma, dimostrando così la penetrabilità dei corpi. Ma non gli riuscì di salire e scomparve, com’erano scomparsi gli altri. Mi trovai impalato nella calca, premuto da ogni parte, circondato da cento teste in alto e in basso. In alto, sul primo portabagagli, accovacciati, uomini donne bambini; poco sotto, sul secondo portabagagli, rannicchiati, uomini donne bambini; ad altezza normale, in piedi, uomini donne bambini; al livello del ginocchio, seduti sul pavimento, uomini donne bambini; sul pavimento, distesi non so come, uomini donne bambini. E duecento occhi mi stavano fissando.
Film n. 23. (Al Tâj-Mahal di Agra). All’alba arrivai nella città ove un principe ha elevato alla donna amata il più bel monumento del mondo, unendovi lo stupore alla riverenza, la maestà alla grazia, la veglia al sogno. Ero distrutto da dieci ore notturne di terza classe indiana. Ridente, Freddy scese da una carrozza vicina e mi corse incontro: aveva dormito per tutto il viaggio. Si occupò sùbito di me, Ero un rottame: occhi gonfi, bocca amara, barba lunga, crampi allo stomaco,
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budella e vescica straripanti, pruriti dappertutto, gambe anchilosate, piedi gonfi, fame, sete, sonno. Tanto malridotto da non poter aggiungere alle mie pene anche l’ansia per la roba abbandonata a Benares né la paura nel trovarmi lì possessore di poche rupie, d’una camiciola sudicia, d’un calzoncino estivo, di vecchi sandali. Freddy s’occupò subito di me. Nella folla della stazione non vedevo gli altri, ma egli sapeva ove poi trovarli. Mi diede da bere; mi caricò su d’un triciclo, mi portò al fiume davanti alla Cittadella, mi spogliò, mi mise in acqua, m’aiutò a lavarmi, mi distese al sole, poi all’ombra d’un albero, pareva un figlio tant’era soccorrevole, Enea e Anchise. Stentai a ringraziarlo, così subitaneo giunse il sonno. Al risveglio mi ritrovai solo. Le ombre dell’albero s’erano spostate. Me ne stavo immobile a guardare il fluire del fiume. Affamato e senza soldi in mezzo all’India, avrei dovuto essere sgomento e non lo ero. M’invadeva un senso d’irrealtà: il luogo solitario, il grande fiume, la vegetazione esotica, la mole grandiosa della Cittadella, la perfezione immateriale del Tâj-Mahal all’orizzonte, no, tutto ciò non era vero, piuttosto uno scenario e la mia solitudine una parte che stavo recitando. Ma la recitavo male, come un attore che al nuovo colpo di scena sogghigni invece di disperarsi. Anzi mi scappava addirittura da ridere, accidenti quant’è buffa la vita. E poi, più alto, il sentimento d’una protezione, la sicurezza d’un destino che si andava compiendo. Arcangelo, Arcangelo. Ancora guardavo pacato il fluire del fiume, quando giunse Freddy. Aveva sistemato tutto, avrei ritrovato i bagagli a Pondichéry da Alberto, il mio amico italiano. Si riposò un poco, fumando la pipa, poi disse: - Italian, andiamo da Kapila.
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M’alzai, un po’ di torcicollo per aver dormito sulla sabbia: - Dimmi chi è Kapila. Chi fu colui che adesso chiamano Kapila? Che vita, che nome ebbe? Nessuno ne sa niente. Si dice abbia vissuto le quattro età ortodosse dell’indiano. Studente sino a diciott’anni (sanscrito lingua degli Dei, hindi lingua degli uomini e le tre lingue che gli stranieri hanno portato in India: inglese, francese, portoghese); per altri diciotto anni capo di famiglia (moglie, figli, parentele, lavoro); eremita per cinque anni, con la moglie, come la tradizione vuole (capanna nella giungla, ove la donna morì); da allora peregrino senza nome né legami, fuori dall’illusione, ancorato al Supremo, randagio nei venti, ultima tappa. Lo chiamano Kapila degli scoiattoli, maestro tantra. In India la prima saggezza è di non aver biografia. M’incontrai con Kapila verso il tramonto, in un prato accanto al Tâj-Mahal. Freddy s’era dileguato, discreto. Invece restava Raman, che talvolta assumeva la funzione d’interprete e chiosatore. Ma non vi fu bisogno di lui. Il francese di Kapila era armonioso e inconsueto. Arrivato all’incontro con in testa uno sciame d’argomenti a cui dar voce, quando, gli fui davanti mi mancò il coraggio. Non mi sentivo d’infliggergli la mia storia, la storia dei voli, la gente incontrata, l’Arcangelo, il vento che sempre m’ha portato via, spingendomi a Benares, ove ho trovato uno sguardo di pace. Non me la sentivo e tacqui. Forse ascoltò il mio silenzio, certo ne sorrise. Cercava le parole che più mi si addicessero. Uno scoiattolo, scesogli sulla spalla, gli si pose sulla mano, ma il volo d’un falco lo indusse a fuggir via. Sorrise: - Lo scoiattolo non è mai testimone.
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Forse non cercava le parole che mi si addicessero. Forse cercava quella condizione interiore che dà alle parole più della forza di convincere quella d’illuminare. Cominciò: - V’è una favola. Il Supremo foggiò l’uomo con l’argilla e lo mise in piedi, ma cadeva. Ritentò: cadeva. Per sostenerlo, gli andò dentro. Sta dentro: è il testimone. Un altro scoiattolo gli venne vicino ed egli gli porse una mandorla: - Non è mai testimone: è sempre spinto, fame e paura. Ritrovavo la dolcezza dei suoi occhi, più eloquente d’ogni parola. Continuò, lentamente, cercando l’espressione, ripetendosi: - L’uomo vale, quand’è testimone. La virtù? Il restare testimone delle proprie voracità, dei propri spaventi: staccarsene, osservarli, giudicarli, accettarli o respingerli. L’intelligenza? È restare testimone delle proprie idee, dei propri pensieri: staccarsene, osservarli, giudicarli, accettarli o respingerli. Chi si lascia trascinare dalla prima voracità, non ha virtù. Chi si lascia trascinare dalla prima idea, non ha intelligenza. Staccarsi, spogliarsi, indietreggiare, farsi sempre più testimone. Se ti spogli di te, sei uno sguardo. Non capivo bene. Non volevo favole, volevo la ricetta per i miei mali. M’era tornata la voglia di parlare, inquieta: - Egli ci ha foggiato con l’argilla? È una storia poetica, ma a che serve? Se allora era argilla, adesso è diventata granito e mi soffoca. Egli sta dentro? Ma dov’è, dov’è mai, chi l’ha incontrato? Mi guardava fraternamente. Disse soltanto: - Lo incontri arretrando. Egli ti abita in fondo al cuore, incombe sovra il capo. Non è una favola. Apri un varco nell’argilla.
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La sua certezza m’andava persuadendo e insieme m’agitava. Egli ci abita: sta dunque dentro di me? Era un pensiero inquietante ed esultante. M’alzai, m’allontanai per il prato, a grandi passi. L’ospite sconosciuto? Il tramonto tropicale smisurava il cielo. Mi misi a correre, spinto da un fervore ch’era anche spavento. L’infinito, nei miei otto palmi d’argilla? una volta qualcuno m’aveva detto «Chi sceglie l’infinito, dall’infinito è stato scelto». E proprio questo era tremendo.
Film dal n. 24 al 30. (Dal Tâj-Mahal a Mahabalipur). Andammo di tempio in tempio, di treno in treno, di corriera in corriera, dal nord al sud, per duemila chilometri, forse più. Come mi avvenne d’accodarmi a un pellegrinaggio così bizzarro, tortuoso, improvvisato giorno per giorno, faticoso e difficile, sotto il sole dei tropici, fra le miserie e le grandezze dell’India? Come m’avvenne? M’abbandonavo sempre più all’Arcangelo. Questi film mostrano solo i templi. Ne riconosco pochi, degli altri ho dimenticato il nome. Forse non l’ho mai saputo. Eravamo un gruppetto, mai più di sei o sette, dietro a Kapila. Freddy e Raman erano fissi, gli altri mobili: apparivano, disparivano. Parlavo poco. Andavo perdendo l’abitudine di dissiparmi in parole. Tacito fra taciturni, ci capivamo al cenno. Sentivo crescere una forza interiore che solitamente si perde nel discorrere. Mangiavo poco. Gli indiani riso, Freddy e io compravamo in aggiunta qualche frutto e il latte. V’è in noi una sorprendente capacità di ridurre il cibo, in taluni fino ad abolirlo,
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come avvenne a Niccolò della Flue e a Teresa Neuman. La mia dispepsia guarì. Dormivo poco, dove capitava, spesso all’aperto. Presto dimenticai il letto. Freddy m’aveva regalato un materassino da gonfiarsi a fiato e da lavarsi ad acqua. Mi svegliavo spontaneamente all’alba, per non perdere l’aurora che è, col tramonto, un’ora privilegiata. In quei due momenti del giorno, raggiungevo una serenità casta e adamantina. Dopo il crepuscolo, m’accadeva di far tardi, interrogando Raman sull’amore, essenziale per i tantra. Il dialogo si prolungava meditabondo nella notte indiana, che ha le stelle basse, vicine al capo, tangibili. Così m’avvenne d’accodarmi a un pellegrinaggio imprevisto, bizzarro, tortuoso, pieno di fascini e di misteri, pieno di scomodità, sotto i cieli dell’India, misera e grande. Finché non m’ammalai.
Film n. 33. (Dedicato a Raman). Dove sarai adesso Raman, bengalese, peso piuma, che il film mi mostra come ti conobbi, coperto d’un lenzuolo bianco eguale al tuo sorriso? Raman, interprete e chiosatore di Kapila, Raman, da prima personaggio secondario, poi importantissimo. In alcuni momenti dimostravi vent’anni, in altri trenta. Raman mite e segreto, silenzioso, pronto a rispondere, più pronto a tacere, iniziato ad arcani riti, centrati sull’amore. Ma un amore come noi non immaginiamo, tutto chiuso nell’animo, tutto volto al divino: eppure le donne ne avevano sentore. Dove ci fermavamo, Raman era dardeggiato dai lunghi sguardi obliqui delle fanciulle. Non se n’accorgeva.
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Dove sarai adesso, Raman? Forse segui ancora Kapila, forse hai raggiunto l’Himalaya come progettavi, forse la tua cenere è dispersa nel Gange, poiché in India la forma umana dura poco. I nostri dialoghi notturni: verità stupefacenti, misteri arcaici, risalenti all’epoca delle Veneri paleolitiche con le enormi poppe e le matrici evidenti. La potenza virile, avviluppata come serpe attorno alle vertebre sacre. Per i tantra Dio è divinità, femmina. Ecco, guardate questa ripresa. Vedete? È una ragazzina di quindici anni, puntuale ogni giorno dal villaggio a Kapila, per offrirgli i due pugni di riso bollito. La manda certo la madre, dato che l’offrire il cibo a un saggio colma il donatore di meriti. Osservate: riempie la ciotola del maestro ma non la guarda, i suoi occhi sono volti a Raman. Il che è straordinario in un paese come questo, ove mai le donne guardano gli uomini. Vorrei essere giovane come Raman, per poter come lui assoggettare gli impulsi a ciò che più è a loro remoto. Dialoghi notturni. Amore come energia, senza virtù e senza peccati, amore come elettricità capace d’illuminare o d’uccidere, amore privo di carnalità. Per ogni amante sulla terra, l’amore è un rito di parole e di gesti. Non carnale. Anzi, quando il rito sta per toccare il culmine, ogni amante dimentica il corpo e rifugge dai sensi, esige il buio e il silenzio, serra le palpebre, si chiude nell’intimo, varca la mente, si proietta nel nero e lì, in un supremo raccoglimento, esplode la gioia trascendente. Carni, mucose, glandole hanno offerto solo il pretesto e il soccorso per raggiungere la massima concentrazione dello spirito. Così il giaciglio diventa un altare, il luogo un tempio. Se invece gli amanti sono disamorati o distratti o stanchi, se
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l’incontro è solo corporeo e l’animo altrove, allora la sublime concentrazione manca ed essi si rialzano ad atto compiuto, cupi e vergognosi per l’occasione perduta. L’uomo si sente bestiale, la donna meretrice. Per i tantra, l’amore è la conquista d’una potenza sovrannaturale. Osservate quest’altra scena. È la strada d’una cittadina. Ecco il nostro gruppo. Vedete le due ragazze coi sari amaranto e smeraldo? Attenzione: ci sorpassano. Una si volta a guardare Raman, ora si volta l’altra. Poi ridono insieme. È una scena comune a Parigi, inverosimile in India. Raman non se n’accorge, eppure è giovane, al massimo trent’anni. Kapila ne sorride e ricorda il divino Krishna che innamorava di sé le pastorelle. Certo si è che, se le vergini attirano i maschi, i casti attirano le femmine. Dialogo notturno. - Raman, se l’atto d’amore porta al giubilo divino, perché sei casto? - Con l’atto tocchi per un istante il paradiso e poi ricadi. Con l’ascesi conquisti il paradiso e vi vivi continuamente in terra. - Il paradiso in terra? È possibile? - È vero: una gioia continua, intensa, più vera d’ogni vero, meravigliosa, più concreta del corpo, delizia d’ogni delizia, più reale dell’aria, ananda la gioia inesauribile, la gioia perfetta, la gioia. - Raman, t’invidio. - Kapila t’aiuterà a rompere l’argilla, t’aiuterà.
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Film dal n. 37 al 41. (Dedicati a me). Li ha girati Freddy e sono ottimi film, ben superiori ai miei. Belle inquadrature, buoni colore e movimento. Ho perfino supposto che, in passato, Freddy fosse uomo di cinema. No, no, ha detto. Di malavoglia ricorda i tempi trascorsi. Quanto alle sue cicatrici, m’ha accennato a certo guerreggiare nella giungla, non so se di Corea o del Vietnam: e deve alle cicatrici una pensione militare, che in India gli basta a iosa, vivendo come vive da asceta vagabondo. Sono debitore a Freddy anche di questi film, in cui mi vedo. Ma non mi piaccio. La mia forma fisica mi è estranea. In particolar modo la faccia, ma anche il resto. Non mi ci sono mai riconosciuto. In India men che meno, intento com’ero a separarmi da me stesso, arretrando, fino a rompere l’argilla. Si ruppe sul mare, a Mahabalipur, in un giorno d’aprile, un giorno 12. Il film n. 41 arriva sino alla vigilia. Gli altri, dal n. 37, sono tutti preambolo. N. 37. Sto salendo con Kapila su d’una corriera. Gli occidentali hanno torto a rifiutarle: vi si viaggia bene, puntuali, posto assicurato e costano poco. Il mio bagaglio s’è ridotto a una bisaccia: la valigia sta dagli amici di Pondichéry, che mi hanno rispedito denaro, documenti e biglietti. Siedo accanto a Kapila. Dopo il discorso del prato, abbiamo parlato di rado. Qualche mia domanda, brevi suoi suggerimenti. Egli è maestro non per quel che predica (non predica mai), ma per quel che infonde, grazie a un’occulta osmosi degli animi. Mi son accorto che non siamo ostriche chiuse, anzi aperte da tutti i lati, sensibili alle oscillazioni degli altri. La vibrazione di Kapila eleva.
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Nella corriera gli accenno ai miei momenti privilegiati: l’aurora e il tramonto, quando raggiungo una serenità vasta e adamantina. Mi guarda e lo direi compiaciuto. Poi: - Conserva giorno e notte la serenità. - Giorno e notte? Come? - Arretrando. N. 38. Sì, ridicolo abbigliato così. Ma calzoncini e camiciola si sono sbrindellati, la valigia è a Pondichéry, nella bisaccia non ho cambio e nei villaggi che attraversiamo non vendono certo panni occidentali. Impietosito, Freddy m’ha regalato un doti, pezzo di tela in cui gli indiani s’avvolgono con tanta abilità da farne pantaloni e tunica, senza cuciture, bottoni né spilli. Ma a me il doti casca di dosso, rischiando ogni volta di lasciarmi nudo per via. Allora Freddy, la pipa in bocca, taglia il telo, riducendolo a un gonnellino con cintura e a una sciarpa per riparare le spalle e la testa dai solleoni. Ed ecco il risultato. Sono ridicolo, ma ci sto bene e chi mi bada? In India nessun passante si volterebbe a guardare com’è vestito un uomo o com’è nudo. La nudità tropicale non è mai nudismo né spogliarello. «Conserva la serenità giorno e notte». È difficilissimo. Mentre contemplo immobile l’aurora o il tramonto, l’animo mi diventa limpido, liscio e azzurro come un lago di montagna. Non è soltanto un sentimento, tenue: è uno stato dell’animo, solido. Ma appena ho finito, appena mi alzo, lo stato cambia. Parlo con Raman, preparo la bisaccia, guardo la gente per la strada ed eccomi proiettato nell’attività, dimentico che v’è una serenità da conservare, totalmente assorbito dai pensieri comuni e dai gesti abituali. Più tardi, d’improvviso, ricordo: «Conserva la serenità», Ricordo e m’indispettisco con me stesso e con la mia dimenticanza. Ma il dispetto non è serenità e del resto basta un nulla, basta l’acquisto d’un
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frutto, il salire sul treno, il cercare gli altri ed eccomi ricaduto nell’oblio. - Come fare? - Arretra. Questo è il segreto. Occorre arretrare, separarsi dal pensiero comune, dal gesto abituale: guardarli. È un’opera paziente, da orologiaio che osserva con la lente le spirali, gli scatti, l’ingranaggio e pulisce, calibra, registra. Il segreto è arretrate in se stessi, finché s’incontra una vibrazione quasi impercettibile, poi sempre più evidente, una vibrazione silenziosa, separata e calma. Chi vi si àncora, ha la serenità per tutto il giorno. Ma la notte? N. 39. Lo si può credere un film erotico. Freddy, in agguato, m’ha colto ogni volta che stavo presso i bassorilievi del tempio, ove sono riprodotti tutti i gesti, le carezze, le pose, i volti bramosi, i sorrisi rapiti, gli orgasmi. L’amore trasfigura gli amanti e la voluttà fa del corpo un altare. È un tempietto isolato e antico in una pianura bianca, abitato da un sant’uomo, vestito quasi soltanto del suo pelo: ha il voto del silenzio e quindi ci saluta a mani giunte, ci sorride per un poco e poi scompare. Arriva un gruppo di donne dal villaggio vicino: vecchierelle, ragazzine, una malata, una gravida. Entrano nel tempio per venerare il lingam, circondarlo di corone floreali, aspergerlo di polveri colorate, accendere bastoncini d’incenso. I loro gesti sono casti, non sanno cosa sia l’erotico né lo suppongono. Eros è un Dio e l’amore è sacro. Il gruppo femminile s’allontana nella pianura bianca e i sari colorati formano tavolozza. Questa gente non ha il nostro senso del peccato: per loro è inconcepibile lo stato d’inimicizia con Dio. Né ha il nostro gusto per il peccato: il pec-
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cato proprio, così affascinante, e il peccato altrui, che ci consente di sentirci virtuosi e indignati. Per Freddy il peccato è buon umore. Nato e cresciuto presbiteriano, divenuto omicida per obbligo militare, arenato in India chissà come, trova assai divertente cinematografare un cattolico circondato da una statuaria che per gli indiani è sacra, ma per i cristiani oscena. Ecco: guarda qui come m’ha ripreso. Sembro intento a una contemplazione lubrica. Invece penso a tutt’altro, anzi, sono assai scoraggiato. Ho scoperto dentro di me un individuo insospettato, un me stesso piccino e insopportabile. L’ho scoperto per caso. Kapila m’aveva chiamato in disparte per dirmi qualcosa: ero sereno, inserito nella vibrazione che fin dal mattino avevo incontrato arretrando e mi ci ero ancorato. Lasciato il maestro, vidi da lontano Raman che ci guardava, interrogativo. Di colpo mi sentii tronfio: Kapila aveva chiamato me e non loro. Agli angoli della bocca mi s’andava formando un’espressione soddisfatta. Restai allibito a guardarmi dentro e mi dicevo: «Possibile ch’io sia tanto meschino?». Fu la prima scoperta, ne seguirono mille. Quando mangio, ad esempio: se ho due frutti e ne offro uno a un commensale, l’individuo cerca di dargli il peggiore. Quando si parla in gruppo: è difficile trattenerlo, vuol farmi intervenire, dire la mia, esibirmi. Quando compro: egli conta il resto, convinto che tutti sono ladri. Dopo l’incontro con qualcuno: subito m’elargisce lodi, come sono bravo, come sono intelligente, come piaccio. Trovato uno specchio, osa perfino proclamarmi bello, pur ridotto come sono (guardami nel film), magro, cencioso, malconcio. Mentitore imperterrito, ha l’impudenza di dirmi: «Quella bella ragazza non guar-
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da Raman, guarda te». E se il discorso cade sui miei libri, diventa un tacchino e gurguglia di soddisfazione. Ma questo è niente. Iracondo e malvagio. Se mi faccio male urtando uno stinco, vorrebbe mi sfogassi con un calcio su d’un cane di passaggio. Non dirò altro. Ne sono spaventato. Alterna l’avidità al timore e per ogni cosa si domanda: «Mi giova o mi danneggia?». Non v’è viltà che non l’attiri, perversione che non l’accenda. È certo in me da sempre, coabitante, ma ora solo vedo la sua faccia. Kapila m’ascolta sino in fondo, mentre dai bassorilievi gli amanti ci guardano, Poi indica il metodo: - Se lo fissi, gli dai vita. Sta fermo nella serenità e non badargli. Senza la tua forza, avvizzisce e muore. N. 40. Girato dentro il tempio, ai bagliori d’un fuoco, questo film è tutto ombre: si distingue poco o niente. Soltanto per avervi assistito, riconosco il succedersi del culto serpentino. Il protagonista è Raman, nudo, seduto sulle gambe incrociate, il busto dritto, il capo reclinato, lo sguardo fisso alle pareti, gli occhi sulle scene scolpite, a cui egli stesso sembra appartenere, tant’è bronzeo e immobile. Kapila gli è di fronte, nella medesima posa, il corpo più chiaro, dorato, marmo antico, le palpebre chiuse e l’ineffabile sorriso interiore che in Oriente appare sul volti di tutti gli entronauti, gli eroi e gli Dei. In un braciere fiammeggia alto il fuoco sacro. I suoi balenii danno ai due uomini una fissità statuaria, mentre rendono viventi i bassorilievi, ove le figure degli innamorati s’accendono al moto delle fiamme gialle, oscillano al gioco delle ombre, balzano coi riverberi rossi, avanzano, gesticolano: le femmine offrono il seno rotondo, l’anca curva, le cosce emi-
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nenti, le bocche si baciano, le dita carezzano esperte, i maschi si ergono sui lombi, stringono le membra amate accanitamente e migliaia di corpi ritmano fra i guizzi, migliaia d’amanti ondulano vivi sulle pareti. Kapila è la guida tacita, ma Raman è il protagonista, avvolto tutt’intorno dalla scena dionisiaca. Avvolto ma non penetrato. Il suo distacco dall’attrazione terrestre dev’essere tanto, da poter guardare sereno il baccanale. La minima adesione si rivelerebbe, nudo com’è. Invece egli, immobile, va arroventando col fuoco interiore la potenza creatrice (aggrovigliata come serpe intorno al sacro), per dirigerla vertebra a vertebra sino all’epifisi. Un lungo brivido trasale su per la sua schiena. Raman è di pietra, non respira, oltre le stelle. L’eroe casto ha vinto l’orgia terrestre. N. 41. Ultimo film. È l’alba, arriviamo a Mahabalipur, sessanta chilometri da Madràs, oggi, 11 aprile. Luogo celebre, architetture monolitiche, i re Pallava, giganteschi animali in roccia viva, gli eroi dell’epopea di Krishna, insomma un luogo per turisti occidentali museòmani: infatti ve n’è un intero autobus, tedeschi. Oppure un luogo per Kapila, che sa leggere in questi graniti le strofe universali della Bhagavad Gita, che sa trovare in queste caverne la presenza di Sciva. Kapila, sempre così contenuto, s’infervora davanti alla lunga rupe che raffigura Dei, uomini e animali in corsa felice per abbeverarsi al Gange. Mi indica le figure rupestri: - Guarda: tutti questi esseri sono rapiti dal giubilo divino, ananda ananda. Chi l’ha provato, qui lo ritrova, ananda ananda. Mentre mi parla, due tedeschi (archeologi, mineralogisti o chissà che) raccolgono pietruzze, prendono misure delle sta-
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tue, esaminano il granito, ne discutono la composizione, neanche suppongono quel che è palese a Kapila. Chi è intento ai corpi non vede lo spirito, chi allo spirito non vede i corpi. Una civiltà corporea è atea, necessariamente. Mahabalipur monumentale non ha voce per me, resta muta. Forse è perché sono troppo occupato a divenire apprendista entronauta. Mestiere difficile, senza intervalli, giorno e notte. Ho da conservare la vibrazione serena, così facile a perdersi. Ho da parlare con l’Arcangelo. Ho da badare al mio coabitante sotterraneo, limaccioso e malvagio. Ho da conoscere meglio una brezza sottile che scende dall’alto (dalla nuca?), fresca e ossigenante, miracolosa. Ho da chiudermi alle tentazioni visionarie, medianiche, ai limbi, agli inferi che tanto più sprofondano quanto più ti alzi. Ho da conquistare la notte, poiché il sonno è cambiato e talvolta vi tocco una trasparenza in cui la serenità m’è compagna fin al mattino. Poi ho da curare la grande scoperta: io sono un altro. Infine ho da vigilare il fuoco, certi fuochi interiori, ardenti, fiamme talvolta nel cuore, fiamma di devozione e d’abbandono, ancora non so a chi, forse a Dio, se la parola non fosse consunta sprecata venduta, forse alla Madre divina, l’antica, la prima, la paleolitica, l’eterna, sì, cancellarmi, divenire solo un suo strumento. Amico mio, mi credi matto? Per ogni cavernicolo è matto il cosmonauta. Intendiamoci, ormai so bene che le forze spirituali non sono astrazioni consolanti, né effusioni sentimentali, sono realtà possenti, anche terribili. Ma con Kapila mi sento un ragazzo condotto per mano. Questa è la scena finale del film n. 41. Tinte intense. Cielo raggiante, mare turchino, bianco scrosciare dell’onda,
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rena gialla ove camminiamo sprofondando: Kapila (ocra), Raman (bronzo), io (carnicino). Freddy non si vede: gira. Macchie di colore, avanziamo verso il Tempio della Riva. Eccolo. È piccolo, in confronto a certi grattacieli degli Dei. Ma è perfetto come un Partenone, come un Tâj-Mahal, pur diversissimo. I millenni l’hanno colorato di ruggine, le preghiere l’hanno santificato, Iddio l’ha benedetto. Accanto al mare, fuori dal mondo, disabitato, siamo i soli qui intorno, salvo la pace immensa. Gli ultimi fotogrammi: io che mi fermo e ammiro. Qui finisce. Ultimo film, ultima testimonianza. Per tutto quel che segue, ho solo qualche fotografia, gli appunti e la memoria da confidare al dittafono. Mi fermo, ammiro, mi spoglio del telo, mi bagno nel mare: è l’Oceano indiano. Freddy mi imita, gran nuotatore, e s’allontana al largo. Dall’acqua guardo il tempio, vicinissimo, quasi sulla battigia. Ne sento il fascino possente. L’impressione del traguardo: mi fermo qui, sono arrivato. L’impressione che talora danno anche luoghi profani. A me Capri, ad esempio, tanti anni fa, appena sceso dal battello: ecco il luogo ove resterò. Ma ora quest’impressione è ben più forte, non profana estetica panoramica, invece sacra arcana incombente: ecco ove finisce il mio peregrinare. Esco dall’acqua grondante e impulsivo dico a Kapila: - Voglio restare. Consente subito. Arriva Freddy e s’incarica di procurarmi ogni giorno dal villaggio cibo e bevande. Raman m’assicura che verranno a riprendermi fra dieci giorni. M’aspettavo una resistenza: invece, appena toccato, il congegno s’è messo in moto, senza attriti. Ne resto sorpreso e incerto. Mangiamo all’ombra del tempio. Quando il solleone s’attenua, si preparano alla partenza. Sto per rimanere solo. Di
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colpo l’angoscia m’agguanta. Me n’ero tanto liberato, da non ricordarla più. M’avvicino a Kapila: - Tornerai? Non so quale Pizia entro di me vaticina che non lo rivedrò mai più. Inorridisco e sto per prendere la bisaccia, il materassino: non resto, non lo lascio. Il suo sguardo sereno penetra nella mia paura e la calma. Infantilmente mi dichiaro suo creditore: - Devi ancora iniziarmi al rito serpentino. Sorride e nega: - No, non è per te. Per te la potenza non sale dal basso, scende dall’alto. Non temere: ti sarò sempre vicino. Mi lascia con questa parola sibillina. Se ne vanno. Li vedo rimpicciolire in lontananza. Freddy si volta e mi saluta, levando il braccio. Se ne sono andati, sono scomparsi nell’eternità del tempo, nell’immensità dell’India.
Sei un po’ matto, sei proprio un po’ matto. Se questa donna che mi vuol bene potesse dall’Europa vedermi qui, ignudo e solo nella notte, entro la nicchia d’un tempio, accanto alla colonna del lingam, se mi vedesse insonne, gli occhi spalancati sul buio scrosciante dell’oceano, se mi vedesse la faccia emaciata, il corpo ossuto, i piedi piagati, scoppierebbe a piangere, correrebbe a soccorrermi, singhiozzerebbe che sono diventato matto, matto del tutto. Me lo domando anch’io. Fra cielo e mare notturni, dibatto la questione e concludo, ad alta voce: - No. Cos’ho lasciato? Ero un uomo meschino fra avidità e timori, ero un uomo inquieto, scontento della vita, pavido della morte. Cos’ho trovato? Invece dell’inquietudine la
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Pace, invece della paura la serenità, invece del vuoto la ricerca, invece del disgusto la speranza. E ho trovato il divino. Dunque non sono ammattito, anzi sono pratico, concreto, utilitario, pieno di buon senso. Il mare consente, il cielo consente, la notte consente. Mi metto a dormire.
All’alba puntuale mi sveglio. È il 12 aprile. Durante la notte il materassino s’è un po’ afflosciato, ma ho dormito bene. Mi lavo nel mare, torno sulla spiaggia e in piedi aspetto l’aurora. Appare. E insieme, istantaneo, sovra il mio capo un confine si apre, una chiusa si solleva, un argine si rompe e dall’alto impetuosa su di me scroscia la gioia. Cateratta vibrante, mi penetra colma circonda. Mai provata delizia, inebriante fiume rapitore, impeto di grazia, voluttà sfavillante entro i miei pallori. Come posso dirlo e come posso tacerlo? Non reggo in piedi, mi sdraio sulla sabbia, immobile, attonito, ammutolito dal miracolo, incredulo che a me immeritevole sia dato tale prodigio, impossibile e lampante. Chiudo gli occhi e liquefatto m’abbandono alla gioia soverchiante, ananda ananda, m’abbandono alla certezza, finalmente finalmente. Come dirlo e come tacerlo? È una testimonianza.
Durò una settimana, credo, decrescendo. Non contavo i giorni. Di tanto in tanto dal villaggio veniva una ragazza a portarmi cibo e bevanda (Freddy aveva provveduto). Ammutolito com’ero, oblioso, quasi fuori dal corpo, le prime volte
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mi riusciva difficile mangiare e la ragazzina pietosa m’aiutava. Era di pelle scura, liquidi gli occhi e il sorriso pronto. L’esiguità dell’anca la faceva somigliante a un giovanotto. Sovrabbondava in letizia, come tutti gli indiani nell’infanzia e nella fanciullezza. Il mistero dell’India non è la fame, è la gioia. Poi venne col fratello, poi la madre, il padre, la famiglia. Un giorno m’avvidi che mi scambiavano per saggio o santo e mi veneravano. Carestie e stenti hanno loro insegnato a distinguere il trapelare dell’uomo interiore, libero e felice. Perciò accorrono al primo segno. Tentai di dissuaderli e mi venerarono di più. Fuggii la notte stessa. Il mistero dell’India non è la fame, è la gioia. Fuggii diretto a Pondichéry. Dovevo parlare con qualcuno. Stavo rientrando in me, condanna amara. La mente aveva ripreso a discorrere, a ragionare, a rinvenire spiegazioni plausibili, ad ammucchiare tutto entro i suoi limiti. Questo suo esagitarsi m’era assai penoso. A Pondichéry avrei certo trovato chi m’aiutasse a tradurre alla mente l’accaduto e così quietarla. Gli intellettuali hanno il peso dell’ipertrofia mentale, come gli sportivi dell’ipertrofia muscolare. Da Pondichéry sarei tornato al Tempio della Riva, per l’appuntamento con Kapila. Questo il programma: ma le cose andarono per tutt’altro verso. Arrivai a Madràs in corriera, credo. Il ricordo è confuso: avevo già la febbre. Rammento d’essere entrato in un negozio di Madràs per comprare calzoncini e camiciola: indecente arrivare a Pondichéry con il gonnellino confezionato da Freddy e laceratosi proprio sulle natiche. Ricordo anche d’aver preso il treno, ma qui confondo con un sogno: inseguivo il treno senza raggiungerlo a causa del troppi bagagli, finché,
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lasciatili cadere, mi riusciva d’aggrapparmi all’ultima carrozza. Ho sempre mal sopportato la febbre: se supera i trentotto, vaneggio. A Madràs mi rendevo ben conto d’aver bisogno di cure e ciò mi spingeva ancor più verso Pondichéry, ove v’è un nuovissimo ospedale e la clinica delle suore francesi, soprattutto v’è Alberto, gli altri amici e la mia valigia. Insomma, presi il treno ma non arrivai. A mezza strada scesi, abbandonando bisaccia, materassino, passaporto, biglietto aereo, dollari e rupie. Febbre a quaranta. Perché sono sceso? Chissà. Non rammento neanche d’essermi poi sdraiato all’ombra d’un albero, ove alcuni contadini mi trovarono e chiamarono la guardia stradale, quella che sorveglia il trasporto del riso. Ordinò mi ricoverassero in una capanna e lì riaprii gli occhi. Avevo freddo e brividi. Ero sdraiato a terra, su d’una stuoia. Una vecchia mi stava vicino, accoccolata: ne vedevo le mani, logore, la pelle dalla palma dura e sciupata come suola, le dita nodose e secche, arboree, mani solcate da grosse vene in rilievo, povere vene dal sangue stanco, dal sangue freddo ed esse si spingono fuori per scaldarsi al sole. Di quelle ore o giorni ricordo poco o niente, salvo una scena del delirio in cui ridevo tanto: parlavo con Essy del peyote e Maggie dell’onnipotenza, mentre Nala e Poo bambine, ascoltavano gravemente il derviscio che diceva niente insalata senza ascensore e mi spanciavo dal ridere. Riaprii gli occhi e trovai davanti la faccia di Freddy, capelli rossi, efelidi, occhio che ammicca, il buon sorriso, la parola incoraggiante: «Italian, ma che fai?». Ne fui tanto confuso e consolato, da mettermi a piangere, senza poter parlare. Freddy, amico mio, quanto sono stato ingiusto verso di te, quanto in cuore ti ho condannato perché vivevi da girovago
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americano, da ridanciano fumatore di pipa. Una volta, inviperito dal tuo fotografarmi vicino alle statue degli amanti, t’ho perfino chiamato presbiteriano omicida. Americano, amico mio, stupido che sono, non capivo che la tua vita è d’essere soccorsevele e cosi rompere l’argilla. Piangevo senza ritegno, incapace di ringraziarlo, incapace finanche di domandargli come m’aveva trovato. Mi prese in braccio, ripetendo il gesto di Agra, mi sdraiò su d’un carro di buoi, Enea e Anchise, mi trasferì su di un’automobile, mi depose su di un letto dell’ospedale di Pondichéry e già Alberto era stato avvertito e m’aspettava, già il passaporto era stato trovato e il biglietto aereo. Non indugiò. Mi diede in fretta un piccolo Ganesci di bronzo dono di Kapila, mi mise una mano sulla spalla dicendomi: «Italian guarisci presto» e se n’andò, alto e grosso, pieno di naturalezza nel suo perizoma, passando fra i medici in camice bianco. Pur debole tanto da non poter parlare, gustavo la ritrovata mollezza del letto. Grato, sorridevo all’Arcangelo.
Mi curarono benissimo, mi guarirono sùbito, m’ordinarono la convalescenza in Europa. Venne a dirmelo il primario in persona. Non risposi né discussi. Lasciare Kapila? Mai. Tacqui, erano fatti miei e non dei medici. Invitai Alberto a continuare il suo discorso. Gli avevo detto cosa m’aveva spinto verso Pondichéry, rischiando di morire per la strada. Come v’è gente che va a curarsi calcoli o i reumi alle acque termali di luoghi lontanissimi, così ero venuto a Pondichéry, famosa per chiarire al confuso pensiero occidentale la spiritualità positiva dell’Oriente. Bene. M’era capitato questo e quello: che ne dovevo
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pensare? Insomma, volevo una dose di idee da somministrare al mio comprendonio, assuefatto a elucubrare all’europea. Foste mai convalescenti in un aprile un po’ velato? Recitavo versi italiani e le infermiere ridevano. L’aprile indiano è folgorane, ma ero pieno di biancori e la convalescenza m’illanguidiva. Alberto parlava e l’ascoltavo flebilmente. Mi somministrò la dose. Disse della gioia, la trascendente, la trasformante, la suprema, la divina, l’unica e le altre sono tutte imitazioni sbiadite. La gioia che ognuno cerca e finché non la trova, non ha pace. La gioia, diceva e dal tono capivo che la conoscevamo entrambi, fratelli. Gioia inalterabile che il tempo non invecchia, che il corpo non macchia, che ti dà la certezza e ti salva dalla solitudine. La gioia, non in un paradiso postumo ed evanescente, ma qui, su questa terra, adesso, in questo corpo. Eravamo nella corsia: egli parlava in italiano, sottovoce, accanto al mio guanciale e i malati tacevano, quasi capissero. È vero, Alberto, è vero. Diceva: averla conosciuta anche una sola volta, anche un solo momento, ti fa per sempre diverso e non la dimentichi più. Averla perenne in sé trasforma la vita in eden. Questa gioia è il sostrato dell’universo e lo giustifica. Consentivo, la mente placata: è vero, Alberto, è vero. Guarii e debbo una testimonianza all’India: il suo segreto è la gioia. Debbo una testimonianza a chi mi ha aiutato o seguito: il segreto è la gioia. Se il mio nome ti pesa, buttalo e tienti soltanto la canzone.
Mi spinsero a partire, primo fra tutti Alberto. Sei mal ridotto, devi curarti, qui sta per giungere il gran caldo, il mag-
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gio in Europa è bellissimo, chissà dov’è Kapila, non puoi ritrovarlo in questo stato. L’ultima spinta: - Non dimenticare che sei cristiano. - Alberto, che vuoi dire? Sono piuttosto indù. - Non si diventa indù, si nasce. - Alberto, proprio tu? - Non a caso si riceve il battesimo. Il tuo Arcangelo esce dal Vangelo di Maggie. Non avevo voglia di disputare, ero troppo debole. Più che la mia testa, gli davano ragione le mie gambe, flosce. Da Roma mi telegrafavano inviti al ritorno. Kapila aveva detto: «Ti sarò sempre vicino». Portavo con me il suo piccolo Ganesci di bronzo. Dopo ore e ore d’aereo, annunciano che sorvoliamo la Grecia e il Monte Athos.
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