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LETTURE MAGISTRALI
LETTURE MAGISTRALI La terapia cardiovascolare: il punto di vista del cardiologo e dell’Ente di controllo Marco Bobbio, Antonino Previti, Sarah Dogliani. Divisione Universitaria di Cardiologia, Torino
Il cardiologo ha di fronte a sé un paziente e deve decidere se e quali farmaci prescrivere per farlo stare meglio. L’agenzia regolatoria ha di fronte a sé un farmaco e deve decidere se e per quali indicazioni dare l’autorizzazione all’immissione in commercio. Il cardiologo deve coniugare le esigenze di quel singolo paziente con le informazioni che gli derivano dalla letteratura, congressi e informatori farmaceutici. L’agenzia regolatoria deve coniugare le esigenze di bilancio con i dati ricavati da un dossier di ricerche cliniche. Il cardiologo interpreta le ricerche per capire se quel farmaco è adatto a quel paziente. L’agenzia regolatoria interpreta le ricerche per capire se quel farmaco rappresenta un’esigenza per la salute pubblica. Entrambi adottano l’Evidence-based Medicine come solido punto di riferimento per assumere decisioni documentate e aggiornate e per raggiungere i propri obiettivi primari di curare un paziente e di garantire un prontuario completo e gratuito. Nonostante che il punto di partenza scientifico sia identico, la prospettiva è diversa e si possono verificare dissonanti interpretazioni dello stesso risultato di una ricerca clinica. Il solito divario tra il mondo della scienza e il mondo delle regole. Gran parte dei conflitti che contrappongono medici e agenzia regolatoria deriva dalla peculiarità del sistema economico che regola ogni SSN: chi prescrive non consuma, chi consuma non paga e chi paga non prescrive. Pertanto ogni Stato, in cui vige un sistema sanitario, predispone meccanismi economici che consentano di contenere la spesa indotta da chi prescrive e consuma senza dover fare i conti con i limiti di spesa. Lo Stato deve perciò introdurre delle norme per regolare la spesa ed evitare che diventi incontrollabile; in altre parole deve coniugare la completezza del prontuario (garantendo la gratuità dei prodotti essenziali) con l’economicità della gestione. Nei Paesi della Comunità Europea i farmaci possono essere approvati tramite procedura nazionale (l’azienda chiede all’agenzia regolatoria che un farmaco venga autorizzato all’immissione in commercio in quello Stato), procedura di mutuo riconoscimento (l’azienda chiede che un farmaco, già approvato in uno Stato della Comunità, venga approvato anche in altri, facendo riferimento alla documentazione depositata nel primo) o procedura centralizzata (l’azienda chiede all’organismo regolatorio della Comunità Europea – il CPMP – di approvare un farmaco per
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tutti gli Stati membri). In Italia tutti i farmaci che presentano un adeguato profilo di sicurezza e di efficacia vengono autorizzati all’immissione in commercio, in modo che medici e pazienti possano disporre di tutti i presidi terapeutici efficaci, ma alcuni con un basso profilo di efficacia o alcune indicazioni di uno stesso farmaco non adeguatamente documentate non vengono rimborsate dal SSN. Ciò genera un profondo malessere fra i medici che trovano disponibile un farmaco, ma non possono prescriverlo gratuitamente e si chiedono il perché un’indicazione terapeutica venga approvata e poi non rimborsata. Vediamo le ragioni dell’agenzia regolatoria con un esempio. La prescrizione delle statine La salute non ha prezzo? Per il SSN la salute dei cittadini ha un prezzo molto preciso, che si aggira intorno a 1.9 milioni pro capite all’anno. Il parlamento, con la legge finanziaria che viene approvata alla fine di ogni anno, ha fissato negli ultimi esercizi finanziari il tetto massimo che può essere speso per i farmaci (circa 12 000 miliardi). Risulta pertanto evidente che se si concede la rimborsabilità per un trattamento non ci saranno i soldi per curare altre malattie. Quest’anno infatti sono stati introdotti in regime di rimborsabilità i bifosfonati, gli antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, completando il prontuario con farmaci indicati per l’osteoporosi e la depressione, due categorie di malattie finora non adeguatamente coperte dal prontuario, ed è stata approvata la rimborsabilità della ribaverina per il trattamento dell’epatite virale B. Il SSN, nell’ambito di tutto il prontuario farmacologico, deve pertanto scegliere a quali farmaci e a quali indicazioni concedere la rimborsabilità. La recente approvazione dell’estensione dell’indicazione della pravastatina per la prevenzione primaria dell’ipercolesterolemia, senza che sia stato concesso il regime di rimborsabilità per tale indicazione, può essere assunto come un tipico esempio di una differenza tra le indicazioni approvate e quelle rimborsate. Sulla base dei risultati dello studio WOSCOPS 1 è stata approvata dalla CUF la seguente estensione dell’indicazione della pravastatina: “Prevenzione della malattia coronarica in soggetti di sesso maschile senza storia di infarto miocardico, in cui persista una condizione di ipercolesterolemia nonostante dieta ipocolesterolemizzante”. In tale ricerca erano stati seguiti 6595 pazienti di sesso maschile tra i 45 e i 65 anni con valori medi di colesterolo LDL maggiore di 155 mg/dl dopo un rigoroso trattamento con dieta ipolipemizzante; i pazienti erano stati trattati in condizione di doppia cecità (40 mg di pravastatina versus placebo) per quasi 5 anni. I principali eventi misurati sono stati l’infarto miocardico acuto non fatale, la morte cardiaca, la mortalità totale, gli interventi di bypass aortocoronarico e di angioplastica coronaria transluminale. I dati sono ripostati nella tabella I.
LETTURE MAGISTRALI
TABELLA I – Risultati dello studio WOSCOPS End-point
IMA non fatale Mortalità totale CABG + PTCA
Placebo
Pravastatina
RRR
ARR
NNT
NNT/1 anno
Costo
6.5% 4.1% 2.5%
4.6% 3.2% 1.7%
31% 22% 32%
1.9% 0.9% 0.8%
53 111 125
260 544 613
511 036 500 1 069 245 600 1 204 866 825
La tabella I riporta nella 2ª e 3ª colonna i risultati ottenuti alla fine della ricerca nei pazienti trattati con placebo e in quelli trattati con pravastatina. Nella 4ª colonna è riportata la riduzione del rischio relativo (RRR = relative risk reduction), che indica la percentuale di riduzione di ciascun end-point rispetto al gruppo di controllo. Nel caso specifico, i pazienti trattati con pravastatina hanno un rischio di avere un infarto non fatale del 31% in meno rispetto a quelli trattati con placebo. Nella 5ª colonna è riportata la riduzione assoluta del rischio (ARR = absolute risk reduction), che indica la differenza tra la percentuale di eventi riscontrata nei due gruppi. Nel caso specifico, ogni 100 pazienti trattati con pravastatina si sono verificati 1.9 infarti non fatali in meno rispetto ai pazienti trattati con placebo. Nella 6ª colonna è riportato il numero di pazienti che è necessario trattare per evitare un evento (NNT = number needed to treat), che indica quanti pazienti bisogna trattare per evitare un evento. Nel caso specifico, bisogna trattare 53 pazienti per 4.9 anni (ovvero 260 per un anno, come si legge nella colonna 7) per evitare un infarto miocardico non fatale. Moltiplicando infine il costo del trattamento giornaliero dei 40 mg di pravastatina utilizzati nello studio WOSCOPS per l’NNT/1 anno, si ottiene (colonna 8) che il costo per evitare un infarto è superiore a 500 milioni, per evitare un decesso superiore a un miliardo e per evitare un intervento di rivascolarizzazione di 1.2 miliardi. Se confrontiamo questi dati con quelli ottenuti da altre ricerche di prevenzione secondaria con statine (Tab. II), si può osservare che la prevenzio-
ne di un decesso in 1 anno in soggetti che abbiano già avuto un infarto (prevenzione secondaria) costa 246 milioni con la simvastatina e 386 milioni con la pravastatina, mentre in soggetti senza storia di malattia coronarica (prevenzione primaria) 1069 milioni. Analogamente, evitare un intervento di rivascolarizzazione costa in prevenzione secondaria 141 milioni con la simvastatina e tra 208 e 443 milioni con la pravastatina, mentre in prevenzione primaria costa 1204. La scelta assunta dalla Commissione Unica del Farmaco non è però perenne né immodificabile; nuove evidenze dalla letteratura e nuovi scenari economici potranno fare aggiornare le attuali disposizioni. In questo ultimo anno si è infatti assistito a un progressivo aggiornamento delle note, all’estensione delle indicazioni di molti farmaci e all’immissione in commercio di nuovi prodotti. Avendo come riferimento l’EBM e il sostegno scientifico delle società professionali è infatti possibile migliorare in continuazione il prontuario terapeutico nazionale e il regime di rimborsabilità. I farmaci cardiovascolari I cardiologi comunque non possono lamentarsi: solo 4 note limitano le loro potenzialità di prescrivere farmaci rimbosabili: la nota 8 che limita la prescrizione della carnitina ai pazienti con carenze primarie, la nota 9 che limita la prescrizione della ticlopidina ai pazienti che hanno impiantato uno stent coronarico o non tollerano l’aci-
TABELLA II – Confronto tra i risultati delle ricerche di prevenzione secondaria con statine Ricerca end-point
4S Mortalità totale CABG + PTCA CARE CABG + PTCA LIPID Mortalità totale CABG + PTCA
Placebo
11.5% 17.2% 18.8% 14.1% 15.7%
Farmaco
Simvastatina 8.2% 11.3% Pravastatina 14.1% Pravastatina 11.0% 13.0%
NNT
NNT/1 anno
Costo
30 17
164 92
246 383 000 141 036 000
21
106
208 926 000
32 37
196 225
386 316 000 443 475 000
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TABELLA III – Dati di spesa nel 1997 e nel 1998 e proiezione della spesa per il 1999, dei primi 10 principi attivi per fatturato registrato nel 1998, in ordine decrescente Principio attivo
Ranitidina Amlodipina Omeprazolo Enalapril Nimesulide Nitroglicerina Ceftriaxone Claritromicina Enalapril+idroclorotiazide Eritropoietina
Spesa lorda in milioni di lire 1997 1998
434 286 369 269 366 527 347 978 290 951 310 588 293 825 213 088 230 936 180 816
409 355 390 484 382 176 372 865 348 873 334 191 282 432 276 004 239 845 228 159
do acetilsalicilico e le note 13 e 14 che limitano la prescrizione di farmaci ipolipemizzanti alle iperlipemie familiari e alla prevenzione secondaria. I gastroenterologi devono tener conto di 9 note, gli oncologi di 7. D’altra parte per il trattamento dell’ipertensione, i cardiologi dispongono, a completo carico del SSN, di 12 diuretici (con 47 confezioni in commercio), di 11 antipertensivi (con 37 confezioni in commercio), di 16 beta-bloccanti (con 42 confezioni in commercio) di 14 ACE-inibitori (con 59 confezioni in commercio), di 15 calcio-antagonisti (con 134 confezioni in commercio), di 4 antagonisti dell’angiotensina II (con 15 confezioni in commercio e di 37 associazioni fisse (con 74 confezioni in commercio): possono quindi liberamente scegliere tra 123 principî attivi e 398 confezioni. Non a caso i farmaci cardiovascolari sono quelli che contribuiscono maggiormente alla spesa farmaceutica dei prodotti di classe A e B. Nel 1998 per i farmaci cardiovascolari sono stati spesi 4972 miliardi (pari al 28% della spesa farmaceutica), seguiti dagli antimicrobici (3840 miliardi); per i farmaci dell’apparato gastrointestinale sono stati spesi 2280 miliardi e per tutto il sistema nervoso 572 miliardi. Nel primo trimestre del 1999, rispetto allo stesso periodo del 1998, si è registrato un aumento della spesa per farmaci cardiovascolari del 13% rispetto a un aumento del 4.4% per i farmaci dell’apparato gastroenterico, del 9% per gli antibiotici e del 22% per i farmaci del sistema nervoso. Anche per quanto riguarda i singoli principi attivi si ricava (Tab. III) che tra i 10 prodotti più venduti l’anno scorso, 4 sono di interesse cardiologico (amlodipina con una spesa di 390 miliardi, enalapril con 372 miliardi, nitroglicerina con 334 miliardi ed enalapril + idroclorotiazide con 339 miliardi). Questi farmaci hanno mantenuto grosso modo la posizione in graduatoria tenuta l’anno precedente, con un aumento varia-
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Stima spesa in milioni di lire 1999
Variazione % 1998/1997
Variazione % 1999/1998
358 029 455 077 446 408 398 952 425 165 352 319 271 812 347 941 254 735 250 367
–5.7 +5.7 +4.3 +7.2 +19.9 +7.6 –3.9 +29.5 +3.9 +26.2
–12.5 +16.5 +16.8 +7.0 +21.8 +5.4 –3.9 +26.1 +6.21 +9.3
bile di spesa tra il 3 e l’8%. Se prendiamo in considerazione 100 principi attivi più venduti nel 1998, troviamo 31 prodotti cardiologici, pari quindi a un terzo circa dei prodotti con maggior fatturato. In particolare troviamo 10 ACE-inibitori, 7 calcio-antagonisti, 3 statine, 2 anti-ipertensivi, 2 beta-bloccanti, 2 nitroglicerine, 2 antagonisti dell’angiotensina II, 1 anti-aggregante, 1 anti-aritmico e 1 digitalico. Tra il 1997 e il 1998 sono entrati nella graduatoria dei primi 100 farmaci più venduti il losartan associato a diuretico e il carvedilolo; tra il 1998 e il 1999 la lercanidipina, l’irbesartan e il candesartan, mentre è uscito soltanto il propafenone. Tutti i farmaci cardiologici hanno ottenuto un incremento di fatturato, rispetto al 1997, tranne il fosinopril, la clonidina e il captopril. La proiezione di dati di vendita per il 1999 fanno ritenere che quest’anno il farmaco con maggior fatturato sarà l’amlodipina. In passato si è assistito a una grave frattura tra l’agenzia regolatoria e i medici, che non sempre hanno compreso le delicate e difficili scelte che devono esser assunte per mantenere la spesa farmaceutica entro i limiti imposti dal Parlamento. Ora che si è usciti dall’emergenza è invece possibile instaurare un dialogo con i medici che consenta alla CUF di fornire il prontuario più efficace per i cittadini assistiti dal SSN.
Bibliografia 1. SHEPHERD J, COBBE SM, FORD I, ET AL: Prevention of coronary heart disease with pravastatin in men with hypercholesterolemia. N Engl J Med 1995; 333: 1301-1307.
LETTURE MAGISTRALI
La trombolisi nell’anno 2000 Luigi Oltrona Visconti, Matteo Carlà, Antonio Pezzano. Dipartimento Cardiologico De Gasperis, Ospedale Niguarda, Milano
La trombolisi è attualmente il più potente strumento a disposizione del cardiologo per curare i pazienti con infarto miocardico. I dati a favore dell’efficacia di questo trattamento farmacologico nel ridurre la mortalità della fase acuta dell’infarto miocardico sono eloquenti e derivano da un grande numero di studi randomizzati che hanno arruolato a tutt’oggi più di 200 000 pazienti 1-3. Tutte le linee guida pubblicate sull’argomento indicano chiaramente che, in assenza di controindicazioni, un farmaco trombolitico deve essere somministrato ai pazienti che presentano all’elettrocardiogramma un significativo sopraslivellamento del tratto ST o un blocco di branca sinistra entro 12 ore dalla comparsa dei sintomi 4. Tuttavia la trombolisi in realtà viene utilizzata in una minoranza di pazienti che si presentano negli Ospedali per un episodio coronarico acuto: rientrano nei criteri citati infatti meno del 50% di questi pazienti; inoltre, una percentuale di essi stimata tra il 7 e il 10% presenta controindicazioni. Dagli studi clinici emerge chiaramente come uno dei principali elementi del successo di questa terapia consista nella precocità della sua applicazione rispetto all’insorgenza dei sintomi: per ogni ora di ritardo nel somministrare il farmaco fibrinolitico 1.6 vite umane vengono perse ogni 1000 pazienti trattati 3. L’ulteriore ritardo che si può avere nell’iniziare il farmaco una volta posta la diagnosi è un altro fattore suscettibille di correzione con opportuni interventi di tipo culturale ed organizzativo: nel GUSTO III, che probabilmente rappresenta una situazione ottimale rispetto al mondo reale, il tempo trascorso tra l’ingresso del paziente in Ospedale e l’inizio della somministrazione del farmaco era di ben 54 minuti 5. Tra tutte le analisi effettuate sull’efficacia della fibrinolisi negli innumerevoli sottogruppi di pazienti, la questione che riguarda l’utilità o meno di trattare i pazienti anziani rimane ancora aperta. La popolazione di età ≥ 75 anni è infatti nettamente più esposta al rischio di morire rispetto ai più giovani; tuttavia la dubbia dimostrazione dell’efficacia della trombolisi in questi pazienti, unita alla più elevata prevalenza di controindicazioni, fa sì che essi, rispetto a quelli di età > 75 anni, abbiano probabilità sei volte inferiori di ricevere la fibrinolisi 6. L’evoluzione delle conoscenze farmacologiche e cliniche ha messo in luce negli anni i limiti dei farmaci fibrinolitici. Si è osservato infatti che, se sottoposto ad esame angiografico precoce, solamente circa il 50% dei pazienti trattati con trombolisi mostra una completa ricanalizzazione del vaso coronarico colpito da infarto 7; inoltre, dai dati angiografici dello studio GUSTO I, risulta che 90 minuti dopo l’inizio della trombolisi la presenza di flusso coronarico nor-
male nel vaso sede dell’infarto (flusso TIMI-3) si associa a mortalità a 30 giorni significativamente ridotta rispetto alla presenza di insoddisfacente ricanalizzazione coronarica (flusso TIMI 0-2) 8. Un altro limite importante della trombolisi è rappresentato dall’incidenza relativamente elevata di accidenti cerebrovascolari e di sanguinamenti quale principale effetto collaterale della terapia. Dai dati aggregati dei principali studi risulta che la trombolisi contribuisce ad aumentare dello 0.4-0.8% i casi di ictus. Inoltre nel 5% dei pazienti trattati sono necessarie trasfusioni di sangue. Nella pratica clinica finora solamente la valutazione del rischio-beneficio nel paziente con potenziali controindicazioni al trattamento e l’attenzione nell’utilizzare correttamente l’eparina quale farmaco antitrombotico associato permettono di limitare parzialmente questo grave effetto indesiderato. Un terzo elemento che limita l’efficacia della trombolisi è la sua capacità di produrre un effetto protrombotico paradosso. Le cause di questo fenomeno sono complesse e vedono responsabile in primo piano l’attivazione paradossa del sistema emocoagulativo 9. Il rapido sviluppo di nuovi farmaci antitrombotici da associare ai fibrinolitici ha come obiettivo l’inibizione di questo dannoso meccanismo intrinseco alla trombolisi stessa. È principalmente con l’intento di superare questi limiti che molti sforzi sono stati compiuti nella ricerca di nuove molecole, con il risultato di ampliare e migliorare la farmacopea di trombolitici a disposizione del cardiologo: inizialmente infatti, negli anni ’80, la streptochinasi era stata il primo farmaco capace di ridurre la mortalità dell’infarto acuto 1. La seconda generazione di trombolitici, quali l’attivatore ricombinante del plasminogeno, è stata sviluppata in quanto possedeva, rispetto alla prima, principalmente maggiore specificità per la fibrina; questa caratteristica determina sia minore lisi della plasmina circolante con conseguenti minori effetti sistemici, sia soprattutto maggiore potenza fibrinolitica. Questi presupposti teorici si sono tradotti, all’angiografia effettuata precocemente, in un chiaro vantaggio dell’alteplase, nei confronti della streptochinasi, nel ricanalizzare il vaso coronarico 7. Il confronto in termini di efficacia tra alteplase e streptochinasi ha generato un grande dibattito per i risultati apparentemente contraddittori di alcuni grandi trial di mortalità. I risultati dello studio GUSTO evidenziano comunque una riduzione della mortalità a 30 giorni, peraltro minore di quella attesa, dell’alteplase rispetto alla streptochinasi 10. La terza generazione di trombolitici è il prodotto di mutazioni genetiche effettuate per ottenere una o più di queste caratteristiche: emivita prolungata (consentendo così la somministrazione in bolo), più spiccata fibrinospecificità, resistenza agli inibitori naturali. I farmaci sviluppati più rapidamente e per questo già in commercio o di prossima uscita sono i mutanti dell’originale attivatore del plasminogeno. Uno di questi, il reteplase, rispetto al progenitore alteplase, ha subito la delezione di tre dominî della catena dell’attivatore del plasmiG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
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nogeno: il risultato è stato un aumento della sua clearance con conseguente emivita prolungata, rispetto all’alteplase, ma minor fibrinospecificità. Il reteplase, che può essere somministrato in doppio bolo, in uno studio angiografico è risultato superiore all’alteplase in termini di piena ricanalizzazione raggiunta a 90 minuti 11; in studi di equivalenza che hanno indagato il suo effetto sulla mortalità, esso ha dimostrato, rispetto alla streptochinasi 12 e all’alteplase 5, un beneficio sostanzialmente sovrapponibile. Il lanoteplase, che rispetto all’alteplase ha subito solamente la sostituzione di un aminoacido della catena, possiede un’emivita prolungata che permette la sua somministrazione in singolo bolo, ma scarsa fibrinospecificità. Il successo dimostrato in termini angiografici 13 potrà essere esteso o meno alla pratica clinica quando i risultati di un grande trial di mortalità (INTIME-2) verranno pubblicati. Il tenecteplase (TNK t-PA) è il prodotto, rispetto ai due farmaci precedenti, di una più complessa manipolazione genetica con la sostituzione di aminoacidi in tre diversi punti chiavi della catena; i risultati sono: elevata fibrinospecificità, resistenza all’inattivazione dell’inibitore 1 del plasminogeno, lunga emivita. Dopo l’osservazione della sua efficacia in termini angiografici 14 e di sicurezza 15, il TNK è stato confrontato all’alteplase in un trial di fase III di grandi dimensioni 16. L’equivalente bassa incidenza di decessi (6.18 vs 6.15%) e di episodi cerebrovascolari nei 16 949 pazienti studiati fanno concludere per la sostanziale equivalenza tra i due farmaci. Inoltre l’ASSENT-2 ha dimostrato la significativa minore incidenza, a favore del TNK, di sanguinamenti non cerebrali e di necessità di trasfusioni. Di fronte ai risultati di questi trial clinici si può affermare che, per l’efficacia e la sicurezza di questi nuovi farmaci che in alcuni casi possono essere somministrati addirittura in singolo bolo rapido, nel 2000 la trombolisi sarà un provvedimento farmacologico estremamente agevole da praticare. In considerazione dei limiti della fibrinolisi costituiti dall’aumento dell’incidenza di accidenti cerebrovascolari e dalla necessità, peraltro discussa, di utilizzare eparina come farmaco antitrombotico concomitante, un nuovo approccio alla riperfusione coronarica è emerso negli ultimi tempi: per limitare il rischio emorragico dosi ridotte di trombolitico sono state sperimentate in combinazione con un potente inibitore delle piastrine, quale un antagonista GPIIb/IIIa. I risultati dello studio TIMI 14 dimostrano come l’associazione di una dose dimezzata di alteplase con dosi piene di abciximab ottengano eccellenti percentuali di ricanalizzazione coronarica a 90 minuti, con buona tolleranza al trattamento e incidenza accettabile di sanguinamenti maggiori, grazie anche alle ridotte dosi di eparina 17. Nello stesso studio invece la combinazione di streptochinasi e abciximab ha ottenuto un modesto beneficio in termini di ricanalizzazione coronarica ma ha soprattutto comportato un’inaccettabile aumento di incidenza di gravi sanguinamenti. Altrettanto interessante secondo i risultati angiografici sembra essere l’asG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
sociazione con abciximab di dosi dimezzate di reteplase, come emerge dallo studio angiografico SPEED. Solamente i trial di mortalità condotti su un grande numero di pazienti potranno confermare se queste associazioni farmacologiche saranno vantaggiose nella pratica clinica in quanto consentiranno, nonostante che i dosaggi dei trombolitici siano ridotti, di mantenere inalterato o vedere addirittura aumentato l’effetto fibrinolitico e di ridurre contemporaneamente l’incidenza di sanguinamenti. Bibliografia 1. GRUPPO ITALIANO PER LO STUDIO DELLA STREPTOCHINASI NELL’INFARTO MIOCARDICO (GISSI): Effectiveness of intravenous thrombolytic treatment in acute myocardial infarction. Lancet 1986; 1: 397-401. 2. ISIS-2 (SECOND INTERNATIONAL STUDY OF INFARCT SURVIVAL) COLLABORATIVE GROUP: Randomised trial of intravenous streptokinase, oral aspirin, both or neither among 17187 cases of suspected acute myocardial infarction. ISIS-2. Lancet 1988; ii: 349-360. 3. FIBRINOLYTIC THERAPY TRIALISTS’ (FTT) COLLABORATIVE GROUP: Indications for fibrinolytic therapy in suspected myocardial infarction: collaborative overview of early mortality and major morbidity results from all randomized trials of more than 1000 patients. Lancet 1994; 343: 311-322. 4. RYAN TJ, ANTMAN EM, BROOKS NH, ET AL: 1999 update: ACC/AHA Guidelines for the management of patients with acute myocardial infarction: executive summary and recommendations. A report of the American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. Circulation 1999; 100: 1016-1030. 5. THE GLOBAL USE OF STRATEGIES TO OPEN OCCLUDED CORONARY ARTERIES (GUSTO III) INVESTIGATORS: A comparison of reteplase with alteplase for acute myocardial infarction. N Engl J Med 1997; 337: 1118-1123. 6. WEAVER WD, LITWIN PE, MARTIN JS, ET AL: Effect of age on use of thrombolytic therapy and mortality in acute myocardial infarction. J Am Coll Cardiol 1991; 18: 657-662. 7. THE GUSTO ANGIOGRAPHIC INVESTIGATORS: The effects of tissue plasminogen activator, streptokinase, or both on coronary-artery patency, ventricular function, and survival after acute myocardial infarction. N Engl J Med 1993; 329: 1615-1622. 8. SIMES RJ, TOPOL EJ, HOLMES DR, ET AL: Link between the angiographic substudy and mortality outcomes in a large randomized trial of myocardial perfusion: importance of early and complete infarct artery reperfusion. Circulation 1995; 91: 1923-1928. 9. MERLINI PA, BAUER K, OLTRONA L, ET AL: Thrombin generation and activity during thrombolysis and con-
LETTURE MAGISTRALI
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Lotta alla morte improvvisa in Italia: cosa si può e cosa si deve fare Mario Mariani, Maria Grazia Bongiorni, Giuseppe Arena. Dipartimento Cardio-Toracico, Università di Pisa, Azienda Ospedaliera Pisana
Definizione ed epidemiologia Per morte cardiaca improvvisa (MCI) si intende la morte naturale dovuta a cause cardiache, entro un’ora dall’inizio dei sintomi acuti, in soggetti con o senza preesistenti
malattie cardiache note in cui il momento e le circostanze della morte sono inaspettate. I dati sull’incidenza della MCI presenti nella letteratura sono difficilmente confrontabili a causa delle differenze metodologiche tra i vari studi, soprattutto in relazione alla definizione temporale di MCI, al tipo di popolazione esaminata e alla modalità di raccolta dei dati. Negli Stati Uniti, dove sono stati eseguiti gli studi epidemiologici più ampi 1, si stima un’incidenza tra la popolazione adulta di 0.1-0.2% pari a circa 300 000-400 000 individui per anno 2. In Italia i primi dati epidemiologici sulla MCI, definita peraltro come decesso entro le 24 ore dall’esordio dei sintomi, derivano dalla sezione italiana del Seven Countries Study 3 e si riferiscono ai maschi dai 40 ai 50 anni che presentavano un’incidenza dell’1.2 per mille per anno. Dati più recenti derivano dalle aree italiane del progetto MONICA-OMS; in particolare in Friuli, nel quinquennio 1984-88, la MCI entro un’ora ha presentato un’incidenza media paragonabile a quella dello stesso periodo degli Stati Uniti 4. Le MCI rappresentavano il 7% della mortalità totale, il 62% avveniva entro 5 minuti, il 90% in sede extraospedaliera; esse costituivano il 32% delle morti cardiache ed in particolare il 45% delle morti per cardiopatia ischemica. Eziopatogenesi Al riscontro autoptico, circa l’80% dei pazienti deceduti per MCI presentano una patologia coronarica aterosclerotica, mentre altre patologie coronariche non aterosclerotiche (arteriti, dissezioni, anomalie coronariche congenite, ecc.) sono responsabili di MCI solo in un numero esiguo di casi. Nei pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco, lesioni coronariche stenosanti significative (> 75% del lume) sono presenti tra il 40 e l’86% dei casi; inoltre indipendentemente dall’evidenza clinica di infarto miocardico acuto, lo studio autoptico dimostra la presenza di un trombo coronarico recente occlusivo fino al 64% delle vittime di MCI 5. Le cardiomiopatie rappresentano in percentuale la seconda causa più importante di MCI. La cardiomiopatia ipertrofica (HCM) ha una prevalenza di circa 2 per mille giovani adulti e presenta un’incidenza di MCI di 2-4% per anno negli adulti e di 4-6% nei bambini ed adolescenti 6. Particolari sottogruppi di pazienti affetti da HCM sembrano essere a maggior rischio di MCI: precedente arresto cardiaco o tachicardia ventricolare sostenuta, familiarità per MCI, sincope ricorrente, frequenti episodi di tachicardia ventricolare non sostenuta, ipertrofia ventricolare massiva. La cardiomiopatia dilatativa idiopatica (IDC) è il substrato di circa il 10% delle MCI nella popolazione adulta. In una raccolta di 14 studi includenti 1432 pazienti, la mortalità media ad un follow-up di 4 anni è stata del 42%, di cui il 28% è stata classificata come improvvisa 7. La presenza di frequenti episodi di tachicardia ventricolare non sostenuta identifica un sottogruppo di pazienti a rischio elevato così come l’insorG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
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genza spontanea e l’inducibilità di tachicardia ventricolare da rientro branca-branca. In pazienti con funzione ventricolare particolarmente compromessa l’evento terminale è con una certa frequenza causato da asistolia o dissociazione elettromeccanica. La displasia aritmogena del ventricolo destro è una particolare forma di cardiomiopatia responsabile di MCI in pazienti giovani con un difetto genetico recentemente localizzato sul cromosoma 1 e 14 q23-q24 8. Caratteristicamente lo sforzo fisico o mentale può indurre aritmie ventricolari maligne in questi pazienti, con un’incidenza annuale di MCI stimata intorno al 2%. Tra le valvulopatie con un certo rischio di MCI vanno menzionate la stenosi aortica ed il prolasso valvolare mitralico. La relazione causale tra quest’ultimo e la MCI è ancora un problema irrisolto; infatti l’alta prevalenza di tale anomalia (peraltro variabile in dipendenza dei criteri adottati) nella popolazione generale potrebbe renderla un reperto occasionale nei pazienti deceduti di MCI senza alcun rapporto causale. Tuttavia sembra appurato che in presenza di insufficienza mitralica, disfunzione ventricolare o degenerazione mixomatosa della valvola, il rischio di MCI aumenta. Anche alcune cardiopatie congenite sono associate ad un significativo aumento del rischio di MCI, in particolare la tetralogia di Fallot, la trasposizione dei grossi vasi, la stenosi aortica e l’ostruzione vascolare polmonare. Una particolare menzione merita un gruppo di patologie caratterizzate da anomalie elettrofisiologiche primitive in apparente assenza di cardiopatie strutturali, associate ad un discreto rischio di MCI. Di esse fanno parte le sindromi del QT lungo congenite ed acquisite, la sindrome di Wolff-Parkinson-White, diverse forme di tachicardia ventricolare idiopatica, la fibrillazione ventricolare idiopatica, la sindrome di Brugada (recente entità caratterizzata da blocco di branca destra, sopraslivellamento del tratto ST sulle derivazioni precordiali destre, elevato rischio di aritmie ventricolari maligne), il blocco atrioventricolare congenito, le patologie degenerative del miocardio specifico quali la malattia di Lev-Lenegre.
La MCI può infine essere causata da patologie che comportano grave compromissione emodinamica quali: la stenosi aortica serrata, il mixoma atriale, l’embolia polmonare, la rottura di cuore traumatica o post-infartuale, la dissezione aortica, le manovre invasive (cateterismo cardiaco, studio elettrofisiologico, pericardiocentesi, ecc.). Fisiopatologia La maggioranza delle MCI ha una causa aritmica. In uno storico lavoro Bayes de Luna et al 9 hanno riportato i risultati riguardanti 157 pazienti morti improvvisamente mentre erano sottoposti a monitoraggio ECGrafico ambulatoriale: nell’80% dei casi l’evento terminale era causato dalla fibrillazione ventricolare (nel 50% preceduta da tachicardia ventricolare, nel 20% preceduta da torsione di punta, nel 10% insorta primitivamente), mentre nel rimanente 20% dei casi si trattava di una bradiaritmia. Tali osservazioni sono state confermate da numerosi altri studi sulla MCI extraospedaliera 10. L’evento aritmico è però solo l’aspetto terminale del problema, mentre è importante ricordare che le basi fisiopatologiche della MCI sono multifattoriali (Fig 1). Le varie patologie cardiache creano il substrato anatomico e funzionale che predispone il miocardio ad una maggiore vulnerabilità elettrica sulla base dei noti meccanismi aritmogenetici. Ciò non è ancora sufficiente in quanto devono intervenire altri fattori transitori e/o reversibili (fattori modulanti) in grado di modificare o di creare essi stessi i presupposti elettrofisiologici affinché un evento scatenante (trigger che spesso è rappresentato dalle extrasistoli ventricolari) possa condurre all’evento terminale 11. Cosa si può e cosa si deve fare Nella prevenzione della MCI si devono tenere presenti
Fig. 1: Fisiopatologia multifattoriale della morte cardiaca improvvisa.
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alcune importanti considerazioni: 1) la stragrande maggioranza dei casi si verifica in ambiente extraospedaliero, in maniera inattesa, talora come prima manifestazione in pazienti senza precedente storia di cardiopatia. Ne deriva che in primo luogo è fondamentale attuare una prevenzione a livello territoriale; 2) come già discusso in precedenza vi sono specifiche cardiopatie che rappresentano la base eziopatogenetica della MCI. La modificazione dei fattori di rischio noti può contribuire in questi casi a prevenire le cardiopatie e coincide con la prevenzione primaria della MCI ad esse connessa; 3) nell’ambito delle varie forme di cardiopatia vi sono dei sottogruppi a rischio particolarmente elevato di MCI. L’individuazione di tali sottogruppi rappresenta la base per la prevenzione secondaria ed il trattamento della MCI. Prevenzione territoriale: le chiavi del successo per il trattamento dell’arresto cardiaco sono rappresentate dalla rianimazione cardiopolmonare (RCP), dalla defibrillazione elettrica transtoracica (DET) e dal supporto cardiaco vitale avanzato (SCVA) eseguiti quanto più precocemente possibile. I dati del Registro dell’Arresto Cardiaco Svedese 10, che riportano l’esperienza in questa nazione di 57 associazioni di emergenza territoriale, dimostrano ad esempio che se la defibrillazione è attuata entro i primi 2 minuti la sopravvivenza ad un mese è quasi del 50% mentre dopo 10 minuti è meno dell’8%. Appare quindi evidente l’importanza di realizzare una continuità dei servizi dell’emergenza medica già definita “catena della sopravvivenza” 12, a sottolineare il fatto che ogni singolo anello può rappresentare l’elemento debole ai fini del risultato finale. In primo luogo è necessario l’accesso facilitato al servizio dell’emergenza tramite la disponibilità di un numero unico nazionale (es. 118) ampiamente pubblicizzato. Il riconoscimento dell’arresto cardiaco e la rapida attuazione della RCP richiederebbe un’ampia diffusione dell’addestramento a tutti i cittadini ed in particolare a tutto il personale di soccorso ed ai lavoratori in ambienti pubblici. La DET precoce dovrebbe poter essere attuata da tutto il personale di soccorso sia mobile sia nelle postazioni fisse (centri commerciali, impianti sportivi, stazioni, grandi uffici) e possibilmente da amici e parenti di pazienti a rischio. A tale scopo dovrebbe essere favorita l’ampia diffusione dei defibrillatori semiautomatici esterni la cui affidabilità in termini di specificità e sensibilità è stata dimostrata in molti studi 13. Il sistema territoriale dell’emergenza dovrebbe ovviamente afferire a strutture ospedaliere efficienti per i successivi provvedimenti terapeutici nonché per la stratificazione prognostica e la definizione del successivo iter diagnostico-terapeutico dei pazienti rianimati. Prevenzione primaria
L’ipertensione, l’ipercolesterolemia, il sovrappeso, il diabete mellito latente o manifesto, il fumo sono responsabili di un aumento del rischio di MCI 14. Nello studio di Framingham
il rischio era 2.5 volte superiore nei soggetti che fumavano > 20 sigarette/giorno. È quindi verosimile che la riduzione di questi fattori di rischio (che si identificano con i fattori di rischio coronarico) possa anche portare ad una riduzione della MCI. Lo studio genetico dei parenti e dei pazienti affetti da forme geneticamente trasmesse (es. sindrome del QT lungo) forniranno probabilmente in futuro le basi per impostare un’idonea opera di prevenzione primaria per queste patologie. In soggetti asintomatici portatori di connessioni anomale atrioventricolari manifeste lo studio della vulnerabilità atriale e delle capacità di conduzione anterograda della connessione anomala assumono il significato di prevenzione primaria. Lo stesso dicasi di numerosi test sviluppati negli ultimi decenni allo scopo di individuare sottogruppi specifici di pazienti ad elevato rischio di MCI. La sensibilità del baroriflesso, che evoca una risposta vagale ad un aumento acuto della pressione arteriosa, è ridotta in questi pazienti. Anche la variabilità della frequenza cardiaca, una misura delle variazioni battito-battito degli intervalli sinusali, è marcatamente ridotta. L’ECG signal-averaging ad alta amplificazione consente di studiare la presenza di potenziali tardivi ventricolari che rappresentano l’espressione di zone di miocardio a conduzione lenta possibilmente responsabili di meccanismi di rientro. L’alternanza dell’onda T (indice di instabilità elettrica del miocardio) valutata con tecnica di averaging computerizzato è stata recentemente utilizzata per identificare pazienti ad alto rischio di sviluppare aritmie ventricolari maligne 15. Lo studio elettrofisiologico endocavitario consente di valutare la vulnerabilità ventricolare agli extrastimoli e può essere utile nel selezionare la terapia adeguata. Altri importantissimi parametri da valutare sono la funzione ventricolare, la presenza di ischemia e l’incidenza di aritmie ventricolari complesse. Prevenzione secondaria/terapia
Parlare di prevenzione secondaria nei confronti della morte improvvisa può sembrare una contraddizione dato che l’evento è spesso irreversibile; ci si riferisce ovviamente ai pazienti rianimati, ai pazienti con morte improvvisa abortita, a tutti i pazienti noti essere a rischio molto elevato e si identifica con la ricerca della migliore forma di terapia. A parte la terapia della cardiopatia di base, gli unici farmaci che sembrano avere un ruolo nella prevenzione della MCI sono i beta-bloccanti e l’amiodarone. Una recente metanalisi di 13 trial comprendenti 6500 pazienti, con pregresso infarto miocardico o scompenso cardiaco, trattati con amiodarone, ha mostrato una riduzione della mortalità totale e della MCI 16. Alcuni dati suggeriscono che l’amiodarone è più efficace in pazienti con frequenza cardiaca elevata a riposo (> 90 bpm); inoltre l’associazione con beta-bloccanti sembra particolarmente favorevole. La terapia farmacologica oggi va necessariamente valutata alla luce della superiorità dimostrata dal defibrillatore automatico impiantabile (DAI) in numerosi trial quali l’AVID, G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
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il CIDS e il CASH. Da questi studi risulta evidente che il DAI è attualmente la forma di prevenzione secondaria e/o terapia di scelta in pazienti con FV documentata non correlata a cause reversibili o transitorie, in pazienti con TV non tollerata emodinamicamente, e probabilmente in pazienti con storia di sincope di natura indeterminata in presenza di funzione ventricolare depressa e aritmie ventricolari sostenute inducibili allo studio elettrofisiologico. Un’altra indicazione certa è rappresentata dal cosiddetto “paziente MADIT”, dal nome dello studio che ha incluso pazienti con pregresso infarto miocardico, frazione di eiezione < 35%, TV non sostenuta spontanea e TV sostenuta inducibile con la stimolazione ventricolare programmata e non sopprimibile con la somministrazione di procainamide. I pazienti randomizzati all’impianto di DAI hanno mostrato una riduzione dell’80% della MCI e del 54% della mortalità totale dopo 2 anni di follow-up rispetto ai pazienti trattati con terapia antiaritmica convenzionale. Numerosi trial sono attualmente in corso per definire la migliore scelta terapeutica in vari sottogruppi di pazienti. Conclusioni La MCI continua ad essere un problema di sanità pubblica di primo ordine. Attualmente, nonostante il miglioramento delle conoscenze riguardanti i meccanismi eziopatogenetici e fisiopatologici, i metodi per identificare i pazienti ad alto rischio e predire l’efficacia delle misure atte a prevenire la MCI sono ancora insufficienti. L’impegno economico per affrontare questo problema è sicuramente molto elevato come dimostrano ad esempio i dati dello studio MADIT secondo i quali per prevenire 10 MCI bisogna impiantare 100 DAI. Dato che la maggioranza delle MCI avviene in sede extraospedaliera, sono necessari sforzi organizzativi adeguati al pronto riconocimento ed intervento sul territorio con ampie campagne informative e formative sull’arresto cardiaco. Sarà inoltre compito dei cardiologici nei prossimi anni di individuare migliori metodi per l’identificazione dei pazienti a più alto rischio e per la prevenzione delle aritmie ventricolari maligne.
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