Emergenza > Emergenza Cardiologica 4 1999

  • Uploaded by: api-27164352
  • 0
  • 0
  • June 2020
  • PDF

This document was uploaded by user and they confirmed that they have the permission to share it. If you are author or own the copyright of this book, please report to us by using this DMCA report form. Report DMCA


Overview

Download & View Emergenza > Emergenza Cardiologica 4 1999 as PDF for free.

More details

  • Words: 10,919
  • Pages: 15
L’ARRESTO CARDIACO

SIMPOSIO

L’ARRESTO CARDIACO I primi due anelli della “Catena della Sopravvivenza”: il sistema 118 e il soccorso precoce Danilo Neglia. Unità di Terapia Intensiva Coronarica, Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, Pisa

Premessa Poiché nell’adulto la causa di gran lunga più frequente di arresto cardiaco è la fibrillazione ventricolare spesso secondaria a danno ischemico acuto del miocardio, le misure di prevenzione e trattamento dell’arresto si applicheranno prevalentemente ad una popolazione di pazienti con manifestazioni acute di malattia coronarica. Negli ultimi 30 anni grande attenzione è stata rivolta al trattamento dei pazienti con la manifestazione più grave di malattia coronarica, ovvero l’infarto miocardico acuto. La mortalità intraospedaliera per infarto miocardico acuto si è progressivamente ridotta, essendo oggi definita intorno al 6.5-7.5% rispetto al 30-35% di 30 anni fa, grazie alla diffusione delle Unità di Terapia Intensiva Coronarica (UTIC) ed allo sviluppo di diverse strategie di rivascolarizzazione precoce. Nonostante tali progressi, più in generale la malattia coronarica continua a rappresentare alle soglie del III millennio la principale causa di morte nei paesi più industrializzati. In Italia si stima che le morti per cause cardiovascolari rendano conto del 46% della mortalità totale e di queste la metà (quindi il 23% della mortalità globale) sono dovute ad infarto miocardico acuto o morte improvvisa cardiaca 1. Ma il dato più allarmante è che ancora oggi il 60% dei decessi per infarto miocardico acuto avviene prima del ricovero in ospedale ed in particolare entro la prima ora 2, 3 essendo prevalentemente imputabili ad arresto cardiaco secondario a fibrillazione ventricolare. In realtà la popolazione che deve essere considerata ad alto rischio per arresto cardiaco precoce non include soltanto i soggetti con segni e sintomi d’infarto miocardico acuto ma più in generale tutti i pazienti con “dolore toracico acuto di tipo ischemico” che comprende anche i soggetti con angina instabile. Si può stimare che, includendo la mortalità preospedaliera, il primo attacco di dolore toracico ischemico prolungato abbia un tasso di mortalità del 34% 4. È stato quindi introdotto il termine di “sindromi coronariche acute” per definire questa particolare popolazione che richiede un approccio urgente da parte del sistema di emergenza 5. Da questi dati risulta chiaro che i notevoli progressi ottenuti nel trattamento dei pazienti che giungono in UTIC con diagnosi di infarto miocardico non sono sufficienti a ri-

durre sostanzialmente la mortalità globale per sindromi coronariche acute in quanto questa rimane prevalentemente dovuta ad arresto cardiaco preospedaliero. Un importante compito cui i cardiologi saranno chiamati all’inizio del prossimo millennio, oltre a quello fondamentale della prevenzione primaria e secondaria della malattia coronarica, sarà quindi quello di mettere in atto delle strategie efficaci per ridurre la mortalità precoce per arresto cardiaco. Tali strategie dovranno essere rivolte in due direzioni prevalenti: 1. ridurre il rischio di morte extraospedaliera favorendo la diffusione delle informazioni necessarie per il riconoscimento precoce dei sintomi di attacco cardiaco, per l’accesso precoce al sistema di emergenza e favorendo la diffusione delle tecniche di rianimazione cardiopolmonare (RCP) e defibrillazione precoce (DP); 2. ridurre il rischio globale di morte agendo sui meccanismi del “ritardo evitabile” 6, tra l’insorgenza dei sintomi e l’accesso all’ospedalizzazione ed al trattamento di rivascolarizzazione precoce, mediante interventi a livello del paziente, del sistema di emergenza territoriale e del dipartimento di emergenza ospedaliero. Il primo anello della “Catena della Sopravvivenza”: l’accesso precoce Il concetto della “Catena della Sopravvivenza”, per la prima volta avanzato dall’Emergency Cardiac Care Committee dell’American Heart Association (AHA) 7 e recepito dalle Linee Guida per la rianimazione cardiopolmonare dell’AHA 8, costituisce oggi l’approccio cardine alle situazioni di arresto cardiaco e, per i motivi prima elencati, può essere altrettanto utilmente applicato ai pazienti con segni e/o sintomi di sindromi coronariche acute che costituiscono una popolazione a rischio di arresto cardiaco precoce. Le componenti della “catena della sopravvivenza” sono: 1. l’accesso precoce al sistema dei servizi di emergenza medica; 2. la rianimazione cardiopolmonare precoce (CPR) eseguita sia dai testimoni dell’evento che dai primi soccorrotori; 3. la defibrillazione precoce (DP) eseguita dai primi soccorritori; 4. il supporto cardiaco avanzato (ACLS) eseguito dalle squadre avanzate di soccorso. L’accesso precoce rappresenta il primo anello della “catena della sopravvivenza” per l’arresto cardiaco. Esso racchiude diverse azioni principali che devono susseguirsi rapidamente 8: a) il riconoscimento dei segni e dei sintomi di un attacco cardiaco da parte del paziente o dei testimoni; b) l’allertamento del sistema di emergenza (mediante il 118); c) il riconoscimento di una emergenza cardiaca da parte dell’”emergency medical dispatcher” (EMD); d) l’attivazione da parte dell’EMD del soccorso appropriato ed eventualG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

31

32

L’ARRESTO CARDIACO

mente la notifica al centro ospedaliero di riferimento. L’implementazione di queste procedure in Italia richiede un’ulteriore evoluzione del nostro sistema sanitario mediante azioni su più versanti: dalla diffusione nella popolazione della cultura sanitaria generale sull’emergenza e specifica sulla malattia coronarica, al completamento dell’organizzazione dei sistemi di emergenza territoriale intorno alle centrali 118, al raccordo tra l’emergenza territoriale ed i dipartimenti di emergenza ospedalieri. Questo processo evolutivo è stato avviato ma non è ancora realizzato in modo omogeneo sul territorio nazionale. Per quanto riguarda in particolare l’approccio al paziente con sospetta sindrome coronarica acuta la finalità principale è quella del riconoscimento precoce dei sintomi e della riduzione del ritardo evitabile per l’ospedalizzazione e la terapia di rivascolarizzazione. A tale fine la componente essenziale del primo anello della catena della sopravvivenza è l’EMD. Negli ultimi anni i cittadini sono stati abituati all’uso del numero telefonico di emergenza (118 nelle zone dove questo è attivo) per richieste di aiuto relative a condizioni molto diverse che vanno da problemi minori a situazioni di pericolo di vita. È diventato quindi sempre più necessario processare le chiamate al sistema medico di emergenza in modo da riconoscere prontamente tra tutte quelle condizioni a più alto rischio e poter attivare rapidamente il soccorso più appropriato. Di qui la necessità dell’EMD, un operatore pubblico con una preparazione specifica per la gestione efficiente delle chiamate al 118 e di altre comunicazioni di emergenza medica. Le molteplici funzioni che svolge un tale operatore possono certamente aumentare l’efficienza e l’efficacia dell’approccio preospedaliero al paziente con sospetta sindrome coronarica acuta 9. L’EMD può interrogare il paziente cercando di far emergere quei sintomi che aiutino a capire se è in corso un attacco cardiaco ed in questo caso attivare una risposta appropriata da parte del sistema di emergenza. Inoltre l’EMD può fornire al paziente o ai suoi familiari istruzioni su come fronteggiare la situazione nell’attesa dell’arrivo del soccorso e guidarli anche in una rianimazione cardiopolmonare se necessario. Un “dispatching” efficace ha lo scopo di inviare le giuste risorse del sistema di emergenza alla persona giusta, al tempo giusto, nel modo giusto e di fornire le giuste istruzioni per la gestione del paziente nell’attesa dei soccorsi. Lo svolgimento di questi compiti richiede lo sviluppo di procedure specifiche che comprendono questionari dedicati, istruzioni sistematizzate, protocolli che determinino il tipo di risposta (veicolo, personale, sirena, etc.) appropriata alla severità della condizione, raccordo con le strutture ospedaliere di riferimento. È indubbio che l’implementazione di un simile programma di “emergency medical dispatching” possa avere un impatto favorevole sulla riduzione sia della mortalità preospedaliera che di quella globale dovuta a sindromi coronariche acute. G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

Il secondo anello della “Catena della Sopravvivenza”: il soccorso precoce Il soccorso precoce mediante la rianimazione cardiopolmonare (RCP) rappresenta il secondo anello della “Catena della Sopravvivenza” per l’arresto cardiaco e costituisce ovviamente un presidio essenziale per ogni strategia volta a ridurre la mortalità preospedaliera nei pazienti con sindromi coronariche acute. Studi sui risultati della rianimazione preospedaliera in pazienti con arresto cardiaco dovuto a fibrillazione ventricolare hanno dimostrato che l’applicazione del concetto della “catena della sopravvivenza” è in grado di ridurre la mortalità 10. In particolare in tre recenti studi condotti in Belgio, Norvegia e nella città di New York è stato indagato il ruolo della RCP precoce eseguita da parte dei testimoni di un arresto cardiaco sulla sopravvivenza finale alla dimissione dall’ospedale. In Belgio, Van Hoeyweghen et al hanno studiato 3306 arresti cardiaci preospedalieri dimostrando una sopravvivenza del 16% nei pazienti che erano stati sottoposti ad una RCP precoce corretta prima dell’arrivo del soccorso avanzato, rispetto al 4% nei pazienti in cui la RCP precoce non era stata praticata correttamente ed al 7% nei pazienti non sottoposti ad RCP precoce 11. In Norvegia, Wik et al hanno studiato 334 arresti preospedalieri dimostrando una sopravvivenza del 23% in caso di RCP corretta rispetto all’1% ed al 6% in caso di RCP scorretta o non praticata 12. Infine nella città di New York, Gallagher et al hanno similmente dimostrato una sopravvivenza significativamente maggiore nelle vittime di arresto cardiaco sottoposte ad una corretta RCP rispetto a quelle sottoposte ad RCP scorretta 13. In tutti questi studi, quindi, è stato posto l’accento sull’utilità della RCP precoce da parte dei testimoni di un arresto cardiaco ma soltanto se eseguita in modo corretto. In realtà soltanto il 42-47% delle RCP veniva giudicato corretto al momento dell’arrivo dei soccorritori avanzati in quanto veniva constatata la generazione di un polso palpabile con le compressioni toraciche ed una espansione intermittente del torace con i tentativi di insufflazione.

Conclusioni I risultati prima descritti dimostrano che gli sforzi diretti a ridurre la mortalità per arresto cardiaco preospedaliero devono essere prima di tutto rivolti a rinforzare i primi due anelli della “Catena della Sopravvivenza” senza i quali anche il sistema di emergenza più avanzato non può ottenere i risultati auspicabili. La prima azione necessaria è la diffusione capillare dei programmi di formazione di Basic Life Support (BLS) il cui scopo è quello di insegnare al primo soccorritore di un paziente in arresto cardiaco i comportamenti relativi ai primi due anelli della catena della sopravvivenza: identificare l’arresto, attivare il sistema di emergenza,

L’ARRESTO CARDIACO

eseguire l’RCP. Tali programmi di formazione non devono essere rivolti soltanto al personale coinvolto a vario titolo nel sistema di emergenza ma più in generale all’intera comunità con particolare attenzione alla popolazione a più alto rischio. Ad esempio molti degli arresti cardiaci avvengono a casa di pazienti che hanno più di 60 anni per cui la persona che più probabilmente dovrà fronteggiare l’emergenza è il coniuge anziano che più difficilmente sarà stato esposto a programmi di formazione. Ovviamente la diffusione capillare dell’insegnamento dell’RCP richiede anche lo sviluppo di programmi che abbiano la massima efficacia con il minimo costo e che possano essere differenziati a seconda della popolazione da educare 14. Mentre ad esempio un corso completo di 7-12 ore secondo le linee guida dell’AHA è considerato il più idoneo per operatori sanitari, corsi abbreviati di 2-4 ore in cui sia privilegiata la parte pratica sulla teoria sono considerati più adatti all’insegnamento nelle comunità. Sono stati inoltre proposti metodi innovativi per l’insegnamento dell’RCP che includono l’autoapprendimento mediante visione di film o mediante programmi computerizzati che potrebbero essere adatti per la diffusione domiciliare. In Italia molto è stato fatto ma molto ancora rimane da fare. Molti programmi educativi si sono sviluppati ad opera di associazioni private che hanno avuto il pregio di incominciare a diffondere la cultura dell’emergenza nel nostro paese. Tuttavia si avverte l’esigenza che le grandi associazioni mediche nazionali si facciano direttamente carico del problema mettendo in atto propri programmi formativi nazionali rigorosamente controllati ed in accordo con gli standard internazionali. Bibliografia 1. Annuario statistico della popolazione italiana. Roma, ISTAT, 1996. 2. CHAMBLESS L, KEIL U, DOBSON A, ET AL: Population versus clinical view of case fatality from acute coronary heart disease: results from the WHO MONICA Project 1985-1990. Circulation 1997; 96: 3849-3859. 3. GRUPPO DI RICERCA PROGETTO MONICA: Le urgenze cardiologiche: letalità e trattamento. Analisi di 500 eventi coronarici consecutivi nell’ambito del “Progetto MONICA – Area Brianza”. G Ital Cardiol 1992; 22: 733-742. 4. KANNEL WB, SCHATZKIN A: Sudden death: lessons from subsets in population studies. J Am Coll Cardiol 1985; 5 (Suppl): 141B-149B. 5. CUMMINS RO: Advanced cardiac life support. American Heart Association, 1997. 6. THE GISSI AVOIDABLE DELAY STUDY GROUP: Epidemiology of avoidable delay in the care of patients with acute myocardial infarctionin Italy. A GISSI-generated study. Arch Inter Med 1995; 155: 1481-1488.

7. CUMMINS RO, ORNATO JP, THIES WH, ET AL: Improving survival from sudden cardiac arrest: the “chain of survival” concept. A statement for health professionals from the Advanced Cardiac Life Support Subcommittee and the Emergency Cardiac Care Committee, American Heart Association. Circulation 1991; 83: 1832-1847. 8. AMERICAN HEART ASSOCIATION, EMERGENCY CARDIAC CARE COMMITTEE AND SUBCOMMITTEES: Guidelines for cardiopulmonary resuscitation and emergency cardiac care, II: adult basic life support. JAMA 1992; 268: 2184-2198. 9. NATIONAL HEART ATTACK ALERT PROGRAM (NHAAP): Emergency medical dispatching: rapid identification and treatment of acute myocardial infarction. NIH Publication No. 94-3287, July 1994. 10. ADVANCED LIFE SUPPORT SUCOMMITTEE AND EMERGENCY CARDIAC CARE COMMITTEE OF THE AMERICAN HEART ASSOCIATION, CUMMINS RO, ORNATO JP, THIES WH, ET AL: Improving survival from sudden cardiac arrest the chain of survival concept. Circulation 1991; 83: 1832-1847. 11. BELGIAN CEREBRAL RESUSCITATION GROUP, VAN HOEYWEGEN RJ, BOSSAERT LL, MULLIE A, ET AL: Quality and efficiency of bystander CPR. Resuscitation 1993; 26: 47-52. 12. WIK L, STEEN PA, BIRCHER NG: Quality of bystander cardiopulmonary resuscitation influences outcome after prehospital cardiac arrest. Resuscitation 1994; 28: 195-203. 13. GALLAGHER EJ, LOMBARDI G, GENNIS P: Effectiveness of bystander cardiopulmonary resuscitation and survival following out-of-hospital cardiac arrest. J Am Med Assoc 1995; 274: 1922-1925. 14. KAYE W, MANCINI E: Teaching adult resuscitation in the United States – time for a rethink. Resuscitation 1998; 37: 177-187.

Il terzo ed il quarto anello della catena: la defibrillazione e il supporto avanzato Alberto Roghi. Dipartimento Cardiologico “A. De Gasperis”, Azienda Ospedaliera Niguarda-Ca’ Granda, Milano

La rianimazione cardiopolmonare rappresenta un continuum di interventi che iniziano con il riconoscimento dell’arresto, l’attivazione del sistema di soccorso sanitario, le manovre di supporto delle funzioni vitali con tecniche semplici (Basic Life Support, BLS), la defibrillazione precoce ed infine proseguono con le manovre di supporto delle funzioni vitali con tecniche complesse (Advance Cardiac Life Support, ACLS) 1-2. La catena della sopravivivenza 3 esprime con una metafora efficace questo continuum di interventi nell’ambito dei quali l’ACLS occupa l’anello finale. G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

33

34

L’ARRESTO CARDIACO

Gli obiettivi dell’ACLS sono essenzialmente due: a) integrare la rianimazione cardiopolmonare di base nei pazienti in arresto cardiaco mediante l’impiego di supporti (farmacologici e non) di tipo avanzato; b) riconoscere e trattare correttamente le situazioni di periarresto, cioè quelle caratteristiche delle fasi immediatamente successive alla ripresa di circolo o quelle che possono precedere l’arresto cardiorespiratorio. Nel paziente in condizioni di arresto cardiorespiratorio resistente alle prime manovre di soccorso (BLS e defibrillazione precoce) l’impiego di supporti terapeutici avanzati significa: a) il controllo delle vie aeree mediante l’intubazione orotracheale e l’ossigenoterapia; b) il miglioramento delle condizioni di circolo durante il massaggio cardiaco esterno mediante la terapia farmacologica (adrenalina), il ripristino di attività contrattile efficace con appropriata terapia elettrica (defibrillazione, cardioversione, pacing); c) la diagnostica differenziale indirizzata alla ricerca di cause potenzialmente reversibili ed i relativi interventi terapeutici mirati (pneumotorace, tamponamento cardiaco, ipossia, ipovolemia, ipotermia, intossicazione farmacologica, disturbi metabolici). Nei pazienti in condizioni di periarresto, che presentano una attività cardiorespiratoria rilevabile ma hanno appena sofferto di un arresto cardiorespiratorio o sono in condizioni di shock, il ruolo dell’ACLS è quello di individuare rapidamente le cause potenzialmente trattabili per prevenire un nuovo episodio di arresto o per evitare un ulteriore deterioramento delle condizioni cliniche. La funzione dell’ACLS è quella di semplificare il trattamento di situazioni cliniche complesse come lo shock mediante l’impiego di algoritmi diagnostico-terapeutici che consentono un rapido orientamento clinico. La scomposizione delle cause potenziali dello shock in problemi di ritmo, pompa e volume consente di acquisire uno strumento diagnostico-terapeutico, la triade cardiovascolare, di grande aiuto 1. L’inquadramento delle problematiche aritmologiche nel capitolo dello shock ne semplifica l’approccio diagnostico e terapeutico: il problema aritmico diviene rilevante solo se condiziona quello clinico. Le strategie terapeutiche sono mirate alla rapida correzione della aritmia con interventi semplici e sicuri che, per tale motivo, privilegiano l’impiego della terapia elettrica. Algoritmi di valutazione: ABCD primario, ABCD secondario ABCD primario

La rianimazione cardiopolmonare consiste in un continuum di sequenze di valutazione/azione che inizia con l’ABCD G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

primario. L’ABCD primario prevede la valutazione dello stato di coscienza e l’apertura delle vie aeree (A), la ventilazione con ausili semplici (B), la valutazione della presenza di circolo ed il massaggio cardiaco esterno (C), la defibrillazione precoce di FV/TV (D). È evidente che il punto D deve prevedere la disponibilità di un defibrillatore automatico e di personale addestrato al suo utilizzo. L’ABCD primario deve essere eseguito anche in pazienti in situazioni di periarresto per valutare le funzioni vitali e mantenere una costante vigilanza sull’eventuale deterioramento del quadro clinico. ABCD secondario

L’ABCD secondario ripete l’acronimo sequenziale del primario ma prevede una sequenza di valutazioni/azioni più aggressiva: intubazione oro-tracheale (A), verifica dell’adeguatezza della ventilazione (B), accesso venoso, terapia farmacologica, massaggio cardiaco esterno (C), identificazione diagnostica differenziale delle possibili cause reversibili di arresto (D). Algoritmo ACLS dell’arresto nell’adulto L’algoritmo (Fig. 1) 4 prevede la valutazione dello stato di coscienza, l’allertamento del sistema di emergenza sanitaria, l’apertura delle vie aeree, la valutazione dell’attività respiratoria (GAS: Guardo, Ascolto, Sento) per 10 secondi, l’erogazione di 2 ventilazioni, la valutazione dell’attività circolatoria (polso carotideo per 5-10 secondi), l’inizio della rianimazione cardiopolmonare (massaggio cardiaco esterno e ventilazione), il pugno precordiale se appropriato (arresto in presenza di testimoni in assenza di defibrillatore), la valutazione del ritmo con il monitor-defibrillatore. In caso di FV/TV senza polso si prevede l’erogazione di tre shock consecutivi 200-200-360 Joule. Tra una defibrillazione e l’altra è necessario rivalutare il ritmo al monitor. In caso di comparsa di ritmo organizzato si rivaluta il polso carotideo. Se al monitor persiste ritmo defibrillabile la sequenza delle tre defibrillazioni è continua. Al termine della sequenza si rivaluta il polso carotideo e si inizia la RCP che deve proseguire per 1 minuto ed è seguita da una nuova sequenza di tre defibrillazioni a 360 Joule. Durante le manovre di RCP si deve garantire al più presto l’intubazione oro-tracheale, l’ossigenoterapia, l’accesso venoso e l’infusione di adrenalina 1 mg ev (con bolo di soluzione fisiologica 20-30 ml e sollevamento dell’arto se l’accesso venoso è periferico) ogni 3 minuti. Se il paziente è in arresto ed il ritmo iniziale non è defibrillabile (asistolia, attività elettrica senza polso), è necessario iniziare la rianimazione cardiopolmonare, garantire l’accesso venoso e l’infusione di adrenalina 1 mg ogni 3 minuti e prendere in considerazione eventuali interventi terapeutici mirati (atropina, pacing, bicarbonati, pericardiocentesi, dre-

L’ARRESTO CARDIACO

Fig. 1: Algoritmo ALS ILCOR.

naggio pleurico). Tali interventi devono essere guidati dalla ricerca delle cause potenzialmente reversibili. La defibrillazione L’importanza della defibrillazione precoce nell’ambito della rianimazione cardiopolmonare è nota sin dai primi studi sperimentali condotti sull’animale negli anni ‘30. È soltanto con l’avvento di defibrillatori a corrente continua alla fine degli anni ’60, relativamente leggeri e trasportabili, che inizia l’era moderna della rianimazione cardiopolmonare 5. Nessun intervento terapeutico successivo si è rivelato più importante. Infatti, tra i numerosi interventi terapeutici proposti nel corso degli ultimi trent’anni, sono pochi quelli di cui si è dimostrata con certezza l’efficacia, anche per le difficili condizioni sperimentali del contesto clinico, non certo favorevole ai consueti disegni sperimentali 5, 6. L’introduzione di defibrillatori semiautomatici all’inizio degli anni ‘80, cioè di strumenti in grado di valutare con algoritmo automatico la presenza di un ritmo defibrillabile e di erogare l’energia con comando manuale, ha consentito l’impiego estensivo della defibrillazione precoce anche da parte di personale laico 7. L’impiego di tali strumenti ha con-

solidato la catena della sopravvivenza in alcuni contesti avanzati (Seattle, King County), consentendo il raggiungimento di risultati straordinari (40% di sopravvivenza dell’arresto cardiaco extraospedaliero) che testimoniano l’elevato grado di efficienza di sistemi di emergenza perfezionati nel corso dei decenni nell’ambito di popolazioni educate alla rianimazione cardiopolmonare e fortemente solidali 5-8. Sulla base di queste esperienze l’American Heart Association ha individuato già nel 1986 la necessità di estendere l’impiego dei defibrillatori automatici al maggior numero di operatori sanitari e, più recentemente, anche ai laici 7. Lo sviluppo di linee guida comuni nell’ambito della rianimazione cardiopolmonare (ILCOR) ha individuato nella diffusione capillare dei defibrillatori automatici (AED) uno degli obbiettivi più importanti da perseguire nei prossimi anni 9. In accordo a tali obbiettivi, anche l’European Resuscitation Council ha sviluppato nel 1998 linee guida per l’impiego di AED da parte di personale sanitario e laico 2. L’efficacia dello shock è influenzata dal tipo di forma d’onda utilizzata dal defibrillatore. A parità di efficacia, l’impiego di forme d’onda che utilizzano minori energie consente di sviluppare defibrillatori più leggeri e meno costosi. Inoltre, l’impiego di energie più basse riduce il danno miocardico. Tali motivi hanno indotto l’industria a sviluppare nuovi modelli caratterizzati da vari tipi di forme d’onda. L’impulso monofasico dei defibrillatori tradizionali può variare nella velocità di recupero che può essere graduale (onda monofasica sinusoidale smorzata) oppure istantanea (onda monofasica sinusoidale troncata). L’impulso bifasico è caratterizzato invece da un flusso di corrente che ha direzione iniziale positiva e successiva inversione negativa. Anche l’impulso bifasico può essere sinusoidale smorzato o sinusoidale troncato. Il riscontro della maggiore efficacia dell’impulso bifasico nella defibrillazione è noto dalle osservazioni di Gurvich (Accademia delle Scienze URSS) del 1940 6. Da qualche decennio l’ex URSS impiega defibrillatori bifasici che utilizzano energie di 190 Joule. Purtoppo non esistono pubblicazioni in lingua inglese di studi clinici consistenti circa questa esperienza. Nel 1996 la FDA ha approvato la commercializzazione di un AED bifasico che modula l’intensità e la durata del flusso di corrente in accordo all’impedenza transtoracica, misurata due volte nel corso di ciascuno shock. Queste caratteristiche (onda bifasica, modulazione dell’energia erogata in funzione dell’impedenza individuale) consentirebbero una defibrillazione efficace con l’impiego di energie più basse di quelle impiegate con i monofasici, ma gli studi clinici finora disponibili non sono ancora sufficientemente consistenti 10, 11. Nel prossimo futuro è prevedibile lo sviluppo di defibrillatori bifasici di piccole dimensioni, leggeri e poco costosi, ideali per una capillare diffusione “estintore-simile”. Per quanto riguarda il rapporto costo-efficacia, il valore incrementale dell’AED nell’ambito di un sistema di urgenza emergenza a risposta singola è di 9000 $ per vita salG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

35

36

L’ARRESTO CARDIACO

vata (dati del 1995) in caso di arresto testimoniato con RCP, mentre è di 15 000 $ per arresto non testimoniato. In caso di tempi di intervento prolungati, il rapporto costo-efficacia è meno attraente (perché l’efficacia, in termini di vite salvate, è estremamente bassa) 7. L’efficacia della catena della sopravvivenza, misurata in vite salvate o anni di vita salvati con criteri di correzione che tengano conto della qualità di vita, è certamente consolidata dall’impiego dell’AED e dal supporto vitale avanzato. Il rapporto costo-efficacia è favorevole nei sistemi di emergenza più avanzati. Bibliografia 1. CUMMINS RO (ED): Textbook of advanced cardiac life support. Dallas, American Heart Association, 1997. 2. BOSSAERT L (ED): The European Resuscitation Council: European Guidelines for Resuscitation. Amsterdam, Elsevier, 1998; 1-129. 3. CUMMINS RO, ORNATO JP, THIES WH, ET AL: Improving survival from cardiac arrest: the “chain of survival” concept. Circulation 1991; 83: 1832-1847. 4. KLOECK W, CUMMINS R, CHAMBERLAIN D, ET AL: The Universal Advanced Life Support Alghorithm: an advisory statement from the advanced life support working group of the International Liason Committee on Resuscitation. Circulation 1997; 95: 2180-2182. 5. EISENBERG MS, PANTRIDGE JF, COBB LA, ET AL: The Revolution and Evolution of Prehospital Cardiac Care. Arch Intern Med 1996; 156: 1611-1619. 6. ORNATO JP, PARADIS N, BIRCHER N, ET AL: Future directions for resuscitation research. External cardiopulmonary resuscitation advanced life support. Resuscitation 1996; 32: 139-158. 7. WEISFELDT ML, KERBER RE, MCGOLDRICK RP, ET AL: Public access to defibrillation. Circulation 1995; 92: 2740-2747. 8. LARSEN MP, EISENBERG MS, CUMMINS RO, ET AL: Predicting survival from out-of hospital cardiac arrest: a graphic model. Ann Emerg Med 1993; 22: 1652-1658. 9. KLOECK W, CUMMINS R, CHAMBERLAIN D, ET AL: Early defibrillation. An advisory statement from the advance life support working group of the international liason committee on resuscitation (ILCOR Advisory Statement). Circulation 1997; 95: 2183-2184. 10. CUMMINS RO, HAZINSKI MF, KERBER RE, ET AL: Low-energy biphasic waveform defibrillation: evidence-based review applied to emergency cardiovascular care gudelines. Circulation 1998; 97: 1654-1667. 11. POOLE J, WHITE RD, KANZ KG, HENGSTENBERG F, ET AL LIFE INVESTIGATORS: Low-energy impedance-compensating biphasic waveforms terminate ventricular fibrillation at high rates in victmis of out-ofhospital cardiac arrest. Cardiovasc Electrophysiol 1997; 8: 1373-1385.

G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

È possibile individuare i pazienti a rischio di morte cardiaca improvvisa? Michele Brignole. Centro Aritmologico, Dipartimento di Cardiologia, Lavagna

Concetti generali Costo-beneficio

La domanda se è possibile individuare i pazienti a rischio di morte cardiaca improvvisa è una domanda generica che mi suggerisce una risposta ovvia. Infatti, tutti gli esseri umani sono a rischio di morire di morte improvvisa, i cardiopatici semplicemente lo sono di più. Innumerevoli sono i fattori di rischio conosciuti che permettono di definire secondo le leggi della matematica probabilistica la probabilità di morire di morte improvvisa per i soggetti che ne sono affetti (Tab. I). I numerosi studi epidemiologici e prognostici eseguiti negli ultimi decenni ci permettono oggi di eseguire una stratificazione prognostica abbastanza accurata per numerosi sottogruppi di pazienti. Ma è veramente importante conoscere la probabilità statistica di una determinata popolazione senza sapere se l’evento avverrà nel nostro singolo paziente? E poi cosa fare? Pertanto, da un punto di vista pratico, un’altra domanda è più corretta; essa è: È possibile individuare quei pazienti a rischio di morte improvisa in cui esiste una terapia in grado di ridurre tale rischio con un rapporto costo/beneficio accettabile? O, in altre parole, come individuare i pazienti da sottoporre a terapia in grado di ridurre il rischio di morte improvvisa? Tale domanda implica il concetto che non è sufficiente individuare i pazienti ad elevato rischio ma che occorre anche dimostrare che, per una data popolazione a rischio individuata, esiste una terapia in grado di ridurre la mortalità con un costo accettabile in termini di effetti collaterali e costi per la società. Ne consegue che l’utilità o meno di eseguire una determinata stratificazione prognostica varierà nel tempo nella misura in cui si renderanno disponibili nuove terapie di comprovata efficacia e sicurezza ad un costo considerato accettabile in base alla ricchezza di ogni nazione. Il problema pertanto trascende il campo squisitamente tecnico del cardiologo ed assume aspetti decisionali di competenza sociale e politica. In sintesi tre sono le parole chiave che sintetizzano il problema della riduzione della morte improvvisa: stratificazione di rischio, disponibilità di terapia efficace, disponibilità di risorse economiche ed organizzative. Questi tre punti sono imprescindibili l’uno dagli altri (Fig. 1). Ad esempio, non vi è dubbio che il defibrillatore automatico impiantabile (ICD) riduce la mortalità totale ed improvvisa nei pazienti ad alto rischio di morte improvvisa e lo fa in modo più efficace di ogni altra terapia. Tutti i dati

L’ARRESTO CARDIACO

TABELLA I – Alcuni fattori predittivi di rischio aumentato di morte improvvisa Cardiogeni

Aritmogeni

• Età avanzata • Sesso maschile • Infarto acuto del miocardio • Malattia coronarica • Disfunzione ventricolare sinistra

• • • • •

• Cardiomiopatie primitive



• Displasia aritmogena del VD • Classe NYHA ≥ 2 • Frazione di eiezione ≤ 35% • Sincope cardiogena

• • • • •

Pregresso arresto cardiaco TV o FV di qualsiasi natura ≥ 10 BEV per ora (Holter 24 ore) TVNS (Holter 24 ore) Presenza di potenziali tardivi (SAECG) Bassi valori di heart rate variability Inducibilità di TV durante SEF Sindrome del QT lungo Sindrome di Brugada Blocco atrioventricolare Blocco di branca

in letteratura infatti riportano una incidenza di morte improvvisa di circa l’1-2% per anno dopo l’impianto di ICD paragonata ad una incidenza del 15-25% in pazienti analoghi senza ICD 1-6. Pertanto è logico aspettarsi anche una riduzione della mortalità totale, la cui entità sarà trascurabile oppure elevata in base alla aspettativa di vita del paziente per morte non aritmica. La domanda corretta da farsi non è se l’ICD sia in grado di ridurre la mortalità, perché in tal caso esso andrebbe impiantato a tutti i pazienti cardiopatici, ma piuttosto “quali pazienti ne beneficiano di più?“ e “quanto è il costo/efficacia dell’ICD nel prevenire la morte improvvisa e prolungare la vita?“. Dopo impianto di ICD, la mortalità totale rimane elevata nei pazienti con grave deficit di

pompa; essa fu ad esempio del 43% a tre anni in un gruppo di pazienti con frazione di eiezione < 30% 7. In effetti, è stata eseguita una stima teorica, basata sui dati della letteratura, secondo la quale l’ICD sarebbe in grado di ridurre la mortalità del 50% nei pazienti in classe NYHA II, del 30% nei pazienti in classe III, ma solo dell’8% nei pazienti in classe IV 8. Al contrario, quanto più è elevato il rischio di morte aritmica, tanto più l’ICD sarà in grado di prolungare la sopravvivenza del paziente. Come valutare il rischio aritmico? Due sono i criteri più efficaci per valutare un alto rischio di morte aritmica improvvisa (elevato valore predittivo positivo): la storia di un pregresso episodio di tachiaritmia ventricolare maligna e l’inducibilità di TV allo studio elettrofisiologico nei pazienti ad alto rischio. Numerosi altri parametri, quali battiti prematuri ventricolari, heart rate variability, signal averaging, ecc., non hanno un valore predittivo sufficiente. Lo stesso discorso vale anche per la terapia farmacologica. Ad esempio, alla luce di numerosi recenti studi randomizzati controllati 9-12 è ormai definitivamente accertato che la riduzione del colesterolo ottenuta con statine determina una riduzione della morte totale ed improvvisa; tale terapia è efficace anche nei pazienti con valori iniziali normali e l’entità del beneficio della terapia è tanto maggiore quanto più si riesce ad abbassare il valore di colesterolemia. Pertanto la domanda corretta da farsi non è se le statine siano in grado di ridurre la mortalità, perché in tal caso essa andrebbe somministrata a tutti, ma piuttosto “quali pazienti ne beneficiano di più?“ e “quanto è il costo/efficacia delle statine nel prevenire la morte improvvisa e prolungare la vita?“. Number needed to treat

Fig. 1: Il problema della riduzione della morte improvvisa.

La risposta a queste domande implica la conoscenza del concetto di Number needed to treat o NNT, cioè il numero di pazienti che è necessario trattare per salvarne uno da morte improvvisa. Tale numero è facilmente calcolabile se si conosce il valore di riduzione di rischio assoluto di un determinato trattamento (NNT = 100 – riduzione % del rischio assoluto). Una recente meta-analisi 13 degli studi randomizzati controllati sull’amiodarone eseguita su 5864 pazienti ha dimostrato che tale farmaco era in grado di ridurre la mortalità totale da 19.2 a 16.5%. Ciò equivale ad una riduzione di rischio relativo del 14% ma ad una riduzione di rischio assoluto di solo 2.7%. Il numero di pazienti da trattare per salvare una vita è pertanto di 97 (NNT = 100-2.7 = 97.3). È logico che tanto più alto è il numero dei pazienti senza eventi da trattare tanto più aumenta sia l’incidenza di complicanze legate al trattamento, che possono talora annullarne o superarne il beneficio, sia il costo totale del trattamento (costo per vita salvata). G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

37

38

L’ARRESTO CARDIACO

Ad esempio, la stenosi coronarica è un importante fattore di rischio di infarto del miocardio e di morte e non vi è dubbio che la rivascolarizzazione coronarica ristabilendo un flusso sufficiente sia in grado di evitare l’infarto del miocardio e la morte improvvisa. Tuttavia, l’intervento di rivascolarizzazione, sia esso il by-pass aorto-coronarico che l’angioplastica transluminare, è associato ad un rischio di causare infarto e morte perioperatoria. Pertanto la rivascolarizzazione può essere utile oppure dannosa in base al fatto che il beneficio atteso sia superiore od inferiore al rischio operatorio. Tale rapporto è in genere vantaggioso per i pazienti con grave coronaropatia e disfunzione di pompa severe nei quali la mortalità con terapia farmacologica è molto elevata, mentre non ha utilità nella maggioranza dei pazienti affetti da forme meno severe in cui la mortalità con terapia farmacologica è bassa. È definitivamente provato che la presenza di battiti ectopici prematuri all’Holter è un fattore di rischio di morte improvvisa nel paziente coronaropatico indipendentemente dalla presenza degli altri fattori. Gli studi CAMIAT 14 ed EMIAT 15 hanno domostrato che l’amiodarone è in grado di ridurre in modo importante la morte improvvisa senza tuttavia modificare la mortalità totale; è pertanto probabile che gli effetti avversi del trattamento ne abbiano vanificato il suo beneficio. Fattori di rischio diretti ed indiretti

Un altro concetto generale importante per capire il significato dei fattori di rischio è quello di imparare a distinguere fra fattori di rischio diretti ed indiretti. Infatti alcuni fattori di rischio sono direttamente responsabili della morte improvvisa e la loro eliminazione o trattamento riduce tale rischio. Ad esempio, un paziente sopravvissuto ad un episodio di TV sostenuta o di FV è molto probabile che morirà di TV o FV e che il trattamento specifico di tali aritmie sarà in grado di prevenire la morte improvvisa. Purtroppo, la maggior parte dei fattori di rischio è indiretta in quanto non sono direttamente responsabili della morte ma solo associati ad altre condizioni che sono la vera causa di morte. In genere tali fattori sono stati individuati in quanto utilizzati in studi clinici quali end-point surrogati al posto dell’end-point reale, la mortalità, che è di più difficile valutazione. Alcuni esempi. La presenza di battiti prematuri ventricolari all’Holter è un fattore di rischio indipendente di morte improvvisa, tuttavia lo studio ESVEM 16 ha dimostrato che la loro soppressione non era in grado di ridurre le recidive di TV sostenuta o la morte improvvisa; pertanto i battiti prematuri non sono direttamente responsabili dell’insorgenza di TV sostenuta e di morte ed è inutile il trattamento volto alla loro soppressione. La sincope in un paziente con blocco di branca è frequentemente dovuta ad un blocco AV parossistico specialmente se lo studio elettrofisiologico eviG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

denzia un ritardo di conduzione del sistema di His-Purkinje e la terapia con pacemaker abolisce la recidiva sincopale, tuttavia tali pazienti continuano ad evere un elevato rischio di morte improvvisa dovuto a TV o FV 17. Pertanto sia i battiti prematuri che il blocco di branca sono da considerare marker indiretti di morte improvvisa in quanto entrambi rivelatori di una grave cardiopatia sottostante che è la vera responsabile dell’evento avverso. I concetti generali sopra esposti servono a interpretare meglio i risultati dei trial clinici Conclusioni In base ai concetti generali sopraesposti e a quanto si può ricavare dai risultati degli studi clinici, oggi sono stati individuati alcuni gruppi di pazienti a rischio aumentato di morte improvvisa in cui il trattamento specifico è di comprovata utilità e raccomandato dalla comunità scientifica internazionale. I più importanti sono i seguenti: 1. Pazienti nel post-infarto e/o con scompenso cardiaco che si giovano di terapia con betabloccante. Si sa da una vasta letteratura che i betabloccanti riducono la morte improvvisa e la morte totale nel postinfarto. Studi clinici sul timololo 18, sul propranololo 19 e sul metoprololo 20 hanno dimostrato una riduzione della mortalità totale del 36, 26 e 36% rispettivamente. La riduzione fu non solo della mortalità totale ma anche di quella improvvisa. Il beneficio dei betabloccanti fu particolarmante evidente nello studio BHAT 21, eseguito su pazienti ad alto rischio affetti da insufficenza cardiaca, che evidenziò una riduzione della morte improvvisa sia nei valori assoluti che relativi decisamente più grande (da 4 a 10 volte) nei pazienti con una storia di insufficienza cardiaca rispetto a quelli senza insuffienza cardiaca. In una metanalisi di 23 trial sull’uso del betabloccante dopo infarto acuto del miocardio, per un totale di 23 000 pazienti, la riduzione di mortalità ad un anno fu in media del 23% (intervallo di confidenza al 95%: 16-30%) 22. In 3 studi recenti il carvedilolo 23, il bisoprololo 24 ed il metoprololo 25 hanno dimostrato di essere in grado di ridurre la mortalità totale ed improvvisa nei pazienti con insufficienza cardiaca. 2. Pazienti a rischio aritmico elevato che si giovano di impianto di defibrillatore automatico. Alla luce delle conoscenze attuali vi è sufficiente consenso 2 nel ritenere indicato l’ICD nei seguenti casi: – come profilassi secondaria: arresto cardiaco da qualunque causa, anche in assenza di cardiopatia organica, dovuto FV o TV: FV o TV sincopale; TV che causa deterioramento emodinamico in pazienti con FE < 40%; – come profilassi primaria: pazienti con pregresso infarto del miocardio, TV non sostenute all’Holter, disfunzione ventricolare severa con induzione di TV o FV allo studio elet-

L’ARRESTO CARDIACO

trofisiologico (studi MADIT e MUSTT 6, 26, 27). È ancora controverso l’uso dell’ICD come profilassi primaria nelle cardiomiopatie non ischemiche, nella sindrome di Brugada, nella displasia aritmogena del ventricolo destro e nella sindrome del QT lungo.

Bibliografia 1. WINKLE RA, MEAD RH, RUDER MA, ET AL: Long-term outcome with the automatic implantable cardioverter defibrillator. J Am Coll Cardiol 1989; 16: 1353-1361. 2. GREGORATOS G, CHEITLIN M, CONCILL A, ET AL: ACC/AHA guidelines for implantation of cardiac pacemakers and antiarrhythmia devices: executive summary. Circulation 1998; 97: 1325-1335. 3. FOGOROS RN, ELSON JJ, BONNET CA, FIEDLER SB, CHENARIDES JG: Long-term outcome of survivors of cardiac arrest whose therapy is guided by electrophysiologic testing. J Am Coll Cardiol 1992; 19: 780-788. 4. THOMAS AC, MOSER SA, SMUTKA ML, WILSON PA: Implantable defibrillation: eight years clinical experience. PACE 1988; 11: 2053-2058. 5. FOGOROS RN: Impact of the implantable defibrillator on mortality: the axiom of overall implantable cardioverter-defibrillator survival. Am J Cardiol 1996; 78 (Suppl 5A): 57-61. 6. MOSS A, HALL J, CANNOM DS, ET AL: Improved survival with an implanted defibrillator in patients with coronary disease at high risk for ventricular arrhythmia. N Engl J Med 1996; 335: 1933-1940. 7. KIM SG, FISHER JD, CHOUE CW, ET AL: The influence of left ventricular function on the outcome of patients treated with implantable defibrillator. Circulation 1992; 85: 1304-1310. 8. URETSKY B, SHEAHAN R: Primary prevention of sudden cardiac death in heart failure: will the solution be shocking? J Am Coll Cardiol 1997; 30: 1580-1597. 9. SCANDINAVIAN SINVASTATIN SURVIVAL STUDY GROUP: Randomized trial of cholesterol lowering in 4444 patients with coronary heart disease: the Scandinavian Sinvastatin Survival Study. Lancet 1994; 344: 1383-1389. 10. SACKS F, PFEFFER M, MOYE L, ET AL: The effect of pravastatin on coronary events after myocardial infarction in patients with average cholesterol levels. N Engl J Med 1996; 335: 1001-1009. 11. DOWNS J, CLEARFIELD M, WEIS S, ET AL: Primary prevention of acute coronary events with lovastatin in men and women with average cholesterol levels. JAMA 1998; 279: 1615-1622. 12. PITT B, WATERS D, BROWN V, ET AL: Aggressive lipid-lowering therapy compared with angioplasty in stable coronary artery disease. N Engl J Med 1999; 341: 70-76.

13. SIM I, MCDONALD K, LAVORI P, NORBUTAS C, HLATKY M: Quantitative overview of randomized trials on amiodarone to prevent sudden cardiac death. Circulation 1997; 96: 2823-2829. 14. CAIRNS J, CONNOLLY S, ROBERTS R, GENT M: Randomized trial of outcome after myocardial infarction in patients with frequent or repetitive ventricular premature depolarizations: CAMIAT. Lancet 1997; 349: 675-682. 15. JULIAN D, CAMM J, FRANGIN G, ET AL: Randomized trial of effect of amiodarone on mortality in patients with left ventricular dysfunction after recent myocardial infarction: EMIAT. Lancet 1997; 349: 667-674. 16. MASON JW, THE ESVEM INVESTIGATORS: A comparison of electrophysiologic testing with Holter monitoring to predict antiarrhythmic drug efficacy for ventricular tachyarrhythmias. N Engl J Med 1993; 329: 445-451. 17. ENGLUND A, BERGFELDT L, RENHQUIST N, ASTROM H, ROSENQUIST M: Diagnostic value of programmed ventricular stimulation in patients with bifascicular block: a prospective study of patients with and without syncope. J Am Coll Cardiol 1995; 26: 1508-1515. 18. THE NORWEGIAN MULTICENTER STUDY GROUP: Timolol-induced reduction in mortality and reinfarction in patients surviving acute myocardial infarction. N Engl J Med 1981; 304: 801-807. 19. BETA-BLOCKER HEART ATTACK STUDY GROUP: The beta-blocker heart attack trial (BHAT). JAMA 1981; 246: 2073-2074. 20. HJALMARSON A, ELMFELDT D, HERLITZ J, ET AL: Effect on mortality of metoprolol in acute myocardial infarction: a duble-blind randomized trial. Lancet 1981; 2: 823-827. 21. KADDA K, GOLDSTEIN S, BYINGTON R, CURB JD: Effects of propranolol after acute myocardial infarction in patients with congestive heart failure. Circulation 1986; 73: 503-510. 22. PACKER M, BRISTOW MR, COHN JN, ET AL: The effect of carvedilol on morbidity and mortality in patients with chronic heart failure. N Engl J Med 1996; 334: 1349-1355. 23. WAAGSTEIN F, BRISTOW MR, SWEDBERG K, ET AL: for the Metoprolol in Dilated Cardiomyopathy (MDC) Trail Study Group. Beneficial effects of metoprolol in idiopathic dilated cardiomyopathy. Lancet 1993; 342: 1441-1446. 24. CIBIS-II INVESTIGATORS AND COMMITTEES: The Cardiac Insufficiency Bisoprolol Study (CIBIS-II): a randomized trial. Lancet 1999; 353: 9-13. 25. MERIT-HF STUDY GROUP: Effects of metoprolol CR/XL in chronic heart failure: metoprolol CR/XL randomized intervention trial in congestive heart failure (MERIT-HF). N Engl J Med 1999; 353: 2001-2007. 26. BUXTON A, FISHER J, JOSEPHSON M:

G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

39

40

L’ARRESTO CARDIACO

Prevention of sudden death in patients with coronary artery disease: the Multicenter Unsustained Tachycardia Trial (MUSTT). Prog Cardiovasc Dis 1993; 36: 215-226. 27. Prevention of sudden death in patients with coronary artery disease: the Multicenter Unsustained Tachycardia Trial (MUSTT). Final results presented at the Annual Congress of the American College of Cardiology, 1999.

Strumenti di intervento nei pazienti a rischio di morte aritmica: terapia medica o ICD. Indicatori e risultati Pietro Delise. U.O. di Cardiologia, Ospedale, Feltre

La morte improvvisa (MI) è causa di decesso ogni anno nell’1-2 per mille della popolazione generale, il che significa almeno 300 000 persone negli USA e almeno 50 000 persone in Italia. La maggior parte (> 90%) di questi decessi avviene per tachicardia/fibrillazione ventricolare (TV/FV) e nel contesto di una cardiopatia ischemica (almeno l’80%) 1. La prevenzione della MI è prevalentemente un problema di prevenzione primaria perché meno del 5% dei soggetti che vanno incontro a MI aveva già avuto in precedenza un episodio di TV/FV non fatale. L’incidenza della MI aumenta con l’età ed è più elevata nel cardiopatico specie con ridotta funzione di pompa del ventricolo sinistro. La MI tuttavia colpisce in numero assoluto prevalentemente soggetti non riconosciuti affetti da cardiopatia. Per tale motivo la sua prevenzione è un problema complesso che abbraccia strategie ad ampio spettro che vanno dalla lotta ai fattori di rischio delle cardiopatie, all’attivazione della catena della sopravvivenza, all’individuazione e alla cura delle categorie dei cardiopatici maggiormente esposti al rischio di MI. Quest’ultimo aspetto costituisce l’argomento della presente relazione. Le categorie a rischio di morte improvvisa Come abbiamo detto più sopra, la categoria epidemiologicamente a maggior rischio di MI è costituita dai pazienti con cardiopatia ischemica e con pregresso infarto miocardico (IMA) in particolare 1. Altre categorie ad alto rischio sono rappresentate dai pazienti con scompenso cardiaco di diversa eziologia 2, da alcuni pazienti con cardiomiopatia ipertrofica o con cardiomiopatia dilatativa primitiva (CMD) e da alcune cardiopatie rare (s. del QT lungo congenito, s. di Brugada, malattia aritmogena del ventricolo destro ecc.). Nella cardiopatia ischemica post-IMA nell’ultimo decennio, grazie alla terapia trombolitica e all’uso di farmaci tra cui l’aspirina, gli ACE-inibitori e i betabloccanti, la MI e

G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

la mortalità generale si sono fortemente ridotte da valori del 2.8-7.1% all’1.9-3% all’anno rispettivamente 3. Numerosi lavori tuttavia hanno dimostrato che tali percentuali crescono significativamente in particolari categorie di soggetti. Il fattore più importante in tal senso risulta essere la frazione d’eiezione ventricolare sinistra (FE) depressa: si calcola che con il decrescere della FE dal 40 al 30% la mortalità aumenti in modo esponenziale. Accanto ad essa sono stati individuati altri marker di rischio tra cui i BPV frequenti (> 10/ora), la TVNS, la presenza di post-potenziali (PP) al signal averaging, una ridotta heart rate variability (SDNN < 70 ms) e una ridotta sensibilità barorecettiva. Grazie agli studi condotti su tali fattori sono individuabili varie categorie di soggetti con cardiopatia ischemica a rischio particolarmente elevato 3. Tra di esse citiamo le seguenti: a. pazienti con FE < 35-40% e almeno uno dei fattori sopra elencati (BPV > 10/ora ecc.). Rappresentano circa il 15% di tutti gli IMA e hanno una mortalità a due anni > 25%, metà della quale per MI; b. pazienti con FE < 35%, TVNS all’Holter e inducibilità di TVS allo studio elettrofisiologico endocavitario (SEE) non sopprimibile con i farmaci. Rappresentano circa l’1% di tutti gli IMA e hanno una mortalità del 30% a due anni, metà della quale per MI; c. pazienti con FE < 35% e PP avviati a rivascolarizzazione chirurgica per malattia plurivasale. Hanno una mortalità a 3 anni del 20-50%, il 25-50% della quale per MI. Nello scompenso di diversa eziologia la mortalità è elevata ed è correlata con la classe funzionale. In classe II la mortalità ad un anno oscilla tra il 5 e 15%, in classe III tra 20 e 50%, in classe IV supera il 50%. La quota relativa alla MI è massima nelle classi II e III in cui la MI è responsabile dal 20 al 50% della mortalità totale. In classe IV la MI rappresenta una quota minore (5-30%) della mortalità totale a favore della morte per deficit di pompa. La presenza di TVNS è di per sé un fattore prognostico negativo, ma più in rapporto alla mortalità totale che alla MI 2. Nella cardiomiopatia ipertrofica i soggetti a rischio di MI sono quelli di età più giovane, con storia familiare di MI e con episodi sincopali. Nei pazienti con episodi documentati di TVS/FV la mortalità è molto elevata (20-50% a un anno) ed è correlata con la frequenza cardiaca della TV e ancora una volta con la FE. Prevenzione primaria della MI con i farmaci 2-4 L’ipotesi formulata negli anni ‘70-80 che i farmaci antiaritmici potessero prevenire la MI da TVS/FV è stata clamorosamente smentita da una serie di lavori. Il CAST 4 ha dimostrato che i farmaci della classe I sono controproducenti aumentando paradossalmente la mortalità in tutte le categorie a rischio. Il sotalolo ha ugualmente dimostrato un aumento della mortalità nel post-IMA (studio SWORD). Quanto all’a-

L’ARRESTO CARDIACO

miodarone, la maggioranza dei lavori ha dimostrato che a differenza dei precedenti farmaci esso non aumenta la mortalità. Alcuni lavori eseguiti nel post-IMA in soggetti con FE depressa e aritmie ventricolari (EMIAT, CAMIAT) hanno dimostrato un beneficio sulla MI ma non sulla mortalità totale. Nello scompenso cardiaco alcuni lavori (CHF-STAT) non hanno dimostrato alcun beneficio del suo impiego. Altri (studio GESICA) avrebbero invece dimostrato una riduzione della mortalità totale e della MI. Non è chiaro se la particolare composizione della casistica dello studio GESICA (costituita per 2/3 da CMD non post-IMA) possa avere influenzato i risultati. Nel post-IMA gli unici farmaci antiaritmici dimostratisi certamente efficaci nella prevenzione della MI sono i betabloccanti che in una serie di trial si sono dimostrati capaci di ridurre sia la mortalità totale che la MI. Nell’insufficienza cardiaca di diversa eziologia l’uso del metoprololo non sembra avere un effetto favorevole nel ridurre la MI (studi MCD e CIBIS). Al contrario tale effetto sembrerebbe posseduto dal carvedilolo e dal bisoprololo (studi US CHFS e CIBIS II). Gli ACE-inibitori sia nel post-IMA con FE depressa (studi SAVE, TRACE, SMILE, V-He-FTII) sia nell’insufficienza cardiaca di diversa eziologia (studi CONSENSUS, SOLVD RX, SOLVD PRE) hanno dimostrato la capacità di ridurre la mortalità totale. Una riduzione della MI tuttavia non è stata dimostrata nei pazienti con scompenso e una sua lieve riduzione è stata osservata solo in alcuni lavori nel post-IMA (studi TRACE, SMILE e V-HeFTII). La digitale non riduce la MI ed esiste al contrario il sospetto che possa aumentarla. Analoghi risultati hanno dato i calcioantagonisti. Prevenzione primaria della MI con ICD (Tab. I) 3, 5 Numerosi trial in corso cercano di dare una risposta all’ipotesi che l’ICD possa ridurre la mortalità totale e la MI nei soggetti a rischio, ipotesi che diventa una speranza data la delusione proveniente dalla terapia farmacologica. A

questo riguardo tuttavia i dati attualmente in nostro possesso sono ancora incompleti. Nei soggetti con pregresso IMA, FE depressa (< 35%), TVNS all’Holter e induzione di TVS allo SEE non sopprimibile con i farmaci, lo studio MADIT ha dimostrato una superiorità dell’ICD sulla terapia farmacologica convenzionale (incluso l’amiodarone). Infatti rispetto al gruppo di controllo il braccio ICD ha avuto globalmente una mortalità totale inferiore del 54% con una mortalità a un anno del 3% contro il 23% e a tre anni del 17% contro il 46%. Il lavoro presenta certamente alcune limitazioni (scarsa numerosità della casistica, sbilanciamento nella percentuale di casi trattati con betabloccanti nel gruppo test rispetto al gruppo di controllo ecc.) ma i risultati sono stati tali da far modificare le Linee Guida dell’American College of Cardiology e dell’American Heart Association che attualmente consigliano l’impianto dell’ICD in questa categoria di pazienti in classe I (accordo generale sul beneficio) e livello B (dati derivanti da casistica limitata) 5. L’utilità dello SEE per stratificare il rischio e indirizzare la terapia nella prevenzione primaria è stata ribadita dallo studio MUST condotto in pazienti simili a quelli del MADIT (FE < 40%, TVNS all’Holter). In tali casi è stata valutata l’inducibilità con lo SEE di una TVS, osservata nel 54% dei casi. In questa particolare popolazione i soggetti sono stati assegnati a random a un braccio di controllo o a un braccio trattato con terapia guidata dallo SEE: farmaci (quando in grado di sopprimere la TVS indotta) o ICD (nella TVS non sopprimibile con i farmaci). Nel follow-up a 5 anni la morte improvvisa è stata del 32% nei controlli, del 25% nel gruppo trattato con farmaci individuati con lo SEE e dell’8% nel gruppo ICD. Nei pazienti con FE < 35% e PP al signal averaging, sottoposti ad intervento di rivascolarizzazione chirurgica l’ICD non si è dimostrato capace, rispetto al gruppo di controllo, di ridurre né la mortalità totale né la MI (studio CABG- patch). Nello scompenso cardiaco, in attesa dei risultati dello studio SCD-HeFT, non esistono dati controllati. Nel lavoro di Brugada 6, l’ICD si è dimostrato superiore alla terapia medica o al placebo nella sindrome di Brugada asintomatica.

TABELLA I – Trial di prevenzione primaria della MI Studio

Patologia

Caratteristiche

Randomizzazione

MADIT

IMA

FE < 35% ICD vs terapia TVNS convenzionale TVS indotta con SEE non sopprimibile

CABG-patch C. ischemica FE < 35% con CABG PP+

ICD vs no ICD

MUSTT

Terapia antiaritmica (farmaci, ICD) guidata dallo SEE (TVS indotta) vs no terapia

IMA

FE < 40% TVNS PP

Prevenzione secondaria della MI con farmaci e ICD (Tab. II) 7 I primi lavori del 1980 avevano già dimostrato gli effetti favorevoli dell’ICD nella prevenzione secondaria della MI. Tali risultati furono tuttavia considerati con prudenza da vari Autori che sollevarono il dubbio che l’ICD potesse solo modificare il tipo di morte, da improvvvisa a non improvvisa, in pazienti troppo compromessi da potersi giovare di altre terapie diverse dal trapianto cardiaco. Dopo questa fase, vari trial controllati (Studi DUTCH, AVID, CASH, CIDS) hanno portano alla conclusione che nei pazienti rianimati da TVS/FV G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

41

42

L’ARRESTO CARDIACO

TABELLA II – Trial di prevenzione secondaria della MI Studio

Caratteristiche

Randomizzazione

DUTCH AVID

Arresto Arresto o TVS Arresto

ICD vs Tx convenzionale ICD vs amiodarone (96%) o sotalolo ICD vs metoprololo/ amiodarone/propafenone ICD vs amiodarone

CASH CIDS

cardiaco cardiaco sincopale cardiaco

Arresto cardiaco o TVS

secondaria della MI. È ormai certo che la miglior cura in chi ha già sofferto di sincope o presincope da TVS/FV è rappresentata dall’ICD. Anche in questo caso l’indicazione vale prevalentemente per i pazienti con FE molto bassa (< 3035%). Negli altri casi (con FE > 35-40%) può essere sufficiente la terapia medica purché guidata dai risultati dello SEE, cioè dalla dimostrazione che la TVS/FV non è più inducibile dopo la somministrazione cronica del farmaco. Bibliografia

l’ICD è superiore alla terapia medica (compreso sotalolo e amiodarone) sia nella prevenzione secondaria della MI sia nella riduzione della mortalità totale. Negli studi citati infatti la mortalità totale a 2 anni nei pazienti trattati con amiodarone (AVID, CASH E CIDS) o metoprololo (CASH) è risultata del 20-25% e addirittura del 45% nei pazienti trattati con propafenone (CASH). L’ICD ha ridotto la mortalità totale a due anni del 20-39% rispetto all’amiodarone (AVID, CASH, CIDS) e del 60% rispetto al propafenone (CASH). Un’ulteriore rianalisi dello studio AVID ha però dimostrato che l’ICD rispetto all’amiodarone presenta un beneficio solo nei pazienti con FE < 35%. Conclusioni La prevenzione della MI è tuttora un problema in gran parte irrisolto. La prevenzione primaria della MI in particolare, che dovrebbe coprire almeno il 95% dei casi, è un problema che travalica il campo della terapia medica e non medica delle aritmie e che sconfina nella profilassi primaria delle cardiopatie. Infatti, in molti casi la MI colpisce come un “fulmine a ciel sereno” soggetti precedentemente non riconosciuti come cardiopatici. I pazienti affetti da cardiopatia rappresentano certamente un gruppo a rischio. In alcune categorie infatti l’incidenza della morte improvvisa all’anno passa dall’1-2 per mille della popolazione generale a oltre il 1020%. In tutti i casi, anche nell’ambito delle patologie cardiache riconosciute, i presidi al servizio del medico sono limitati, tanto da vanificare in parte gli sforzi, economicamente anche onerosi, compiuti nella stratificazione del rischio. Al momento attuale infatti a parte l’impiego generico, e diffusamente consigliabile, degli ACE-inibitori e dei betabloccanti nei pazienti con disfunzione di pompa, non disponiamo di un farmaco ad ampio spettro capace di prevenire la morte improvvisa aritmica. Grandi aspettative vengono rivolte all’ICD ma, a parte i pazienti “tipo MADIT” (che costituiscono non più dell’1% di tutti gli IMA!) manca la dimostrazione della sua efficacia in tutte le altre categorie ad alto rischio. In questo panorama, al momento vagamente desolante, non ci resta che attendere i risultati dei numerosi trial in corso. Notizie più consolanti ci pervengono dalla prevenzione G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

1. MYERBURG RJ, INTERIAN A, MITRANI RM, KESSLER KM, CASTELLANOS A: Frequency of sudden cardiac death and profiles of risk. Am J Cardiol 1997; 80: 10F-19F. 2. URETSKY BF, SHEHAN RG: Primary prevention of sudden cardiac death in heart failure: will the solution be shocking? J Am Coll Cardiol 1997; 30: 1589-1597. 3. RAVIELE A, BONSO A, GASPARINI G, THEMISTOCLAKIS S, GIADA F: Role of ICD for the primary prevention of sudden death in post-myocardial infarction patients. G Ital Cardiol 1998; 28 (Suppl 1): 511-516. 4. THE CARDIAC ARRHYTHMIA SUPPRESSION TRIAL (CAST) INVESTIGATORS: Preliminary report: effect of encainide and flecainide on mortality in a randomized trial of arrhythmia suppression after myocardial infarction. N Engl J Med 1989; 321: 406-412. 5. GREGORATOS G, CHEITLIN MD, CONILL A, ET AL: ACC/AHA guidelines for implantation of cardiac pacemakers and arrhythmia devices: a report of the American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines (Committe on Pacemaker Implantation). J Am Coll Cardiol 1998; 31: 1175-1209. 6. BRUGADA J, BRUGADA R, BRUGADA P: Right bundle branch block and ST-segment elevation in leads V1 through V3: a marker for sudden death in patients without demonstrable structural heart disease. Circulation 1998; 97: 457-460. 7. CAPPATO R: Treatment of malignant ventricular arrhythmias: lessons from the dutch Study, AVID, CASH and CIDS. In: Atti Firenze Aritmie, 1999; 118-127.

Progetto Vita: il primo progetto europeo di defibrillazione precoce con first responders Alessandro Capucci, Daniela Aschieri, Alessandro Rosi. Divisione di Cardiologia, Ospedale Civile, Piacenza

La morte improvvisa La morte cardiaca improvvisa è la causa di un arresto cardiaco non resuscitato. L’arresto cardiaco è causato in cir-

L’ARRESTO CARDIACO

ca il 70% dei casi da una fibrillazione ventricolare, nella minoranza dei casi da asistolia. È ormai universalmente accettato che la defibrillazione elettrica rappresenta l’unico intervento efficace in pazienti con fibrillazione ventricolare. Questo concetto è emerso già a partire dagli anni ‘60 quando sono sorte le prime Unità Coronariche: sino ad allora il 30% dei pazienti giunti vivi in ospedale moriva: di questi decessi il 50% era dovuto ad arresto cardiaco. Da quando si sono costituite le Unità di Terapia Intensiva Coronarica con letti monitorati e possibilità di un tempestivo intervento di defibrillazione, la mortalità per arresto cardiaco si è nettamente ridotta. Risulta evidente che anche fuori dall’ospedale l’arresto cardiaco può essere “combattuto” non tanto arrivando sulla vittima con un defibrillatore, ma arrivandoci in tempo utile. L’arrivo del medico con l’ambulanza e il defibrillatore supera quasi sempre i 5 minuti “d’oro” richiesti per un intervento efficace. Soprattutto nelle grandi città e nei paesi di provincia la morte improvvisa non trova rimedio con gli attuali mezzi di soccorso. L’arresto cardiaco extraospedaliero La morte improvvisa rappresenta un grande problema sociale di cui sino ad oggi si è sentito poco parlare anche per l’impossibilità di poterla affrontare con i mezzi adeguati. In Europa la morte improvvisa colpisce circa 1/1000 abitanti all’anno, con percentuali di sopravvivenza che variano dal 2 al 13% a seconda dei centri considerati. Ogni minuto che trascorre dall’arresto cardiaco scendono del 10% le possibilità di salvare il paziente. Il ritardo dell’intervento di defibrillazione è dunque la causa primaria di questa drammatica casistica di morte. Lo dimostra il fatto che in città come Seattle 1 e Rochester 2 negli Stati Uniti, programmi di defibrillazione elettrica precoce sul territorio hanno aumentato le percentuali di sopravvivenza al 30 e 46% rispettivamente. Nel Regno Unito le ambulanze con medico e defibrillatore sono state introdotte già a partire dagli anni ‘70 e personale infermieristico è stato addestrato alla defibrillazione a partire dal 1980. Il target del programma di addestramento del personale sanitario alla rianimazione cardiopolmonare nel Regno Unito è ormai stato raggiunto. Tuttavia dati statistici provenienti dall’Inghilterra e dalla Scozia dimostrano che non vi è stato un effettivo incremento della sopravvivenza da arresto cardiaco (14% nel 1987 e 11.4% nel 1992-93) 3-5. In uno studio retrospettivo di Soo et al 6 di 520 pazienti sottoposti a manovre di rianimazione da parte di personale medico in ambiente extraospedaliero e 551 persone sottoposte a manovre di rianimazione da personale infermieristico, solo il 6.9 e il 15.6% rispettivamente sono giunti vivi in ospedale. Il tempo medio di intervento era di 6 minuti, dalla chiamata all’arrivo sul posto dell’evento. Di questi pazienti

solo il 4.4% del primo gruppo e il 5.8% del secondo gruppo sono stati dimessi vivi, nonostante gli sforzi condotti per addestrare il personale sanitario. Quindi la chiave di volta per aumentare la sopravvivenza in pazienti colpiti da arresto cardiaco extraospedaliero non è tanto potenziare i mezzi del soccorso sanitario (automedica, ambulanze super attrezzate, personale altamente qualificato) ma decentrare l’intervento di defibrillazione con strutture operative sul territorio che possono intervenire entro i fatidici 5 minuti. Tempi superiori di intervento fanno sì che, anche se rianimato, il paziente subisca danni anossici irreversibili al cuore e al cervello che lo rendono irreversibilmente invalido o ne causano il decesso in ospedale. Defibrillazione elettrica precoce Negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, una grande enfasi è stata data alla defibrillazione elettrica precoce come unico intervento utile per una rianimazione efficace in pazienti in fibrillazione ventricolare o tachicardia ventricolare senza polso. L’American Heart Association ha stimato che circa 50 000 vittime della morte improvvisa negli Stati Uniti potrebbero essere salvate se gli interventi di defibrillazione elettrica precoce fossero potenziati. Una campagna di sensibilizzazione per progetti dei defibrillazione “by first responders in the community” viene promossa dall’American Heart Association a questo scopo 7, 8. Per rendere più rapido possibile l’intervento di defibrillazione, l’International Liaison Committee on Resuscitation (ILCOR) 9 sta diffondendo il concetto che in molti contesti di emergenza anche personale sanitario non medico dovrebbe essere addestrato, autorizzato e incoraggiato ad eseguire interventi di defibrillazione con defibrillatori semiautomatici. ILCOR raccomanda anche che personale non sanitario dell’emergenza (autisti di ambulanze, personale che fa assistenza negli ospedali, personale volontario dell’ambulanza) sia in grado di intervenire con defibrillazione elettrica se si trova a dovere affrontare l’emergenza di un arresto cardiaco. Tale raccomandazione include anche personale volontario che non lavora nelle ambulanze (first responders in the community). I first responders sono persone addestrate che lavorano, coordinate da un responsabile medico, in parallelo con gli operatori sanitari dell’emergenza. Tale personale comprende poliziotti, vigili del fuoco, personale che lavora in grandi fabbriche che, adeguatamente addestrato e coordinato, può intervenire in attesa del soccorso medico-sanitario. Esperienze statunitensi È stato dimostrato negli Stati Uniti che nelle città dove la defibrillazione elettrica viene praticata solo da personale medico qualificato la percentuale di sopravvivenza dopo arG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

43

44

L’ARRESTO CARDIACO

resto cardiaco è minima (New York: 1-2%). Invece nei centri dove anche personale non medico (Polizia) è abilitata alla procedura, la percentuale di sopravvivenza raggiunge il 47% (Rochester-Minnesota) 1. È importante sottolineare che una volta “resuscitati” da un arresto cardiaco, questi pazienti presentano una buona aspettativa di vita: dopo due anni dall’evento la percentuale di sopravvissuti è del 25-35%, anche grazie alla possibilità di impiantare defibrillatori interni automatici, sottoporli a interventi di cardiochirurgia o angioplastica coronarica.

sa più vicino all’evento. La richiesta di intervento del defibrillatore semiautomatico viene codificata come “Codice Blu”, con il quale si identificano le chiamate giunte in centrale operativa del 118 per pazienti con perdita di coscienza. Il personale che riceve la chiamata dell’operatore 118 interviene secondo le modalità previste da un protocollo di intervento precedentemente stabilito con il Dipartimento Emergenza Urgenza. Quali regole?

Programmi di defibrillazione elettrica precoce in Italia: il Progetto Vita di Piacenza Il primo programma di defibrillazione elettrica precoce condotta da “first responders” in Europa è attualmente quello di Piacenza. Questo progetto (Progetto Vita) è operativo dal 6 giugno 1999 e prevede l’impiego di 289 volontari laici addestrati all’uso del defibrillatore semiautomatico. A Piacenza, città di circa 100 000 abitanti, sono stati dislocati 27 defibrillatori semiautomatici (Heartstart FR) (Fig. 1). Di questi 15 sono in sedi fisse (piazza principale della città, piazza del mercato presso una farmacia, stazione ferroviaria, 3 centri sportivi con piscina, uffici della posta centrale, Stadio Comunale, 2 Caserma Vigili del Fuoco, 1 casa circondariale, Università Cattolica) e 12 sono stati dati in dotazione alle pattuglie di polizia di stato, guardia di finanza e polizia municipale). La centrale operativa del 118 coordina gli interventi inviando la chiamata alla pattuglia o al personale di sede fis-

Il personale volontario del Progetto Vita è stato addestrato secondo le linee guida American Heart Association da un gruppo di 22 insegnanti medici e infermieri. Corsi di retraining vengono fatti ogni 3 mesi per la verifica dello stato di addestramento del personale. Il defibrillatore semiautomatico è provvisto di una scheda PCMCI che registra l’evento (elettrocardiogramma e voci dei soccorritori) ogni qual volta il defibrillatore viene attivato. L’utilizzo del defibrillatore è sempre secondario all’attivazione del sistema di emergenza 118 che interviene secondo le normali modalità di attivazione. Quindi: – ogni defibrillatore deve essere denunciato alla centrale operativa 118 che ne può richiedere l’intervento laddove necessario; – i volontari devono essere addestrati secondo linee guida internazionali; – per ogni intervento del defibrillatore deve essere attivata la centrale operativa 118 per l’attivazione del soccorso avanzato.

Fig. 1.

G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

L’ARRESTO CARDIACO

Risultati preliminari Alla centrale operativa 118 dal 6 giugno ’99 sono state effettuate 56 chiamate che il personale ha codificato come “codice blu”. Di queste 51 erano “falsi allarmi”, cioè pazienti non in arresto cardiaco, ma caduti a terra accidentalmente, per lipotimie, per ictus o per stato di ebrezza alcoolica. In 5 casi è stato applicato il defibrillatore da parte del personale volontario: si trattava di 4 casi di asistolia e di un caso di fibrillazione ventricolare. In questo caso l’intervento di defibrillazione elettrica è stato condotto dal personale di una pattuglia volante della polizia di stato. Il ripristino del ritmo sinusale è avvenuto al primo shock. Il paziente è stato dimesso vivo dall’ospedale in buone condizioni. Il progetto prevede ora l’estensione della rete dei defibrillatori alla provincia di Piacenza dove verranno addestrati volontari delle pubbliche assistenze e personale laico laddove i volontari non sono organizzati.

Bibliografia 1. COBB LA,WEAVER WD, FAHRENBRUCH CE, HALLSTROM AP, COPASS MK: Community-based interventions for sudden cardiac death. Impact, limitations, and changes. Circulation 1992; 85 (Suppl 1): 198-202. 2. WHITE RD, ASPLIN BR, BUGLIOSI TF, HANKINS DG: High discharge survival rate after out-of-hospital ventricular fibrillation by policeman and paramedics. Ann Emerg Med 1996; 28: 480-485. 3. SEDWICK ML, DALZIEL K, WATSON J, CARRINGTON DJ, COBBE SM:

Performance of an established system of first responder outof-hospital defibrillation. The results of the second year of the Heartstart Scotland Project in the “Utstein Style”. Resuscitation 1993; 26: 75-88. 4. WRIGHT D, BANNISTER J, RYDER M, MAACKINTOSH AF: Resuscitation of patients with cardiac arrest by ambulance staff with extended training in West Yorkshire. Br Med J 1990; 301: 600-602. 5. GULY UM, MITHCHELL RG, COOK R, STEEDMAN DJ, ROBERTSON CE: Paramedics and technicians are equally successful at managing cardiac arrest outside hospital. Br Med J 1995; 310: 1091-1094. 6. SOO LH, GRAY D, YOUNG T, SKENET TA, HAMPTON JR: Influence of ambulance crew’s length of experience on the outcome of out-of-hospital cardiac arrest. Eur Heart J 1999; 20: 535-540. 7. COBBE SM, REDMOND MJ, WATSON JM, HOLLINGWORTH J, CARRINGTON DJ: Heartstart Scotland - initial experience of a national scheme of out of hospital defibrillation. Br Med J 1991; 302; 1517-1520. 8. WEISFWLDT ML, KERBER RE, MCGOLDRICK RP, ET AL: Public access defibrillation: a statement for healthcare professionals from the American Heart Association Task Force on the Automatic External Defibrillation. Circulation 1995; 92: 2763. 9. WEISFELD JP, KERBER RE, MCGOLDRICK RP, ET AL: American Heart Association report on The Public Access Defibrillation Conference. December 1994; Automatic External Defibrillation Task Force. Circulation 1995; 92: 2740-2747. 10. KLOECK W, CUMMINS RO, CHAMBERLAIN D, ET AL: ILCOR Advisory Statement. Early defibrillation: An Advisory Statement From the Advanced Life Support WORKING Group of the International LIASON committee on Resuscitation. Circulation 1997; 95: 2183-2184.

G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999

45

Related Documents