LA GESTIONE DELLE SINDROMI CORONARICHE ACUTE
SIMPOSIO
LA GESTIONE DELLE SINDROMI CORONARICHE ACUTE La stratificazione prognostica Francesco Chiarella. Divisione di Cardiologia, Ospedale Galliera, Genova
Il percorso del paziente con sindrome ischemica acuta può variare in base alla sua precoce collocazione in una fascia a maggiore o minore rischio. La necessità di un bilancio preliminare si pone fin dal momento del primo soccorso per la comparsa di sintomi. Il momento iniziale risulta determinante perché decide dell’invio ad una struttura ove verrà effettuato trattamento medico o a sede in cui è praticabile anche il trattamento invasivo. Nel processo di stratificazione prognostica possiamo distinguere tre livelli: il primo si configura nell’immediatezza dell’incontro con il paziente e richiede la conoscenza del peso delle variabili anamnestiche e cliniche; nel secondo entrano in gioco le informazioni ottenibili dall’elettrocardiogramma; il terzo livello si dispiega in un maggior arco di tempo e si giova dei dati di laboratorio e del monitoraggio di parametri clinici e strumentali. Variabili anagrafiche, anamnestiche, cliniche Il GUSTO-I ci ha insegnato che semplici parametri clinici forniscono la maggior parte delle informazioni prognostiche relative alla fase intraospedaliera e a quella successiva: l’età, la classe Killip, l’ipotensione arteriosa, la tachicardia, la localizzazione anteriore dell’IMA veicolano il 90% del contenuto prognostico globale e costituiscono la base della piramide della stratificazione prognostica con riferimento alla mortalità a 30 giorni 1. L’età è un importante determinante prognostico 2-4. Nei soggetti con angina e con infarto miocardico acuto gli eventi aumentano con l’età e sono significativamente più frequenti oltre i 65 anni. Nel GUSTO-I la mortalità per infarto sotto i 45 anni non raggiunge l’1%, ma oltre i 60 anni aumenta esponenzialmente superando il 20% oltre il 75° anno. Per spiegare l’elevata mortalità degli anziani sono stati chiamati in causa vari fattori tra cui la maggiore estensione della malattia coronarica, il ritardo della ospedalizzazione, la maggiore incidenza di pregressi infarti, di comorbilità, di disfunzione ventricolare, il minor impiego di trombolitico e di betabloccante, la lentezza dei processi di cicatrizzazione. I pazienti di sesso femminile hanno una mortalità più elevata; nel GUSTO-I il sesso viene considerato significativo ma debole fattore prognostico indipendente 1. Quando al sesso femminile si associa il diabete il numero di
eventi è particolarmente elevato: nelle donne diabetiche la mortalità ospedaliera raddoppia. Uno o più episodi infartuali precedenti ed un pregresso by-pass condizionano la mortalità precoce e quella a 6 mesi. Nel diabete le alterazioni metaboliche favoriscono la crescita di placche voluminose ad alto rischio di fissurazione, pertanto questa malattia comporta una prognosi peggiore in termini di mortalità, di scompenso (a parità di estensione di area infartuale), di ictus non emorragico 5. Precedenti episodi cerebrovascolari e segni clinici di arteriopatia periferica hanno uno sfavorevole significato prognostico: i primi aumentano il rischio di mortalità nel GUSTO-I, i secondi nello studio SPRINT si associano a maggior rischio di reinfarto ad un anno. Variazioni pressorie sia in eccesso che in riduzione sono da considerare sfavorevolmente. Nell’infarto acuto l’ipotensione all’ingresso è correlata con maggiore mortalità (GUSTO-I). La rilevanza prognostica sfavorevole della ipotensione secondaria ad insufficienza ventricolare sinistra nei pazienti con angina è documentata nello studio AI-CARE. Una pressione arteriosa superiore al normale è un fattore prognostico negativo sia nei pazienti anginosi che nell’infarto; negli ipertesi arruolati nel GISSI-2 sono risultate più elevate la mortalità ospedaliera e quella a sei mesi 6. Variazioni della frequenza cardiaca sia in aumento che in riduzione risultano prognosticamente svantaggiose (GUSTO-I). La tachicardia che nell’infarto acuto si riscontra tanto più quanto più la necrosi è estesa, è secondaria alla attivazione del sistema simpatico e tende a contrastare la riduzione della gittata. Nel GISSI-2 l’incremento della frequenza correla con la mortalità ospedaliera e a sei mesi. Tra i dati anamnestici anche l’insorgenza di angina postinfartuale precoce (prime due giornate) riveste significato prognostico sfavorevole. Elettrocardiogramma L’elettrocardiogramma è un sussidio strumentale ubiquitario la cui traccia, grazie alla automatizzazione del referto ed alla trasmissibilità del segnale, è di agevole lettura non solo per lo specialista ma anche per il primo soccorritore. Nel paziente con dolore toracico e sospetta sindrome coronarica acuta la modalità di presentazione elettrocardiografica contiene elementi di grande importanza ai fini della stratificazione prognostica: le alterazioni del complesso QRS, del tratto ST e dell’onda T aiutano a collocare il paziente nella appropriata categoria di rischio e quindi indirizzano alla sede idonea e al tipo di trattamento più confacente. La prognosi è più favorevole in assenza di alterazioni del tratto ST o qualora vi siano soltanto onde T negative. La mortalità ospedaliera risulta maggiore quanto più numerose le derivazioni con onda di lesione; la più alta mortalità nell’infarto anteriore rispecchia il maggior numero di derivazioni impegnate (> 3 derivazioni in oltre il 95% dei casi). Tra gli altri indicatori di prognosi sfavorevole sono stati individuati G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
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il sottolivellamento del tratto ST in più derivazioni; la somma della deviazione assoluta del tratto ST (sia sopra che sotto livellamento); la compromissione del ventricolo destro nell’IMA inferiore; la comparsa di fibrillazione atriale e di aritmie ipercinetiche ventricolari (FV primaria o secondaria, TV sostenuta), disturbi di conduzione AV. Il grado ed i tempi di risoluzione del sopralivellamento del stratto ST rivestono importante significato prognostico nel paziente trombolisato: la mancata o parziale risoluzione indica maggior rischio, la completa e rapida risoluzione è prognosticamente favorevole, la ricomparsa di sopralivellamento ST in momenti successivi dimostra un substrato instabile e richiede ulteriori e rapidi provvedimenti terapeutici. Una recente disamina dei risultati dello studio GUSTOIIb ha dimostrato che mentre la morte è il più frequente evento hard nei pazienti con sopralivellamento del tratto ST, nei pazienti con sottolivellamento del tratto ST l’evento più frequente è il reinfarto 7. Nello stesso GUSTO-IIb è stata evidenziata nelle sindromi coronariche acute una maggiore mortalità a 30 giorni sulla base di alterazioni ECG (onda T invertita: mortalità di 5.5%; sopralivellamento di ST: mortalità 9.4%; sottolivellamento di ST: mortalità 10.5%; concomitante presenza di ST sopra e sottolivellato 12.4% (p < 0.001) 8. Il sottolivellamento del tratto ST è un indicatore prognostico negativo. Nello studio HINT viene riportata la relazione tra entità del sottolivellamento di ST ed incidenza di infarto ad una settimana: nei casi con sottolivellamento superiore a 2 mm è elevato il rischio di sviluppare un infarto a breve termine. Nello studio TRIM il sottolivellamento di ST correla con un più elevato tasso di eventi (morte, IM, angina refrattaria) sia nelle prime giornate cha a 30 giorni 9. Variabili bioumorali Gli indici bioumorali di necrosi miocardica che per circa mezzo secolo sono stati impiegati in cardiologia sono in parte affiancati ed in parte superati da nuovi marcatori più cardiospecifici quali le troponine. È noto il significato prognostico del valore di picco degli enzimi cardiaci in relazione alla estensione dell’area di necrosi. Anche la cinetica di dismissione ha rilievo prognostico: un tempo di picco di CK inferiore alle 12 ore identifica i pazienti riperfusi con una sensibilità ed una specificità intorno all’85%. Le troponine, proteine dell’apparato contrattile del muscolo striato, regolano l’interazione calcio mediata di actina e miosina. Le isoforme per le fibre muscolari cardiache, costituite dalla cTnT e cTnI, si sono rivelate marcatori di danno miocardico più sensibili dei tradizionali, con specificità elevata, favorevole cinetica di rilascio e facile dosabilità 10. La negatività delle troponine ha valore predittivo negativo per eventi. L’integrazione di tale dato con quelli clinici ed elettrocardiografici permette di separare la G Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
popolazione a basso rischio da trattare con terapia medica da quella ad alto rischio da candidare a trattamento aggressivo. L’informazione prognostica delle troponine è incrementale rispetto al dosaggio dell’isoenzima MB della CK; inoltre non solo è legata alla loro presenza o assenza nel plasma ma cresce al crescere del valore rilevato 11. Nel GUSTO II la positivizzazione della troponina sia all’ingresso che nel corso delle prime ore di ricovero correla sfavorevolmente con la prognosi. Nei pazienti con angina instabile o IMA evolvente senza sopralivellamento ST l’aumentato livello sierico delle troponine si è rivelato un potente predittore indipendente di morte e reinfarto sia a breve che a lungo termine. L’assenza di positività non esclude la cardiopatia ischemica ma identifica pazienti a più basso rischio di eventi cardiaci. È cruciale il momento del campionamento. Nello studio CAPTURE 12 è stato riconosciuto adeguato campionare a 8.7 ore dall’inizio della sintomatologia mentre una singola misurazione ottenuta all’arrivo del paziente non risultava appropriata per determinare il livello di rischio. Nei pazienti con angina instabile l’aumento delle troponine T e I è un indicatore sfavorevole di prognosi 13, 14; sulla base della positività si può identificare l’80% di coloro che andranno incontro a gravi eventi cardiaci a breve termine. La positività delle troponine nell’angina instabile riflette la presenza di un processo trombotico attivo con embolizzazione distale di trombi piastrinici. Nei pazienti con sindrome coronarica acuta se i valori di troponina sono elevati la prognosi è peggiore sia a breve che a lungo termine. Quindi la presenza o meno di troponina divide la popolazione con sindromi coronariche acute in due sottogruppi a prognosi differente. Un esempio di come venga indirizzata la terapia sulla base dellla troponina è fornito dallo studio CAPTURE 12, in cui si è valutato l’effetto dell’abciximab nel prevenire o ridurre le complicanze prima, durante e dopo PTCA in pazienti con angina stabile refrattaria: il gruppo con elevazione di troponina T si avvantaggiava della terapia con inibitori del recettore piastrinico GP IIB/IIIA, mentre nei soggetti senza elevazione di troponina T l’impiego di abciximab non ha procurato alcun beneficio. Ulteriori elementi potranno essere forniti dai risultati del TACTICS che pone a confronto la strategia aggressiva di rivascolarizzazione con quella conservativa sotto terapia antitrombotica massimale ASA, tirofiban, eparina. Tale studio valuterà anche l’efficacia delle due strategie a seconda dei valori di troponina e della presenza o meno di infarto miocardico. Altri marker bioumorali sono al vaglio della ricerca dopo interessanti risultati preliminari. Tra essi spiccano gli indicatori di infiammazione ed in particolare la proteina C reattiva la cui precoce elevazione nei pazienti con angina instabile o IMA non Q associata ad elevata troponina T identifica un sottogruppo ad alto rischio di eventi cardiaci a breve termine.
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La gestione delle sindromi coronariche acute. Nuovi approcci farmacologici Marcello Galvani, Francesca A. Nicolini, Donatella Ferrini, Filippo Ottani. Unità di Ricerca Cardiovascolare, Fondazione Cardiologica “M.Z. Sacco” – ONLUS, Forlì
La prevenzione farmacologica della progressione della trombosi coronarica verso la morte e l’infarto miocardico acuto è affidata alla somministrazione di aspirina ed eparina non-frazionata (UFH) per via endovenosa. Questo approccio stabilizza il quadro clinico in più dell’80% dei pazienti e riduce a breve termine l’incidenza di eventi cardiaci gravi di più del 60%. Tuttavia, nonostante ciò, a un mese dal ricovero l’incidenza degli eventi è circa 10%, e a 6 mesi la percentuale sale a 20% 1. Ciò indica la necessità di nuovi approcci terapeutici in grado di migliorare ulteriormente la prevenzione delle complicanze della trombosi coronarica e conferma l’opportunità di sviluppare strategie differenti, utili a stabilizzare la placca coronarica complicata 2. Il principale progresso verso un miglior controllo della trombosi coronarica è senza dubbio rappresentato dallo sviluppo delle eparine a basso peso molecolare (LMWHs) e degli inibitori del recettore piastrinico per il fibrinogeno GPIIb/IIIa che, in alternativa (le prime) o in aggiunta (i secondi) al trattamento antitrombotico tradizionale, sono in grado di migliorare complessivamente la gestione dei pazienti con sindromi coronariche acute. Scopo di questa revisione è quello di riassumere i risultati dei principali trial clinici condotti su questo argomento. Non verranno in questa sede trattati gli antitrombinici diretti, farmaci utili nella fase acuta della malattia, ma il cui beneficio tende a perdersi una volta sospeso il farmaco 3, 4. Eparine a basso peso molecolare Negli ultimi anni numerosi studi clinici hanno permesso di definire con sufficiente chiarezza i vantaggi delle LMWHs rispetto alla UFH 5. Le LMWHs si ottengono dalla UFH con vari metodi di depolimerizzazione chimica o enzimatica. Hanno un peso molecolare variabile tra 2000 e 10 000 D, medio di 40006000 D. La depolimerizzazione della UFH in frammenti a più basso peso molecolare determina: 1) ridotta capacità di inibire la trombina, e quindi aumento relativo della capacità di inibire il fattore Xa; 2) ridotto legame con le proteine plasmatiche; 3) ridotto legame con i macrofagi ed endotelio con conseguente aumento dell’emivita plasmatica; 4) ridotto legame con le piastrine e il fattore piastrinico 4 che spiega la ridotta incidenza di piastrinopenia da eparina; 5) minor legame con gli osteoblasti e conseguente minor attivazione degli osteoclasti e minor osteoporosi.
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Analogamente alla UFH, le LMWHs esercitano il loro effetto attivando l’antitrombina III. Dal momento che solo il 25-50% delle specie molecolari superano in lunghezza la soglia minima di 18 unità monosaccaridiche necessaria per inattivare la trombina, mentre tutte contengono l’unità pentasaccaridica che inattiva il fattore Xa, le LMWHs hanno un rapporto di attività anti-Xa/anti-IIa che varia tra 4:1 e 2:1. Dal momento che ciascuna molecola di fattore Xa finisce col produrre numerose molecole di trombina, i farmaci che inibiscono con efficacia il fattore Xa esercitano un potente effetto anti-trombotico 5-7. L’effetto delle LMWHs nei pazienti con sindromi coronariche acute è stato per la prima volta studiato nello studio FRISC 8 in cui la dalteparina è stata confrontata con il placebo in pazienti trattati con aspirina. Nello studio FRIC 9 invece, la dalteparina (120 UI/kg s.c. 2 volte/die per 6 giorni seguita da 7500 UI/die per 45 giorni) è stata confrontata con la UFH in pazienti con angina instabile/IMA non-Q ricoverati entro 72 ore dall’ultimo episodio di angina, trattati con aspirina. L’end-point composito di morte, infarto miocardico non-fatale e angina ricorrente a 6 giorni dal ricovero è stato registrato con frequenza non significativamente differente (9.3 vs 7.6%) nei pazienti trattati rispettivamente con dalteparina ed UFH. Lo studio non era però di dimensioni tali da stabilire con sufficiente sicurezza l’equivalenza tra i due trattamenti La nadroparina è stata studiata in confronto con la UFH nello studio FRAX.I.S. che ha arruolato 3468 pazienti con angina instabile/IMA non-Q trattati con nadroparina 87 UI/kg 2 volte al dì per 6 giorni o per 14 giorni in confronto con la UFH per via endovenosa. L’incidenza dell’end-point primario dello studio (morte, infarto miocardico non-fatale e angina refrattaria a 14 giorni dall’ingresso) è risultata simile nei 3 gruppi di pazienti: 17.8, 20.1, e 18.1% rispettivamente (dati presentati al Congresso ESC; Vienna 1998). Lo studio ESSENCE 10 ha studiato l’enoxaparina (1 mg/kg 2 volte al dì) in confronto alla UFH in 3171 pazienti con sindromi coronariche acute. A distanza di 14 giorni l’end-point cumulativo di morte/infarto miocardico/angina ricorrente veniva significativamente ridotto dall’enoxaparina (16.5 vs 19.8%; odds ratio 0.80). Il beneficio era mantenuto a 30 giorni e 1 anno. Il maggior costo dell’enoxaparina era compensato dal risparmio di procedure diagnostiche e di rivascolarizzazione. Il limite principale di questo studio è rappresentato dal fatto che la UFH è stata in una certa qual misura penalizzata in quanto è stata usata a dose fissa e per un breve periodo di tempo (2.6 giorni). Per confermare e superare i risultati dello studio ESSENCE è stato condotto il trial TIMI 11B, recentemente pubblicato 11. In questo studio la UFH è stata utilizzata ad una dose aggiustata per il peso corporeo per un tempo maggiore rispetto a quanto accaduto nell’ESSENCE (3 giorni). L’enoxaparina, a differenza dello studio ESSENCE, è stata iniziata in bolo (30 mg) seguito dalla somministrazione delG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
la dose “classica” di 1 mg/kg due volte al giorno per sei giorni (la dose superiore di 1.25 mg/kg testata nello studio TIMI 11A 12 era risultata associata ad un aumento significativo delle emorragie maggiori). Una percentuale rilevante di pazienti ha proseguito il trattamento con enoxaparina fino a 6 settimane dall’inclusione nello studio ad una dose modificata (40 mg per i pazienti di peso < 65 kg, 60 mg per quelli di peso superiore). L’end-point primario dello studio era un combinato di morte, infarto miocardico non-fatale e rivascolarizzazione urgente a 8 giorni che è risultato ridotto del 17% (p = 0.048, da 14.5 a 12.4%) nei pazienti trattati con enoxaparina. Tuttavia il trattamento prolungato non è stato in grado di prevenire ulteriori eventi ischemici, anzi è risultato associato ad un aumento delle emorragie maggiori. Vi è comunque da considerare che né l’ESSENCE né il TIMI 11B sono studi di dimensioni tali da avere potenza statistica sufficiente da evidenziare con certezza differenze nell’incidenza di morte o infarto miocardico non-fatale. Per tale motivo è stata condotta una metanalisi dei due trial 13 che ha dimostrato una riduzione di circa il 20% di morte ed infarto miocardico non-fatale nei pazienti trattati con enoxaparina a partire dalle prime ore di trattamento fino a 43 giorni. La conclusione certa che deriva dall’analisi di questi dati è che l’enoxaparina può sostituire la UFH nel trattamento della fase acuta del paziente con cardiopatia ischemica instabile. Tuttavia, resta ancora da chiarire: 1) se l’enoxaparina debba sostituire la UFH in tutti i pazienti; e se 2) vi siano differenze sostanziali (ovvero se vi sia o meno un effetto di classe) tra le varie LMWHs (dalteparina e nadroparina verso enoxaparina). La discussione dettagliata di tali punti esula dagli scopi di questa revisione, anche se si può anticipare che al momento attuale, non esistendo confronti diretti tra le diverse molecole, non è possibile dare una risposta definitiva. Se certamente differenze farmacologiche tra queste molecole esistono (rapporto di inibizione Xa/IIa, durata dell’inibizione del Xa, dose impiegata), bisogna anche considerare che la selezione dei pazienti inclusi negli studi clinici è importante nel determinare l’entità dell’effetto osservato (pazienti più ad alto rischio nell’ESSENCE e TIMI 11B rispetto a FRIC e FRAXIS). Inibitori della glicoproteina (GP) IIb/IIIa Stanno per entrare nella pratica dell’Unità Coronarica anche i nuovi farmaci antipiastrinici in grado di bloccare il recettore piastrinico glicoproteico (GP) IIb/IIIa, recettore che rappresenta la via finale comune dell’aggregazione piastrinica. Infatti tutti gli stimoli che conducono all’attivazione e all’aggregazione piastrinica (adrenalina, esposizione al collagene sub-endoteliale, trombina, ADP, etc.) conducono direttamente o attraverso la via dell’ossigenazione ciclica dell’acido arachidonico all’esposizione del recettore GPIIb/IIIa sulla superficie della piastrina, al legame di questo con il fi-
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brinogeno plasmatico, cioè all’aggregazione piastrinica, e quindi alla formazione e propagazione del trombo arterioso. Ne consegue che un antagonismo efficiente del recettore GPIIb/IIIa è un modo più efficace di inibire l’aggregazione piastrinica rispetto a quello tradizionale, l’acetilazione irreversibile della ciclo-ossigenasi ad opera dell’aspirina, approccio in grado di inibire una sola delle molteplici vie di attivazione delle piastrine 14. I primi agenti con attività specifica contro il recettore GPIIb/IIIa sono stati gli anticorpi monoclonali. Coller e collaboratori hanno il merito di aver disegnato l’anticorpo 7E3, un anticorpo murino che ha nel tempo subito una notevole evoluzione 15. Questo composto è stato rinominato abciximab e, come tutti sappiamo, è entrato in commercio con il nome di ReoPro® (Centocor, Eli Lilly). Per superare alcune limitazioni dell’abciximab, quali l’immunogenicità, il blocco irreversibile del recettore piastrinico e l’assenza di assorbimento a livello intestinale, sono stati rapidamente sviluppati numerosi altri composti, prima di natura peptidica e poi sintetica. Tra i peptidi, è stato approvato per l’uso clinico nelle sindromi coronariche acute l’eptafibatide (Integrilin®, Schering Plough). Tra i derivati peptidici sintetici, è stato approvato per l’uso clinico il tirofiban (Aggrastat®, Merck Sharp & Dome) mentre il lamifiban (Hoffman La-Roche) ha terminato la fase III della sperimentazione, della quale non si conoscono ancora i risultati (studio PARAGON-B). La tabella I riassume le principali differenze tra gli inibitori noncompetitivi, ovvero l’abciximab, e quelli competitivi. L’abciximab non ha al momento attuale indicazione nei pazienti con sindromi coronariche acute al di fuori degli interventi di rivascolarizzazione percutanea 16, anche se è ipotizzabile un uso nei pazienti con angina instabile refrattaria anche al di fuori di procedure di rivascolarizzazione immediata. Questo aspetto è attualmente valutato anche nell’ambito di un registro italiano (OVERTURE). Il tirofiban è stato valutato in 2 studi: PRISM 17 e PRISM-Plus 18. Nel PRISM è stato osservato un effetto favorevole del tirofiban in alternativa al trattamento con UFH. Tuttavia il riscontro di un eccesso di eventi cardiaci nei pazienti del PRISM-Plus trattati con il solo tirofiban ha portato a studiare il farmaco solo in aggiunta alla terapia antitrombotica TABELLA I – Differenze tra gli antagonisti del recettore GP IIb/IIIa Inibitori non-competitivi (esempio: abciximab)
Legame al recettore Specificità per il GP IIb/IIIa Emivita plasmatica Emivita biologica
Irreversibile Cross-reattività con altri recettori integrinici Breve Lunga, l’inibizione piastrinica può durare per giorni Rischio immunogenico Significativo
Inibitori competitivi (esempio: tirofiban)
Reversibile Alta specificità, nessuna cross-reattività Breve Dose-dipendente, cessa con il termine dell’infusione Assente
convenzionale. Nello studio PRISM-Plus il tirofiban (bolo di 0.4 µg/kg/min per 30 min seguito da infusione di 0.1 µg/kg/min per almeno 48 ore) è stato valutato in 1560 pazienti ad alto rischio il 70% dei quali sottoposto a coronarografia entro 48 ore dall’ingresso e il 30% a PTCA (pazienti questi nei quali l’infusione è stata continuata fino a 96 ore). L’end-point composito dello studio (morte/infarto miocardico/ischemia refrattaria a 7 giorni) è stato ridotto del 44% nei pazienti trattati; la morte e l’infarto miocardico sono stati ridotti del 30%, dall’11.9 all’8.7% (p = 0.03). I risultati osservati nella fase acuta sono stati mantenuti anche a 6 mesi. L’incidenza di sanguinamento maggiore in ambedue gli studi è stata simile nei pazienti trattati e non trattati con tirofiban. Nello studio PURSUIT 19 sono stati studiati circa 11 000 pazienti con dolore anginoso entro 24 ore ed ECG positivo per ischemia acuta. L’analisi finale è stata condotta su 4722 pazienti trattati con eptafibatide ad alta dose (bolo di 180 µg/kg seguito da infusione di 2.0 µg/kg/min per almeno 48 ore) e su 4739 pazienti trattati con placebo. L’incidenza di eventi emorragici (prevalentemente minori) è stata raddoppiata dal trattamento con eptafibatide, mentre l’incidenza di piastrinopenia è risultata simile. È stato osservato un effetto tempo-dipendente dell’eptafibatide. Infatti a 96 ore la riduzione dell’end-point dello studio (morte/infarto re-infarto miocardico) è stata del 17%, a 7 giorni del 15%, a 30 giorni (end-point primario) 11% (14.2 vs 15.7%; p = 0.04). Complessivamente considerati, i risultati di questi studi indicano una sicura efficacia degli inibitori del recettore GP IIb/IIIa nei pazienti con sindromi coronariche acute, ma il beneficio sembra inferiore a quello osservato negli studi in cui questi farmaci sono stati utilizzati per prevenire le complicanze trombotiche degli interventi di rivascolarizzazione percutanea 20. Sebbene ciò sia in parte spiegato dall’uso di diversi farmaci nei 2 contesti (inibitori competitivi nei primi, principalmente abciximab nei secondi), resta da chiarire se in generale gli inibitori della GPIIb/IIIa hanno un effetto minore nei pazienti che vengono trattati secondo una strategia conservativa. Abbiamo perciò condotto una metanalisi (Fig. 1) sui dati disponibili dello studio PRISM-Plus e PURSUIT. I pazienti sono stati divisi a seconda che siano stati trattati con sola terapia medica oppure sottoposti a procedura di rivascolarizzazione durante l’infusione del farmaco. L’incidenza di morte ed infarto miocardico non-fatale a 30 giorni sembra ridotta dal trattamento con inibitori della GPIIb/IIIa in misura superiore (riduzione assoluta del 5.0%, relativa del 34%) nei pazienti trattati aggressivamente rispetto a quelli trattati con sola terapia medica (riduzione assoluta 1.2%, relativa del 9%). Questi dati fanno propendere per un uso selettivo di questi farmaci, in assenza di rivascolarizzazione sistematica precoce, in modo tale da migliorare al massimo il rapporto costo/beneficio. Dal momento che questo sembra in funzione del profilo di rischio di base, l’uso degli inibitori della GPIIb/IIIa potrebbe essere particolarmente indicato nei pazienti più ad alto rischio, ovvero in preG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
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Fig. 1: Metanalisi degli studi clinici sugli inibitori della GP IIb/IIIa nei pazienti con sindrome coronarica acuta per i quali è possibile distinguere coloro che sono stati trattati solo con terapia medica (pannello superiore) da quelli che sono stati rivascolarizzati durante infusione del farmaco (pannello inferiore). È riportata l’incidenza di morte e infarto miocardico non-fatale a 30 giorni nei pazienti trattati e in quelli di controllo. La riduzione degli eventi è espressa come odds ratio (OR) di Peto (modello fisso).
senza di ischemia refrattaria o progressione verso l’infarto miocardico acuto (senza sopraslivellamento del tratto ST), di sottoslivellamento persistente del tratto ST, di elevazione della troponina al momento dell’ingresso indicativa di danno miocardico in atto. Un altro sottogruppo che potrebbe trarre un particolare beneficio è costituito dai diabetici. In conclusione, la disponibilità delle LMWHs e degli inibitori della GPIIb/IIIa ha aperto nuove possibilità di trattamento per i pazienti con sindrome coronarica acuta. La mancanza attuale però di studi di confronto tra le diverse molecole e, soprattutto, di associazione tra i due tipi di farmaci, impedisce di definire una strategia d’uso precisa da impiegare nella pratica quotidiana. Tale strategia non può prescindere da una più dettagliata stratificazione di rischio di tali pazienti. Bibliografia 1. THEROUX P, FUSTER V: Acute coronary syndromes: unstable angina and non-Q-wave myocardial infarction. Circulation 1998; 97: 1195-1206.
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Il ruolo della rivascolarizzazione nelle sindromi coronariche acute Roberto Violini, Paolo Loschiavo, Antonio Santoboni, Ernesto Lioy, Edoardo Pucci, Maurizio Menichelli, Antonio Parma. U.O. di Cardiologia Interventistica, Dipartimento di Cardioscienze, Ospedale S. Camillo, Roma
Il fattore precipitante un evento coronarico acuto è, in genere, la trombosi coronarica che si sviluppa per erosione e/o rottura di una placca aterosclerotica. Nell’angina instabile il processo è limitato al danno superficiale, con aggregazione piastrinica e formazione di un trombo labile non adeso fortemente alla placca sottostante. La PTCA ha alte percentuali di successo primario nell’angina instabile, sovrapponibili a quelli dell’angina stabile (circa 90%), associate, però, ad incidenza di complicanze ischemiche acute o subacute superiori, poiché la rottura meccanica del trombo fresco determina rilascio di sostanze vasoattive che possono causare vasocostrizione microvascolare a valle o embolizzazione distale.
Invece, l’incidenza di restenosi appare variabile nei vari studi, poiché, nell’angina instabile rispetto alla stabile, sono riportati tassi equivalenti da alcuni autori 1 e tassi superiori da altri 2-3. Il trial TIMI IIIB 4 ha studiato l’efficacia della strategia invasiva precoce (coronarografia a 18-24 ore seguita da rivascolarizzazione, se anatomicamente indicata) contro la strategia conservativa in pazienti con angina instabile o IMA non-Q. Non sono emerse differenze statisticamente significative riguardo l’incidenza di morte, IMA non fatale o ECG da sforzo a 6 settimane. Gli autori dello studio conclusero che la strategia invasiva è indicata nei pazienti senza controindicazioni alla rivascolarizzazione precoce e con alta probabilità di insuccesso della terapia medica, suggerendo di stabilizzare con terapia medica i pazienti e, quindi, di procedere, se necessario, a PTCA entro 2-3 giorni. Nello studio della Veterans Administration sull’angina instabile, il bypass ha dimostrato risultati superiori nei malati trivasali e/o ridotta funzione ventricolare, rispetto alla terapia conservativa 5. Mentre, i nuovi sistemi di «debulking» coronarico non si sono mostrati superiori alla PTCA nel trattamento di pazienti con angina instabile, l’ampio utilizzo degli stent ha probabilmente ridotto sia le complicanze che la restenosi nell’angina instabile. La recente introduzione della terapia con gli inibitori delle glicoproteine piastriniche IIb/IIIa in questo quadro clinico sembra aver cambiato la gestione dei pazienti con angina instabile. Nel sottogruppo di tali pazienti dello studio EPIC 6 è stata riportata una drammatica riduzione dell’incidenza di complicanze ischemiche maggiori durante PTCA, però, con un’aumentata incidenza di complicanze emorragiche, soprattutto nella sede dell’accesso arterioso. L’uso di abciximab è stato associato ad una riduzione di eventi cardiaci avversi a 30 giorni. Sorprendentemente tale beneficio si è protratto nel follow-up a 3 anni con riduzione della mortalità in confronto ai pazienti trattati con placebo. Nel sottogruppo di pazienti con angina instabile dello studio EPILOG 7 (dove a differenza dell’EPIC è stata ridotta la dose di eparina) si è ottenuto lo stesso risultato dell’EPIC senza, però, incidenza elevata di complicanze emorragiche. Nello studio CAPTURE 8 su pazienti con angina instabile classe III di Braunwald, 575 pazienti sono stati randomizzati a PTCA + placebo e 561 a PTCA + abciximab. È stata dimostrata riduzione significativa delle complicanze ischemiche maggiori a 30 giorni e a 6 mesi (anche se di livello inferiore) nel gruppo trattato. Appare quindi indicato l’uso dell’abciximab nell’angina instabile, con dosi di eparina tali da mantenere l’ACT < 250” per prevenire le emorragie. Per quanto riguarda l’infarto miocardico acuto, la PTCA è una strategia di rivascolarizzazione sempre più diffusa, pur se limitata dai problemi logistici. Scopo della procedura è di ottenere la pervietà precoce e più completa possibile del vaso responsabile dell’IMA o di riperfondere pazienti con conG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
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troindicazione o probabile inefficacia dei farmaci trombolitici. Le prime esperienze di PTCA nell’IMA risalgono al 1982 dal gruppo di Hartzler 9 che riportò un tasso di successo primario nel vaso responsabile del 93%, con una percentuale di riocclusione del 13%, una mortalità intraospedaliera del 7.2% e di re-PTCA del 12.2%. In quegli anni la terapia trombolitica aveva mostrato la sua efficacia nel ripristinare la pervietà della coronaria fin nel 75% dei casi, con persistenza, però, della stenosi preesistente. Si ipotizzò che la combinazione delle due terapie potesse fornire esiti migliori in confronto alla sola terapia medica con trombolitici e si intrapresero, quindi, studi randomizzati di confronto tra trombolisi e trombolisi seguita, appena possibile, dalla PTCA. I risultati di questi studi 10-12 furono deludenti per l’incremento degli eventi avversi nei soggetti sottoposti a PTCA dopo trombolisi, probabilmente per uno stato protrombotico causato dai trombolitici. Nell’anno 1993 furono pubblicati 3 studi di confronto tra la PTCA primaria e la trombolisi nell’IMA: in particolare, lo studio di Zijlstra 13 mostrò un tasso di successo del 98% nella PTCA primaria con un’incidenza significativamente inferiore, in confronto alla trombolisi, di ischemia ricorrente (9 vs 38%; p < 0.001) e di re-IMA non fatale (0 vs 13%; p < 0.003), con FE pre-dimissione più elevata nel gruppo con PTCA (51 ± 11 vs 45 ± 12%; p < 0.004) e pervietà del vaso trattato al follow-up del 91 vs 68% (p < 0.001). Nello studio PAMI 14 si ottenne la pervietà del vaso responsabile nel 98% dei pazienti randomizzati a PTCA ed un’incidenza di ischemia ricorrente, di re-IMA e di emorragie cerebrali inferiore in confronto al gruppo trattato con trombolisi; l’FE in fase acuta ed a 6 mesi non mostrò differenze significative nei due gruppi di trattamento. Da questi dati sembra che la PTCA sia superiore alla sola terapia trombolitica in termini di mortalità (4.4 vs 6.5%) e di mortalità + re-IMA (7.2 vs 11.9%, p = 0.02). Uno studio più ampio è stato il GUSTO-IIb 15 che ha utilizzato la migliore terapia trombolitica (t-PA accelerato) ed una verifica centralizzata degli end-point e delle angiografie. In questo studio l’incidenza di mortalità precoce non mostrò differenze tra le due strategie (7% trombolisi; 5.7% PTCA); l’incidenza dell’end-point combinato (morte + re-IMA + ictus disabilitante) fu del 13.7% per la trombolisi vs 9.6% per PTCA (riduzione del rischio di circa 33%); a 6 mesi il vantaggio della PTCA si ridusse marcatamente a causa della restenosi. Poiché gli esiti clinici dei pazienti dipendono dalla rapidità del ripristino del flusso coronarico TIMI III nella coronaria responsabile, la mancanza di una chiara superiorità della PTCA, nel GUSTO IIb fu attribuita al fatto che la lettura centralizzata aveva dimostrato il flusso TIMI III, dopo PTCA, solo nel 73.2%, mentre, gli studi precedenti, con letture non centralizzate, avevano indicato una percentuale intorno al 95%. Nello studio PAMI 14 è emerso che i benefici maggiori della PTCA vs trombolisi si potevano constatare nei pazienti “non a basso rischio” (età > 70 anni, IMA anteriore in staG Ital Cardiol, Vol 29, Suppl 4, 1999
to di shock con frequenza cardiaca > 100/min). Altri studi hanno confermato questi risultati: nello studio NRMI-2 16 è emerso un beneficio della PTCA nei pazienti con età > 75 anni riguardo la mortalità intraospedaliera (trombolisi = 16.5%; PTCA 14.4%). Nelle età più avanzate è, comunque, più frequente il riscontro di malattia multivasale e di shock cardiogeno che comportano un aumento della mortalità, un ridotto tasso di successo angiografico iniziale ed un’aumentata incidenza di eventi al follow-up 17. In analisi multivariata la mortalità intraospedaliera ed il successo angiografico sono risultate dipendenti da: tempo pre-coronarico, pressione arteriosa massima, presenza di diabete mellito; vi è, inoltre, una forte associazione tra successo angiografico e sopravvivenza intraospedaliera (rischio relativo di mortalità 10 volte superiore in caso di insuccesso della PTCA). Risalgono al 1995 i primi lavori concernenti l’impiego dello stent nell’infarto acuto del miocardio, una situazione clinica che inizialmente era stata considerata una controindicazione assoluta all’impiego di questo dispositivo per il rischio elevato di occlusione trombotica. Nel primo studio randomizzato di confronto tra angioplastica con stent e con palloncino nell’IMA tutti i parametri esaminati (successo procedurale iniziale, complicanze maggiori legate alla procedura ed eventi cardiaci a breve e medio termine) sono risultati più favorevoli nel gruppo dove era stato impiantato lo stent. Ulteriori trial hanno confermato questi risultati, per cui l’impiego di stent è raccomandato, quando possibile, nell’angioplastica primaria. Lo studio randomizzato FRESCO ha confrontato la PTCA con impianto di stent vs l’angioplastica con palloncino (POBA) 18, dimostrando che l’impianto di stent è altamente praticabile (100% di successi), l’incidenza dell’evento combinato (morte, re-IMA, nuova rivascolarizzazione del vaso responsabile) a 6 mesi è stato del 9% con impianto di stent vs 28% per le POBA (p < 0.003) e, infine, che l’incidenza di restenosi o riocclusione è stata del 17% per gli stent vs 43% per le POBA (p < 0.001). L’intervento di bypass aortocoronarico è un’altra opzione terapeutica per l’infarto miocardico acuto, da indicare nei pazienti più gravi (patologia del tronco comune, malattia trivasale, shock cardiogeno), ma sono necessarie ulteriori valutazioni della sua fattibilità e dei suoi risultati. Bibliografia 1. LUYTEN HE, BEATT KJ, DE FEYTER PJ, ET AL: Angioplasty for stable versus unstable angina pectoris: are unstable patients more likely to get restenosis? Int J Card Imaging 1988; 3: 87. 2. RUPPRECHT HJ, BRENNECKE R, KOTTMAYER M, ET AL: Short and long-term outcome after PTCA in patients with stable and unstable angina. Eur Heart J 1990; 11: 964. 3. FOLEY JB, CHISHOLM RJ, COMMON AA, ET AL:
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The management of cardiogenic shock David Antoniucci. Division of Cardiology, Careggi Hospital, Florence
Patients with cardiogenic shock (CS) account for a large proprotion of deaths from acute MI. Since 1988 several observational studies have reported encouraging results with primary or rescue PTCA or coronary surgey (CABG), but it has been postulated that the difference in survival between an aggressive recanalization strategy and conventional therapy might reflect only a selection bias. In the SHOCK Registry 1, in-hospital mortality of patients with CS who underwent cardiac catheterization was significantly lower than that of patients who did not undergo the diagnostic procedure whether or not they were treated with PTCA or CABG (59.6% vs. 86.8%, respectively). However, although biased case selection for treatment may confound data, it was evident that patients who underwent PTCA or CABG had a lower mortality than patients who underwent coronary angiography alone (39 vs 59.6%). After the results of the SHOCK registry, in 1993 SHOCK investigators began a randomized trial with a sample size of 302 patients, comparing an emergency coronary revascularuzation (ER) strategy (PTCA or CABG) with an initial medical stabilization (IMS) approach that included fibrinolytic treatment and aortic balloon counter pulsation. The trial ended in 1998, and the results were announced in 1999 at the ACC session in New Orleans. The primary end point of the study, was a 20% reduction in 30-day mortality in the ER arm as compared to IMS arm. The trial resulted negative, the reduction in 30-day mortality was inferior to 20% (46.7 vs 56%). Thus the primary end point of the study was not reached. At 6 months, a significant higher survival was revealed in patients of the ER arm (54 vs 66%). The reasons of this very high mortality in the ER group, significantly higher than the 25-30% reported by single highvolume centers, and to the 35% by the GUSTO investiga-
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tors, may be explained in several ways. First, the success rate of PTCA remained very low until the last 2 years of enrollment, with the achievement of a TIMI grade 3 flow only in 58% of patients. This poor result may be explained, in part, by the limited use of stents in the first 4 years of enrollment(0 stent in 1993-94, 14% in 1995-96), since in the years 1997 and 1998 with the use of stents in 70% of treated cases a TIMI grade 3 flow was achieved in 68% of cases. Second, the time from CS to treatment was abnormally long: the median time from CS diagnosis to randomization was 4 hours, plus 0.9 hours from randomization to PTCA or 2.7 hours to CABG. The delay in treatment may explain in part the relative poor outcome of patients of SHOCK trial. The benefit of PTCA in shock patients is time dependent as showed by several investigators , and also in the SHOCK trial, in the subset of patients who were treated early from diagnosis. Thus, one may infer that a shorter delay from diagnosis of shock to treatment could have been associated with a better outcome. Finally, the 30-day mortality in the IMS arm was lower than expected. This may be the result of the benefit of intraaortic counterpulsation, as showed by several investigators, but also it is not possible to rule out the hypothesis of a bias selection when considering the length of the enrollment (6 years) of this multicenter study, and the fact that patients were not all comers. To correctly assess the efficacy of PTCA in CS the bias selection process should be avoided. Systematic PTCA should be performed in all patients with acute myocardial infarction (AMI), without any exclusion criteria, included CS, advanced age, clinical status on presentation. In 1995 a program of primary PTCA started in our hospital. Primary PTCA is the systematic treatment for all patients with AMI admitted within 6 hours of symptom onset or 24 hours ih there is evidence of continuing ischemia. As a result of the application of a systematic primary PTCA strategy, one may infer that our population of nonselected treated patients reflects the real world of patients with AMI.
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From 1995 to 1998, 735 patients with AMI were admitted to our center. Out of these, 9 patients CS refused primary PTCA, and 6 patients with CS died before primary PTCA attempt. One hundred and one patients with CS underwent immediate coronary angiography and PTCA (age 67 ± 11 yrs, range 40-87, > 75 yrs 30%; anterior AMI 72%; multivessel disease 63%; chronic occlusion 30%; left main occlusion 8%). Our population include predominantly early cardiogenic shock : the median time from AMI symptom onset to reperfusion was 3.5 hours. In 2/3 of patients we used IABP, and 18% of patients needed intubation. PTCA success rate was 96%. Stenting of the infarct artery was accomplished in 59% of cases, 16% of patients had multivessel revascularization during the hospital stay. At 1 month, overall mortality was 24%. All patients with failed PTCA died, while mortality among patients with successfull PTCA was 21%. At 6-months, the survival rate was 70 ± 5%. The 6month angiographic follow-up showed a patency rate of 96%. The only predictor of mortality was age (OR 1.7, 95% CI 1.02-2.82; p = 0.018). Conclusions High performance criteria in mechanical revascularization techniques as well as a short delay from CS diagnosis to aggressive treatment should be considered mandatory to favourably affect the outcome of patients with AMI and CS.
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