Dispensa Storia Della Cultura Materiale Modulo B

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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA DIPARTIMENTO DI ARCHEOLOGIA E STORIA DELLE ARTI

ANNO ACCADEMICO 2007/2008 PRIMO SEMESTRE

STORIA DELLA CULTURA MATERIALE MODULO B PIERO VERENI ATTENZIONE!!!

MATERIALI DIDATTICI DISPENSA VERENI

STORIA DELLA CULTURA MATERIALE MODULO B 4 CFU (I SEMESTRE II PERIODO) CALENDARIO E ARGOMENTI DELLE LEZIONI DATA 1. LUN 19 novembre

TESTO DI RIFERIMENTO Dispensa Vereni Modulo B

2. MAR 20 novembre

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3. MER 21 novembre

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4. LUN 26 novembre

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5. MAR 27 novembre

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6. MER 28 novembre

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7. LUN 3 dicembre

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8. MAR 4 dicembre

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9. MER 5 dicembre 10. LUN 10 dicembre 11. MAR 11 dicembre 12. MER 12 dicembre 13. LUN 17 dicembre

Piero Vereni Vite di confine Piero Vereni Vite di confine Piero Vereni Vite di confine Piero Vereni Vite di confine Piero Vereni Vite di confine

14. MAR 18 dicembre 15. MER 19 dicembre

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ARGOMENTI Presentazione del modulo e introduzione al tema dell’appartenenza. Il legame con il modulo precedente è dato dalla lettura di Richard Handler “Avere una cultura. nazionalismo e preservazione del patrimoine del Quebec”. Le appartenenze collettive. Identificazione e categorizzazione. Famiglia e matrimonio: introduzione Famiglia e matrimonio: alleanza e discendenza, tipi di famiglie (nucleari, poligamiche, estese, congiunte, matrifocali).Definizione e funzioni del matrimonio. Incesto. Tipologie della parentela. Gruppi cognatici vs. gruppi unilineari. Gruppi corporati (ancestor focus) vs gruppi ego-centrati (parentadi). Forme di residenza. Natolocalità, neolocalità, bilocalità, ambilocalità, matri/uxorilocalità, patri/virilicalità, avuncolocalità. Cenni sulle cause dei diversi tipi di residenza (e discendenza). Terminologia della parentela. Gli otto termini di base. Esogamia e scambio diretto. Cugini paralleli e incrociati.. Sistemi terminilogici: hawaiano, eschimese, irochese, sudanese. Teorie del nazionalismo (prima parte). Le origini moderne delle nazioni e la teoria di Ernest Gellner Teorie del nazionalismo (seconda parte). La nazione come comunità immaginata e la teoria di Benedict Anderson Introduzione alla questione etnica in Macedonia (primo capitolo) Autobiografia e identità nazionale (secondo capitolo) La produzione nazionale di cittadini omogenei (terzo capitolo) L’omogeneizzazione dei Macedoni di Grecia (capitolo quarto) La situazione postnazionale attuale e la “metafora” dell’identità macedone (capitolo quinto) La distinzione di Pierre Bourdieu (prima parte) La distinzione di Pierre Bourdieu (seconda parte)

Per ragioni di tempo, in questo secondo modulo i due esoneri scritti verranno svolti a casa e consegnati al docente in formato elettronico (file spedito via mail). Le date di consegna verranno indicate nel corso delle lezioni ma orientativamente saranno a partire dal 29 novembre consegna del primo esonero (alla fine della prima sezione del corso) e dopo il 19 dicembre consegna del secondo esonero (alla fine del modulo).

STORIA DELLA CULTURA MATERIALE MODULO B 4 CFU (I SEMESTRE II PERIODO) Docente: Piero Vereni Studio: Cubo 21/b ultimo piano Telefono studio: 0984-49-4309 email: [email protected] [email protected] Ricevimento: fino alla pausa natalizia, mercoledì dalle 14.15 alle 18.45. Dopo natale, martedì dalle 8.30 alle 11.30

La materia che separa: storia materiale delle identità e dei confini politici Obiettivo di questo modulo (rivolto agli studenti che abbiano già sostenuto il modulo A di Storia della Cultura materiale) è argomentare sulle forme materiali dell’appartenenza e sulle sue determinazioni socio-culturali. Il modulo è articolato in tre sezioni. 1. Appartenenza familiare. Cenni di antropologia della parentela. 2. Appartenenza etno-nazionale. Le forme culturali delle identità collettive. 3. Appartenenza di elezione. Le determinazioni sociali del gusto estetico. Nella prima parte gli studenti saranno invitati a ragionare sulla “natura non naturale” del sistema della parentela, nella seconda sulla “natura non naturale” della loro appartenenza collettiva di riferimento (locale, calabrese, nazionale), nella terza sulla “natura non naturale” delle loro preferenze estetiche. Modalità di esame Due esoneri scritti (uno a metà e uno fine modulo) e colloquio finale. Testi



Dispense con materiali didattici organizzati dal docente.



Richard Handler, “Avere una cultura: nazionalismo e preservazione del patrimoine del Quebec”, in G. W. Stocking jr. Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale¸ Roma, Ei editori, 2000, ed. or. Objects and Others. Essays on Museums and Material Culture, History of Anthropology, vol. 3, Madison, The University of Winsconsin Press, 1985.



Benedict Anderson, Comunità immaginate, Roma, manifestolibri, 1996, Lettura di alcuni estratti che verranno segnalati a lezione.



Piero Vereni, Vite di confine, Roma, Meltemi, 2006.



Pierre Bourdieu, La distinzione, Bologna, il Mulino, 1983. Lettura di alcuni estratti che verranno segnalati a lezione.

IL SISTEMA DELLE APPARTENENZE 1. LE APPARTENENZE COLLETTIVE Dopo aver fornito nel primo modulo alcune indicazioni generali sul concetto antropologico di cultura e sul ruolo e le funzioni delle discipline demoetnoantropologiche, questo secondo modulo intende garantire agli studenti anche gli strumenti di base per riflettere attorno a uno dei temi centrali della ricerca e della teoria antropologica. Il tema che ci proponiamo di approfondire è quello delle appartenenze collettive o, come abbiamo detto nel corso delle lezioni, il tema del “noi” e del “voi”. Tutti “noi” (appunto) usiamo frequentemente la prima persona plurale per riferirci a un raggruppamento umano al quale ci sentiamo di appartenere, oppure usiamo il “voi” (e il “loro”) per delimitare invece un raggruppamento del quale non siamo parte. Normalmente, ci rendiamo conto della volatilità di alcune formazioni, per cui se io dico “voi” studenti che frequentate il mio modulo, mi rendo conto che l’aggregato che definisco è alquanto preciso ma insieme transitorio, visto che fra qualche settimana già non esisterà fisicamente più. Ognuno di noi sa inoltre di appartenere a diversi gruppi contemporaneamente (“noi” studenti di questo modulo, ma anche “noi” studentesse e “loro” studenti, “noi” studenti in sede e “loro” studenti fuori sede, “noi” di Conservazione e “voi” di Storia…). Sappiamo inoltre che, a seconda del contesto, possono variare le appartenenze e chi vi fa parte, per cui “noi” studenti del modulo di antropologia per ciascuno di voi non includerà tutti i “noi” amici, o i “noi” bravi giocatori di tennis, o “noi” cultori di hard rock. L’uomo è un animale sociale e naturalmente gregario. Non esistono culture in cui tutti i membri vivano sistematicamente isolati uno dall’altro, e ci sono delle buone ragioni adattive perché sia così. Come quasi tutti i primati, gli esseri umani dipendono dai loro simili per la sopravvivenza, e il lungo periodo di maturazione fisica e psicologica che intercorre tra la nascita e la capacità di procurarsi da vivere autonomamente dai genitori ha probabilmente selezionato i modelli comportamentali più orientati alla cooperazione e alla cura reciproca. Se gli ominidi non avessero sviluppato una particolare cura per la prole e la capacità di cooperare stabilmente con altri adulti difficilmente la nostra specie si sarebbe evoluta.

Quali che siano le ragioni di ordine evolutivo o ecologico, è certo che gli esseri umani sono particolarmente sensibili alla definizione del “loro” gruppo di riferimento. Semplificando di molto una questione che è più complessa, possiamo dire che gli uomini sentono quasi inevitabilmente la necessità di stabilire (a diversi livelli e con diverse intensità) chi sia “dei nostri” e chi invece non lo sia. Con i “nostri” i rapporti tendono a essere più facilmente cooperativi o comunque regolamentati secondo forme canoniche precise, mentre con gli “altri” può essere predominante un modello di interazione competitiva. Ma al di là di queste generalissime indicazioni, quel che più è evidente nei raggruppamenti umani è il fatto che le diverse unità collettive possono essere sia una inclusa nell’altra, sia parzialmente sovrapposte, sia in totale opposizione. Così, a Siena, gli abitanti della contrada della Torre saranno un “noi” separato dal “loro” delle altre contrade, ma tutti assieme saranno il “noi” senesi, eventualmente incluso nel “noi” toscani, a sua volta incluso nel “noi” italiani. Queste inclusioni a matrioska (una nell’altra) non esauriscono le appartenenze, dato che il “noi” maschi le attraversa tutte (in opposizione al “loro” femmine), oppure il “noi” di sinistra, il “noi” che siamo appassionati di film horror, e così via. Il modello quindi è visualizzabile come nella grafizzazione qui a fianco. Una serie di “confini” separano sulla base di uno o più criteri quelli che sono inclusi da quelli che sono esclusi. Questo modello formale delle appartenenze ci pone immediatamente di fronte a due questioni essenziali, che proviamo a formulare nel modo più diretto possibile: 1. Cosa si intende per “criteri” che separano le appartenenze? 2. Chi stabilisce i criteri? La prima domanda ci collega direttamente a quanto abbiamo detto sulla natura semiotica delle culture, dato che i criteri di inclusione ed esclusione sono proprio dei segni, e quindi stabiliti per via culturale. Un gruppo può decidere che sono membri tutti quelli con determinate caratteristiche fisiche (le classificazioni “razziali” sono proprio di questo tipo, e in fin dei conti si potrebbe dire – esagerando appena un po’ – che l’ideologia nazista della razza ariana considera “noi” i biondi, e “loro” tutti gli altri…); oppure coloro che condividono un particolare credo politico o religioso (i musulmani, i cristiani, e al loro interno i sottoraggruppamenti sciiti e sunniti da un alto, cattolici, protestanti e ortodossi dall’altro, a loro volta ulteriormente suddivisi); tutti coloro che hanno una specifica coscienza politica (i comunisti, i fascisti, i

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liberali, i radicali); o un determinato livello intellettuale o economico (i borghesi, i proletari, gli intellettuali, gli artigiani); una preferenza sessuale (gli eterosessuali, gli omosessuali, i bisessuali); un genere sessuale (i maschi, le femmine, i transessuali); oppure ancora che sono membri tutti coloro che hanno una cultura comune (gli italiani, i francesi, i bretoni, i fiorentini); oppure che abitano un determinato territorio (i britannici, i romagnoli, i padani). Come è chiaro, i criteri per creare delle separazioni sono praticamente infiniti, intanto perché possono essere combinati tra loro (tutti quelli che abitano in Italia, ma che sono di “origine” abruzzese; tutti i maschi proletari di destra; tutti i cattolici omosessuali di sinistra che vivono nel Lazio ma sono di origine straniera) e poi – la vera ragione – perché questi criteri sono segni e in quanto tali possono essere prodotti dall’uomo con un grado di libertà elevatissimo. Il fatto che i criteri di appartenenza e distinzione siano segni ci costringe a considerare le appartenenze come fenomeni essenzialmente semiotici e quindi – attenti bene – ad ammettere che non esiste un modo “oggettivo” per stabilire l’appartenenza di un individuo a questo o quel gruppo, ma solo un modo intersoggettivo di verificare quell’appartenenza. Questo punto è strettamente legato alla seconda domanda che ci siamo posti più sopra, e cioè chi stabilisce i criteri. Se le appartenenze dipendono dai segni che dicono chi è dentro e chi è fuori, chi “dice” quei segni? Possiamo riformulare la domanda in quest’altro modo: fatto salvo che “noi” siamo in grado di dire chi siamo e siamo anche in grado di dire chi sono “loro”, “loro” sono in grado di fare altrettanto? Se “noi” italiani sappiamo chi sono gli “extracomunitari”, siamo certi che il nostro modo di delimitarli (attraverso un criterio semiotico complesso che dovrebbe essere all’incirca “quelli che sono qui ma non sono cittadini europei né tanto meno italiani, e in più vengono da un generico “est” o “sud” del mondo, spesso legati ad attività manuali, a lavori a basso reddito o ad altre attività semilegali o illegali”, tant’è vero che la categorizzazione di “extracomunitario” non si applica ai cittadini statunitensi) coincida con il loro modo di definire se stessi? Ancora più semplicemente: quando definisco un “loro”, quel “loro” accetta la mia definizione? Nel caso degli “extracomunitari” sembra evidente che le due direzioni della definizione (noi che definiamo loro, loro che definiscono se stessi) non coincidano quasi mai. Tutti quelli che “noi” definiamo “extracomunitari” probabilmente si definiscono altrimenti, in base al criterio nazionale (marocchini, filippini) religioso (musulmani, indù) etnico (tamil, berberi) geografico (maghrebini, africani) o altro ancora. Quel che conta è che inevitabilmente, nella delimitazione delle appartenenze collettive, dobbiamo tener conto di due direzioni semiotiche: una in base alla quale definiamo chi sia dentro (il “noi”) e una in base alla quale stabiliamo come si suddivida ulteriormente tutto il resto (il “loro”).

Immaginiamo lo spazio sociale (l’insieme degli esseri umani) come un piano uniforme costituito da punti che sono i singoli individui. Dato che il io piano è praticamente infinito, ogni punto ne può essere considerato il centro, e noi ognuno di noi si immagina esattamente in quella posizione. Da quel punto centrale, ognuno ritaglia il confine del suo noi (che abbiamo visto può variare a seconda del contesto: in aula pensate a noi studenti, in palestra pensate a noi del corso avanzato di aerobica, eccetera) e quindi sa dove collocare chi è parte del suo gruppo di riferimento in quel momento. Questo procedimento semiotico si chiama AUTOIDENTIFICAZIONE INTERNA. Assieme a questo processo di identificazione del noi, procedete solitamente a un’ulteriore operazione semiotica, delimitando e dando una forma anche allo spazio “loro”. La suddivisione dello spazio esterno si chiama CATEGORIZZAZIONE ESTERNA. In parole semplici, vi sarete creati (o, più probabilmente, avrete preso a prestito) dei criteri per definire tutti i “loro”: maschi, ottentotti, io extracomunitari, parigini, commissari noi di Polizia, no global, tabaccai, professori, indiani d’America e italiani loro d’Argentina). Quel che complica terribilmente la questione delle identità collettive è che ogni individuo e ogni collettività esegue contemporaneamente queste operazioni semiotiche di autoidentificazione interna e di classificazione esterna, producendo intrecci di appartenenza che possono non solo sovrapporsi solo in parte, ma anche essere direttamente conflittuali per quanto riguarda le diverse delimitazioni. Potrei, ad esempio, aver prodotto un noi che non include il soggetto x, ma quello stesso soggetto potrebbe aver prodotto un noi che invece mi include. Un caso forse a voi noto di questo conflitto tra identificazioni è quello dell’“asfissiante”. Ho ben chiaro chi siano i miei amici, chi i miei semplici conoscenti e chi siano gli estranei. Ho quindi costituito un “noi amici” di cui conosco i confini, e che credo di poter gestire con una certa precisione. C’è però quel tizio (o quella tizia) che non sembra d’accordo: mi cerca, vuole i miei appunti e mi racconta i fatti suoi, mi asfissia, vuole il mio cellulare e pretende che lo stia ad ascoltare nei momenti meno opportuni. Secondo il modello che abbiamo appena presentato, siamo di fronte a rappresentazioni conflittuali del “noi amici”: io non lo/la includo in questo gruppo,

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mentre lui/lei mi include nel suo. Non ha ovviamente alcun senso chiedersi chi abbia “ragione”, dato che non c’è modo oggettivo di stabilire una relazione come l’amicizia. L’unico modo per risolvere la questione è giungere a un chiarimento, cioè a una negoziazione del significato di “miei amici”, e non è affatto detto che il chiarimento chiarisca alcunché. Se sul piano strettamente personale la faccenda può essere imbarazzante o fastidiosa, una volta trasferita sul piano delle appartenenze di natura più politica la discrepanza tra diverse identificazioni può essere anche molto più problematica. Date le mie origini familiari (anche) venete, mi è capitato di interloquire con persone che pretendevano di farmi sentire parte di un “noi padani” che per me è invece una forma di appartenenza che sento completamente estranea alla mia storia personale e alle mie scelte morali e politiche. Cosa fa sì che io non sia padano, se ho tutti i tratti “oggettivi” di questa appartenenza? Non risolviamo il punto adesso (se mai si può risolvere), ma lasciamo che la domanda ci faccia riflettere sul punto centrale, e cioè che per appartenere non basta che qualcuno dica “noi”, perché il suo modo di dire “noi” non è detto che coincida con il nostro. Stesso discorso vale per la categorizzazione. Il modo in cui io classifico gli “altri” può non coincidere con quello del mio vicino di casa, e la cosa può facilmente creare problemi sia con quelli che classifichiamo (che magari non si riconoscono né nella mia classificazione, né in quella del mio vicino), sia con il vicino stesso, se io penso che il suo modo sia assolutamente errato. Se per lui gli uomini di pelle scura che vendono Cd pirata davanti al supermercato sono “criminali extracomunitari”, mentre per me sono “lavoratori sfruttati dal sistema della globalizzazione”, difficilmente avremo le stesse opinioni su come comportaci nei loro confronti. Ovviamente gli esempi possono essere moltiplicati all’infinito, perché infinite sono le modalità con cui possiamo raggruppare i “nostri” e gli “altri”. Vi invito a pensare qualche altro caso in cui le diverse forme di autoidentificazione e/o di classificazione entrano in conflitto tra loro. In generale, possiamo dire che l’identità personale e di gruppo è la risultante di due dimensioni di direzione opposta e di forza relativa spesso differente: l’autoidentificazione interna (in astratto, quello che si dice di se stessi. Dal “nostro” punto di vista: quello che noi diciamo di essere. Dal “loro” punto di vista: quello che loro dicono di essere) e la categorizzazione esterna (in astratto, quello che si dice degli altri. Dal “nostro” punto di vista: quello che noi diciamo che loro sono. Dal “loro” punto di vista: quello che loro dicono che noi siamo). Lo spazio politico delle identità si gioca tutto sullo scarto tra queste due dimensioni: una nazione, un gruppo etnico o una minoranza sarà tale solo quando la sua percezione interna di esserlo troverà un riscontro esterno in qualche istituzione che lo riconosca. Quel che è importante in questo gioco di scatole dell’identità (non sempre scatole cinesi, cioè contenute una nell’altra, ma spesso scatole alternative e su piani diversi)

è che ci si renda conto che si tratta di processi semiotici e retorici inevitabili che riguardano qualunque forma di appartenenza collettiva: le identità collettive sono quindi essenzialmente formazioni semiotiche e retoriche (prodotte attraverso i segni e la persuasione, non l’esposizione di appartenenze oggettive) e quindi vanno studiate sotto questa loro dimensione. 2. FAMIGLIA E PARENTELA: INTRODUZIONE Bene, siamo arrivati a un punto abbastanza sconfortante, dato il nostro bisogno di certezze e garanzie sull’appartenenza. Sembriamo immersi in un quadro sociale in cui non solo non è chiaro dove siano i nostri e dove collocare gli altri, ma dove addirittura quelli che io considero nostri potrebbero invece non considerami dei loro o, viceversa, dove individui che non voglio facciano parte del mio gruppo premono invece con insistenza per essere inclusi. Tutte le culture umane devono affrontare questo problema, e molte sembrano aver cercato una soluzione in quello che appare un legame ineluttabile, finalmente basato su qualcosa di oggettivo, di certo, e cioè sulla parentela. Che qualcuno pretenda di essere mio sodale in nome di un’amicizia non corrisposta passi pure; che io non trovi un accordo col mio vicino su come giudicare i venditori di Cd taroccati, poco male; ma chi potrebbe mettere in dubbio che io e mia sorella facciamo parte della stessa famiglia; che quel che mi lega a mia cugino è qualcosa di più di un segno o di una negoziazione; che mio nipote appartiene al mio gruppo parentale in modo che non può essere messo in discussione? La parentela, proprio perché ci appare un legame sociale fondato sulla natura, sembra garantirci quel minimo indispensabile e indiscutibile che pretendiamo dal legame sociale. Posso discutere l’appartenenza a tutti i livelli, ma quando si parla di parenti mi sento certo di quel che dico. Posso pure detestare mio padre, mia madre o mio fratello, ma ciò non toglie che la mia relazione con loro è certa e data una volta per tutte. Anzi, posso fare di più: posso costruire la mia rete sociale prendendo proprio quella parentale a modello e punto di riferimento, così chiamerò fratelli i miei correligionari e padri e madri i ministri del mi culto. Sentirò un legame fraterno con quelli della mia nazione (“fratelli d’Italia”), con quelli cioè con cui condivido la “madre” patria. Oppure chiamerò i miei sodali politici con termini che si richiamano all’intimità della famiglia (“camerati”, quelli che condividono la stessa camera) o alla vera amicizia (che è quella “fraterna”, per cui “compagni”). Ecco allora che la parentela, questa rete di relazioni ovvie e scontate, può permettermi di costruire reti più ampie e complesse, e fungere così da “mattone” della società. Questa, in sostanza, la ragione per cui gli antropologi si sono interessanti così tanto e fin da subito di questa dimensione della vita sociale. Gli studi della parentela

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dovevano garantire alla “scienza dell’uomo” quel fondamento naturale che rendesse comprensibili le motivazioni che spingono gli uomini a vivere in aggregati complessi. In realtà, la ricerca sul campo (il tentativo cioè di individuare le basi naturali della convivenza) ha prodotto un effetto paradossale. Partiti per documentare la base naturale della vita sociale, gli antropologi sono tornati “dal campo” con una tale varietà di dati e sistemi di parentela da trovarsi inevitabilmente a mettere in discussione proprio quella naturalità che andavano cercando. Hanno infatti scoperto che, a seconda del sistema di parentela in vigore in una determinata cultura, il padre poteva essere considerato più il marito della madre (e quindi un parente “non di sangue”, che chiamiamo “affine”)1 piuttosto che un parente vero e proprio. Oppure che alcuni cugini potevano essere del tutto assimilati ai fratelli, e quindi assolutamente vietati per il matrimonio, mentre altri potevano essere considerati i partner ideali per una relazione matrimoniale. Sempre facendo ricerca sul campo, gli antropologi hanno potuto verificare che il nostro modello di “famiglia” non è universale, e che quindi qualunque tentativo di considerare la società come un’estensione della famiglia si scontrava con la varietà empirica di questo raggruppamento di base. Per poter entrare nei meandri della parentela, partiremo quindi dalla famiglia intesa come aggregato di persone tramite uno o più vincoli matrimoniali. FAMIGLIA E MATRIMONIO Quanto diremo in questo paragrafo è sostanzialmente descrittivo, e non comporta particolari difficoltà. Se si vuole, la vera difficoltà non sta tanto nel descrivere i diversi tipi di famiglia o i diversi tipi di matrimonio, quanto nel fornire una definizione astratta per queste due istituzioni. Cioè, mentre è abbastanza facile raccontare la differenza tra famiglia nucleare e famiglia estesa o congiunta, oppure tra matrimonio monogamico e poligamico, gli antropologi sono in seria difficoltà quando devono definire cosa sia una famiglia o cosa sia un matrimonio. Cominciamo con il dire che in tutte le società ci sono una serie di attività riconducibili alla sfera “privata”, cioè ad uno spazio fisico chiaramente delimitato, che possiamo chiamare “la sfera domestica”. Tra le attività che spesso si compiono entro questa sfera ci sono: preparazione e consumo del cibo, riposo e attività 1

Dentro il grande contenitore della “parentela” la lingua e la pratica italiana distinguono quelli che sono considerati parenti “di sangue” dai parenti “acquisiti”. I primi sono legati a noi direttamente (vedremo in che modo) mentre gli affini sono legati a noi tramite un vincolo matrimoniale. Sono parenti, tipicamente, i cugini primi, mentre sono affini i cognati (marito della sorella o fratello della moglie). Utilizziamo la stessa distinzione quando parliamo di “zii carnali” (fratelli dei genitori) e “zii acquisiti” (i coniugi dei fratelli dei genitori).

sessuali, pulizia personale, cura della prole. Non tutte queste attività sono attuate in tutte le culture in quella che abbiamo chiamato la “sfera domestica”, ad esempio a volte il cibo è prodotto o consumato fuori, o l’attività sessuale si pratica fuori, o la cura dei bimbi è affidata ad istituzioni esterne alla “famiglia”. Ecco, ci stiamo avvicinando ad una possibile definizione della famiglia se siamo disposti ad accettare una definizione funzionale, per cui consideriamo famiglia quell’istituzione attraverso la quale vengono di solito espletati gli aspetti basilari di quattro funzioni: 1) sesso; 2) riproduzione; 3) educazione; 4) sussistenza. TIPI DI FAMIGLIE

Famiglia nucleare monogamica e sue variazioni Partiamo da quella che a noi pare la famiglia “normale”: due genitori di sesso diverso e i loro eventuali figli. Chiamiamo questa famiglia nucleare, e notiamo subito che è composta di due sole generazioni. Vediamo anche che non tutte le funzioni che abbiamo indicato sono espletate da questo tipo di famiglia, per esempio nella nostra società gran parte dell’istruzione avviene al di fuori (asilo d’infanzia e scuola), mentre è vero che una buona parte della sussistenza (almeno nella forma del consumo del cibo) si attua entro la famiglia. Ci sono numerosi esempi di famiglie nucleari con funzioni sostanzialmente diverse da quelle che noi attribuiamo alla nostra. È comune per esempio che i figli maschi di una famiglia fin da tenera età si riuniscano fuori con altri coetanei e passino sempre più tempo tra di loro, fino al punto di costruire abitazioni proprie. Il raggruppamento di membri appartenenti a famiglie diverse può essere fatto su base generazionale, per cui tutti i membri della stessa CLASSE DI ETÀ (un gruppo di persone, spesso non esattamente della stessa età cronologica, ma considerato tale per ragioni rituali o funzionali: i membri della stessa CDE faranno per esempio il rituale di passaggio all’età adulta nello stesso momento, oppure parteciperanno assieme alla prima spedizione di guerra, o alla prima impresa commerciale) possono vivere nella stessa casa o costruirsi uno spazio comune. Altre volte la separazione è effettuata in base al sesso, per cui saranno i maschi a vivere tutti assieme in una casa separata (detta CASA DEGLI UOMINI). È quest’ultimo il caso dei Fur del Sudan. In questi casi la famiglia nucleare esiste solo nel senso che il marito visita la moglie senza alcuna regolarità (diciamo che la sera non deve tornare a casa necessariamente, tutt’altro), mentre questa vive coi figli. I maschi in questo caso mangiano nella casa degli uomini. Un altro esempio interessante di separazione tra cibo e famiglia si ha con gli Ashanti del Ghana. Anche se dormono sotto lo stesso tetto con le mogli, gli uomini di solito mangiano (per ragioni che vedremo in dettaglio quando parleremo della parentela) con le madri, le sorelle e con i figli di queste, anche se il cibo è preparato dalle mogli. Così

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alla sera i villaggi Ashanti sono tutto un viavai di bambini che portano il cibo dalle case delle loro madri a quelle delle sorelle del padre. Sembra una pazzia, ma vedrete che non appena saprete cos’è un sistema di discendenza matrilineare tutto questo non vi sembrerà più così assurdo. Una versione ancora più strana della famiglia nucleare si ha nel caso dei Nayar del Kerala (India meridionale) in cui marito e moglie non vivono mai assieme (ognuno vive coi rispettivi fratelli) e si incontrano solo quando lo sposo visita la sposa durante la notte per tornare comunque alla “sua” casa prima dell’alba. Ma le famiglie nucleari monogamiche sono ancora sufficientemente “normali”, rispetto ad altre forme di convivenza domestica.

Famiglia poligamica Nel caso in cui una società consenta matrimoni plurimi (attenzione: non abbiamo ancora definito cosa intendiamo per matrimonio, ma ci arriveremo), viene definita in generale poligamica, con due sottotipi: poliginica quando è l’uomo a potere avere più mogli, poliandrica quando è la moglie a poter avere più mariti, o anche poliginandrica quando sia uomini che donne possono avere più di un partner. Vediamo questi tipi di famiglie poligamiche un po’ più in dettaglio.

poliginia Secondo alcune fonti, la maggioranza delle culture accetterebbe una qualche forma di poliginia, il fatto cioè che un uomo possa avere rapporti sessuali, affettivi, e di cooperazione nel trattare eventuale prole, legittimi (se non legali) con più di una donna contemporaneamente. Non ci soffermiamo a lungo su questo tipo di famiglia perché è nota anche ai non esperti per il fatto che è presente nel mondo musulmano.

poliandria Tra i tre tipi di base (monogamia, poliginia e poliandria) è quello più raro, e per molti decenni è stato considerato un’assoluta eccentricità etnografica: il fatto che una donna potesse legittimamente concedere i propri favori sessuali a più uomini non deve aver attratto moltissimo i baffuti antenati fondatori della nostra disciplina. Per fortuna, studi recenti hanno dimostrato che la poliandria, anche se è certamente un modello matrimoniale raro, non è così eccezionale come si pensava. Ci si è resi soprattutto conto che studiare un po’ più in dettaglio la poliandria ci permette di capire un po’ di più e meglio come funzionano gli altri tipi di rapporto matrimoniale. Vediamo dunque un po’ più da vicino tre sottotipi di poliandria: 1) poliandria fraterna. È il caso più conosciuto attestato in Nepal e Tibet, dove un gruppo di fratelli sposa un’unica donna. Di solito è solo il fratello maggiore a celebrare fisicamente il rituale del matrimonio, ma la sposa va a vivere nella casa

condivisa da tutti i fratelli, i quali hanno gli stessi diritti sulle prestazioni sessuali della donna. Se la donna non ha figli non è raro che i fratelli prendano come ulteriore sposa la sorella di questa (POLIGINIA SORORALE). Interessante il caso dei Nyinba del Nepal, che pur praticando questo tipo di poliandria cercano di mantenere distinta la paternità di ogni figlio. Cioè i fratelli, controllando gli accessi alla moglie, cercano di sapere chi sia il padre di ogni bambino. 2) poliandria associata. In questo caso la donna può sposare uomini che non sono tra di loro fratelli. Sebbene si pensi che fosse un tempo praticata in certe zone del Pacifico e tra alcune popolazioni indigene americane (Nord e Sud), il caso etnografico più chiaramente documentato è quello dello Sri Lanka, dove una donna può avere fino a due mariti (non di più). In questo caso una coppia inizia come monogamica, e poi un secondo marito può associarsi, marito che rimane in posizione subordinata rispetto al primo. Eventualmente, una seconda donna (spesso sorella della prima, ancora poliginia sororale) può venire sposata dal terzetto dando così vita ad una famiglia insieme poliandrica e poliginica, poliginandrica, appunto. Se ora guardate a questi due tipi di famiglia poliandrica dal punto di vista dei legami che il matrimonio permette di attuare tra la famiglia dello sposo e quella della sposa, capite bene che la poliandria, soprattutto quando è accompagnata dalla poliginia sororale, restringe gli spazi per l’alleanza. Niente panico e seguitemi: fate finta (vedrete che in molti casi è proprio così) che ogni matrimonio sia un’alleanza tra due famiglie, quella dello sposo e quella della sposa. Se la famiglia A e la famiglia B decidono per qualche ragione (economica, politica, militare) di allearsi e cooperare, il modo migliore per farlo (cioè quello che gli esseri umani hanno sempre teso a fare) è quello di creare un legame di matrimonio tra le due famiglie: una famiglia ci mette lo sposo, l’altra ci mette la sposa. Immaginate che la famiglia A abbia quattro figli maschi: se questi si sposano quattro donne diverse la famiglia A ha la possibilità di creare quattro reti di alleanze, con le famiglie B, C, D, E, da cui provengono le mogli. Ma se i quattro fratelli, come nel caso della poliandria fraterna del Nepal, sposano tutti la stessa donna è chiaro che la rete di alleanze diventa meno fitta, anche se ovviamente si intensifica perché tutti e quattro gli uomini hanno contratto un’alleanza diretta con la famiglia della sposa. Vediamo ora come un terzo tipo di matrimonio poliandrico provochi un fenomeno opposto. 3) matrimonio secondario. Si riscontra solo in Nigeria e Camerun settentrionale. La coppia si sposa, e se cessa di vivere assieme non per questo cessa di “essere sposata”. Ciò significa che uno dei due partner (p.e. la donna) può andarsene dalla casa del marito e sposarsi (matrimonio secondario) con un altro uomo senza per questo perdere i diritti rispetto al primo marito, dal quale può ad esempio tornare per avere un figlio che viene considerato del tutto “legittimo” (di nuovo: ci stiamo impegolando sul matrimonio più del dovuto, abbiate pazienza e appena avremo

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finito questa tipologia della famiglia parleremo a lungo del matrimonio). Insomma in questo caso sia uomini che donne sono poligamici, ma lo sono in successione cronologica reversibile le donne, mentre lo possono essere in sincronia gli uomini, cioè la donna vive con un uomo alla volta, e può tornare “indietro” da un marito precedente senza perdere i diritti di moglie, mentre l’uomo può vivere con più di una moglie contemporaneamente. In questo caso è evidente che si assiste ad una proliferazione delle alleanze, visto che una persona può essere legata tramite matrimonio a diverse famiglie (una per ogni partner), senza che il nuovo matrimonio annulli i precedenti. Se volete, in questo tipo di famiglia non esiste il concetto di divorzio ma la monogamia non è prescrittiva.

quelli genitori/figli. Se immaginate la relazione tra genitori e figli come una relazione di tipo verticale (il tempo scorre dall’alto al basso, diamo qui indicazioni sui primi rudimenti della grafica della parentela: maschio, femmina, relazione orizzontale Sibling, relazione verticale Teknon/Genitor, relazione orizzontale Coniuge) allora la famiglia nucleare si può immaginare come espandibile in verticale (famiglia verticale estesa) oppure in senso orizzontale (famiglia congiunta). Notare che non tutti gli antropologi distinguono tra famiglia verticale e famiglia congiunta, e parlano semplicemente di famiglia estesa, quando è più vasta della famiglia nucleare.

Questa insistenza sulla poliandria non è priva di scopo, dal mio punto di vista. Serviva per introdurre il tema che ci porterà al matrimonio, e cioè il rapporto che c’è tra sessualità e riproduzione. Tutte le società umane sembrano in grado di distinguere per i maschi le prestazioni sessuali dalla capacità riproduttiva, mentre questa distinzione sembra avvenire con maggiori difficoltà per quanto riguarda le donne. Cioè, le famiglie poliginiche sembrano ammettere implicitamente che per gli uomini ci può essere sessualità fuori dalla riproduzione, mentre per le donne questo tipo di sessualità slegato dalla riproduzione è in qualche modo pericoloso e va in tutti i modi evitato, legando la donna ad un unico uomo, con il quale è legittimata ad avere rapporti sessuali. Nei casi di poliandria invece sembra riconosciuto alla donna il diritto alla sessualità separato dalla funzione riproduttiva: i Nyinba distinguono chiaramente chi è il padre di ogni bambino, pur permettendo a tutti i fratelli accesso sessuale alla donna. Che vuol dire questo? Forse che la poliandria è rara perché gli uomini (i maschi) fanno fatica ad accettare questa separazione tra sessualità e capacità riproduttiva per le donne? Oppure la sua rarità dipende dal fatto che la poliandria fraterna e quella associata tendono a ridurre l’estensione delle alleanze? Eppure il caso dei matrimoni secondari della Nigeria e del Camerun ci dovrebbero suggerire che non sempre la poliandria coincide con un’intensificazione dell’alleanza, e può anzi portare alla proliferazione delle alleanze. C’è insomma un nodo antropologico interessante dietro la stranezza e la rarità della poliandria, un nodo che ha a che fare certo con limitazioni di tipo “strutturale” cioè di ordine produttivo ed ecologico, ma non c’è dubbio che quelle limitazioni sono a loro volta conseguenze di come la sessualità maschile è vissuta e percepita da coloro che detengono il potere (che sono spesso maschi).

Sono le famiglie in cui il padre è assente. Spesso la madre può vivere da sola coi figli, ed avere una serie di uomini come compagni. Potete intuire da soli che questo tipo di famiglia, essendo priva del maschio, per lungo tempo è stata considerata un’eccezione patologica. Oggi invece la si studia con attenzione, e i migliori casi etnografici documentati provengono dalle Indie Occidentali, dall’America Latina e tra le donne afroamericane delle grandi città degli Stati Uniti. Le famiglie matrifocali possono essere composte da madre e figli solamente, oppure possono essere estese verticalmente (madre della madre) o congiunte (due o più sorelle coi rispettivi figli) o entrambe le cose (sorelle con figli, più la loro madre). In questi gruppi famigliari gli uomini adulti rivestono ruoli marginali come visitatori o amanti, ma non risiedono con le donne. Come vedremo quando parleremo dei modelli di residenza, le famiglie matrifocali hanno una relazione con il modello di residenza matrilocale, ma non coincidono perfettamente con questo.

famiglie estese e congiunte Si chiamano così quelle famiglie in cui (indipendentemente dal tipo di matrimonio sul quale si basano) convivono persone legate da rapporti parentali che travalicano

famiglie matrifocali

IL MATRIMONIO Abbiamo finora parlato dei tipi di famiglie suddividendole anche in base al tipo di matrimonio sul quale si basano (mono- o poligamico, p.e.), ma non abbiamo definito cosa il matrimonio sia. La ragione è che trovare una definizione generale di matrimonio è un’impresa pressoché disperata, e si troveranno sempre delle eccezioni. Il matrimonio è una di quelle classiche istituzioni che sembrano universali, ma che poi hanno talmente tante idiosincrasie locali che risulta ardua una generalizzazione efficace. Emily Schultz lo definisce così: “Il matrimonio prototipico 1) trasforma lo status di un uomo e di una donna, 2) stabilisce il grado di accesso sessuale reciproco dei coniugi, che varia dall’esclusività alla preferenza, 3) istituisce la legittimità dei figli nati dalla moglie e 4) crea relazioni tra i parenti del marito e quelli della moglie. Questa definizione, per quanto possa apparire vaga e quindi applicabile generalmente, ha alcune notevoli limitazioni. La principale è quella di non

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considerare unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso. Non si tratta di essere politically correct, ma di dare un’adeguata rappresentazione etnografica dell’estrema varietà delle culture umane sotto questo punto di vista. Evans-Pritchard (uno dei più famosi antropologi sociali britannici) studiò negli anni Trenta i Nuer del Sudan meridionale. Tra di loro, quando una donna non riusciva ad avere figli era piuttosto normale che lasciasse il marito e si sposasse con un’altra donna, diventando “padre” dei figli che questa avrebbe generato grazie alle prestazioni sessuali di un fratello o di un amico o di un vicino della “donna-padre”. Il matrimonio era perfettamente legale. Ancora più bizzarra tra i Nuer era un’altra usanza detta “matrimonio con uno spettro”. Se un uomo moriva senza lasciare figli, il suo spirito tormentava i suoi parenti. Uno di loro (spesso un fratello) si prendeva carico della cosa sposando una donna “in nome del morto”. I figli nati dall’unione erano a tutti gli effetti legali figli del morto. Neanche a dirlo, il marito putativo aveva ben poche occasioni di sposarsi per conto suo (non a nome del morto) e quindi finiva per morire senza lasciare figli (dato che quelli che lui aveva contribuito a generare erano in realtà figli del morto). Diventava quindi a sua volta uno spettro che tormentava i suoi parenti e l’istituzione del matrimonio con lo spettro si perpetuava “da un morto all’altro”. Per ovviare a questo tipo di strane unioni matrimoniali che a fatica verrebbero comprese nella definizione data da Schultz, Kathleen Gough ha fornito questa definizione alternativa del matrimonio: “Il matrimonio è un legame stabilito tra una donna e una o più persone e consente che a un bambino, nato dalla donna in circostanze non proibite dalle leggi che governano il rapporto, siano riconosciuti i pieni diritti della sua condizione di nascita, comuni ai normali membri della società o del livello sociale del neonato/neonata”. Questa definizione non fa alcun accenno ai diritti e doveri sessuali (punto due della definizione di Schultz) perché ha in mente il caso dei Nayar del Kerala (India meridionale), le cui donne non avevano certo particolari obblighi verso il marito rituale al quale andavano in spose (marito che non viveva mai con la moglie, se vi ricordate), che poteva anche non accoppiarsi mai con la moglie, ma che erano comunque forzate socialmente a iniziare l’attività riproduttiva (ad avere figli) solo dopo che il matrimonio era stato celebrato. Insomma, tra i Nayar non aveva nessuna importanza chi fosse il GENITORE biologico dei figli, e neppure chi fosse il PADRE legale (torneremo diffusamente sulla differenza tra genitore e padre quando parleremo della parentela, anche se potete già intuire che il genitore è quello che fisicamente ha fecondato la donna, mentre padre è quello che ha responsabilità giuridiche, diritti e doveri verso la prole: non sempre le due figure coincidono), dato che i figli crescevano con la madre e i parenti di lei, ma la madre era comunque costretta a sposarsi prima di potere avere figli. La definizione della Gough parla di legame tra “una donna e una o più persone” perché pensa al caso dei

Nuer che abbiamo appena visto (altro caso tipico, ancora africano, è nel Dahomey), ma così lascia fuori le unioni legali tra due maschi (in Africa tra gli Nzema del Ghana, studiati negli anni Sessanta e Settanta dalla missione etnologica dell’università di Roma) come nel caso dei maschi Kwakiutl, che possono sposare il figlio maschio di un capo per ereditarne i privilegi (e se il capo non ha figli, possono sposare una gamba del capo, o un suo braccio). Harris, di fronte all’evidente impossibilità di dare una definizione universale di matrimonio, ne dà se volete una statistica, basandosi su quel che lui considera essenziale dal punto di vista etico: “matrimonio significa l’insieme di sentimenti, comportamenti e regole riguardanti unioni di convivenza eterosessuale e la riproduzione in ambiti domestici” (p.139). Piuttosto insoddisfacente come definizione (lascia fuori tutti i matrimoni omosessuali, e lascia fuori anche il matrimonio Nayar, visto che parla di “unioni di convivenza” cosa che non avviene tra di loro), ma ha il vantaggio di costituire la base per definizioni modulari, per cui il matrimonio Nayar sarà “matrimonio tra non-conviventi” e quello tra donne Nuer sarà “matrimonio donna-donna”.

Funzioni del matrimonio Bisogna ora guardare alle FUNZIONI del matrimonio, cioè a quel che il matrimonio fa a livello sociale. Ancora una volta, non è possibile generalizzare se non nel senso che il matrimonio sembra il punto sociale in cui si intersecano due mondi di interessi spesso divergenti se non in aperto conflitto: da un lato la necessità di perpetuarsi come individui o come gruppi (il problema della DISCENDENZA, se volete) e dall’altro la necessità di fare il modo che il proprio gruppo di riferimento non sia isolato (il problema dell’ALLEANZA). Il matrimonio permette di tentare di trovare una soluzione ad entrambi questi problemi: da un lato garantisce una forma istituzionalizzata attraverso cui le persone si riproducono e quindi garantisce una continuità al gruppo cui la persona sente di appartenere, ma dall’altro crea dei legami tra i gruppi delle persone che si sposano. Tutta la questione delle funzioni del matrimonio si può vedere come il tentativo della specie umana di rispondere culturalmente a questo duplice problema: come posso riprodurre il mio gruppo e come posso fare il modo che il mio gruppo non sia isolato? A seconda delle culture (e a seconda degli antropologi che studiano), si possono quindi avere due prospettive distinte: secondo la prima il matrimonio è un mezzo per perpetuare il proprio gruppo, secondo la seconda i membri del gruppo sono “pedine” spendibili in matrimoni che garantiscano alleanze vantaggiose. Nel primo caso dunque il matrimonio è il mezzo per procurarsi degli eredi, nel secondo gli eredi sono un mezzo per procurarsi alleanze. Inutile aggiungere che le due prospettive non sono in

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totale contraddizione, e che anzi il problema di ogni cultura consisterà nel far quadrare al meglio possibile la discendenza e l’alleanza. A seconda di come venga concepita la parentela, è ovvio che la risposta sarà diversa. Rimangono però alcune funzioni generali che possiamo cercare di elaborare molto liberamente prendendole da Edmund Leach (altro grande antropologo britannico, scomparso nel 1989). Ci sono diverse sfere su cui il matrimonio può intervenire: 1) sfera della discendenza: il matrimonio consente il controllo sulle prestazioni sessuali del partner, garantisce chi sia il padre o la madre legale dei figli e determina uno stanziamento economico per i figli (allevamento ed eredità). 2) sfera dell’alleanza: il questo caso il matrimonio lega i due gruppi di provenienza degli sposi in diversi modi: può consentire il controllo economico di un partner (e della sua famiglia) sui beni dell’altro o sulle sue capacità lavorative. Sia che si tratti della sfera della discendenza, sia che sia quella dell’alleanza, vediamo dunque che il matrimonio riveste importanti funzioni economiche, tanto è vero che in moltissime società esso è percepito e rappresentato più come uno scambio tra gruppi che un contratto tra individui. Per ragioni che non sono mai state ben chiarite dagli antropologi, ma che dipendono probabilmente dalla biologia di base della specie umana, nelle società umane di cui si ha conoscenza certa (sia storica, sia etnografica) sono sempre i maschi ad esercitare il controllo. Non è questo il momento per dilungarsi su questo delicatissimo punto, che richiederebbe una trattazione a parte, e per ora vi dovrete accontentare del fatto che nelle società umane sono gli uomini “a comandare”. Questo aspetto specifico e (a quel che si sa) universale delle culture umane ha fatto sì che il matrimonio venisse concepito come una forma di scambio tra gruppi in cui sono le donne ad essere scambiate. Cioè il matrimonio è stato spesso pensato come lo scambio di donne in cambio di qualche cosa. Ora capite che lo scambio dipenderà dal “valore” attribuito alle donne in quella particolare società. Se si pensa che la donna abbia un alto valore (in quanto la si considera indispensabile per certi tipi di lavoro, per esempio) sarà normale che il controvalore dello scambio sarà altrettanto elevato. In questi casi il gruppo che prende la donna (per darla in isposa a un suo membro) sarà disposto a pagare quel che in termine tecnico si chiama RICCHEZZADELLA-SPOSA. Ovviamente non si tratta (almeno quasi mai) di un acquisto in senso mercantile, prima di tutto per il fatto che nelle società dove si paga la ricchezza della sposa è raro che il pagamento venga fatto in denaro e poi perché anche se di acquisto si trattasse, è sempre acquisto di alcuni particolari aspetti della donna (della sua forza lavoro, o della sua capacità riproduttiva) e mai della sua persona. In molti casi

in cui si paga la ricchezza della sposa la donna conserva una buona autonomia e forti legami con il suo gruppo di provenienza. Probabilmente la ricchezza della sposa è una forma di scambio comune nelle situazioni produttivamente in espansione: ogni gruppo sente la necessità di doversi espandere (non c’è il problema di intaccare la portata ambientale) e quindi ha bisogno di riprodursi e di intensificare la produzione: una donna in arrivo può garantire entrambe le cose, e quindi il gruppo da cui proviene dovrà essere adeguatamente compensato. Se invece i gruppi non hanno bisogno o interesse di espandersi numericamente e in termini di produzione, le donne possono essere poco più che un peso, e quindi sarà la famiglia (il gruppo, ho detto finora, e vedremo tra poco perché) dello sposo a pretendere un risarcimento per doversi accollare il sostentamento di una persona in più. In questo caso il gruppo della sposa la invia allo sposo con un carico di beni detto DOTE, sul quale non mi soffermo perché sapete tutti cosa sia, anche se l’usanza della dote è sempre meno frequente. Il punto che volevo sottolineare è che il matrimonio dal punto di vista etnografico è meglio rappresentato come una forma di scambio tra gruppi che garantisce la perpetuazione degli stessi, piuttosto che un legame tra due singole persone, e questo scambio interseca su di sé funzioni economiche e sociali importantissime. Vediamo ora un po’ meglio quali sono i gruppi che si scambiano le donne, e perché.

incesto In tutte le società umane esistono delle regole piuttosto chiare su chi uno possa e non si possa sposare. Normalmente è vietato il matrimonio con membri dello stesso gruppo domestico (della stessa “famiglia”) e non si conoscono culture in cui possa essere legalizzata (se non in casi demograficamente eccezionali) l’unione tra genitori e figli (madre e figlio; padre e figlia). Sul matrimonio tra fratello e sorella ci sono più eccezioni, ma in generale è statisticamente vero dire che non ci sposa entro la famiglia nucleare. Molte società però vanno oltre e proibiscono l’accesso matrimoniale a tutti i membri di una determinata classe, un po’ come se tutti quelli che si chiamano con lo stesso cognome non potessero sposarsi tra di loro. Questi tipi di gruppi, i cui membri possono avere rapporti di tipo lavorativo, rituale o quant’altro molto stretti, ma che non si possono sposare tra di loro, sono detti gruppi ESOGAMICI. Molte volte interi villaggi possono essere esogamici, e quasi sempre le bande nomadi di cacciatori e raccoglitori sono esogamiche. Come può impedire di sposarsi entro un determinato gruppo, così una cultura può obbligare a scegliere il proprio partner entro un determinato gruppo. Per riprendere l’esempio dei cognomi, come se ci fosse una legge che obbliga ciascuno a sposarsi solo con una persona che porti lo stesso cognome. In questo caso, il gruppo che ha lo

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stesso cognome è detto ENDOGAMICO, perché attua il matrimonio al suo interno. Un caso tipico è quello dell’endogamia di villaggio. Endogamia ed esogamia sono quindi sempre termini relativi, si è endogamici rispetto ad un gruppo ma si può essere esogamici rispetto ad un altro. Per esempio: posso essere costretto a sposarmi al di fuori del gruppo dei miei “parenti”, gruppo che chiamiamo LIGNAGGIO (non lo definiamo per ora, e fingiamo che sia il gruppo di tutti i miei parenti), ma al contempo posso essere obbligato a sposarmi entro i confini del villaggio. Avremo quindi in questo caso un’esogamia di lignaggio e un’endogamia di villaggio. La violazione dell’esogamia di base rispetto al proprio nucleo famigliare o parentale è definita INCESTO, e tutte le culture umane lo sanzionano in una qualche misura. Il paradosso del divieto dell’incesto è che mette in movimento le donne e il matrimonio, e l’alleanza, e le questioni economiche ad essa associate. Non sarebbe tutto più semplice se ogni famiglia si riproducesse al suo interno, per così dire, se cioè fratelli e sorelle si sposassero tra di loro e perpetuassero il gruppo da cui provengono? Insomma, non sarebbe tutto più semplice se non ci fosse il divieto dell’incesto? Certo, sarebbe tutto più semplice, tanto più semplice che probabilmente non ci sarebbero neppure più esseri umani. La complicatezza che il tabù dell’incesto mette in moto è quel che fa stare in piedi le società umane, visto che la necessità di procurarsi le donne al di fuori del proprio gruppo spinge alla cooperazione e alla reciprocità con altri gruppi, verso i quali invece si tenderebbe ad essere in pura competizione. Sapendo invece che da quel gruppo dovrò trovare le mogli per i miei figli, è probabile che cerchi qualche modo di convivenza pacifica, se non proprio di collaborazione. Gli antropologi riassumono questa ragione elementare del tabù dell’incesto con la frase: meglio sposarsi fuori (dal proprio gruppo) che essere fatti fuori (dai membri dei gruppi rivali). Ci sono anche delle ragioni più direttamente adattive che possono aver spinto ad una selezione culturale adattiva del tabù dell’incesto (per cui avevano più probabilità di sopravvivere quei gruppi che scambiavano le donne con altri gruppi rispetto ai gruppi che si riproducevano al loro interno). Per gruppi piccoli, attorno alla cinquantina di persone, come dovevano essere le bande di ominidi e di primi uomini, è molto pericoloso fare affidamento esclusivamente sulle proprie capacità riproduttive, perché basta una lievissima variazione del rapporto maschi/femmine per mettere il gruppo a rischio di estinzione. Da studi di etnodemografia pare che il gruppo medio di riproduzione debba aggirarsi sulle 500 unità, ben al di sopra della dimensione della banda di cacciatori. Se ogni banda era composta di una quarantina di individui, bisogna pensare che ognuna avesse qualche tipo di rapporto con un’altra dozzina, per garantire la sopravvivenza demografica. Quindi non è

improbabile che il tabù dell’incesto (non sposare le tue sorelle o tua madre) abbia favorito in termini demografici quei gruppi che lo praticavano. 2.2. TERMINI DI BASE Partiamo da qualche semplice definizione. PARENTELA: è l’insieme delle relazioni sociali conseguenti al riconoscimento (culturalmente specifico) dei legami dovuti alla comune discendenza e al matrimonio. Normalmente gli antropologi trovano utile distinguere tra CONSAGUINEITÀ, in cui vengono comprese le relazioni parentali tramite comune discendenza, e AFFINITÀ, che riguarda invece la parentela conseguita tramite matrimonio. PARENTELA COGNATICA. In questo caso un individuo ricostruisce la sua rete di parenti attraverso i maschi e o le femmine con diversi criteri (che vedremo). DISCENDENZA UNILINEARE: solo uno dei sessi è considerato pertinente per determinare l’appartenenza di un individuo ad un gruppo. La consanguineità passa quindi solo attraverso un sesso, che è considerato fertile rispetto al gruppo: solo i maschi/le femmine sono produttivi per il proprio gruppo, i membri dell’altro sesso saranno utili per la produzione di figli del gruppo del loro partner. ESOGAMIA: Regola che stabilisce l’obbligo di sposarsi al di fuori di un determinato gruppo, stabilito da quella particolare cultura. ENDOGAMIA: Regola che stabilisce l’obbligo di sposarsi all’interno di un determinato gruppo, stabilito da quella particolare cultura. Endogamia e esogamia sono termini sempre relativi e contestuali, e vanno definiti di volta in volta i contesti di applicazione. Un gruppo può praticare l’esogamia a un certo livello (vietando per esempio il matrimonio tra “fratelli”) e l’endogamia a un altro livello (obbligando a cercare il partner entro il villaggio). Esempi ulteriori chiariranno questo duplice concetto. TABU DELL’ INCESTO: forma minima della regola esogamica, presente in tutti i gruppi umani. In tutte le culture abbiamo testimonianza di questo dato di fatto: non ci si può sposare con chiunque. Esiste ciò sempre almeno una regola minima che ci dice: scegli chi ti pare, ma non puoi sposarti con questo gruppo di persone. In molti casi, ci sono restrizioni precise anche sul “chi ti pare”, ma comunque esiste sempre un nucleo di individui con i quali il matrimonio è comunque vietato. Normalmente questi individui includono gli antecedenti, i discendenti e codiscendenti diretti, per cui non ci si può sposare con il padre, la madre, il figlio, la figlia, il fratello la sorella.

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2.3. I GRUPPI DI PARENTELA I gruppi di parentela si distinguono essenzialmente per due variabili che possiamo tradurre in due domande: • Reclutano i loro membri tramite entrambi i sessi (gruppi COGNATICI) oppure attraverso un solo sesso (gruppi UNILINEARI)? • Si strutturano attorno a un ego specifico (sistemi EGO-FOCUS) o a partire da un antenato (ANCESTOR-FOCUS)? Prima di vedere la relazione sistematica tra queste due variabili, è necessario fornire delle definizioni quanto più precise di queste due opposizioni e dei termini che le compongono, di modo che sia chiaro come il nostro modo di concepire la parentela non sia che uno dei modi possibili. 2.3.A. GRUPPI COGNATICI VERSUS UNILINEARI Come tutti i gruppi umani, anche quelli parentali hanno il “problema del reclutamento”: gli esseri umani invecchiano e muoiono, e quindi è necessario che nuovi membri subentrino a quanti non ci sono più. Per diverse ragioni, un gruppo può “decidere” che solo alcuni tra i suoi membri siano responsabili dei nuovi reclutamenti; abbiano cioè il diritto/dovere di introdurre nuovi membri nel gruppo. A seconda che il reclutamento dei membri del gruppo parentale avvenga utilizzando sia maschi che femmine oppure solo uno dei due sessi, i sistemi di parentela (sia ego-focus che ancestor-focus) si suddividono in gruppi COGNATICI o gruppi UNILINEARI. Per comprendere questa prima opposizione, il sistema di trasmissione dei cognomi può funzionare come una metafora efficace: nel nostro sistema, si eredita il cognome dal padre sia che si sia maschi, sia che si sia femmine, ma lo si trasmette ai propri figli solo se si è maschi (altrimenti i nostri figli avranno il cognome di nostro marito). Nel sistema ebraico, invece, si eredita il cognome della madre sia che si sia maschi, sia che si sia femmine, ma lo si trasmette ai propri figli solo se si è femmina (altrimenti i figli avranno il cognome di nostra moglie). Nel sistema spagnolo, infine, almeno per la prima generazione, i figli maschi e femmine ereditano entrambi i cognomi, dal padre e dalla madre. Se invece dei cognomi si trattasse di appartenenza a gruppi di parentela, quello spagnolo sarebbe un sistema COGNATICO (dal termine latino che indicava i parenti su entrambi i lati, mentre i parenti per via esclusivamente maschile erano detti agnati), intendendo con questo che il figlio o la figlia appartiene a entrambi i gruppi, del padre e della madre, mentre il nostro e quello ebraico sarebbero sistemi UNILINEARI, dato che si appartiene a uno solo dei due gruppi, quello del padre nel nostro caso, quello della madre nel caso ebraico.

2.3.B. GRUPPI CORPORATI (ANCESTOR-FOCUS) VERSUS GRUPPI EGO-CENTRATI I gruppi di discendenza veri e propri (indipendentemente dal fatto di essere cognatici o unilineari) hanno in comune il fatto di basare la discendenza a partire da un ANTENATO COMUNE (reale o mitico) e di funzionare in quanto GRUPPI CORPORATI. Questi due tratti sono essenziali se vogliamo capire come funzionano i sistemi parentali in generale, e se vogliamo capire la differenza tra il sistema cui noi siamo abituati e quelli di altre culture. Vediamo prima brevemente cos’è un gruppo corporato. I gruppi corporati esistono indipendentemente dai singoli individui che ne fanno parte, hanno diritti e doveri in quanto gruppi (sono delle “persone” come dicono gli Ashanti) e continuano ad esistere anche dopo la morte di un individuo che ne fa parte. Gli individui di un gruppo corporato vanno e vengono, ma il gruppo continua ad esistere. L’essere corporati implica che essi agiscano “come un corpo”: spesso controllano la proprietà terriera (che non è individuale, ma del gruppo) e regolano istituti come la faida, per cui l’uccisione di un membro del gruppo A da parte di un membro del gruppo B può essere riscattata direttamente dal gruppo A: è cioè il gruppo A a ricevere una compensazione, oppure un membro del gruppo A vendicherà il gruppo uccidendo un membro del gruppo B, non necessariamente quel membro responsabile del primo atto violento. Non tutti i gruppi di discendenza sono corporati in questo senso, ma sempre durano “in eterno”, indipendentemente da chi in qualunque momento faccia fisicamente parte del gruppo. La seconda caratteristica essenziale dei gruppi di discendenza veri ei propri è quella di essere “centrati su di un antenato” (ancestor-focus), per cui i membri del gruppo si riconoscono membri del gruppo in quanto tutti discendenti da un comune antenato. I gruppi di parentela come il nostro, centrati su ego, sono invece di tipo completamente diverso, anche se in alcuni casi possono essere confusi con gruppi di discendenza. Questi gruppi sono detti ego-centrati (ego-focus) perché il punto di vista da cui la rete parentale è vista è quello di un ego specifico. Questi gruppi egocentrati formano quelli che la letteratura specialistica definisce PARENTADI (KINDREDS in inglese). Per capire la differenza tra gruppi ego-focus e ancestor-focus, immaginiamo che in un certo gruppo si considerino parenti tra loro tutti quelli discendenti dall’antenato X, che chiameremo il Gruppo Parentale: il criterio di base è quindi che il Gruppo Parentale è composto da quanti sono discendenti dall’antenato X. Pensate ora invece alla vostra “famiglia” in senso esteso: i vostri parenti non sono vostri parenti perché discendono tutti da un X comune, ma sono invece “vostri” parenti, nel senso che è ognuno di voi (tu che leggi) a “tenerli assieme”. Pensate ai fratelli di vostra mamma e a quelli di vostro papà: sono vostri zii, cioè sono vostri parenti, ma non sono

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parenti tra di loro, non hanno (quasi mai) alcun legame “di sangue” ricostruibile. Pensate inoltre ai vostri cugini: quelli da parte di papà e quelli da parte di mamma sono tutti vostri cugini, ma tra di loro non sono tutti cugini: il figlio del fratello di vostra madre e quello della sorella di vostro padre, per fare un esempio, sono vostri cugini ma tra di loro non sono cugini. Come vedete la differenza qui è tra quei sistemi in cui la parentela dipende da una persona che “accorpora” attorno a sé un gruppo di parenti (il caso della parentela cui siamo abituati) e il caso invece di quei sistemi che si disinteressano dei singoli individui e esistono come insieme di tutti coloro che discendono da X. Chiamiamo quest’ultimo tipo gruppi di parentela “centrati sull’antenato”, e costituiscono i gruppi di discendenza veri e propri, mentre chiamiamo i sistemi come il nostro gruppi di parentela “centrati su ego”, oppure PARENTADI o KINDREDS (figura 1, in fondo a questa dispensa). I parentadi non sono gruppi di discendenza perché non sono basati su di un antenato comune, ma sui legami parentali che un singolo ego ha con altre persone. La differenza, apparentemente difficile da cogliere, è essenziale. Si può comprendere anche così: mentre in un sistema che funziona con gruppi di discendenza (unilineari o cognatici non ha importanza) ogni individuo entra in un sistema di discendenza che gli preesiste ereditandolo da coloro che hanno il diritto di trasferirglielo (mentre cioè in questi sistemi ognuno eredita il gruppo di discendenza), nei sistemi ego-centrati ognuno costituisce il proprio parentado, che cioè non erediterà come tale dai propri genitori (padre o madre o entrambi, come avviene nei gruppi di discendenza). Ogni individuo (tranne fratelli germani, cioè figli di padre e madre comuni) ha un parentado diverso e ogni parentado cessa di esistere con la morte di ego, mentre il gruppo di discendenza continua ad esistere anche dopo la morte di ego, e gli preesisteva. Le funzioni di un parentado sono quindi assai diverse da quelle di un gruppo di discendenza, visto che il parentado non può, per esempio, essere responsabile giuridico o proprietario terriero, data la sua volatilità. Funziona però assai bene come mezzo di reclutamento per il suo funzionamento a catena: i cugini di cugini si possono facilmente associare. Quel che conta è che i sistemi di discendenza ancestor-focus sono ben diversi da quelli egofocus, perché i primi hanno un’esistenza indipendente dai singoli, mentre i secondi dipendono dai singoli. 2.3.C. LE QUATTRO COMBINAZIONI POSSIBILI Nel paragrafo 2.3.A. abbiamo distinto tra gruppi che reclutano i loro membri per via cognatica e gruppi che invece utilizzano un solo sesso (unilineari). Possiamo chiamare i primi come a1, e i secondi come a2. Nel paragrafo successivo (2.3.B.) abbiamo distinto tra gruppi basati su ego e quelli basati sull’antenato. Possiamo etichettare i primi con b1 e i secondi con b2.

Abbiamo quindi due variabili (a e b), ognuna dotata di due valori (1 o 2). Le combinazioni possibili sono quindi 4: a1+b1; a1+b2; a2+b1; a2+b2. Analizziamole separatamente. a1/b1 è il caso di gruppi cognatici senza discendenza da un antenato: il nostro caso, che a volte la letteratura specialistica definisce bilaterale. a1/b2 è il caso in cui la parentela passa attraverso maschi e femmine, ma c’è un antenato comune. Come capite, in questo caso è necessario trovare delle restizioni pragmatiche, altrimenti tutti sono parenti di tutti. Poniamo il caso che io appartenga ad una società in cui vige questa discendenza (detta anche ambilineare: parenti da tutte e due le parti, e parentela determinata da un comune antenato). Poniamo inoltre il caso che i miei quattro nonni appartenessero a quattro gruppi diversi: A, B, C, D. Quindi io appartengo a tutti e quattro i gruppi. Poniamo ora il caso che i gruppi abbiano dei doveri cerimoniali ben precisi, per esempio che debbano celebrare dei riti in onore degli antenati con un certo ritmo stagionale, e che tutti i membri del gruppo siano tenuti a partecipare a questi riti (immaginate una messa annuale in memoria dei defunti) che si svolgono in spazi separati per ogni gruppo (una messa in una chiesa diversa per ogni gruppo diverso). Se questi riti si svolgono contemporaneamente in spazi diversi, ogni individuo dovrà decidere a quale rito partecipare, limitando così la sua “appartenenza” agli altri gruppi. Capite insomma che la discendenza ambilineare, proprio perché tende ad allargare enormemente la rete parentale, subisce delle restrizioni di tipo pragmatico. La cosa è ben evidente quando l’appartenenza ad un gruppo viene associata a diritti e doveri che coinvolgono beni, proprietà e servizi. Se per esempio i gruppi di cui stiamo parlando sono proprietari della terra coltivabile, oppure l’appartenenza ad un determinato gruppo garantisce l’accesso a terreni di pascolo o aree di pesca o di caccia, o determina le forme dell’eredità, capite che l’appartenenza a tutti i gruppi contemporaneamente è da un lato un enorme vantaggio, ma dall’altro crea sovrapposizioni e conflitti di interesse con gli altri individui: se tutti sono discendenti di tutti i gruppi, come regolare per esempio l’accesso ai territori da coltivare? In questi casi, in cui cioè il principio della discendenza ambilinenare deve essere ristretto, le società che impiegano sistemi di parentela cognatica tendono a restringere le possibilità di appartenenza. Facciamo un esempio reale. I Maori della Nuova Zelanda sono organizzati parentalmente in gruppi di questo tipo, e vivono in unità territoriali (che possiamo per comodità definire villaggi, anche se la definizione non è precisa) detti hapu. Ogni individuo appartiene di diritto a tanti hapu quanti è in grado di individuare nella sua genealogica cognatica: lo hapu del padre, della madre, dei nonni paterni e materni, e così via. Di fatto, egli può risiedere sono in uno hapu alla volta, e coltiverà le terre assegnate a quello hapu. Avrà sempre

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il diritto di spostarsi in un altro hapu se la situazione demografica o i suoi interessi lo richiedono, ma conta il fatto che potrà sfruttare un solo hapu alla volta. La scelta dello hapu è fatta in base a diversi criteri, e molte volte un uomo tende a risiedere nello hapu del padre, ma non è raro il fatto che un Maori costruirà selettivamente la sua discendenza da un antenato attraverso maschi e/o femmine. Il singolo Maori risalirà il suo albero genealogico attraverso i parenti che gli interessano per arrivare a quell’antenato che giustifichi il suo diritto di risiedere in quel determinato hapu. Se si sposa con una donna che proviene da un lignaggio importante e ricco, potrà permettere che i figli nati da quell’unione si riconoscano membri del lignaggio della madre. a2/b1 Si tratta di gruppi che tracciano la parentela solo attraverso uno dei due sessi, ma non hanno un antenato comune, sono insomma dei parentadi in cui ego seleziona i parenti da un lato solo, quello paterno o quello materno. È un caso estremamente raro, i gruppi che non sono basati sull’antenato tendono ad essere sempre cognatici, a raggruppare i parenti da tutti e due i lati, ma la ricerca etnografica ci dice che alcuni gruppi in Mongolia hanno questo tipo di parentadi in cui si selezionano i parenti solo dalla parte del padre (come se consideraste cugini solo i figli dei fratelli di vostro padre, gli altri no). Ma è un caso sul quale non vale la pena di soffermarci. a2/b2 È invece quel che ora ci interesserà da vicino. Si tratta di gruppi che esistono in quanto tutti i membri discendono da un comune antenato, ma che selezionano l’appartenenza al gruppo attraverso un solo sesso. Chiamiamo questi gruppi gruppi di discendenza unilineari. 2.3.D. GRUPPI DI DISCENDENZA UNILINEARI In questo caso abbiamo a che fare con veri gruppi di discendenza, corporati, preesistenti ai singoli membri che vi entrano a far parte, e che sopravvivono alla morte dei singoli membri. I gruppi hanno ruoli specifici, spesso gestiscono direttamente le proprietà terriere o altri beni (che non appartengono quindi ai singoli) e sono definiti in base alla comune discendenza da un antenato comune. Se i membri del gruppo sono reclutati attraverso i maschi, il gruppo è detto patrilineare; viceversa, se solo le donne a garantire la continuità del gruppo, questo è detto matrilineare (figura 2). Al di là della matri- o della patrilinearità, cioè del modo in cui vengono reclutati i membri del gruppo, gli antropologi trovano conveniente distinguere due tipi principali di gruppi di discendenza unilineari, a seconda che ego sia in grado o meno di ricostruire la sua parentela effettiva con l’antenato che ne costituisce il

capostipite. Se cioè l’antenato è legato da una parentela completamente ricostruibile con i membri del gruppo, quel gruppo è detto LIGNAGGIO. Se invece l’antenato da cui i singoli ego dicono di discendere non è posizionabile in una parentela chiara (se cioè il legame che lega antenato e ego non è specificabile in tutta la discendenza) allora il gruppo è detto CLAN. Normalmente le società di interesse etnologico hanno sia lignaggi sia clan. Cioè ogni individuo sa di appartenere ad un lignaggio nel senso che discende da un antenato nei confronti del quale può ricostruire il grado di parentela, e allo stesso tempo sa di discendere da un antenato anteriore del quale non è in grado di ricostruire il grado di parentela. A seconda che i lignaggi reclutino per via patri- o matrilineare, verranno chiamati patrilignaggi o matrilignaggi. Allo stesso modo, possiamo parlare di patriclan e matriclan. Sebbene sia in teoria abbastanza chiara la distinzione tra lignaggio e clan, e sebbene lignaggi e clan possano avere funzioni assai diverse (ci può essere magari esogamia di lignaggi e endogamia di clan), tenete sempre presente che la parentela ha la fantastica possibilità di essere manipolata anche in quelle che a noi apparirebbero chiare relazioni genetico-procreative. Intendo dire che non è impossibile (anzi è del tutto comune) che l’antenato “chiaramente ricostruibile” che costituisce lo stipite del lignaggio sia, in quanto a sua effettiva posizione parentale in posizione assai ambigua: un padre del padre del padre potrebbe essere “in realtà” un fratello del padre del padre del padre, la cui posizione parentale si è nel corso del tempo aggiustata per coprire interessi di lignaggio. Basandosi spesso sull’oralità, la ricostruzione delle genealogie è flessibile. Se volete, i legami di parentela che costituiscono un lignaggio sono basati sulla memoria, ma questa memoria è “una memoria fertile”. Quindi in pratica è spesso difficile stabilire in maniera univoca se si tratta di un lignaggio o di un clan quello con cui abbiamo a che fare. Il senso di questa “confusione”, abbiamo specificato a lezione, è proprio quello di rendere flessibili i legami parentali alle esigenze di natura sociale. Se il mi lignaggio ha bisogno di cooperare con alcuni individui, è molto probabile che “aggiusteremo” le nostre reciproche genealogie al punto da “scoprire” che “in realtà” il mio gruppo e quello di quegli individui con cui intendo cooperare sono parenti. Le conseguenze teoriche di questa adattabilità della parentela alle esigenze sociali sono estremamente interessanti. Eravamo infatti partiti studiando la parentela come il legame “naturale” che consente le relazioni sociali (collaboro con te perché sei mio parente, perché abbiamo lo “stesso sangue”), e invece ci troviamo con dei fatti etnografici che ci spingono a ipotizzare che l’argomento sostenuto possa essere a volte l’opposto (devo/voglio collaborare con te, e allora creo con te un legame di parentela, cioè rendo naturale un legame sociale che di per sé naturale non sarebbe).

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Discendenza e residenza Ammetterò ora di avervi inbrogliati, mettendo il carro della discendenza davanti ai buoi della residenza. Come potete intuire, nessun gruppo umano si è messo attorno al fuoco a discutere: Bene, allora come decidiamo di discendere, unilineari o cognatici? Ego-centrati o centrati sull’antenato? Le forme della discendenza sono rappresentazioni della società che dipendono da come i gruppi di distribuiscono sul territorio, dalle risorse di cui dispongono e dal sistema di allocazione intergenerazionale di queste risorse. Ma era importante che partissimo dalla discendenza per farvi prendere confidenza con alcuni principi di base che vi permetteranno (credo) di capire meglio il rapporto tra discendenza e residenza. Ci sono cinque casi teorici di residenza, che riassumo brevemente. 1) Natolocalità. . Parte dalla premessa che l’unione veramente stabile sia quella tra madri e figli da un lato, e fratelli e sorelle dall’altro. Possiamo pensare ad un’orda di cacciatori e raccoglitori, in cui le donne sono state fecondate ed hanno avuto dei figli maschi e femmine. Una volta raggiunta la maturità sessuale, questi figli maschi possono accoppiarsi in maniera non impegnativa con altre donne di altri gruppi, e le loro sorelle possono fare altrettanto. L’accoppiamento non prevede un allontanamento dalla famiglia di orientamento, per cui i membri rimarrebbero a vivere assieme. I maschi del gruppo proteggono le donne del gruppo (che sono le loro sorelle), e non si accoppiano con loro per via del tabu dell’incesto, ma si accoppiano invece con altre donne senza vivere con queste. A loro volta, le sorelle del gruppo si accoppiano con uomini di altri gruppi per lo stesso tabu dell’incesto, ma non vanno a vivere con loro né li portano a vivere nel loro gruppo. Se volete: ognuno se ne sta a casa sua e si accoppia con persone che vivono a casa loro. Se però i gruppi sono piuttosto dispersi sul territorio, può risultare difficile avere nelle vicinanze uomini e donne di altri gruppi per accoppiamenti non impegnativi, e allora si possono sviluppare altri casi.

orientamento, una donna fa altrettanto e i due si uniscono a costituire una nuova famiglia di procreazione. In questo caso è necessario rendere più stabile il legame sessuale, dato che le donne hanno bisogno dell’assistenza del maschio (i loro fratelli sono lontani) e i maschi hanno bisogno di garantirsi una continuità (le loro sorelle sono lontane). 3) Patrilocalità. Può succedere che sia importante che i maschi vivano assieme, per ragioni di cooperazione (caccia e guerra) e allora daranno via le loro sorelle e importeranno altre donne. Anche in questo caso è importante la regolarizzazione delle unioni sessuali nel matrimonio, perché i maschi hanno lasciato andare via le loro sorelle in altri gruppi, e quindi devono garantirsi la continuità attraverso il matrimonio.

4) Matrilocalità. Se per ragioni strutturali sono le donne a dover rimanere assieme, come potrebbe essere nel caso di coltivatori che fanno ancora affidamento sulla caccia, per cui le donne coltivano i campi e gli uomini cacciano, allora si potrebbe pensare ad un gruppo basato sulle donne, che cedono i loro fratelli alle donne di altri gruppi e importano mariti nel loro gruppo.

2) Neolocalità. Poniamo che i gruppi siano dispersi per ragioni ecologiche, e che anzi non sussista la possibilità di gruppi di grosse dimensioni. In questi casi la soluzione più indicata potrebbe essere che un maschio lascia la sua famiglia di

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5) Ambilocalità. Infine può essere una strategia utile quella di importare ed esportare maschi o femmine indifferentemente, a patto che il gruppo abbia un adeguato numero di membri per produrre e riprodursi. Quel che è importante a questo punto è che teniate sempre presente che quelli di cui abbiamo parlato sono gruppi residenziali, e non hanno di per sé un rapporto diretto con i gruppi di discendenza. Questi cinque casi ipotetici o teorici non sono cioè di per sé indicativi di alcun gruppo di discendenza, perché non hanno a che fare con alcuna discendenza ma solo con il modo in cui le persone vivono e si distribuiscono sul territorio. È però evidente come questi gruppi residenziali siano facilmente associabili a gruppi di discendenza, nel senso che il caso 1 e 4 sono facilmente associabili con la matrilinearità, il caso 3 con la patrilinearità e i casi 2 e 5 con la discendenza cognatica. Ci sono due punti che vanno sottolineati: a) incesto ed esogamia. La regola che vieta rapporti sessuali con parenti stretti (fratello, sorella, padre, madre, figlio, figlia) non è concettualmente la stessa regola che impone di sposarsi fuori dal gruppo di parenti stretti. Cioè: il tabu dell’incesto e la regola esogamica non hanno lo stesso valore concettuale. Nel caso 1 abbiamo visto che non c’è praticamente matrimonio nel senso di un’unione stabile tra un uomo e una donna, eppure si applica il tabu dell’incesto, visto che fratelli e sorelle non si accoppiano tra di loro. b) l’asimmetria di patri- e matri-linearità. I casi 3 e 4 poi sono speculari fino ad un certo punto, fino al punto cioè in cui questi modelli residenziali tendono a produrre gruppi di discendenza. Se infatti si tratta di gruppi residenziali “puri” si possono considerare uno il converso dell’altro, ma se entra in gioco la discendenza la faccenda si complica. Si deve infatti partire dalla premessa che ci sia un’asimmetria su base sessuale in molte relazioni di potere, per cui in molti casi e per molti settori

sono i maschi a detenere una quota di potere maggiore. Se, per esempio, una qualche forma di potere viene trasmessa da maschio a maschio (eredità, sacralità, sacerdozio o altro) ma il sistema è matrilineare (cioè la trasmissione passa attraverso maschi imparentati per via femminile), questi maschi devono sempre essere in grado di mantenere i contatti tra di loro attraverso le sorelle, che sono i membri produttivi del gruppo di discendenza, mentre se il sistema è patrilineare non è necessario questo contatto tra maschi attraverso le sorelle. In altre parole: “mentre per produrre una situazione matrilineare gli uomini del gruppo consanguineo si devono associare stabilmente con le sue donne, non è necessario che le donne del gruppo patrilineare siano in associazione costante con i suoi uomini” (Fox: 107). Capite meglio questa asimmetria se riprendete i casi 3 e 4. Se il caso 3 sviluppa un gruppo di discendenza patrilineare, i maschi sono già associati e possono trasmettersi il potere direttamente (di padre in figlio) visto che il legame che legittima la continuità è quello del matrimonio (il maschio non si riproduce, si lega formalmente ad una donna e da quella “prende” i figli che ne nascono e li dichiara membri del suo gruppo). Per questo gruppo di uomini le sorelle sono andate via, in altri gruppi, e non hanno alcuna funzione riproduttiva per il proprio gruppo (fanno infatti figli per i gruppi dei rispettivi mariti). Ma prendete ora il caso 4. Cosa succede ai maschi se si sviluppa un gruppo matrilineare? È chiaro che devono trovare un modo di associarsi con le loro sorelle, visto che il loro potere andrà in trasmissione ai figli di queste. I maschi “andati via” da un gruppo residenziale matrilocale che ha prodotto un sistema di discendenza matrilineare devono essere in grado di associarsi con le loro sorelle, pena l’impossibilità di trasmettere il loro potere (o i loro beni) ai loro successori (figli delle sorelle). E’ questa la ragione che da vita a una strana forma di residenza che non abbiamo incluso in questa sequenza teorica, e che si chiama residenza avuncolocale, cioè residenza con il fratello della madre (avunculus in latino). Questo curioso modo di risiedere nasce proprio dal desiderio dei maschi in un sistema di discendenza matrilineare di avere presso di sé i propri eredi. Quel che deve essere chiaro è che nei sistemi patrilineari predomina il legame emotivo tra marito e moglie da un lato e quello di potere tra padre e figlio dall’altro, mentre nei sistemi matrilineari il legame emotivo dominante è quello tra fratello e sorella, e quello di potere tra fratello della madre e figlio della sorella.

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È molto importante che riflettiate sull’asimmetria che c’è tra sistemi patri- e sistemi matrilineari: non sono uno il converso dell’altro perché in entrambi i casi i poteri detengono una quota sproporzionata del potere. Ho cercato di riassumere questo problema negli schemi della figura seguente, che per ragioni di tempo non ho qui possibilità di discutere in dettaglio.

Terminologia della parentela Per “teminologia” si intendono i nomi che le diverse culture assegnano ai diversi parenti e affini. Per noi è ovvio avere un termine per il padre, uno per la madre, uno per fratello e sorella, uno per cugino e cugina, zio e zia, nonno e nonna, cognato, suocero, eccetera. Ci sembra che questi termini rispecchino l’effettiva composizione della nostra rete parentale. Ma si tratta un errore prospettico dovuto all’etnocentrismo, che ci fa sentire come naturali e ovvie le scelte culturali nelle quali siamo immersi. Non è affatto scontato che il figlio del fratello di mio padre e quello del fratello di mia madre siano identificabili con un unico termine (cugino), come non è ovvio che il marito di mia sorella e il fratello di mia moglie siano entrambi “cognati”. Partiamo quindi da un paio di concetti sul modo in cui si organizzano i sistemi di parentela. Sappiamo già cos’è un lignaggio: un gruppo corporato (con diritti e doveri in quanto gruppo, che “agisce come una persona”) composto di persone imparentate tra di loro, persone cioè che possono rintracciare la comune discendenza da un antenato. Abbiamo visto che i lignaggi costituiscono l’unità più piccola, spesso, ma non sempre, su base residenziale (i membri dello stesso lignaggio spesso vivono “assieme”, nella stessa casa, o nella stessa porzione di villaggio) e che queste unità tendono a costituirsi in gruppi più ampi, detti clan, che raggruppano persone che si considerano discendenti (pur non sapendo precisamente in che modo) da un antenato che spesso è mitico e può anche non essere un umano (un animale, una pianta, un essere mitico, quello che costituisce il “totem” del clan). In alcuni casi i clan possono, per diverse ragioni, raggrupparsi in unità ancora più vaste, dette FRATRIE, che sono quindi una forma di raggruppamento più inclusiva. Le funzioni delle fratrie sono spesso cerimoniali o esogamiche, cioè regolano alcuni comportamenti collettivi, come l’esercizio della funzione religiosa o di quella matrimoniale. Se una società ha i clan A, B, C, D, E, F, G, (ognuno composto rispettivamente dai lignaggi a1, a2… an, b1, b2… bn, eccetera), possiamo pensare a tre fratrie, (dei Rossi, dei Bianchi e dei Neri) che raggruppano rispettivamente i clan (A,B,C), (D,E) e (F,G). Quindi ogni individuo è membro di un lignaggio (per esempio a1, di un clan (in questo caso di A) e di una fratria (in questo caso dei Rossi). Nel caso speciale che le fratrie siano solo sue, vengono chiamate METÀ. Con questi concetti in mente, immaginiamo una società divisa in due metà, in cui cioè ogni membro appartenga ad una o all’altra (indipendentemente da quanti sono i clan), e che questo sistema di metà regoli l’esogamia, per cui ogni membro sa che deve trovare il partner per il matrimonio nella metà opposta (in quella alla quale lui non appartiene). In questo sistema il mondo sociale si divide in “membri della mia metà” (che non posso sposare) e “membri dell’altra metà” (che invece posso

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sposare). Questa particolare suddivisione della società porta ad alcune conseguenze terminologiche interessanti, che sono particolarmente evidenti nella terminologia che si usa verso gli “zii” e verso i “cugini”. Poniamo il caso di due metà esogamiche matrilineari, per cui ogni membro della società appartiene alla metà della madre, ma non a quella del padre. I figli dei suoi zii apparterranno alla sua metà o a quell’altra a seconda che siano o meno figli di fratelli di sesso uguale. Cioè: i figli del fratello del padre (fratello del padre = padre = entrambi maschi) e i figli della sorella della madre (sorella della madre = madre = entrambe femmine) apparterranno alla sua metà (e quindi non potrà sposarli), mentre i figli della sorella del padre (sorella del padre = femmina; padre = maschio) e del fratello della madre (fratello della madre = maschio; madre = femmina) apparteranno alla metà opposta (e quindi potrà sposarli). Tecnicamente, i figli di fratelli dello stesso sesso (cioè figli di due fratelli o di due sorelle) si chiamano CUGINI PARALLELI, mentre i figli di fratelli di sesso diverso (cioè i figli di un fratello e quelli di una sorella) si chiamano CUGINI INCROCIATI. Per pure ragioni di sistema, ego non può sposare i cugini paralleli, mentre “potrebbe” sposare i cugini incrociati. Dico potrebbe perché vedremo che in alcuni casi non gli resta apparentemente (terminologicamente) altra scelta da fare, visto che chiamerà con uno stesso termine (che si potrebbe tradurre: “oh tu che sei mia doppia cugina incrociata e moglie potenziale”) tutte le donne della sua generazione che appartengono all’altra metà (cioè tutte le donne potenzialmente maritabili con lui, non vi preoccupate di questo, lo capirete fra un po’, capirete anche cos’è una “doppia cugina incrociata”). Ho appena detto che la possibilità di sposarsi con un cugino incrociato può a volte non avere alternative. Vediamo come questo avviene, e le conseguenze sulla terminologia. Ma prima è necessaria un po’ di disciplina intellettuale. Quando parliamo di posizioni parentali dobbiamo stare attenti a non sovrapporre i nostri termini con quelli indigeni, per esempio in un sistema che pratica la divisione in metà il nostro termine “cugino” è troppo generico e anzi generatore di confusione, perché non distingue tra i membri di una metà o di un’altra, e infatti abbiamo dovuto aggiungere la specifica ‘incrociati’ o ‘paralleli’ per dar conto del sistema. Questo problema si ripete in continuazione quando si tratta di parentela, e il modo migliore per risolverlo è quello di usare sempre e solo una ristretta serie di termini per costituire le posizioni più complesse elaborando combinazioni di queste. I termini che useremo di qui in avanti sono otto, e li indico con il loro simbolo: Ma = Madre Pa = Padre Fr = Fratello So = Sorella

Fo = Figlio Fa = Figlia Mr = Marito Mo = Moglie Quindi da ora non diremo più ‘zio’ ,ma ‘FrMa’ oppure ‘FrPa’, e non diremo nonno, ma ‘PaPa’, oppure ‘PaMa’. Chiarito questo, vediamo quale potrebbe essere in linea teorica il modo più semplice per riprodurre un gruppo umano, e quali le conseguenze sul piano terminologico. Se io ho una sorella e tu hai una sorella, un modo semplice per riprodurci tutti e quattro è quello di “scambiarci le sorelle”. Io non posso riprodurmi con lei per il tabu dell’incesto, e tu altrettanto per la stessa ragione. Ma se io ti “cedo” mia sorella in “cambio” della tua, possiamo perpetuare i nostri rispettivi gruppi familiari con reciproco vantaggio. Questa, in effetti, sembra essere stata la strategia matrimoniale adottata da diversi gruppi umani: non mi posso sposare all’interno del gruppo (con le mie “sorelle”) e quindi organizzo uno scambio sistematico con un altro gruppo che si trova nelle mie stesse condizioni. Ci sono società che ragionano in questi termini quando organizzano i matrimoni. Più correttamente, è possibile analizzare i sistemi matrimoniali di queste società come se fossero governati dal principio per cui un gruppo scambia le sue donne con quelle di un altro gruppo: io ti dò una donna e tu me ne dai una tua. Immaginiamo che questa sia una regola sistematica: due gruppi, magari di cacciatori e raccoglitori, che praticano l’esogamia di gruppo e di tanto in tanto si incontrano per scambiarsi le donne. La situazione di partenza minima è quella di due coppie di fratello e sorella, un fratello e sorella del gruppo A e un fratello e sorella del gruppo B. I due uomini si incontrano in qualche luogo e decidono di “scambiarsi le sorelle”: io ti dò mia sorella (con la quale non posso accoppiarmi per via del tabù dell’incesto) e tu mi dai la tua (con la quale hai lo stesso problema). Dopo vent’anni, possiamo immaginare che i figli di quelle due coppie si incontrino e proseguano sulla stessa linea dei loro genitori, per cui i maschi si scambieranno un’altra volta le donne, e così via nel corso delle generazioni. Cosa succede alle posizioni parentali, cioè come si sistemano e vengono definiti i parenti e gli affini in questo sistema? La situazione è come segue (seguire la figura 3 per capire come in questo sistema non ci sia distinzione tra parenti e affini): (1) ‘coniuge’ = Mo = FaFrMa = FaSoPa = doppia cugina incrociata (2) ‘cognato’ = MrSo = FrMo “doppio cognato” = FoFrMa = FoSoPa = doppio cugino incrociato (3) ‘suocero’ = PaMo = FrMa = zio materno

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(4) ‘suocera’ = MaMo = SoPa = zia materna In questo sistema non è possibile sposare uno che non sia “già” un proprio parente. Naturalmente i sistemi non sono perfetti, può capitare ad esempio che una coppia non abbia figli maschi, per cui non può prendere donne, oppure non abbia figlie femmine, per cui non può dare donne. In pratica, la regola dello scambio diretto dice: sposati prendendo un partner della tua generazione tra i membri dell’altro gruppo, un partner che chiamerai con il TERMINE CLASSIFICATORIO di “doppio/a cugino/a incrociato/a”. Ciò significa che nella terminologia parentale i termini indicano categorie di persone, e non persone singole. Questo breve accenno allo “scambio diretto” (si chiama così quel tipo di scelta matrimoniale per cui ci sono due gruppi i cui membri si sposano obbligatoriamente tra loro) era necessario per darvi una rapida illustrazione di come il sistema degli scambi matrimoniali possa influenzare il sistema terminologico. Concludiamo quindi cercando di proporre una tipologia dei sistemi terminologici. 2.5 TIPOLOGIE DELLA TERMINOLOGIA Nonostante la varietà straordinaria delle terminologie parentali, gli antropologi si sono accorti già alla fine del secolo scorso che ci sono alcuni modi fondamentali di classificare i parenti e gli affini, che si ripresentano in diverse culture con diverse varianti. Per i nostri scopi, descriveremo quattro modi logicamente derivati da come ogni singola cultura risponde a due domande fondamentali quando classifica i parenti: a) devo distinguere tra linea diretta e linea collaterale, cioè tra la linea che mi lega direttamente ai miei nonni/genitori/fratelli (linea diretta) e quella che mi lega invece “collateralmente” a prozii/zii/cugini? Chiamiamo questo il principio della COLLATERALITÀ

b) devo distinguere la linea paterna e quella materna? Chiamiamo questo il principio della LINEARITÀ. Abbiamo quindi due domande, ognuna delle quali prevede come risposta un sì o un no, in tutto quindi quattro possibilità logiche. Se indichiamo con “C” il principio della collateralità, con “L” quello della linearità, con “+” la risposta affermativa e con “–” quella negativa, le possibilità logiche sono: 1) –C, –L: chiamo i miei parenti senza distinguere tra linea diretta e collaterale, e senza distinguere tra lato paterno e materno. Terminologia HAWAIAIANA. 2) +C, –L: distinguo tra genitori e loro fratelli, ma non specifico se questi fratelli dei genitori lo sono dal lato paterno o materno. Terminologia ESCHIMESE.

3) –C, + L: distinguo i parenti per parte di madre da quelli per parte di padre, ma non distinguo tra mio padre e suo fratello, né tra mia madre e sua sorella. Terminologia IROCHESE. 4) +C, +L: faccio distinzione sia tra i miei genitori e i loro fratelli, sia tra lato paterno e lato materno. Terminologia SUDANESE. Si capisce meglio questa tipologia se la si affronta in concreto, se cioè ci mettiamo a vedere cosa succede ai nomi dei parenti (genitori, loro fratelli e figli di questi) applicando i diversi principi. Seguire la figura 4, caso per caso. 1) Sistema HAWAIANO. Per via di –C, mio padre è uguale a suo fratello, mia madre a sua sorella, e i cugini paralleli sono uguali ai miei fratelli. Per il principio – L la sorella di mio padre è uguale a mia madre, il fratello di mia madre è uguale a mio padre, e i loro figli (cugini incrociati) uguali ai miei fratelli. Per parlare dei miei parenti avrò bisogno solo di due termini per quelli della mia generazione (un solo termine per i fratelli maschi, per i cugini paralleli maschi e per i cugini incrociati maschi; un solo termine per le sorelle femmine, le cugine parallele femmine, le cugine incrociate femmine), e due termini per quelli della generazione precedente la mia (un termine per mio padre, suo fratello e il fratello di mia madre; un termine per mia madre, sua sorella e la sorella di mio padre). 2) Sistema ESCHIMESE. In questo caso mi serviranno più termini, visto che voglio distinguere tra i miei genitori e i loro fratelli dello stesso sesso. Così avrò un termine per mio padre e uno per mia madre, uno per il fratello di mio padre e uno per la sorella di mia madre. Visto che non mi interessa però distinguere tra lato materno e paterno, gli stessi termini usati per questi “zii” li posso riusare per riferirmi alle sorelle di mio padre (fatte uguali alle sorelle di mia madre) e ai fratelli di mio padre (fatti uguali ai fratelli di mia madre). Similmente, alla mia generazione, distinguerò tra i figli di mio padre e mia madre (cioè i miei fratelli) e invece i figli dei loro fratelli e delle loro sorelle, che però potrò chiamare con un termine unico. Per quanto possiate essere confusi, quello che abbiamo descritto è il NOSTRO sistema terminologico! 3) Sistema IROCHESE. È il simmetrico di quello eschimese: non si distingue tra padre e suo fratello, o tra madre e sua sorella (quindi i loro figli, i miei cugini paralleli, saranno fatti uguali ai miei fratelli) ma si vuole tenere distinto il fratello di mia madre dal fratello di mio padre, e la sorella di mio padre da quella di mia madre, per cui i cugini incrociati, che sono i loro figli, saranno distinti dai cugini paralleli. 4) Sistema SUDANESE. Si distinguono sia il padre da suo fratello e la madre da sua sorella, ma anche il fratello della madre da quello del padre, e la sorella del padre da quella della madre. Non solo distinguo i miei fratelli dai miei cugini, ma anche tra cugini incrociati e paralleli. Sebbene sia piuttosto raro, questo sistema terminologico

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è interessante perché era quello usato dai Latini (almeno secondo alcune versioni). Pater, Mater, Patruus (fratello del padre), Amita (sorella del padre), Avunculus (fratello della madre) Matertera (sorella della madre). Parallelamente, esistevano quattro termini (sempre in alcune varianti e in alcuni periodi storici) per i cugini: (frater) patruelis (figlio del fratello del padre), amitinus (figlio della sorella del padre), consobrinus (figlio del fratello della madre) e (frater) matruelis (figlio della sorella della madre).

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FIGURA 1. IL PARENTADO

III

I

II

IV

Linea continua = parentado di I Linea tratteggiata = parentado di II

FIGURA 2. I LIGNAGGI

In grigio = i membri di un matrilignaggio

In grigio = i membri di un patrilignaggio

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FIGURA 3. LO SCAMBIO DIRETTO

MA = madre PA = padre FR = Fratello SO = Sorella FO = Figlio FA = Figlia MR = Marito MO = Moglie

MAMA PAPA

MAMO SOPA

PA

MAPA

FRMA PAMO

MA

Esempi FRMA = Fratello della Madre FOSOPA = Figlio della Sorella del Padre

MRSO FRMO FOSOPA FOFRMA

SO

EGO

PAM A

MO FASOPA FAFRMA

FIGURA 4. LE QUATTRO TERMINOLOGIE DI PARENTELA

H1 E5 I 1 S5

H2 E6 I 5 S7

H3 E7 I 7 S9

H4 E8 I 8 S 10

H3 E7 I 3 S 11

H4 E8 I 4 S 12

H1 E1 I 1 S1

H3 E3 I 3 S3

H2 E2 I 2 S2

EGO

H4 E4 I 4 S4

H2 E6 I 2 S6

H3 E7 I 3 S 13

H4 E8 I 4 S 14

H1 E5 I 6 S8

H3 E7 I 7 S 15

H4 E8 I 8 S 16

H = terminologia hawaiana E = terminologia eschimese I = terminologia irochese S = terminologia sudanese A numero uguale corrisponde, per ogni sistema terminologico, un unico termine

Cugini paralleli Cugini incrociati 23 di 43

DAL PUNTO DI VISTA DEI NAZIONALISTI. L’ANTROPOLOGIA E LO STUDIO DEL NAZIONALISMO Piero Vereni - Storia della Cultura Materiale Modulo B Ci si scontra necessariamente con un doppio problema, cercando di fornire un quadro dell’antropologia delle appartenenze nazionali. Il primo dipende dal pregiudizio antropologico, mentre il secondo è un difetto comune dell’approccio storico. Vedremo questi due problemi separatamente.

I “caratteri” nazionali La ricerca antropologica classica, incentrata sul rapporto faccia a faccia con gli informanti, entro società di dimensioni ristrette e basata sull’osservazione partecipante, ha prodotto un evidente pregiudizio preferenziale per le piccole unità, che ha portato gli antropologi a ignorare sostanzialmente gli stati nazionali come oggetti di ricerca empirica, oppure a studiarli con la stressa strumentazione analitica solitamente impiegata per gruppi di dimensioni ben più ridotte, lasciando quindi irrisolto il problema dell’unità e dell’omogeneità culturale delle differenti nazioni. Dato che Tikopia è abitata dai tikopiani, la Francia dev’essere abitata per forza dai francesi, per così dire. Quest’ultima posizione risultò particolarmente evidente a partire dagli anni Quaranta del Novecento. Influenzata dalla teoria psicoanalitica, la scuola antropologica americana nota come “cultura e personalità” (che tendeva a far collaborare antropologi, sociologi e psicologi) cercò di studiare quale fosse la personalità di base degli individui membri di stati nazionali complessi. G. Gorer studiò la “cultura giapponese” (1943) e il “carattere inglese” (1955), Gregory Bateson e Margart Mead (1945) lavorarono sul “carattere balinese”, e poco dopo Ruth Benedict (1946), anche lei spinta dall’esigenza “patriottica” di studiare il nemico, lavorò sui “modelli di cultura giapponese”. Il caso di Ruth Benedict è esemplare di questo tipo di approccio che generalizza alle comunità nazionali incluse entro uno stato moderno il tipo di analisi applicato in contesti etnografici di ben più ridotte dimensioni. Benedict era infatti divenuta famosa nel 1934 con un saggio sui Modelli di cultura, un libro che aveva l’esplicito intento di dimostrare che le differenze tra le culture corrispondono alle differenze interne a ogni singola cultura, nel senso che le pratiche e i sistemi di credenza interni a ogni cultura differiscono da quelli delle altre in modo sistematico. La cultura, secondo Benedict, è uno stampo che informa di sé tutti gli aspetti della vita sociale, delineando la psicologia di base dei singoli individui e potendosi a sua volta configurare come personalità vera e propria. Riprendendo alcune categorie della psichiatria e l’opposizione nietzschiana tra “apollineo” e “dionisiaco”, definì quindi una tipologia generale delle culture, fornendo alcuni esempi specifici: gli Zuñi (Sudovest degli Stati

Uniti) erano “apollinei”, i Pima (stessa regione) invece “dionisiaci”, i Kwakiutl (costa americana di nordovest) “megalomani” e i Dobu (melanesia) “paranoici”. Questo filone di ricerca antropologica giunge probabilmente al suo apice agli inizi degli anni Cinquanta, e Margaret Mead presentò lo stato dell’arte sui “caratteri nazionali” in un articolo pubblicato in quegli anni (Mead 1953). Questi tentativi di studiare su un livello più ampio il modo in cui la cultura influenza gli individui non affrontarono direttamente il nazionalismo, e possono invece essere considerati più propriamente una conseguenza inevitabile dei presupposti sull’esistenza e la natura stessa delle nazioni. Tuttavia, questi studi e queste ricerche si rivelarono utili nell’evidenziare un importante settore di ricerca: la descrizione “emica” (cioè il tentativo di individuare i “significati nativi”) dei sistemi condivisi di comportamento e di credenza condivisi dagli individui “contenuti” entro uno stato nazionale. Resta il fatto che il problema principale di questo approccio era costituito dalla mancanza di qualunque tentativo serio di storicizzare i modelli che venivano via via evidenziati. Il fatto che gli inglesi fossero distaccati, i balinesi timidi e i giapponesi orgogliosi apparteneva al dominio della cultura, non della storia. Dato che la cultura nazionale è così, produce membri nazionali secondo il modello corrispondente. Come oggi possiamo vedere con maggior chiarezza, questo pregiudizio che spingeva a considerare le culture nazionali praticamente come archetipi immutabili aveva poco a che fare con le ragioni interne dell’antropologia, ed era invece la diretta conseguenza dell’inculturazione nazionale di quegli studiosi: a loro era stato insegnato che ogni nazione ha un carattere peculiare, e che quella specificità è la risultante insieme di una storia che si perde nella notte dei tempi e della forza delle costrizioni culturali sincroniche. In altre parole, questi studi dei caratteri nazionali non affrontarono mai in modo chiaro la questione del complesso processo dinamico di nation building, considerando invece l’appartenenza nazionale come un dato statico, che andava descritto nelle sue caratteristiche strutturali.

Storia e nazioni Perché le cose siano andate in questo modo dipende dal secondo pregiudizio che dobbiamo affrontare studiando il nazionalismo, e cioè lo sguardo teleologico (cioè la prospettiva ribaltata del rapporto causa-effetto) per cui le nazioni sono state considerate per lungo tempo dagli storici come il punto di partenza di cui lo stato nazionale costituirebbe lo stadio evolutivo finale. La storia, dall’inizio del XIX secolo 24 di 43

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alla metà del XX, è stata concepita come storia delle nazioni. Le loro origini vennero lasciate sostanzialmente indiscusse e tutti gli eventi storici vennero giudicati e ricostruiti come il lento dipanarsi della nazione nel corso del tempo. In quanto entità fisica e data per scontata, la nazione non aveva bisogno di una giustificazione della sua esistenza, e la sua storia doveva essere ricostruita in profondità solo come il processo di evoluzione che l’avrebbe condotta al raggiungimento del suo obiettivo “naturale”: lo Stato. Questa immagine della nazione come un’entità naturale “primordiale”, la cui storia poteva essere spiegata secondo il modello della lotta per l’autodeterminazione entro uno Stato, iniziò a essere messa in discussione nel corso degli anni Cinquanta del Novecento. Nel 1960 Elie Kedurie pubblicò un volume che prendeva espressamente di mira questa versione “primordialista” del nazionalismo. La teoria centrale di questo saggio è dichiarata dallo stesso autore all’inizio della sua riflessione: Il nazionalismo è una dottrina inventata in Europa all’inizio del xix secolo. Pretende di fornire un criterio per determinare l’unità di popolazione adatta a godere di un governo esclusivamente suo proprio, per stabilire il legittimo esercizio del potere entro lo stato, e per una corretta organizzazione di una comunità di stati. In breve, questa dottrina sostiene che l’umanità è naturalmente suddivisa in nazioni, che le nazioni sono riconoscibili per alcune caratteristiche che possono essere stabilite, e che l’unica forma legittima di governo è l’autogoverno nazionale. Questa definizione può essere considerata adeguata ai nostri scopi, e la considereremo come la dottrina del nazionalismo. Sulla base di questa dottrina, diversi discorsi nazionalisti hanno costruito le loro specifiche teorie, sottolineando ora la lingua, ora la religione, ora il territorio come elemento cardine. In quanto tale, tuttavia, la dottrina centrale del nazionalismo si basa su una serie di semplici proposizioni (per questa sezione, mi baso essenzialmente sul lavoro di Smith [1983, pp. 21ss], la cui analisi delle teorie del nazionalismo, per quanto di impostazione primariamente sociologica, è estremamente utile per inquadrare il problema nei suoi termini generali): 1. L’umanità è naturalmente divisa in nazioni 2. Ogni nazione ha il suo carattere specifico 3. La sorgente di qualunque potere politico è la nazione intesa come collettività totale 4. Per essere liberi e autorealizzarsi, gli uomini devono identificarsi con una nazione 5. Le nazioni possono realizzarsi pienamente solo entro i loro stati 6. La fedeltà alla nazione sovrasta le altre fedeltà

7. La principale precondizione per la libertà e l’armonia globale è il rafforzamento dello stato nazionale Per essere ancora più esplicito, Smith (1983, p. 23) conclude il capitolo riassumendo la questione in questi termini: Fondamentalmente, il nazionalismo fonde tre ideali: autodeterminazione collettiva del popolo, espressione del carattere nazionale e dell’individualità della nazione, e infine suddivisione verticale del mondo in nazioni uniche, ciascuna delle quali contribuisce con il suo speciale genio al bene comune dell’umanità. Il punto essenziale è quindi costituito dalla distinzione tra una dottrina nazionalista, che è generale e include tutti i casi, e le teorie nazionaliste sostenute dai differenti movimenti nazionali. Keduire quindi contesta la natura primordiale delle nazioni studiando il nazionalismo come processo storico che può essere valutato e descritto. Sviluppa il suo argomento analizzando l’evoluzione della filosofia europea, e in particolare la riflessione kantiana sull’individuo. Kedurie ritiene che sia il dualismo kantiano ad essere responsabile della nascita del nazionalismo moderno. La separazione effettuata da Kant tra apparenza e realtà conduce, una volta applicata al campo della morale, all’individualismo. L’imperativo categorico e la sua autodeterminazione sarebbero dunque al centro della dottrina nazionale (questo dipende dal fatto che per Kedourie il nazionalismo è una strana mescolanza tra determinismo linguistico e l’esercizio del libero arbitrio). Kant non fu di per sé un nazionalista, ma il suo pensiero venne recuperato in modo originale da Fichte, che risolse entro la sua “interpretazione soggettivista” i problemi sollevati dall’individualismo kantiano. Il mondo che noi conosciamo non è più per Fichte il prodotto dell’interazione tra realtà in sé e categorie individuali (per quanto universali), ma è piuttosto il prodotto della coscienza universale, o Ego. Questa coscienza collettiva assume la sua forma politica naturale entro le nazioni, questa volta definite dal punto di vista esterno secondo il principio linguistico. Assieme a questa rivoluzione filosofica, Kedourie sottolinea i paralleli sommovimenti della vita sociale che frantumarono antiche istituzioni collettive (famiglia, vicinato, comunità religiose) e la marginalità degli intellettuali tedeschi che li spingeva a un forte impegno politico. Secondo Kedurie, gli intellettuali tedeschi che svilupparono la teoria del nazionalismo non erano solo isolati in senso politico e sociale, ma manifestavano molti segnali di una solitudine antropologica dovuta a una profonda crisi di identità come soggetti. 25

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Per riassumere, per Kedourie furono sostanzialmente TRE gli ELEMENTI che contribuirono alla nascita del moderno nazionalismo: a) UNA RIVOLUZIONE FILOSOFICA, b) L’ ESCLUSIONE SOCIALE DEGLI INTELLETTUALI, c) LA ROTTURA DI ANTICHE ISTITUZIONI. Data la rilevanza accordata in questo modello ai casi di un piccolo gruppo di individui (intellettuali e filosofi), la domanda che fin da ora ci poniamo è la seguente: come fu possibile che le riflessioni di un minuscolo gruppo di pensatori marginali provocassero un simile sommovimento su scala planetaria? In altre parole, qual è il legame tra la ristretta intelligentsia che innescò il nazionalismo e le masse senza la cui partecipazione attiva nell’azione politica non avrebbe molto senso, oggi, discutere una concezione politica alquanto bizzarra? Questa domanda ne implica un’altra: possiamo prendere per certa la correlazione inversa che Kedourie pone tra il successo del nazionalismo e la capacità di resistenza delle istituzioni tradizionali (famiglia, religione)? È cioè sicuro che il nazionalismo “vinse” lì dove queste istituzioni entrarono in crisi, oppure dovremmo verificare l’eventualità dell’esistenza di una correlazione positiva tra nazionalismo e preesistente conformazione della struttura sociale? Prima di provare a rispondere sottolineiamo quattro punti della riflessione di Kedourie che vale la pena di considerare per proseguire la nostra riflessione sul ruolo dell’antropologia nello studio del nazionalismo: 1) Il nazionalismo è un fenomeno relativamente recente 2) Le nazioni non sono entità esistenti da sempre, ma sono invece il risultato di una serie di mutamenti sociali divenuti preponderanti dalla fine del XVIII secolo 3) Gli intellettuali hanno avuto un ruolo centrale nell’ascesa del nazionalismo 4) Il nazionalismo agisce più rapidamente e più in profondità dove le istituzioni tradizionali (come le comunità locali o la parentela) entrano in crisi. Come è evidente, tutti i quattro punti collegano il nazionalismo con il più vasto fenomeno descritto generalmente come “modernità” o “modernizzazione”. Ci chiederemo quindi in che senso i due fenomeni sociali sono collegati e in che misura una spiegazione del tipo “il nazionalismo è un aspetto integrante della modernizzazione” può considerarsi una teoria adeguata dal nostro punto di vista (antropologico).

Nazionalismo e modernità Indipendentemente dalla specificità della teoria proposta, tutti i tentativi di giustificare il nazionalismo entro la modernità partono dalla convinzione che l’ideologia nazionale costituirebbe il fattore mancante, andando a rimpiazzare una funzione di coesione sociale precedentemente adempiuta da altri fattori. Date le mutate condizioni sociali e produttive, il nazionalismo costituirebbe il cemento sociale

adatto ai tempi moderni, sostituendo la religione, il senso della località, i legami parentali. Ovviamente, questa impostazione parte dal presupposto che via sia una qualche possibilità di distinguere in modo perlomeno approssimativo tra società “tradizionali” (che non avrebbero bisogno del nazionalismo) e società “moderne”, per cui invece il nazionalismo diviene un ingrediente necessario della tenuta sociale. Non possiamo dilungarci sulla storia e il senso di questa opposizione tra tradizione e modernità (un’opposizione in buona parte costruita proprio dall’analisi degli scienziati sociali), né raccontare come i diversi studiosi hanno articolato la specificità del nazionalismo entro il processo di modernizzazione. Ci limiteremo invece a riassumere la prospettiva del principale teorico del nazionalismo da questo punto di vista, Ernest Gellner, perché in essa troveremo praticamente condensati molti punti della teoria della modernizzazione che cercheremo di valutare anche in senso critico. Gellner espose le linee fondamentali della sua teoria in un saggio del 1964, ma rielaborò estesamente questa posizione in un volume pubblicato nel 1983 e intitolato Nazioni e nazionalismo. In questo libro il nazionalismo è “spiegato” nelle sue cause economiche e nelle sue conseguenze sociali partendo dalla premessa che si può individuare un vero e proprio “fossato”, cioè una differenza radicale, tra le società agrarie e le moderne società industriali. Secondo Gellner, la differenza fondamentale è costituita dalla relativa “mobilità” dei membri di questi due tipi di società: le prime infatti erano meno mobili e meno egualitarie, mentre le seconde hanno posto come caposaldo della loro ideologia la mobilità (geografica e/o sociale) dei singoli. La ragione di questa differenza dipende dal modello economico di base, che per le società moderne è quello di tipo industriale orientato alla crescita costante della produzione. Se la crescita economica è un obiettivo considerato necessario dalle società moderne, e può essere raggiunto solo con l’industrializzazione, ne consegue che questo tipo di società dovranno essere (almeno in linea teorica) estremamente flessibili dal punto di vista sociale: nuove fonti di crescita economica devono essere individuate e sfruttate nel più breve tempo possibile, nuova forza lavoro deve essere disponibile in tempi brevi per essere riallocata nei contesti più favorevoli (se si scopre un giacimento minerario in una regione periferica e poco abitata, bisogna che gli operai si spostino da altre zone), e in generale la popolazione deve essere in grado di muoversi da un posto all’altro al fine di massimizzare la crescita. Nelle società moderne non è necessario (e anzi spesso svantaggioso) che ognuno vada a fare lo stesso lavoro dei genitori, e i singoli saranno invece aperti al mutamento e a nuove prospettive, completamente sconosciute alla generazione precedente. Gellner propone un’interessante metafora per esemplificare questo collegamento tra modernizzazione e mobilità:

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Se la crescita cognitiva presuppone che nessun elemento sia indissolubilmente legato a priori a qualunque altro, e che ogni cosa sia passibile di ripensamento, la crescita economica e produttiva pretende esattamente lo stesso tipo di atteggiamento per le attività umane e quindi per i diversi ruoli che gli uomini possono occupare. I ruoli diventano cioè opzionali e strumentali. La vecchia stabilità della struttura sociale basata sui ruoli è semplicemente incompatibile con la crescita e l’innovazione. Innovazione significa fare nuove cose, i cui confini non possono essere gli stessi delle attività che vengono rimpiazzate. Senza dubbio la maggior parte delle società possono affrontare un riposizionamento occasionale del sistema lavorativo e delle strutture corporative, così come una squadra di calcio può sperimentare all’occasione diverse formazioni pur mantenendo una continuità di fondo. In questo senso, un singolo mutamento non produce progresso. Ma cosa succede quando i mutamenti stessi diventano costanti e continui, quando la stessa condizione di mutamento occupazionale diventa in sostanza il tratto persistente di un ordine sociale? Se si trova una risposa a questa domanda, gran parte del problema del nazionalismo trova una sua soluzione. Secondo Gellner, il nazionalismo è il miglior supporto ideologico alla modernizzazione, e un supporto praticamente necessario. Se l’obiettivo da conseguire è la crescita economica, e questa è raggiungibile solo grazie alla mobilità sociale e geografica degli individui, quegli stessi individui devono essere in grado di adattarsi a condizioni di produzione in costante mutamento. Per poter essere in grado di gestire questa mutevolezza di condizioni e di contesti produttivi, i soggetti devono necessariamente condividere un corpus comune di conoscenze e di valori. Il nazionalismo, facendo credere alle persone di avere in comune dei valori e una cultura, in pratica le dota di quegli elementi culturali, rendendo così possibile la creazione del cittadino moderno, flessibile e uniformato, che costituisce lo strumento fondamentale del processo di modernizzazione. Se cioè lo stato moderno ha bisogno di operai pronti a spostarsi su tutto il territorio nazionale, di burocrati impegnati nella razionalizzazione della produzione, di tecnici in grado di proporre soluzioni produttive omogenee e quindi vantaggiose economicamente, sarà necessario che quegli operai, quei burocrati e quei tecnici condividano, ad esempio, un’unica lingua. In questo modo, un manuale di istruzioni per una nuova pala meccanica potrà essere letto dagli operai ovunque si trovino. Un medesimo ciclo produttivo potrà essere riprodotto in differenti contesti, e quindi sarà necessario che i diversi addetti condividano una serie di informazioni di base che rendano apprendibile quel ciclo produttivo ovunque lo si voglia realizzare. In pratica, dice Gellner, il nazionalismo dice ai singoli che fanno parte di una solida comunità di valori e di cultura, ma in questo modo rende le persone disponibili ad accettare moltissime novità (imparare a leggere e scrivere, imparare a riconoscere un insieme di

valori e simboli) necessarie al contesto economico e che producono proprio quell’unità di valori e di cultura che invece si pretende essere preesistente. Come è evidente, sono molte le critiche che si possono sollevare a questo approccio. Ci limiteremo a indicarne alcune (sulla falsariga di quanto avanzato da Smith, 1983, nella sua introduzione): 1) Questo impianto teorico presuppone una definizione rigida e precisa di “modernizzazione”, dato che spiega il nazionalismo proprio nei suoi termini. Oggi il concetto di modernizzazione come insieme coeso e coerente di valori e pratiche economiche, sociali e tecnologiche è estremamente criticabile. Sappiamo cioè che la modernizzazione non può essere considerata un blocco uniforme, in cui la crescita industriale si accompagnerebbe necessariamente alla laicizzazione, alla democrazia, all’individualismo. Sono troppi i casi in cui la modernizzazione in senso tecnologico non si è accompagnata alla secolarizzazione (Iran), né alla democrazia (Cina), né all’individualismo in senso occidentale (India, Giappone). Semplicemente, oggi riconosciamo la natura ideologica del concetto stesso di “modernizzazione” e le pregiudiziali evoluzioniste che hanno permesso la sua diffusione come strumento analitico. Visto che non sappiamo più cosa sia la modernizzazione, una teoria che per spiegare il nazionalismo si basa in modo così rigido su questo concetto è destinata a mostrare la sua debolezza. 2) La storia di questi ultimi anni ha posto in evidenza un fatto ulteriore: non solo il nazionalismo può svilupparsi indipendentemente dalla modernizzazione intesa come secolarizzazione e conseguimento individuale dello status sociale (non più “ascritto” cioè imposto dall’esterno), ma può addirittura assumere forme specifiche in opposizione a quei valori “laici”. Il recente emergere dei fondamentalismi religiosi (cristiano, islamico, indù) dimostra che si può sviluppare un forte senso di appartenenza collettiva (spesso marcato in chiave esplicitamente nazionale) proprio opponendosi a quella vaga nebulosa che chiamiamo modernizzazione. In questo caso un senso di appartenenza collettiva e simbolica sembra avere l’effetto opposto di quello ipotizzato da Gellner, rilanciando forme di produzione materiale e sociale “premoderne” anche se la comunità cui si fa riferimento corrisponde ai criteri di omogeneità e uniformità “tipici” della nazione moderna. 3) Una critica più generale del modello di Gellner riguarda invece la natura della sua applicabilità. La teoria proposta ha infatti l’innegabile pretesa di porsi come “generale”, e quindi valida universalmente. La critica in questo caso è cioè del tipo opposto a quelle presentate ai punti 1 e 2: lì dicevamo che la teoria si trova a dover escludere diversi casi specifici, mentre qui la critica è rivolta al fatto che i casi inclusi (che cioè possono essere “spiegati” secondo la teoria) sono spesso così diversi tra loro che una loro uniformazione non sembra particolarmente vantaggiosa se il nostro obiettivo è conoscere le cause del nazionalismo nei diversi contesti culturali. È chiaro ad esempio che il nazionalismo inglese e quello italiano si svilupparono in contesti 27

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sociali ed economici profondamente diversi durante il corso del XIX secolo, e spiegarli entrambi con lo stesso set di strumenti non ci consente di individuare quel che ognuno di essi ha di specifico. Detto altrimenti, la teoria in questo senso “spiega troppo”, perché assomma in un unico canestro esplicativo fenomeni storici profondamente diversi. 4) Un’ultima critica, sulla quale però non ci soffermeremo, è invece di tipo strettamente storico. Una certa corrente di pensiero degli studi sul nazionalismo critica il modernismo della teoria di Gellner (e di molti altri approcci che pure non si rifanno direttamente a Gellner) proprio contestandone l’assunto storico di fondo, e cioè l’idea che le nazioni sarebbero un prodotto comunque moderno con una storia non più profonda di duecento anni (quattrocento, secondo alcune varianti dell’approccio modernista alla nazione, che fanno risalire l’origine della nazione moderna allo stato assolutista europeo che si afferma come modello politico nel corso del XVII secolo). Secondo questa corrente di critica del modernismo (critica che ha il suo esponente principale proprio in Anthony Smith) le nazioni hanno una storia che non si può ridurre agli ultimi secoli, e sono invece l’espressione di antiche origini, con una storia plurisecolare se non millenaria. Non intendo soffermarmi su questo approccio (cosiddetto primordialista, proprio perché insiste sull’antichità di molte delle nazioni moderne e sulle cosiddette “origine etniche” delle nazioni moderne) semplicemente perché credo che sia frutto di un equivoco terminologico: primordialisti (come Smith) e modernisti (come Gellner) in realtà non parlano della stessa entità sociologica anche se entrambi possono far uso del termine “nazione”. Mentre i primi si riferiscono a gruppi solitamente di dimensioni ristrette, oppure alle concezioni di un’élite di ridotte dimensioni entro masse di popolazione più vasta, la concezione modernista intende per nazioni gruppi caratterizzati non solo dalla condivisione di tratti culturali (lingua, religione, pratiche matrimoniali, eccetera) ma anche dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo nazionale specifico e identificabile con una lunga storia sostanzialmente ininterrotta. Per fare un esempio, se pure sappiamo con certezza che alcuni degli ultimi imperatori bizantini avevano recuperato un legame di continuità con l’antica Grecia e quindi potevano già essere considerati “greci” in senso moderno, questo tipo di identità inteso come continuità storica del popolo greco impiegò diversi secoli per diffondersi lungo gli strati sociali e per divenire patrimonio comune dei cittadini della Grecia moderna. Fino a tempi relativamente recenti, i greci hanno continuato a pensare a se stessi come romii, cioè “romani” in senso di cristiani, opposti sincronicamente ai musulmani “turchi” con i quali hanno a lungo convissuto e diacronicamente ai “pagani” ellines dell’antichità. In questo senso, l’identità nazionale della Grecia moderna è un fenomeno recente e sostanzialmente differente da precedenti forme di identità, legate a un’ecumene religiosa, il cristianesimo ortodosso, che però includeva diverse tradizioni culturali, non solo greche. Detto altrimenti, la nazione intesa come termine che raggruppa una serie di tratti caratterizzati da

omogeneità e continuità storica (una lingua, una storia riconoscibile, una religione, un insieme identificabile di pratiche sociali, di valori e di credenze) indipendentemente dalle differenziazioni di classe, è un fenomeno recente, anche se le élite culturali e politiche di alcuni gruppi culturali possono, in passato, aver intuito questa eventualità. La ragione di questa impostazione modernista dall’approccio che propongo è di tipo analitico: credo infatti che se non si isola il fenomeno dell’appartenenza nazionale che si è sviluppata dopo la Rivoluzione Francese dal generale processo storico dell’appartenenza non riusciamo a capire il senso e la funzione delle identità attuali. Per riassumere: gli uomini hanno sempre voluto e dovuto appartenere a un gruppo identificabile almeno in termini soggettivi (“io” so qual è il mio gruppo) e a volte questo gruppo poteva essere ben più esteso del gruppo effettivamente conosciuto direttamente da ogni singolo (si pensi all’appartenenza religiosa o all’inclusione in un impero, come nel caso della cittadinanza “romana”), ma il nazionalismo moderno estende e rende stabile questo modello di appartenenza a una “comunità immaginata” proprio perché si sviluppa come teoria filosofica e come dottrina politica a partire da un’epoca in cui si rendono disponibili soluzioni tecnologiche che consentono la diffusione di massa. Per elaborare una teoria del nazionalismo più raffinata di quella proposta da Gellner dobbiamo dunque concentrarci sulle condizioni sociali, tecnologiche e culturali che hanno reso possibile la diffusione su larghi strati della popolazione dell’idea di appartenere a un gruppo vasto e sostanzialmente omogeneo. Per fare questo riassumeremo in breve la proposta interpretativa di Benedict Anderson.

Immaginare la nazione Benedict Anderson è un esperto di relazioni internazionali che ha studiato a lungo il sud-est asiatico e che, alla fine degli anni Settanta, si è trovato a fare i conti con il problema di spiegare, dalla prospettiva marxista entro cui si era formato, il problema delle guerre che hanno insanguinato Vietnam, Cambogia e Cina proprio tra il 1978 e il 1979. Queste guerre, infatti, coinvolgevano stati dichiaratamente marxisti ma non potevano essere spiegate se non in termini di nazionalismi rivali. Come fa notare Anderson (1991, p. 23), la tradizione marxista non ha offerto strumenti sostanzialmente validi per indagare e comprendere il nazionalismo e – più che elaborare teorie “erronee” del nazionalismo – si è in sostanza limitato a scansare il problema: “Sarebbe più giusto affermare che il nazionalismo è stato una scomoda anomalia per la teoria marxista e, proprio per tale motivo, è stato eluso più che affrontato”. Nel tentativo quindi di riflettere seriamente sulle origini del sentimento nazionale, Anderson pubblicò nel 1983 (lo stesso anno di Nazioni e nazionalismo di Gellner) un libro intitolato Comunità immaginate, che ebbe molta fortuna e fu

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ripubblicato in una nuova versione accresciuta nel 1991, versione poi tradotta in italiano. Vediamo le linee essenziali di questo importante contributo2. La risposta di Anderson alla domanda “Che cos’è il nazionalismo” è allo stesso tempo semplice e carica di implicazioni teoriche. Ecco la sua sintetica definizione di nazione: “Si tratta di una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana. È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità (…) La nazione è immaginata come «limitata» in quanto persino la più grande, anche con un miliardo di abitanti, ha comunque confini finiti anche se elastici, oltre i quali esistono altre nazioni. Nessuna nazione si immagina confinante con l’umanità (…) La nazione è immaginata come «sovrana» in quanto il concetto è nato quando illuminismo e rivoluzione stavano distruggendo la legittimità del regno dinastico, gerarchico e di diritto divino (…) Infine è immaginata come una comunità in quanto, malgrado ineguaglianze e sfruttamenti di fatto che possono predominarvi, la nazione viene sempre concepita in termini di profondo, orizzontale cameratismo” (pp. 25-26). Termini come “nazione”, “nazionalità” e “nazionalismo”, afferma Anderson, non dovrebbero essere considerarti solo l’espressione più ideologica di una pratica comunque politica, essendo categorie antropologiche più simili a quelle di “parentela” e “religione”, cioè complessi sistemi di credenze che possono dare un’impronta sostanziale alle azioni della vita quotidiana. L’ascesa del nazionalismo è stata possibile grazie ad alcune trasformazioni sociali: 1) Il declino della comunità religiosa intesa come comunità “inclusiva” per definizione (il protestantesimo come frantumazione dell’ecumene cristiana). 2) Il lento decadimento dei regimi dinastici (le rivoluzioni come esplicita sfida alla dimensione sacrale del potere). 3) La trasformazione della percezione del tempo, con l’emergere e l’affermarsi dell’idea di “simultaneità”. Il tempo astratto segnato dagli orologi permise all’emergente borghesia di pensare ai propri membri come attivi in diverse occupazioni “nello stesso tempo”: gli individui, agendo e reagendo entro un tempo concepito ora come vuoto e lineare, iniziarono a potersi pensare gli uni gli altri. Il romanzo moderno e l’idea stessa di giornale derivano da e insieme costituiscono questa nuova concezione della simultaneità temporale: i personaggi si muovono e gli eventi accadono in differenti contesti e allo stesso tempo, garantendo quindi il fondamento ideale della comunità immaginata. Questi tre profondi mutamenti spinsero alla ricerca di nuovi modi per collegare tra loro le idee di fraternità, di potere 2

Nell’analisi della struttura di Comunità immaginate farò ampio uso di una recensione inedita di Vincenzo Bitti, che riesce a cogliere appieno il nucleo della teoria di Anderson.

e di tempo: il concetto di nazione, secondo Anderson, fu il sedimento che consentì di realizzare in modo efficace questa esigenza a un tempo politica, sociale ed esistenziale. Ma questa triplice esigenza assunse la forma caratteristica che oggi chiamiamo nazionalismo a causa dell’interazione tra tre fattori: 1) La crescente rilevanza e predominanza di un particolare modo di produzione e di relazione sociale, e cioè il capitalismo. 2) L’invenzione della tecnologia della comunicazione con la messa a punto della stampa a caratteri mobili. 3) La diversità linguistica del genere umano. Come conseguenza del declino del latino come strumento “universale” di comunicazione tra membri appartenenti a diverse tradizioni linguistiche locali, i tipografi e gli stampatori legati al nascente mercato editoriali iniziarono, verso la fine del XVII secolo, a pubblicare estesamente nei vernacoli locali. Con l’intento di avere un mercato potenziale di lettori quanto più vasto possibile, gli editori spinsero a uniformare la forma scritta secondo alcune varianti “di prestigio” o particolarmente diffuse, che presentavano il vantaggio di poter essere lette anche da chi poi, nel parlato quotidiano, tendeva ad usare altre varianti dialettali o vernacolari. In questo senso, gli editori spinsero all’uniformazione linguistica entro aree sufficientemente vaste da garantire un pubblico adeguato per i libri messi in commercio. A loro volta, i libri fatti circolare diffondevano scelte lessicali e stilistiche che venivano riprodotte a livello locale, spingendo quindi le diverse varianti di una stessa parlata a uniformarsi in quelle che stavano diventando le lingue “nazionali”. Questa diffusione dei vernacoli offrì un supporto perfetto per immaginare diverse comunità di eguali entro le diverse nazioni. Lo stile dei nazionalismi europei si basò essenzialmente sulle lingue stampate, tanto che Anderson conia l’espressione “capitalismo a stampa” (print-capitalism) per evidenziare la rilevanza di questo mezzo di comunicazione nel comprendere la formazione di una borghesia nazionalista in Europa. Mentre prima del capitalismo a stampa le solidarietà sociali fondamentali erano la conseguenza di relazioni dirette di parentela o di rapporti clientelari, la borghesia fu la prima classe sociale a sviluppare una forma di solidarietà intrinsecamente immaginata, attraverso il sostegno del capitalismo a stampa: leggendo dei loro sodali di classe nei romanzi e nei giornali, potendoli concepire come sincronicamente collegati anche se lontani dal punto di vista spaziale, i mercanti, gli imprenditori e i burocrati poterono sviluppare un senso di appartenenza a un gruppo di persone che, per la maggior parte, non avrebbero mai conosciuto. Il modello di Anderson è importante non solo perché aggiunge al determinismo economicista di Gellner ulteriori elementi di natura sociale, ma anche perché riesce a dar conto della dimensione sacra dell’appartenenza: per la nazione alcuni sono pronti 29

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a morire, il che significa che la nazione si fa carico di una dimensione simbolica che non può essere facilmente trascurata (come sembra fare Gellner, e come di certo fanno altri autori, tra cui Hobsbawm, che non tratteremo per ragioni di spazio) come un semplice trucco per nascondere i “veri” interessi del nazionalismo (e ciò le determinazioni di ordine economico dettate dal processo di modernizzazione). Da questo punto di vista, quindi, la prospettiva di Anderson arricchisce il nostro quadro teorico: sapendo che il nazionalismo è anche un sentimento, ci consente di indagare sulle origini e sulla prima diffusione di quel sentimento tra l’emergente borghesia legata al primo capitalismo. Ma anche Anderson non sembra in grado di rispondere alla nostra domanda centrale: com’è avvenuto il contatto tra nazionalismo e masse? Come e in che misura questo sentimento di appartenenza a una comunità più vasta di quella che mai riusciremo direttamente a conoscere si è diffuso agli strati subalterni? Se, come abbiamo visto, la cultura “popolare” come espressione delle classi subalterne si distingue dalla cultura delle classi egemoni (tra cui la borghesia, entro cui il nazionalismo è sorto), in che modo un elemento “culto” come l’ideologia del nazionalismo è stato recepito e articolato entro le strutture della cultura popolare? È mia convinzione che per provare a rispondere a queste domande dobbiamo muoverci in due direzioni: da un lato abbiamo bisogno di vedere come funziona il nazionalismo una volta sottratto al monopolio borghese, nel contesto cioè di quadri sociali meno elitari: abbiamo, per così dire, bisogno di “un’etnografia del nazionalismo”, di capire cioè le sue dinamiche sociali effettive in determinati contesti. Dall’altro credo sia importante, al di là delle diverse stratificazioni sociali, provare a lavorare per una “biografia del nazionalismo”, verificando cioè con singoli casi individuali il percorso che rende plausibile l’adesione forte a un progetto nazionale. L’obiettivo che mi sono posto nelle due prossime sezioni del modulo è esattamente questo: nella prossima sezione (con lo studio di Intimità culturale di Herzfeld e di diversi casi di studio) cercheremo di vedere un po’ più da vicino le dinamiche di diffusione dell’idea nazionale, e credo avremo modo di scoprire diverse cose interessanti; nella terza parte del modulo (dedicata alla lettura analitica del mio Vite di confine) vedremo invece che senso abbia studiare “a distanza ravvicinata” alcuni individui la cui appartenenza nazionale costituisce un elemento fondamentale della loro identità. Nell’insieme (etnografia del nazionalismo e biografia dei nazionalisti) considero questo progetto lo specifico teorico dell’antropologia nella riflessione sulle appartenenze collettive, ma voglio chiudere provando ad articolare un po’ più precisamente la mia posizione.

Antropologia e nazionalismo Uno dei passaggi più emozionanti del bel libro di Tom Nairn, Faces of Nationalism (1997, pp. 158-159) recita:

Nel bellissimo film di Juris Podnieks, Homeland [Patria] si vede un uomo con un braccio solo che torna, dopo 47 anni di esilio americano, in una buia casa semidistrutta, in mezzo a un campo ricoperto di erbacce. L’uomo si siede dentro la casa, travolto dai ricordi, e guarda verso il cielo attraverso il tetto sfondato. “Sento ancora la luce”, dice. Nonostante tutto, la sua Lituania esiste ancora, ed è ancora in grado di cantare come ricorda sentiva da bambino: un coro in mezzo alla foresta baltica, una specie di paradiso. Finalmente è possibile tornare a casa, a casa in una comunità immaginata ma dotata di fondamenta reali, riemerse dopo il crollo di un impero. Solo pochi anni, prima quell’uomo sarebbe stato costretto (come molti altri) a chiedere che le sue ceneri venissero disperse assieme a mazzi di fiori da qualche parte nel mare, fuori dal limite delle acque territoriali: questo era il massimo di prossimità alla casa in rovina concesso loro a quel tempo. Per loro si organizzavano speciali crociere sul mar Baltico. Derisi su entrambi i fronti della grande barriera imperiale come nostalgici reazionari, questi uomini si accalcavano per volgere lo sguardo, oltre i parapetti, all’unica cosa che mai avrebbero potuto vedere dei loro paesi: una linea nera e compatta all’orizzonte. Come “scienziati sociali”, possiamo certo deridere con altrettanto distacco simili sentimenti espressi in altre parti del mondo, ma resto convinto del fatto che non si possa capire il nazionalismo (e, più in generale, qualunque altra forma di appartenenza collettiva) se con cerchiamo di fare i conti con quelle persone che guardano quella linea nera e compatta che tanto bramano. Con tutte le teorie, i modelli e le spiegazioni di cui disponiamo, nessuno è ancora stato in grado di descrivere con una dose sufficiente di realismo il sentimento che muove quelle persone. Il problema, ovviamente, consiste nel fatto che – se vogliamo essere considerati scientifici – ci sentiamo in obbligo di non impelagarci in questioni del genere. Il più delle volte la sociologia, le scienze politiche e l’antropologia si contentano di respingere qualunque tentativo di affrontare la questione sostenendo la sua sostanziale irrilevanza. Ma se la scienza non è solo un “metodo” per quantificare e trasformare qualunque cosa in modelli, regole, e rigidi schemi comparabili, ma rimane piuttosto la passione per la conoscenza, cosa ci può essere di più scientifico che provare a comprendere quei profondi sentimenti spesso sollecitati dall’identità etnica o nazionale? Se questa non fosse considerata una ragione sufficiente, bisogna considerare anche le manchevolezze delle attuali teorie sul nazionalismo. Questo complesso fenomeno sociale, politico e culturale è stato sviscerato per quanto riguarda le ragioni del suo primo apparire entro un ristretto gruppo di intellettuali che – non sappiamo neppure approssimativamente come – avrebbe diffuso le sue convinzioni tra le masse. Secondo una versione più critica (quella che Hobsbawm presenta nel suo libro del 1990, di cui non ci siamo occupati in dettaglio per ragioni di tempo) il nazionalismo in effetti non è mai esistito, se non per una microscopica minoranza di fanatici, fino a quando i 30

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moderni stati non avrebbero inventato la sua esistenza e presenza per giustificare le loro pratiche di sfruttamento e oppressione, e per nascondere, ovviamente i “veri” conflitti sociali, sobillando le menti e i cuori dei (comunque pochi) che finirono per credere a questa favola. Ma anche in questo caso, nessuno sembra seriamente interessato a spiegare come questo complotto si sia potuto avverare, mentre ci si accontenta di insistere che le convinzioni comunque istillate nella testa della gente comune non sono altro che menzogne e invenzioni. Il che potrebbe anche andare bene, nella misura in cui questo approccio ci consente di denaturalizzare le nazioni e il sentimento nazionale, ma il punto in questione è proprio questo. Difatti, una volta stabilita la natura “costruita” delle nazioni e dell’appartenenza nazionale come invenzione relativamente recente, se possibile la domanda si pone con forza ancora maggiore: allora perché così tante persone nel mondo sono attratte da un’idea così chiaramente fasulla? Cosa trovano nel nazionalismo di così affascinante da lasciare che le loro vite ne vengano influenzate così profondamente come gli eventi degli ultimi quindici anni sembrano dimostrare? A questo punto della mia riflessione, non mi sembra possibile prestare ancora attenzione all’argomento, apparentemente raffinato, avanzato da Hobsbawm, che cioè il nazionalismo, in verità, non costituisce una questione rilevante, dato che l’economia o la coscienza di classe hanno avuto un ruolo ben maggiore nel determinare il mutamento politico degli ultimi duecento anni. Quella di Hobsbawm non è infatti un’ipotesi di lavoro che egli si premuri di dimostrare, ma piuttosto una tesi attorno alla quale tenta di costruire la sua argomentazione a favore di un’interpretazione economicista della realtà politica. Specularmente, non mi sembra necessario concedere troppo alla posizione primordialista espressa da Smith (1986), secondo cui quello che ho chiamato il “sentimento” nazionale non dipende dal moderno stato nazionale, ed è invece radicato profondamente nell’origine etnica delle nazioni. Anche se credo che la prospettiva di Smith contenga elementi che necessitano di un approfondimento (non sappiamo in effetti molto sulle forme di appartenenza collettiva prima dello stato nazionale moderno, a parte i soliti riferimenti alle solidarietà “meccaniche” della famiglia e della comunità locale) non ritengo necessario (come invece sembra fare Smith) risalire all’antica Mesopotamia per gettare luce sull’odierno nazionalismo lituano. Anche se è evidente che il sentimento nazionale è ben più profondo di qualunque semplificazione gellneriana, non vi è motivo per cui quella profondità debba necessariamente essere di tipo storico. Per qualunque nazione con un evidente radicamento etnico (cioè con una storia lunga e ricostruibile) è sempre possibile individuarne un’altra con una storia ben più superficiale e “costruita”, e se usassimo il criterio dell’effettiva profondità storica per misurare la legittimità o la genuinità delle diverse nazioni rischieremmo di trovarci di fronte a sorprese e a scelte complicate (i birmani più legittimati degli americani, per esempio) che non chiarirebbero assolutamente i termini del problema odierno.

Come già indicato, anche in questo caso un parallelo tra nazionalismo e religione può rivelarsi illuminante. Nessuno discuterebbe seriamente (o “scientificamente”) una qualunque religione o un sentimento religioso sulla base della loro “veridicità”, e pochi si contenterebbero di giungere alla conclusione che le religioni, il più delle volte, non dicono “la verità” rispetto al passato. Abbiamo imparato a non imporre le nostre categorie quando cerchiamo di comprendere un modo di pensare diverso dal nostro, e sembra esserci un sostanziale accordo sul fatto che ogni tentativo di spiegare le religioni dovrebbe essere allo stesso tempo estremamente prudente e improntato alla specificità individuante, oltre che rispettoso di un sistema di valori e credenze il più delle volte praticamente impossibile da afferrare nella sua interezza. Soprattutto, nessuno verrebbe preso seriamente se avanzasse come ipotesi esplicativa per il diffondersi di una specifica religione il fatto che essa fu in effetti l’invenzione di una ristretta cerchia di adepti, che convinse il popolo ignorante ad adottarla nonostante la sua evidente fallacia. Sappiamo benissimo che le religioni sono “invenzioni”, ma sappiamo anche meglio che questa “verità” non ha nulla a che fare con le ragioni per cui quell’invenzione è stata fatta e – aspetto centrale della mia argomentazione – per cui la gente ha iniziato a crederci. Dopo una fase (salutare e necessaria) di scetticismo militante, credo sia giunto il momento di insistere perché trovi più spazio un nuovo approccio al nazionalismo. Abbiamo imparato che le nazioni non sono eterne, abbiamo indagato a fondo e giustamente sulle precondizioni e cause sociali ed economiche del moderno nazionalismo. A questo punto possiamo volgerci a studiare (senza rinunciare al nostro ruolo di praticanti delle scienze sociali) quello che il nazionalismo significa per quelle persone che, finora, troppo spesso ci siamo limitati a considerare i destinatari finali di una dottrina elaborata altrove. L’antropologia, con la sua attenzione per i “piccoli casi”, con la sua predilezione per l’interazione faccia a faccia con le persone di cui cerca di cogliere le reti di significato, con la sua vocazione comparativa di ridotte dimensioni, può fornire una metodologia adeguata a questo progetto. I risultati di un serio approccio antropologico al nazionalismo sono già evidenti. Come studieremo in dettaglio, Michael Herzfeld, nel suo Intimità culturale (1997), descrive uno specifico stile di immaginazione nazionale, quello greco, e ci mostra come – una volta indagata a livello locale – l’alquanto astratta ideologia dello stato nazionale può essere manipolata intenzionalmente in forme irriverenti o addirittura sovversive. Questa manipolazione locale, ci avverte però Herzfeld, può alla fine costituire il senso “vero” dell’appartenenza nazionale da parte di chi la vive, per cui la sfida alla retorica officiale (“noi cretesi rubiamo le pecore” e – potremmo aggiungere – “noi italiani ci vantiamo di fare i furbi con la burocrazia statale”) diventa il cemento che crea quel senso di solidarietà e di fratellanza tipico del nazionalismo. Anticipando quindi quello che avremo modo di studiare in dettaglio, possiamo dire che molte volte la negazione ironica del modello nazionale costituisce di fatto il miglior legame nazionale 31

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possibile, per cui, nel caso dell’Italia, possiamo dire che il collante nazionale è proprio costituito dal comune senso di distacco emotivo che molti di noi manifestano verso la retorica del nazionalismo: se infatti “molti di noi” hanno un sentimento comune, ecco che quel “molti di noi” si può leggere come una “comunità immaginata” che condivide un valore profondo, e cioè la distanza emotiva dallo stato cui appartiene, e che riesce a immaginare gli altri membri che, in perfetta sincronia, pensano e agiscono allo stesso modo. Anticipo questo punto della riflessione di Herzfeld solo per dimostrare come, andando a vedere le cose un po’ più da vicino con la modesta metodologia della ricerca etnografica, il nazionalismo possa riservare diverse sorprese e nuovi spunti di riflessione per capire quali sono le condizioni che ci fanno spesso usare la prima persona plurale. Nel quadro dell’Europa, del contesto in movimento dell’Unione Europea, dei mutati rapporti di forze tra stati nazionali e dell’emergere di condizioni sociali e produttive nuove, avere le idee un po’ più chiare sul senso dell’appartenenza non potrà che farci del bene o almeno contribuirà – spero – a impedire che “noi” facciamo del male agli “altri”.

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QUESTIONI DI GUSTO IDENTITÀ E PREFERENZE ESTETICHE NELL’EPOCA DEI MASS MEDIA Introduzione e scopo di questa sezione In queste due lezioni cercheremo di mettere a fuoco un problema scottante, dato che riguarda ognuno di noi. Non si tratta quindi di studiare una cosa esterna alla nostra vita, ma i meccanismi di funzionamento di molte delle nostre pratiche e dei nostri giudizi. Come sempre in questi casi, dovremo fare i conti con le naturali resistenze che derivano dalla sensazione di sentirsi “oggettivati” da un’analisi, e prestare particolarmente attenzione ai meccanismi che noi mettiamo in atto quando giudichiamo. L’obiettivo di questo incontro è studiare da vicino il gusto, inteso come quell’insieme di giudizi e di pratiche sociali che ci consentono di distinguere il bello dal brutto. Normalmente, ognuno di noi è in grado di giudicare se un film, un pezzo musicale, un vestito, un mobile, un romanzo, un quadro, una piece teatrale, un programma televisivo o un manufatto sono belli o brutti. Con maggiore o minore consapevolezza, tutti noi cioè giudichiamo il mondo che ci circonda secondo categorie estetiche. Ovviamente, applichiamo anche altre categorie di giudizio alla realtà. Con l’opposizione vero/falso tendiamo a distinguere la conoscenza (scientifica) dalla credenza o dall’ignoranza; con quella bene/male diamo forma al nostro universo etico e morale. Questi universi (estetico, cognitivo e etico) sono sostanzialmente indipendenti, tanto che possiamo apprezzare il valore estetico o morale di un romanzo anche se sappiamo benissimo che è “falso” quanto a contenuti, oppure possiamo apprezzare il valore di verità di una fotografia o di un teorema anche se non ci appaiono particolarmente “belli” (e possono anzi essere alquanto “brutti” per la scabrosità del soggetto o se la loro comprensione risulta difficile). Tutti questi universi di riferimento e di giudizio, tuttavia, sono da un lato il prodotto della cultura in cui viviamo, e dall’altro tentano di mascherare la loro origine storica assumendo le sembianze della necessità. Ciò che è buono viene riconosciuto come “naturalmente buono”, ciò che è vero come “naturalmente vero” e ciò che è bello come “naturalmente bello”. Con questo nostro incontro cercheremo quindi di dimostrare due cose: 1. Il sistema estetico di giudizio nel quale siamo immersi e che tutti noi utilizziamo non è naturale, non nasce cioè con l’uomo come qualità innata, ma è invece il prodotto di un lungo lavorio storico e sociale. Questo punto è piuttosto semplice da dimostrare proprio a partire dalle diverse percezioni estetiche e di giudizio: se a me piacciono i Sex Pistols e a qualcun altro piacciono le canzoni di Toto Cutugno è evidente che abbiamo sistemi di giudizio differenti, e che quindi

non esiste un unico criterio estetico. Ma più importante di questo è il secondo punto, che riguarda le motivazioni delle differenze di giudizio. 2. Il sistema estetico è un grande operatore di differenza sociale, contribuendo in modo sostanziale a creare differenze di classe attraverso le diverse preferenze di gusto. In altri termini, quello che “ci piace” e “non ci piace” dipende in buona parte dalla collocazione sociale in cui ci posizioniamo, e non soltanto dalle nostre scelte individuali, per quanto la cosa possa darci fastidio e possa minare la nostra convinzione di avere completa libertà di scelta nel determinare quel che è bello e quel che è brutto. Questo secondo punto, noto a grandi linee da molto tempo agli studiosi del rapporto tra estetica e cultura, è stato indagato con scrupolo e profondità di analisi mai raggiunte prima da un grande studioso francese, Pierre Bourdieu, che ha condotto nel corso degli anni Sessanta una complessa analisi sociologica i cui risultati e le cui interpretazioni sono state presentate in un volume uscito per la prima volta nel 1979, esplicitamente intitolato La distinzione. Critica sociale del gusto. Già dal titolo l’autore ha posto in rilievo il rapporto fondamentale tra il gusto estetico e l’esigenza di differenziarsi: ci piace ciò che ci de-finisce, che delimita i limiti della nostra condizione sociale. Per realizzare la sua ricerca, Bourdieu e i suoi collaboratori hanno raccolto – una prima volta nel 1963 e una seconda nel 1967-68 – oltre 1200 questionari intervistando cittadini francesi residenti su tutto il territorio nazionale. Il questionario raccoglieva i dati sociologici dell’intervistato (sesso, età, situazione familiare, numero di figli, residenza, titolo di studio, professione, titolo di studio del padre e del nonno, reddito annuo, oggetti posseduti come giradischi, registratore, macchina fotografica, televisore eccetera) e proseguiva ponendo una serie di domande su diversi aspetti legati alle scelte estetiche. In particolare, i temi indagati erano i seguenti: Mobilio domestico (provenienza, stile, preferenze) Tempo libero (attività preferite) Musica leggera (cantanti preferiti) Abbigliamento (scelte di stile) Tipologia di pasto per gli ospiti Libri Film Radio Televisione 34 di 43

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Musica classica Opere musicali conosciute Pittura Pittori conosciuti Musei visitati Fotografia Oltre a questi dati forniti dall’intervistato, il rilevatore compilava una scheda descrittiva sull’abitazione dell’intervistato, sullo stile dell’arredamento, sul vestiario, sulla pettinatura, sul modo di parlare (curato, gergale, corretto, errori di lingua) e sulla pronuncia dialettale. Questa mole di dati è stata in parte trattata con strumenti quantitativi (analisi statistiche) e ha fornito le basi per le riflessioni interpretative di Bourdieu e l’elaborazione del suo modello. Nella prima parte del nostro incontro presenteremo il quadro teorico generale di Bourdieu, che ci consentirà – nella seconda parte – di comprenderne l’applicazione al caso specifico del gusto estetico. Presenteremo quindi una serie di riflessioni generali sulla necessità di adattare ai tempi attuali il modello proposto da Bourdieu (terza parte), e infine proporrò una lettura di un caso specifico come esempio di modello aggiornato (quarta parte).

Il modello di Bourdieu Le due premesse L’analisi di Bourdieu del gusto parte da due considerazioni apparentemente marginali o meramente “introduttive”, ma che in effetti costituiscono un punto cardine per comprendere la sua riflessione. Il primo punto pare addirittura banale, e riguarda l’apparente “indefinibilità” dell’oggetto di studio. Il gusto, ammonisce Bourdieu, è un complicato oggetto di analisi sociologica perché pretende di non essere passibile di analisi, di porsi insomma al di là di qualunque procedimento scientifico per delimitarlo e descriverlo. Ma come, non è un luogo comune che de gustibus non est disputandum? C’è veramente bisogno di partire da una simile ovvietà? Questo luogo comune costituisce invece un oggetto essenziale dell’analisi, perché il gusto ha tra i suoi tratti sociologicamente costitutivi proprio l’essenzializzazione di sé. Detto altrimenti, l’analisi di Bourdieu rivela in modo chiaro che uno degli obiettivi dell’elaborazione di un gusto socialmente definito è proprio quello di veicolare l’idea della sua “naturalità”. Questo tratto apparentemente accessorio della predilezione estetica garantisce il suo utilizzo ideale come demarcatore sociale: se i gusti sono “naturali” (e vedremo in che modo si arriva a questa naturalizzazione di una pratica sociale), altrettanto naturalmente saranno distinti tra loro i portatori

dei diversi gusti. Ma dato che i portatori di gusti differenti tendono a raggrupparsi in modo sistematico attorno ad alcune variabili sociali definibili in modo estremamente rigoroso, ecco che la distinzione di classe trova nella naturalità delle differenze di gusto un suo potentissimo sostegno ideologico. In questo senso l’ineffabilità del gusto garantisce l’ineffabilità della corrispondente distinzione di classe: mica male come effetto, per un luogo comune. Il secondo punto invece riguarda la produzione della distinzione di classe attraverso l’analisi sociale. Bourdieu fa notare come le analisi sociologiche del gusto siano indistintamente analisi del gusto “altrui”, molto spesso analisi tese a svelarne le incongruenze, le falsità o le assurdità. Questo approccio di analisi (per cui la “cultura degli intellettuali” viene criticata dalla destra, e la “cultura borghese” viene criticata dalla sinistra) rimane in gran parte inconsapevole di produrre a sua volta distinzione sociale: critico il populismo piazzaiolo e con questo produco la mia distinzione borghese; critico l’elitismo borghese e con questo produco la mia distinzione di intellettuale impegnato. L’analisi del gusto, dice insomma Bourdieu, deve necessariamente essere anche autoanalisi, pena la sua riduzione da analisi della distinzione a produzione della medesima per una specifica classe sociale (quella che effettua l’analisi del gusto “altrui”).

Lo spazio sociale secondo Bourdieu Per capire il senso dell’analisi di Bourdieu bisogna partire dalla classificazione generale che egli compie del sistema delle arti e del sistema sociale. In realtà tutta la Distinzione è percorsa da un sottotesto estremamente raffinato (che a volte pare la vera ragione della scrittura dell’autore) volto a criticare duramente il positivismo ingenuo delle “correlazioni statistiche”, ma in questa sede questo tema dovrà essere escluso dall’analisi proprio per la sua complessità. Per i nostri fini (che sono quelli di riflettere sulle determinazioni sociali del gusto nel presente) ci limiteremo a considerare Bourdieu esecutore della pratica dell’analisi quantitativa assai più ingenuo di quanto non riveli invece la lettura del testo. Alcune considerazioni generali vanno comunque evidenziate: la critica sostanziale di Bourdieu al modello sociologico classico è orientata alla sua unilinearità, alla tendenza cioè a collocare i segmenti sociali lungo assi unilineari (di reddito, di età, eccetera). Il suo lavoro insiste invece nel porre i soggetti su piani cartesiani che possono rendere in maniera più adeguata la complessità delle collocazioni (non stratificazioni) sociali, e la natura non progressiva degli spostamenti sociali, che possono essere verticali ma anche trasversali. In questo modo, acquista un senso più chiaro la pratica sociale del gusto come pratica della distinzione, intensa letteralmente come procedimento attraverso cui le frazioni di classe si dispongono nello spazio sociale per andare ad occupare spazi non occupati da altri.

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Il capitale complessivo di classe = capitale economico + capitale culturale Ogni classe, frazione di classe o soggetto, nel modello di Bourdieu, detiene un capitale complessivo che è dato dalla somma del capitale economico (inteso come disponibilità finanziaria effettiva) e capitale culturale (espresso dai titoli di studio acquisiti). Un aspetto di cui l’analisi di Bourdieu tiene conto sistematicamente è la storia di questi capitali, se cioè il portatore sia erede o produttore dei medesimi. In pratica, l’analisi di Bourdieu considera rilevante misurare la differenza tra capitale complessivo individuale e capitale complessivo ereditato, per cui la classe dominante sarà definita da una quota elevata di capitale complessivo, ma al suo interno saranno individuabili diverse frazioni di classe che corrisponderanno alle porzioni relative di capitale (i professori universitari e i grandi commercianti si opporranno per avere i primi elevato capitale culturale e relativamente basso capitale economico, i secondi elevato capitale economico e basso capitale culturale) e alle storie ereditate di quei capitali (un laureato proveniente da genitori con istruzione elementare, che cioè ha ereditato un basso capitale culturale e che ha dovuto costruirselo personalmente, si collocherà socialmente in posizione diversa da un individuo con il medesimo titolo accademico ma figlio di genitori entrambi laureati). Questa duplice suddivisione del capitale individuale (culturale e finanziario, ereditato o conquistato) produce una complicazione delle posizioni sociali cui corrispondono diversi stili di vita.

Gli habitus come formule per produrre stili in base alle posizioni Per la precisione, il collegamento tra posizioni sociali e stili di vita è garantito dagli habitus intesi come “formule generatrici (per esempio, nel caso dei professori, l’ascetismo aristocratico) che stanno alla radice di ogni classe di pratiche e di proprietà, vale a dire della trasformazione in uno stile di vita distinto e distintivo delle esigenze e delle disponibilità che caratterizzano una condizione ed una posizione determinata” (p. 131). L’habitus quindi è l’interfaccia tra posizioni sociali e pratiche sociali, consentendo alle prime di convertirsi nei secondi.

Isteresi dell’habitus Un aspetto non trascurabile per la nostra analisi è quella che Bourdieu chiama l’isteresi dell’habitus. L’habitus garantisce un modello di percezione e giudizio del reale conseguente alla posizione sociale in cui si è prodotto (per cui l’ascetismo aristocratico si sviluppa tra i professori, la pretenziosità tra la piccola borghesia, il gusto del necessario e il principio di conformità tra le classi popolari), ma i suoi effetti di filtro sulla realtà possono prolungarsi (isteresi) anche quando il

soggetto abbia mutato (soggettivamente o oggettivamente) posizione sociale, perché il suo capitale culturale è stato rivalutato (positivamente o negativamente), perché il suo capitale finanziario si è modificato, o per una combinazione di questi due fattori. In pratica, una volta elaborato in determinate condizioni, l’habitus tende a condizionare la percezione e il giudizio del reale anche se le condizioni di posizionamento del soggetto sono mutate.

Habitus come generatore e classificatore della differenza Un altro aspetto dell’habitus è la sua duplice natura di generatore e classificatore. Da un lato infatti l’habitus produce pratiche sociali (generando così gli stili di vita associati ai suoi portatori) ma dall’altro consente di gerarchizzare le pratiche (generando così il gusto inteso come principio generale di categorizzazione delle pratiche). Detto altrimenti, l’habitus garantisce la sensatezza soggettiva (“l’intelligibilità” dice Bourdieu a pagina 174) del rapporto tra condizione economica e sociale e stili di vita corrispondenti. Consente di tradurre sui diversi domini dove si applica (gusti estetici, scelte alimentari, ma anche posture fisiche) gli stessi schemi di azione, di modo che la relazione tra, poniamo, i gusti musicali e la propria classe di appartenenza è sentita come naturale, in quanto è prodotta dall’applicazione degli stessi schemi “insediati nei cervelli” (p. 177). In questa prospettiva l’habitus di Bourdieu ricorda l’operatore totemico di Lévi-Strass, un sistema generativo in grado di porre relazioni tra i diversi domini del reale proprio perché li categorizza in base allo stesso schema analitico di base.

L’analisi del gusto Gli oggetti culturali: legittimi, in via di legittimazione, liberi Ma se questo è, in versione molto semplificata, il modello generale di Bourdieu, qual è il suo contesto di applicazione nel caso del gusto? Gli oggetti culturali sono raggruppati in tre ambiti di applicazione: Legittimi; in via di legittimazione; liberi. Gli ambiti legittimi sono quelli che potremmo definire parte del “canone” delle arti maggiori: pittura, musica, letteratura unanimemente considerate nella loro espressione “alta”; gli ambiti in via di legittimazione sono quelli legati alle arti minori o a forme minori dell’arte legittima: fotografia, cinema, musica leggera; gli ambiti liberi sono invece quelli che non presuppongono un apprendimento di tipo formale: arredamento, stili di vestiario, gusti alimentari. Gli ambiti legittimi sono a loro volta suddivisi a seconda del “mercato” (scolare o extrascolare) entro cui vengono acquisiti: per cui le competenze musicali di un professore di chimica faranno parte del suo capitale

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culturale acquisito per via extrascolare, mentre le conoscenze letterarie di un professore di francese saranno acquisite per via scolare.

I due fatti fondamentali del gusto Chiarita questa generale suddivisione degli ambiti e degli oggetti del gusto, l’analisi di Bourdieu giunge a delle conclusioni estremamente nette, riassunte in due “fatti fondamentali”: da un lato, il rapporto strettissimo che lega le pratiche culturali (e le relative opinioni) al capitale scolastico (misurato in base ai titoli di studio ottenuti) e, in via subordinata, all’origine sociale (stabilita mediante la professione del padre); dall’altro lato, il fatto che, a parità di capitale scolastico, nel sistema esplicativo delle pratiche e delle preferenze, il peso dell’origine sociale aumenta quando ci si allontana dagli ambiti più legittimi (pp. 13-14). Sostanzialmente, il gusto è determinato dal capitale individuale e, di questo capitale, quello scolastico è tanto più determinante quanto più ci si avvicina all’ambito legittimo, mentre l’origine sociale (il capitale economico) diviene sempre più determinante quanto più da quell’ambito legittimo ci si allontana. La musica (proprio per il suo disporsi come un continuo sull’asse legittimo-in via di legittimazione-libero) costituisce un oggetto privilegiato di analisi, grazie a cui Bourdieu identifica “tre universi di gusti che, grosso modo, corrispondono a tre livelli scolastici ed a tre classi sociali” (p. 15): il gusto “legittimo”, cioè il gusto per le opere legittime (il Clavicembalo ben temperato) cui possono eventualmente (a seconda della sicurezza dei soggetti) essere associate anche opere in via di legittimazione (musica jazz o canzone “d’autore”); il gusto “medio” che unisce le opere minori delle arti legittime (come la Rapsodia in blu) e quelle maggiori delle arti minori (Gilbert Bécaud o, potremmo aggiungere per l’Italia, Fabrizio de Andrè o Franco Battiato); il gusto “popolare” legato alla musica leggera (Gigi D’Alessio, i Pooh, oppure musica colta legata alla divulgazione, come il Danubio blu).

La forza dell’habitus Queste strette correlazioni tra gusti, classi e capitali culturali non possono essere spiegate facendo ricorso alla forza uniformante del sistema scolastico, proprio perché la correlazione travalica ciò che viene appreso a scuola per applicarsi a contesti extrascolastici: l’arredamento, l’abbigliamento, l’alimentazione. Insomma, non si impara a scuola il piacere per il jazz né la passione per la rucola, eppure, tenendo fermo il capitale economico, a parità di capitale scolastico corrispondono gusti simili in settori molto lontani dalla legittimità scolastica. Per Bourdieu bisogna praticamente allungare la sequenza causale: la scuola non

produce gusti uniformi, ma contribuisce a produrre habitus, che sono le matrici di applicazione della stessa sequenza in campi diversi, e quindi garantiscono l’uniformità dei gusti extralegittimi: l’istruzione scolastica contribuisce (…) a costituire quell’atteggiamento generale e trasferibile nei confronti della cultura legittima che, acquisito per quanto attiene alle conoscenze ed alle pratiche riconosciute dalla scuola, tende ad applicarsi al di là dei limiti dello “scolastico”, assumendo la forma di una “disinteressata” propensione ad accumulare esperienze e conoscenze, che, sul mercato scolare, possono anche non essere direttamente redditizie (p. 23).

Habitus come titolo nobiliare conferito dal titolo scolastico In questo senso, l’istruzione scolastica assegna ai detentori dei titoli scolastici un “titolo nobiliare”, consentendo loro di “essere” qualcosa (i portatori di un habitus) che si può manifestare in campi diversi da quello specifico (scolastico) entro cui quell’“essere” è stato acquisito. Mentre cioè chi non detiene un titolo dovrà sempre dimostrare attraverso il suo “fare” la propria competenza, il detentore di titolo non dovrà dimostrare alcunché, visto che lui “è”. Proprio tale libertà dal fare come dimostrazione del suo essere gli garantisce quella libertà “liberale” che si può esplicare come “scelta di gusto”. In questo modo, l’assegnazione dei titoli scolastici come assegnazione di un’essenza garantisce due effetti fondamentali: a) essenzializza la natura del portatore, sottraendolo all’onere della prova dei fatti; b) naturalizza il suo gusto come “espressione naturale” della sua essenza, rendendolo quindi soggettivamente libero. Questa opposizione tra “essere” del titolo scolastico e “fare” di chi quel titolo non ce l’ha è particolarmente importante nell’economia odierna del gusto, visto che le mutate condizioni di trasmissione degli habitus sembrano implicare una loro riconfigurazione, come vedremo nell’esempio specifico che presenteremo nella quarta parte. Per ora, limitiamoci a costatare che l’acquisizione di un titolo scolastico si organizza concettualmente e nella pratica sociale come il conferimento di un titolo nobiliare, come l’attribuzione di un’essenza del soggetto che – tra l’altro – sfugge a qualsiasi de-finizione rigorosa, proprio perché, in quanto habitus non può essere definita se non come schema generale, ma i cui contesti di applicazione sono praticamente illimitati: così com’è difficile definire cosa sia un nobile, altrettanto difficile, da questo punto di vista “essenzialista”, definire cosa sia un “addottorato”, ma l’intenzione costitutiva del titolo di studio è proprio quella di garantire questa indefinibilità dell’oggetto.

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L’atteggiamento estetico garantito dal titolo scolastico Se l’habitus conferito da capitale scolastico e origine familiare è essenziale, conferisce cioè un “essere” al suo portatore distinto dal suo fare, in quanto strumento categorizzante del reale quello stesso habitus produce categorie essenziali, cioè sottratte al loro fare (alla loro funzione). Ecco quindi che l’habitus estetico associato a (generato da) un titolo scolastico nobilitante si svilupperà in modo “naturale” come passione per la forma sottratta alla tirannide della funzione. Provando a dirlo in modo più semplice: l’atteggiamento estetico è quella particolare prospettiva sul reale che (in virtù della natura essenzializzante dell’habitus che lo conforma) lo sottrae programmaticamente alla sua funzione concentrandosi in modo sistematico sulla sua forma. La produzione artistica, a sua volta, sarà produzione di forma pura, libera dalla schiavitù della funzione. Il gusto “puro”, quindi prende fin dalla sua “essenza” a costituirsi in opposizione al “gusto barbarico” inteso come passione per la funzione, gusto incapace di distaccarsi dal “fare” in quanto i suoi portatori sono privi di quei titoli nobiliari che garantiscono l’essenzializzazione del soggetto portatore di quel gusto. Ecco allora che il gusto estetico puro, non volgare, sarà quel gusto che più si stacca dal comune, dal facile, vale a dire dall’umano in quanto insieme di “pratiche”. La decorporazione del gusto estetico colto va in questa medesima direzione, per cui bisogna per quanto possibile allontanarsi dalle “funzioni” del corpo se si vuole applicare quello schema essenzializzante nobiliare che costituisce l’habitus colto. Schematizzando: l’habitus colto si forma in funzione differenziante attraverso l’attribuzione di titoli scolastici nobilitanti che trovano la loro espressione extrascolastica nell’adesione alla forma in quanto tale, e nell’esplicito rifiuto estetico della corporeità e delle sue “funzioni”. La distinzione tra letteratura “alta” e letteratura “di genere”, ad esempio, può essere facilmente riscritta secondo questa prospettiva decorporeizzante tipica del gusto raffinato: è arte nobile (distinguente) quell’arte che non suscita funzioni o azioni corporali, che separa l’essere da fare, mentre la letteratura di genere è quella che suscita reazioni fisiche: il giallo ti fa sudare, l’horror ti fa accapponare, il comico ti fa ridere, il melò ti fa piangere, l’erotico ti eccita sessualmente. Solo per il fatto di produrre questi effetti fisici, questo tipo di espressione artistica non può essere arte alta.

La distinzione, oggi L’analisi di Bourdieu è ovviamente molto più sottile e argomentata di quanto non sia riuscito a delineare in queste brevi note, ma credo che alcuni punti generali si siano chiariti, soprattutto in funzione di un loro adattamento al contesto attuale.

Bourdieu ha infatti pubblicato la sua ricerca nel 1979, quindi quasi trent’anni fa, basandola sui dati raccolti tra il 1963 e il 1967, quindi almeno quattro decenni orsono. Gli anni trascorsi dalla raccolta dei dati sono stati caratterizzati da una serie di sommovimenti sociali e politici che, quanto a intensità e portata, non hanno probabilmente antecedenti comparabili nella storia occidentale. È quindi inevitabile che il modello proposto da Bourdieu per i dati a sua disposizione vada aggiornato tenendo conto almeno di quelle modifiche sociali che sono intervenute in modo evidente a modificare le forme di strutturazione degli habitus.

Separazione fisica e distinzione sociale Per proporre una lettura aggiornata delle tesi di Bourdieu credo si debba partire dalla considerazione generale che la separazione fisica e sociale tra le classi, che rende plausibile e gestibile la distinzione in base al gusto, ha subito – nei quarant’anni che separano i dati su cui si basa La distinzione dall’oggi – modificazioni sostanziali nella sua complessità e nella sua stabilità. In pratica, possiamo dire che il mondo sociale rappresentato nella ricerca di Bourdieu ha visto frammentarsi e sostanzialmente complicarsi la separazione “fisica e sociale” degli universi di vita che la “distinzione” come pratica simbolica conferma come separati, indebolendo quindi la retroazione positiva tra separazione e distinzione. Le scelte di gusto e la loro naturalizzazione producono, come abbiamo visto, separazione tra le classi, ma questa separazione simbolica si configura concretamente – nel modello di Bourdieu – come occupazione in distribuzione complementare di spazi fisici, per cui un borghese e un piccolo borghese sono distinti dal gusto, ma sono separati fisicamente da pratiche sociali che li terranno in un regime di sostanziale apartheid. Proprio perché hanno (naturalizzato) gusti diversi e sono inseriti nella catena produttiva a diversi livelli, l’aristocratico, il borghese e il piccolo borghese indagati da Bourdieu tenderanno a non incontrarsi mai, o quasi mai: andranno in ristoranti diversi, occuperanno stanze o piani diversi nel mondo lavorativo, parteciperanno a eventi culturali e sociali diversi. Questo, secondo Bourdieu, garantisce e rafforza la retroazione positiva tra distinzione (simbolica) e separazione (sociale). Credo che l’unico modo per leggere La distinzione oggi sia quello di fare in conti con il fatto che questa separazione non è più così nitida, dato che la diffusione dei flussi di informazione mediatica rende, sul piano simbolico, il rapporto tra distinzione e separazione estremamente più complicato. Un esempio credo chiarirà il senso generale di questo mio intervento. Nel capitolo VII (“La scelta del necessario”) Bourdieu – citando un passo di Elias – individua nell’“arte di spendere senza parsimonia” il tratto che, nel XVII secolo, marcava la distanza tra l’aristocrazia e la borghesia del risparmio. Questo tratto definitorio segna oggi la distinzione tra borghesia e piccola borghesia o classi popolari, per cui

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L’operaio che vede in una vetrina un orologio da polso da due milioni, o che sente dire che un chirurgo ha speso tre milioni per il fidanzamento del figlio, non prova invidia per l’orologio o per il fidanzamento, ma per i due milioni, che userebbe in tutt’altro modo; perché non riesce a concepire il sistema di bisogni in cui, con due milioni, non avrebbe niente di meglio da comprare, che un orologio a questo prezzo (p. 379). Insomma: non basta essere ricchi per fare la vita da ricchi, ma bisogna imparare ad apprezzare il sistema simbolico (l’habitus) associato al superamento della parsimonia come tratto distintivo. Questa analisi della vita sociale del gusto – che tiene giustamente separate la disponibilità economica dalla disposizione (habitus) ad agire secondo canoni specifici – ha un suo fondamento materiale nella separazione “fisica” degli attori sociali, e Bourdieu non manca di sottolinearlo in una nota a piè di pagina che riporto di seguito:

Mille ragioni – ed in particolare la separazione fisica e sociale degli universi di vita – fanno sì che queste due esperienze [vedere l’orologio in vetrina e venire a sapere del fidanzamento del figlio del chirurgo] siano estremamente improbabili (…) Infatti, come notava Marx, non senza una certa brutalità, «ciò che [l’uomo] riesce a vedere, e in che misura, dipende non soltanto dalla situazione generale esistente, ma anche dalla sua borsa e dalla condizione di vita toccatagli nella divisione del lavoro, condizione che forse gli rende inaccessibili molte cose, per quanto i suoi occhi e orecchi possano essere grandi» (K. Marx, L’ideologia tedesca…). Salvo qualche eccezione, i membri delle classi popolari non hanno «nessuna idea» di quello che può essere il sistema dei bisogni delle classi privilegiate, e meno ancora, quello delle loro risorse, di cui hanno anche una conoscenza molto astratta, e priva di qualsiasi riferimento alla realtà (pp. 379-380, n. 3). Mi sembra che la novità sostanziale, rispetto al momento in cui Bourdieu scrive, stia tutta nel venire meno dei limiti cui Marx fa riferimento, sul vedere e sul sentire, e nella recente acquisizione delle classi popolari di una conoscenza

paradossalmente alquanto concreta dei bisogni e delle risorse delle classi privilegiate. La spettacolarizzazione, la commercializzazione e la capillarizzazione della comunicazione mediatica in quest’ultimo trentennio hanno reso disponibili alla piccola e piccolissima borghesia, soprattutto attraverso la televisione, porzioni dell’immaginario e delle pratiche sociali borghesi altrimenti separate fisicamente. Senza tanti giri di parole: guardando la pubblicità o Verissimo, La vita in diretta o altri programmi del genere, il piccolo borghese può oggi avere “occhi e orecchi” ben più aguzzi di quanto non avessero i suoi predecessori intervistati da Bourdieu, e può quindi percepire come sostanzialmente ridotta la separazione fisica che dava credito e che si nutriva della distinzione. Non voglio certo sostenere che il membro delle classi popolari muti il suo atteggiamento verso la parsimonia guardando in televisione gli sprechi dei vip. Può accadere in effetti l’esatto contrario. Ma quel che voglio indicare è il mutamento di campo che i flussi mediatici provocano: tra distinzione simbolica e separazione fisica non vi è più un rinforzo automatico o necessario, dato che oggi la probabilità di incrociare il proprio sguardo parsimonioso su oggetti e pratiche “di spreco” è incomparabilmente cresciuta. Un conto è immaginarsi una tantum lo spreco del chirurgo (che nella separazione fisica può ancora essere relegato nell’eccentricità) e un altro è essere esposti in maniera sistematica a un modello sociale raffigurato nei suoi minimi dettagli. Il passaggio da una società “suntuaria” (basata cioè sulla regolamentazione ex lege o de facto dei consumi disponibili per le diverse classi sociali, per cui solo alcune classi possono accedere ad alcuni beni, indipendentemente dalla disponibilità economica) a una società del consumo (in cui tutti posso acquistare tutto in base alle disponibilità economiche) modifica in modo sostanziale la questione del gusto come distinzione, dato che si è realizzato attraverso una mediatizzazione dei modelli sociali che li rende estremamente permeabili allo “sguardo” altrui, soprattutto dal basso verso l’alto. Mentre cioè è ancora probabile che le classi privilegiate sappiano poco o nulla del sistema dei bisogni e delle risorse delle classi popolari, queste ultime sembrano essere estremamente affamate di immaginario borghese, del quale ormai sono paradossalmente più esperte di molti borghesi stessi. La distinzione sembra quindi, entro il modello dell’immaginazione come pratica sociale, ridisegnarsi come struttura simbolica di conoscimento prima ancora che di riconoscimento di sé: mi distinguo (e quindi mi riconosco) perché mi sottraggo intenzionalmente alla circolazione pubblica degli immaginari di classe. Detto altrimenti: non guardo la televisione, che è il canale attraverso cui si rendono disponibili gli immaginari altrui.

Immaginazione come pratica sociale Dopo aver presentato il modello generale della Distinzione di Bourdieu, vorrei quindi tentare un inquadramento del problema della distinzione nel contesto

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attuale, che ritengo caratterizzato in maniera determinante dall’intrusione della “cultura di massa” nella generazione degli habitus. Lungi dall’essere una critica al libro (realizzato come ricerca e scritto come volume in una fase in cui la prepotenza della comunicazione televisiva poteva ancora essere legittimamente messa da parte) la mia lettura va intesa come un omaggio a una riflessione analitica che mantiene tutta la sua validità metodologica anche se è mutato il contesto della sua applicazione. Per riassumere a modo di conclusione il punto che cercherò di argomentare nella sezione successiva di questa lettura, possiamo dire che il punto critico del modello di Bourdieu si situa nella genesi dell’habitus. Nel modello proposto, il capitale che sta alla base dell’habitus è determinato in modo praticamente esclusivo dal titolo di studio e dalla famiglia di provenienza. Scuola e famiglia, per sintetizzare, sono i luoghi di produzione degli habitus e soprattutto i migliori riproduttori di se stesse. Sebbene tenga esplicitamente conto del problema delle riproduzione sociale delle classi e delle loro frazioni, il modello di Bourdieu mi sembra oggi particolarmente segnato da un mutamento strutturale delle condizioni di produzione dell’habitus in cui un terzo fattore è entrato prepotentemente a modificare i rapporti specifici tra capitale scolastico ed economico. Questo terzo fattore può essere definito come “capitale mediatico”, cioè come quota di “immaginazione come pratica sociale” resa disponibile dal sistema complesso dei flussi di immagini e informazioni che attraversano i campi precostituiti del sociale. Alcune stimolanti riflessioni sul sistema dei mezzi di comunicazione di massa ruotano attorno all’idea di immaginazione. Per lungo tempo l’immaginazione è stata concepita come un lusso per le classi dominanti (letteratura, poesia), una forma di educazione sociale (mitologia) o una via di scampo individuale dalle difficoltà della vita quotidiana. Immaginare voleva dire scappare dalla realtà quotidiana e cercare rifugio in un’attività negativa, caratterizzata proprio dal nonfare. Il sistema degli immaginari era fortemente condizionato dal sistema di riferimento politico, sociale e culturale nel quale si era inseriti e direi quasi incardinati: crescere in Italia o in Francia voleva dire partecipare a sistemi di immaginario estremamente diversi, e altamente specifici. Oggi i flussi mediatici rendono disponibili immaginari altamente divergenti, conflittuali, contraddittori, che i singoli possono riconfigurare all’interno dei loro progetti di vita. Si sa, ad esempio, che i film che hanno come protagonista Rambo hanno avuto un forte impatto sull’immaginario politico di molti attivisti politici dell’Asia meridionale, che sono entrati nella guerriglia cercando di emulare le gesta di un eroe storicamente estraneo ai loro modelli culturali. Lo spostamento di milioni di persone sul pianeta è spesso la conseguenza della volontà di quei soggetti di impadronirsi dei beni e dello stile di vita “occidentale” che hanno

conosciuto attraverso il cinema e la televisione. Detto in sintesi: l’immaginazione non è un modo di sottrarsi alla realtà, ma un modo per progettare forme di attività e di controllo del reale. Tutte queste considerazioni (il nuovo ruolo dei media nella produzione degli habitus e nella produzione dell’immaginazione come pratica sociale) possono ancora apparire alquanto astratte, ma intanto ci dicono che il gusto può conformarsi non solo in base al titolo di studio acquisito e alla storia familiare, ma anche in base a quello che vediamo in televisione o al cinema, o che leggiamo sui giornali. Nell’esempio che presenterò nella quarta parte questi elementi vengono messi in gioco concretamente, cercando di dimostrare come il sistema delle appartenenze e dei gusti (il gusto come strumento della distinzione) possa trovare strani alleati e strani soggetti.

La soapizzazione dell’anima Cos’è che fa sì che Maria De Filippi sia così amata dal pubblico generalista e così detestata dai cosiddetti intellettuali? Prima di stracciarci le vesti e balzare popperianamente sul carro dei mosconi detrattori del catodo, forse vale la pena di capire come funziona un meccanismo narrativo che ha implicazioni antropologiche letteralmente sconvolgenti.

High e low concept Gli sceneggiatori televisivi, gente pratica, dividono il mondo della fiction in due grandi categorie: low concept, e high concept. A scanso di malintesi, gli aggettivi stanno ad indicare più l’impegno economico dell’eventuale investimento produttivo che il valore intrinseco delle opere prodotte, per cui low concept fa il paio con low budget. Comunque sia, high concept indica quel tipo di fiction in cui i caratteri dei protagonisti sono nettamente definiti e coincidono con un fare specifico: la caccia al colpevole, la scoperta di nuovi mondi, la ricerca di una via di fuga. Low concept è invece quella fiction che ruota strutturalmente attorno alla definizione stessa dei personaggi, perennemente alla ricerca di una loro collocazione sociale o affettiva. Si intuisce quindi dalle definizioni sommariamente presentate che il tipo principe di fiction high concept è il telefilm poliziesco, mentre la fiction low concept trova la sua massima espressione nel serial (nella variante soap opera quando il finale è dilazionato all’infinito; telenovela se il finale per quanto ritardato, è previsto nella sceneggiatura di base). Low e high sono due idealtipi o caratteri estremi, che delimitano piuttosto i margini di un continuo narrativo entro il quale è possibile collocare le specifiche fiction. Così, per fare un esempio a me caro, la serie Star Treck è una fiction high

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concept (“alla scoperta di nuovi mondi… lì dove l’uomo non è mai stato prima”), ma il conflitto tra la razionalità vulcaniana del Dr. Spok e l’emotività dell’umanissimo Dr. McCoy è un tipico caso di sviluppo low concept che fa da bordone a tutta la serie. Specularmente, il telefilm Ally McBeal è pensato come un low concept (l’avvocatessa in perenne crisi sentimentale e identitaria) sul quale si innestano di volta in volta plot basati su casi legali più o meno high (ma mai alla Perry Mason). Detto altrimenti, una narrazione è high quando punta sulle azioni dei protagonisti (“Presto, insegua quell’auto!”) che non hanno bisogno di definizioni dato che quello che sono sta tutto nel loro fare (il tenente Colombo), mentre è low quando si incentra sulla definizione dei personaggi (“Devo dirti qualcosa, Pedro: tua madre in realtà è la figlia di tuo padre, quindi tuo padre è tuo nonno, e tua madre è tua sorella”), attività che di fatto costituisce lo scopo primario della fiction di questo tipo.

Il soggetto borghese Stabilite queste coordinate, è utile ricordare che l’opposizione si può applicare al mondo della letteratura in generale, che costituisce ovviamente il terreno dove l’opposizione si è anzi originariamente sviluppata. Ma è proprio quando viene restituita a questo campo di applicazione che l’opposizione tra high e low dimostra inaspettate implicazioni, dato che è proprio qui che le implicite connotazioni valutative che mi ero premunito di evitare all’inizio di questa discussione sembrano tornare prepotentemente all’assalto, ma invertite di segno. Intendo dire che la letteratura high coincide abbastanza bene con quella che si chiama “di genere” (polizieschi, fantascienza, erotici, ecc.) mentre quella low sembra sovrapporsi con una certa precisione alla Letteratura con la maiuscola, a quella che – beata lei – arriva a toccare le vette dell’arte. Anche se cioè un plot high concept può strutturare la trama di molta Letteratura con la maiuscola, mi pare indubitabile che ciò che ha fatto di un pezzo di “prosa letteraria” un’opera d’arte è stato, per generazioni di critici, il tono irrimediabilmente low della struttura ideologica soggiacente. Possiamo cioè dire che senza la ridicola crisi dell’Innominato (e gli stravizi conventuali della monaca di Monza, e i trascorsi ribaldi di fra’ Cristoforo) i Promessi Sposi non sarebbero entrati nel canone con il fragore che li ha contraddistinti. Ciò che per due secoli (l’Ottocento e il Novecento) ha costituito il fattore discriminante della Grande Letteratura è stata proprio la capacità degli autori di comunicare gli intimi sommovimenti dell’anima del protagonista, dimostrandone così l’esistenza in un mondo sempre più secolarizzato. La borghesia (classe sociale di cui il romanzo è la più compiuta espressione estetica, com’è noto) ha costruito la propria percezione di sé attraverso la rappresentazione narrativa di un soggetto dotato

canonicamente di due fondamentali caratteristiche: è consapevole dei propri stati d’animo, più importanti per la sua vita di qualunque condizione materiale; i suoi stati d’animo mutano nel corso del tempo a seguito di diversi motivi, non ultimo il caso. Non è necessario indicare in questa sede le ragioni strutturali che hanno condotto a una simile concezione del soggetto, mentre è estremamente importante sottolineare l’aspetto distintivo di questa identità borghese, che si oppone (tramite la sua interiorità) alla vacua esteriorità della classe nobiliare e (tramite la sua “profonda” introspezione) alla banale e inconsapevole superficialità delle classi subalterne e strumentali. Dal Werther di Goethe all’Agostino di Moravia, il protagonista del romanzo moderno è un tipo noioso che non ha nulla da fare se non struggersi per una qualche relazione (affettiva o di potere) che gli crea dei problemi di identità. Ora, imparare ad apprezzare le qualità estetiche di un simile modello narrativo è procedimento estremamente complicato, che necessita di uno specifico e lungo addestramento: i giovani devono essere educati a identificarsi con soggetti in crisi il cui scopo ultimo non è fare delle cose con il proprio corpo (vangare, copulare, mangiare, defecare) ma elaborare una qualche concezione raffinata del proprio sé come espressione desomatizzata e vagamente nevrotica di un qualche malessere di vivere. Per poter giungere a incorporare questo modello erano necessari – finora – rigorosi strumenti educativi e rigide pratiche di esclusione. Pierre Bourdieu, nel suo saggio sulla Distinzione, ha illustrato i passaggi necessari per elaborare una concezione estetica che garantisca un’adeguata appartenenza di classe. Nel caso della pratica borghese dell’acquisizione di un capitale culturale, particolarmente interessante si rivela la discussione sulla natura dei titoli scolastici, che Bourdieu identificata chiaramente come marcatori di una concezione low del soggetto, opposta alle pratiche high dell’autodidatta: A differenza di coloro che detengono un capitale culturale sprovvisto di certificazione scolastica, cui si può sempre ingiungere di sottoporsi ad una prova, giacché essi sono solo quello che fanno, semplici figli delle loro opere culturali, coloro che detengono invece un titolo di nobiltà culturale (simili in questo a coloro che detengono un titolo nobiliare, il cui essere, definito dalla fedeltà a un sangue, ad un suolo, ad una razza, ad un passato, ad una patria, ad una tradizione, è irriducibile ad un fare, ad un saper fare, ad una funzione) devono solo essere quello che sono, perché tutte le loro attività valgono quello che vale il loro autore, dato che costituiscono l’affermazione e la perpetuazione di quell’essenza in virtù della

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quale vengono espletate (pp. 23-24, tranne l’ultimo, i corsivi sono aggiunti). Ma quel potente saggio è stato scritto prima di Maria De Filippi, cioè prima della soapizzazione dell’anima. La famosa conduttrice riprende in maniera industriale, portandolo alla perfezione, il modello di Maurizio Costanzo, che si può riassumere in uno slogan: democratizzare la crisi borghese del soggetto.

La popolarizzazione del soggetto borghese In tutti i programmi di Maria De Filippi (Amici, Saranno famosi (ora ribattezzato Amici di Maria De Filippi per ragione di copyright), C’è posta per te) qualunque sia il concept (dichiaratamente low in Amici e C’è posta per te, falsamente high in Saranno famosi, in cui si finge che i protagonisti debbano battersi per una vittoria finale) la spina dorsale dell’audience, il detonatore dello share, è sempre e comunque un soggetto qualunque in crisi affettiva e/o identitaria: la madre snaturata che a settant’anni vuole rivedere le figlie; il panettiere demotivato che cerca la fidanzata della sua adolescenza; l’atletico, apollineo e afasico ballerino adolescente che deve superare la crisi che lo contrappone al padre benzinaio che l’ha ostacolato nella sua carriera (ma che a sua volta è in crisi perché ora, pressato dalle telecamere, riconosce il “talento” del figlio ed è costretto a rivedere la sua equazione ballerino = gay). Credo che il successo di Maria De Filippi consista proprio in questa sua capacità di popolarizzare un’immagine a lungo elitaria del soggetto occidentale, rendendola fruibile alle masse che, esposte per troppo breve tempo alla pratica distintiva dell’educazione formale, hanno fatto in tempo a cogliere l’allure del soggetto borghese senza riuscire veramente a farlo proprio. Gli ex liceali distratti, i geometri con il panico da compito d’italiano, i forzati delle 150 ore e i coatti del Cepu hanno con Maria De Filippi l’opportunità irrinunciabile di prendersi una clamorosa rivincita di classe, potendo esprimere con tutto il loro corpo quel che la Cultura ha fatto loro solo assaggiare. Lacrime e sudore, aloni ascellari e scarmigliature, posture goffe e voci roche da scarsa pratica telegenica, assieme al calcolato vizio della conduttrice di non guardare mai verso la telecamera, costituiscono lo stile “realista” della televisione di Maria De Filippi (non per nulla il genere cui appartiene, oggi dominante nelle televisioni di tutto il mondo, è detto reality) che garantisce a chi guarda la certezza della partecipazione e dell’identificazione. Le classi popolari, che non hanno tempo da perdere a leggersi pallosissimi bildungsroman senza sugo per giungere a quel raffinamento della coscienza necessario a percepirsi come “soggetto fragile”, possono attraverso il tubo catodico fare un corso accelerato di pensiero occidentale, e condensare in un paio d’ore la filosofia del soggetto da Hegel a Heidegger.

Le critiche della borghesia intellettuale Gli stessi motivi che fanno di Maria De Filippi un vero guru delle classi subalterne stanno alla base del disprezzo che verso di lei ostentano i colti, quelli appunto che sono in qualche modo riusciti a incorporare il modello del soggetto fragile per via letteraria o filosofica. Costoro subiscono il gravissimo dispetto di vedersi svelare il trucco sotto il naso, il trucco – si badi bene – fondativo della loro identità. C’è posta per te (ma l’argomentazione si può estendere ai reality show in generale) costituisce infatti l’anello di congiunzione tra L’Ulisse di Joyce e Un posto al sole, svelandone così la comune matrice low concept. Prima del reality i sostenitori della cultura alta (che abbiamo visto essere in effetti low concept) potevano ribadire la distanza del loro modello narrativo dal serial insistendo sulla patemizzazione esasperata di quest’ultimo, che invece non sarebbe presente nei romanzi d’Arte. A parte il fatto che l’argomentazione è alquanto speciosa (che cos’è il flusso di coscienza di Molly se non un effettaccio paragonabile allo slow motion in un film di Zeffirelli?), la messa in scena dei corpi proletari invasi da anime fragili dimostra senza possibilità di smentita che quel soggetto raffinato che si supponeva frutto di un incessante lavorio interiore può esistere anche in contesti del tutto incongrui, vanificando quindi il processo di distinzione. Maria De Filippi quindi è la profetessa della vera laicizzazione della crisi laica del soggetto, la divulgatrice di un modello che era nato per essere elitario. Inevitabile quindi che si attirasse gli strali e gli anatemi di chi di quel modello è vissuto (in senso letterale).

Il mutamento antropologico in corso Ma ci importa poco delle piccinerie invidiose della borghesia, mentre ci sembra più interessante seguire gli sviluppi antropologici e politici di questo modello identitario. Cosa succede cioè nelle pratiche sociali quando il soggetto non è più raccontabile per il suo fare, ma solo definibile per il suo sentire? Quando il narcisistico modello strutturalista (il soggetto è un fascio di relazioni) diviene pratica quotidiana? Cosa succede veramente quando Luisa non è più quella che fa i vestiti, ma la “madre degenere”; Lucio non è più il barbiere ubriacone, ma il “padre in crisi”; Antonella non è più la finta verginella che fa impazzire i tardoni, ma la “ballerina”? Il passaggio da un concetto high (basato sulla narrazione) a uno low (basato sulla definizione) del soggetto occidentale è avvenuto circa duecento anni fa (era già compiuto con Fichte), ma la divulgazione alle masse di questo modello sta avvenendo ora, sotto i nostri occhi. Il revival etnico, la smania delle radici, il culto del farro e della cucina biologica sono le ricadute ideologiche e mercantili più evidenti di questo mutamento ontologico radicale. Se io non sono più quello che sono per quello che faccio, ma per quello che sento e per come mi rappresento di fronte agli altri, se insomma non ha più alcuna importanza

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raccontare chi sono, mentre diventa fondamentale definirmi (gay, skater, trans, pacifista, liberal, scrittore, artista, del Cancro), questo modello identitario veicolato dal piccolo schermo è comunque troppo esile per darmi sicurezza, spingendomi a barattare la mia storia personale (fatta di azioni che sul mercato delle identità non valgono più nulla) con qualche favoletta collettiva (i Celti, gli antenati, le radici). Vi è quindi un’indubitabile consonanza di fini tra reality Tv e revival etnici e localistici, dato che in entrambi i casi i soggetti sono sottratti al loro fare individuale (alienati in un modo che Marx non aveva previsto), disossati come cosce di tacchino, per essere restituiti alla macchina mediatico-produttiva nella totale convinzione che ciò che conta veramente è il “considerarsi” (mi considero un buon padre, mi considero un artista, mi considero un padano). Questa assunzione apparentemente consapevole della propria soggettività ha un effetto destabilizzante proprio in quanto sottrae al modello delle classi la propria naturalità (critica della borghesia). Ma non è in grado di sottrarre i soggetti all’alienazione da sé, dato che sostituisce le narrazioni individuali con una serie di definizioni (c’ho un trauma infantile) pescate più o meno appropriatamente dal mercato della patologia mentale. Se quindi sul piano ideologico il reality show sbugiarda la borghesia e la sua distinzione fasulla, su quello politico la deriva rischia di essere reazionaria. Appena imparano a sentirsi “nuragici in crisi”, anche i minatori sardi perdono nerbo. In un mondo in cui le domande principali non sono più: “Come arrivo a fine mese?” o “Come faccio a conquistarla/o?” ma “Chi sono io, veramente?” e “Come posso superare il mio complesso edipico?”, non rimane molto spazio per progettare (o imporre con la forza) mutamenti strutturali delle condizioni di produzione. La borghesia è in crisi, quindi. Ma non è che le classi subalterne stiano granché meglio. Vorrà dire che ci faremo sopra un bel talk show.

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