Diritto Commerciale Imprenditore

  • April 2020
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DIRITTO COMMERCIALE: ramo del diritto privato costituito da una serie di norme che disciplinano un determinato settore dell’economia. Indica una categoria storica, che a seconda dei luoghi e dei tempi, possono essere attribuiti significati e funzioni diversi. Per regolare tutti i rapporti patrimoniali tra privati, nel DIRITTO ROMANO era posta una disciplina unitaria, perché l’economia (essendo a base essenzialmente agricola) non aveva uno sviluppo tale da richiedere che a determinati rapporti venisse applicata una disciplina differenziata; ma anche nei secoli successivi (malgrado il mercato avesse assunto dimensioni più vaste) la previsione di una disciplina differenziata da quella dello ius civile non si rese necessaria. Alcune esigenze dei traffici tra i diversi popoli unificati nello Stato romano venivano soddisfatte attraverso regole consuetudinarie e prassi di soluzione delle controversie. E’ invece nel BASSO MEDIOEVO (in relazione al decadere delle strutture feudali e al superamento di una economia di pura sussistenza) che nasce come diritto consuetudinario e statutario, una normativa propria a quegli operatori economici (mercanti ed artigiani) che sono gli attori del rinnovamento dell’economia (rinnovamento dovuto alla divisione del lavoro, alla produzione e circolazione di nuovi beni e soddisfazione di nuovi bisogni, al progresso tecnico, all’importanza centrale della moneta come misura dei valori e mezzo di accumulazione). La prevalenza dei diritti reali, diminuisce con lo svilupparsi dell’importanza economica dei diritti di credito: infatti, ad una circolazione di beni presenti, spesso attuata sotto forma di baratto, si affianca e poi prevale la circolazione di beni assenti e spesso futuri e si pongono istituti giuridici... Qui il resto del post volti a garantire la sicurezza della circolazione dei diritti reali e di credito. Il diritto commerciale nasce per rispondere alle esigenze operative di una nuova classe, mercatores, attraverso le consuetudini e gli statuti delle loro associazioni (le corporazioni); i mercanti più ricchi diventano banchieri e comunque finanziano l’attività degli artigiani, che finiscono col dipendere dai mercanti per l’approvvigionamento delle materie prime, per le anticipazioni di capitali, per il collocamento dei prodotti. Nascono così le catene di trasferimenti dei beni e le catene di credito e una serie di istituti volti a razionalizzare l’attività mercantile (scritture contabili e bilanci), ad estenderne le possibilità operative (disciplina degli ausiliari e dei rappresentanti), a rendere conoscibili i dati relativi all’attività degli stessi (pubblicità), ad intervenire globalmente nelle ipotesi di insolvenza, (procedure fallimentari): istituti che costituiscono la regolamentazione giuridica dell’attività mercantile, cioè dell’insieme degli atti dei mercanti. La sfera d’applicazione del diritto commerciale va ampliandosi durante la sua storia, man mano che aumenta il peso economico e l’influenza politica della classe dei mercanti e si affermano le economie dinamiche e di mercato. Si lega strettamente alle vicende politiche, che conducono alla formazione dei grandi Stati moderni, trasformandosi da diritto statutario in diritto statuale, prima applicato da organi giurisdizionali speciali (i tribunali di commercio), poi dagli organi della giurisdizione ordinaria; si pone come diritto al di sopra delle barriere politiche degli Stati. La categoria dei commercianti, dopo la RIVOLUZIONE INDUSTRIALE comprende: 1. i commercianti in senso stretto 2. tutti i produttori di beni tranne gli agricoltori 3. gli industriali (mentre declina la categoria degli artigiani) 4. i produttori di servizi 5. e coloro che si dedicano alla circolazione degli stessi (vettori, assicuratori, banchieri, finanzieri). Il diritto commerciale regola: 1. gli atti compiuti dai commercianti nell’esercizio della loro attività, sia che si tratti di atti compiuti tra due commercianti (atti di commercio bilaterali), sia che si tratti di atti compiuti tra un commerciante e un non commerciante (atti di commercio unilaterali). 2. regola quegli atti, da chiunque compiuti, che per le loro caratteristiche vengono qualificati atti di commercio in senso oggettivo (ad es., compra per rivendere; acquisto di azioni di società commerciali). Prima dell’emanazione del Codice Civile del 21/04/1942, il diritto commerciale regola la grande maggioranza degli atti giuridici che vengono compiuti e le relative conseguenze giuridiche, con conseguente sua prevalenza applicativa sul diritto civile. Esistono quindi due sistemi normativi riunite in due codici separati: il codice civile e il codice di commercio ORDINAMENTO VIGENTE Sul piano formale è in vigore un unico codice di diritto privato (il codice civile del 1942). In questo è

stata soppressa la distinzione tra atti (da cui derivavano rapporti) civili ed atti (da cui derivavano rapporti) commerciali. La conseguenza è che oggi abbiamo UN SISTEMA UNITARIO e i principi prevalsi (e adesso comuni) sono quelli ispiratori delle norme del codice di commercio che sono stati giudicati più idonei, opportunamente aggiornati, a regolare tutti i rapporti di diritto privato nel campo delle obbligazioni (c.d. commercializzazione del diritto privato). Una particolare disciplina è stata posta nello stesso codice civile per alcune attività economiche (le imprese commerciali) la quale si applica solo a coloro che esercitano codeste attività (gli imprenditori commerciali). La ragione di questa disciplina particolare (composta essenzialmente di norme relative alla capacità all’esercizio dell’impresa, alla sua pubblicità, alla rappresentanza, alla tenuta delle scritture contabili, alla soggezione alle procedure esecutive concorsuali) sta nella circostanza che l'esercizio dell’attività imprenditoriale è giudicato indispensabile per l’aumento del reddito nazionale e del tenore di vita della collettività. Gli imprenditori commerciali, appunto perché hanno bisogno di ottenere facilmente la concessione del credito, sono sottoposti ad una disciplina volta essenzialmente: a) a garantire in modo particolarmente efficace i diritti dei loro creditori (il credito tanto più facilmente viene concesso quanto più pronta e sicura è la possibilità di ottenerne la restituzione); b) a favorire comunque la conclusione dei contratti con i terzi che sono posti in grado di conoscerne agevolmente i dati principali, attraverso l’esame di appositi registri pubblici. Occorre individuare la nozione (giuridica) di imprenditore commerciale (che è la fattispecie) a cui quella disciplina si applica. Poiché l'impresa, a sua volta, può essere esercitata in forma collettiva, è bene anche analizzare le società. LE FONTI DEL DIRITTO COMMERCIALE 1) Codice Civile del 21 aprile 1942, specie nel quarto libro (dove sono disciplinati i contratti e i titoli di credito) e nel quinto libro, dove è delineata la figura degli imprenditori commerciali (individuali e sociali) ed è dettata la disciplina particolare a cui essi sono soggetti (c.d. statuto degli imprenditori commerciali). 2) legislazione speciale (sia quella a cui rinvia il codice, sia quella successiva al codice) 3) testi unici che raggruppano e coordinano, diversi codici settoriali (ad es., codice della proprietà industriale, del consumo, delle assicurazioni private) . 4) leggi speciali emanate per dare esecuzione a convenzioni internazionali (leggi in materia di titoli di credito, marchi e privative). 5) disciplina comunitaria in diversi settori (concorrenza e dei segni distintivi, società, attività bancaria e assicurativa, investimenti in strumenti finanziari). IL CONCETTO GIURIDICO DI IMPRENDITORE COMMERCIALE. Quattro disposizioni fondamentali hanno operato i criteri per la distinzione: 1) concetto generale di imprenditore in senso giuridico (art. 2082); 2) le figure del piccolo imprenditore (art. 2083); 3) imprenditore agricolo (art. 2135); 4) nell’art. 2195 si sono elencate le categorie di tutti gli altri imprenditori che, non essendo né piccoli imprenditori né imprenditori agricoli, sono sottoposti all’obbligo della pubblicità mediante l’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese, perché evidentemente sono considerati imprenditori commerciali in senso giuridico. L’IMPRENDITORE IN GENERALE (art.2082) L’art. 2082, fissa i requisiti normativi indispensabili per individuare la nozione giuridica di imprenditore in generale. DALLA DEFINIZIONE EMERGE: a) che vi è impresa quando vi è esercizio di una attività, la quale è un insieme di atti che, come insieme (come impresa) importano che chi li esercita sia inoltre soggetto ad una distinta disciplina particolare (lo statuto dell’imprenditore); b) che l'attività deve essere economica, cioè diretta a produrre beni, servizi (ad es. spettacolo, custodia, trasporto) o a scambiare beni o servizi già prodotti da altri; c) che l'attività economica deve essere esercitata professionalmente, cioè in modo abituale (non esclusiva e senza interruzioni né principale rispetto ad altre) ma che non sia occasionale o transitoria e quindi realizzi una certa durata (anche chi svolge un’attività secondaria e stagionale: ad es. è imprenditore commerciale un insegnante che in estate gestiva un albergo in una località turistica); d) che l'attività deve essere organizzata: i caratteri dell’organizzazione non sono però indicati dal legislatore. Per accordo diffuso, comunque, coloro che producono beni o servizi col solo lavoro personale (e quindi senza fare ricorso al lavoro altrui) adoperando beni strumentali di modestissimo valore (portabagagli o lustrascarpe) non possono essere qualificati

imprenditori, neppure piccoli, ma lavoratori autonomi. Più importante è stabilire se sia imprenditore commerciale chi, nelle stesse condizioni fa circolare beni o servizi di rilevante valore (chi acquista e vende sistematicamente azioni di società quotate in borsa per speculare sulle differenze di prezzi): la soluzione positiva è da preferire. e) il fine ultimo dell’attività di produzione dev’essere la destinazione al mercato, e non esclusivamente al consumo personale dello stesso produttore, dei beni o dei servizi prodotti (questo requisito non risulta espressamente dall’art. 2082). Non è pertanto imprenditore chi coltiva un fondo per ottenere dei prodotti agricoli da consumare in famiglia o chi costruisce la propria casa d’abitazione; produce invece per il mercato anche colui che destina abitualmente la propria produzione ad altro acquirente. f) è tuttora controverso se sia inoltre richiesto lo scopo di lucro, cioè l'intento (che poi nella realtà si può raggiungere o meno) di ottenere dei ricavi che superino i costi e quindi consentano la realizzazione di un guadagno. La risposta positiva appare prevalente. Però a quell’espressione si attribuiscono significati differenti: · alle imprese cooperative vi è chi ritiene che è sufficiente che si consegua un vantaggio patrimoniale ; · alle imprese esercitate dallo Stato o da altri enti pubblici (imprese che spesso perseguono fini sociali), vi è chi ritiene che lo scopo di lucro si traduce in un criterio di obiettiva economicità (attività economica astrattamente idonea a coprire i costi di produzione); g) anche controverso è se l’attività economica debba essere lecita. NON SONO CONSIDERATI IMPRENDITORI Malgrado la presenza di tutti i requisiti suddetti, dal codice non sono tuttavia considerati imprenditori (e non sono quindi soggetti al corrispondente statuto) coloro che esercitano una professione intellettuale (ad es., medici, avvocati). Secondo però la DISCIPLINA COMUNITARIA l’attività economica esercitata dai professionisti intellettuali costituisce invece attività d’impresa, ma i professionisti, anche se vengono qualificati imprenditori non sono imprenditori commerciali e quindi non sono integralmente soggetti al corrispondente statuto delle attività commerciali (es., non sono soggetti a fallimento). Anche i professionisti diventano però imprenditori commerciali, quando producono un servizio più ampio (medico che gestisce una casa di cura). L'IMPRENDITORE AGRICOLO Nell’ambito della nozione di imprenditore dell’art.2082 sono comprese due sole figure: gli imprenditori agricoli (art. 2135 – vedi definizione) e gli imprenditori commerciali (art. 2195 – vedi definizione). Nel nuovo testo dell'art. 2135, il quale ammette che chi svolge una delle tre attività fondamentali rimane imprenditore agricolo anche se svolge altre attività (ritenute connesse a quelle fondamentali) «dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione» dei propri prodotti agricoli (anche assieme a prodotti agricoli di terzi, purché quelli propri siano di misura prevalente). Gli imprenditori agricoli devono iscriversi nella sezione speciale del registro delle imprese (funzione anagrafica ed anche funzione di pubblicità dichiarativa (art. 2 D.lgs. 228/2001 analoga a quella prevista per gli I. commerciali). La legislazione attuale risente dell’esigenza di contrastare l’abbandono delle campagne, specie da parte dei giovani; di qui, la modifica delle disposizioni dell’art.2135, ampliando la figura dell’imprenditore agricolo, e sottraendolo ai rischi (soggezione al fallimento) tipici dell’imprenditore commerciale. Allo scopo di agevolare lo sviluppo delle attività agricole, sovente soccorrono agevolazioni fiscali e contributi pubblici, anche comunitari, comunque riconosciuti agli imprenditori agricoli professionali (IAP). L'IMPRENDITORE COMMERCIALE (art.2195) - Sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nella sezione ordinaria (commerciale) del registro delle imprese (e quindi sono imprenditori commerciali) coloro che rientrano nell’art. 2195 (vedi definizioni). Secondo l’orientamento prevalente nella giurisprudenza: l’art. 2195 in effetti non fornisce nessuna nozione positiva della impresa commerciale. Sul piano interpretativo occorre preliminarmente accertare se chi la esercita è imprenditore agricolo secondo i criteri posti nell’art. 2135; chi non lo è, dev’essere necessariamente Imprenditore commerciale e soggetto al corrispondente statuto professionale. IL PICCOLO IMPRENDITORE (art.2083 – 2202 – 2214 - 2221) – E’ colui che esercita l’attività di impresa con prevalenza del lavoro proprio o della propria famiglia sia sul lavoro altrui, sia sul capitale investito. In particolare sono piccoli imprenditori (in situazione di prevalenza) - i coltivatori diretti del fondo, gli

artigiani e i piccoli commercianti. Non sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese (art. 2202); non devono tenere le scritture contabili indicate negli art. 2214 ss.; non sono soggetti al fallimento e alle altre procedure espropriative concorsuali (art. 1 Legge Fallimentare). Sono considerati piccoli imprenditori commerciali, e quindi esclusi dal fallimento, gli imprenditori individuali o collettivi che hanno effettuato investimenti aziendali per un capitale di valore non superiore a trecentomila euro o hanno realizzato nell’ultimo triennio una media di ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a duecentomila euro. Se hanno superato uno di tali limiti devono dimostrare la prevalenza del loro lavoro nell’impresa. È la stessa legislazione speciale, a determinare il concetto di piccole o medie imprese. L’IMPRENDITORE ARTIGIANO (art. 2083). La soluzione codicistica appare confermata dalla Legge n.443/85 (legge-quadro per l'artigianato) che lo definisce (art.2) come ”colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l'impresa artigiana... svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo». L'art. 3 della Legge n.443/85 definisce artigiana l'impresa che ha per scopo prevalente lo svolgimento di un'attività di produzione di beni, anche semilavorati o anche prodotti in serie, purché il processo produttivo non sia del tutto automatizzato; o anche lo svolgimento di un'attività di prestazioni di servizi, con esclusione delle attività di intermediazione nella circolazione dei beni. L'art. 4 indica il numero massimo di dipendenti, variabile a seconda delle modalità di produzione o del settore di attività, che può essere impiegato nell'impresa (senza che ne venga meno la natura) artigiana. Ne consegue che l'impresa artigiana rimane sempre piccola impresa, pur raggiungendo certe dimensioni, nell’operatività dei seguenti limiti: a) sul piano del numero dei dipendenti, rispetto al quale operano due limiti, quello derivante dall’esigenza che gli stessi siano tutti guidati e diretti dall’imprenditore (art. 4 comma 1, Legge n.443/85), e quello derivante dalla fissazione del numero massimo variabile. b) sul piano degli investimenti di capitali fissi, per la necessità che si usi un processo produttivo non del tutto meccanizzato e dove è determinante la mancanza di autonomia del lavoro dei dipendenti rispetto a quello dell’imprenditore, considerato prevalente. La Legge 443/1985 considera artigiana, anche l’impresa svolta nelle forme delle società di persone e, tra le società di capitali, di quelle a responsabilità limitata (con esclusione, quindi, delle società per azioni o in accomandita per azioni) ma sempre con prevalenza del lavoro personale nel processo produttivo e che nell’impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale. L’impresa artigiana può svolgersi in luogo fisso, presso l’abitazione dell’artigiano o di uno dei soci, o in appositi locali o in altra sede designata dal oppure in forma ambulante o di posteggio. In ogni caso, l'artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana (art. 3 comma 3, Legge n.443/85). Con riguardo alla soggezione al fallimento dell’artigiano operano i criteri posti nella legge fallimentare in relazione al piccolo imprenditore commerciale. L’IMPRESA FAMILIARE (art.230/bis) E’ una figura introdotta dalla legge di riforma del diritto di famiglia (art. 89 Legge 19/05/1975 n.151 ed art. 230/bis cod. civ.). Presupposto positivo: il legame di parentela o di affinità. Condizione negativa: tra le parti non sia configurabile un diverso rapporto giuridico; anche persone non familiari possono prestare il loro lavoro nell’impresa familiare, ma perché questa rimanga tale occorre che l'attività degli estranei sia prestata in qualità di lavoratori subordinati. L’opinione prevalente: impresa individuale (di cui è titolare uno dei familiari: ad es., il padre). Non sembra invece che si possa trattare di un’impresa sociale (ad es., di entrambi i coniugi), a causa della incompatibilità tra la disciplina delle società di qualsiasi tipo e la disciplina dell’impresa familiare. Disciplina. Per la costituzione dell’impresa familiare non è richiesto alcun negozio giuridico (atto costitutivo): appare sufficiente che almeno uno dei familiari eserciti un’impresa (anche a mezzo di un’azienda propria), ove prestino in modo continuativo la loro attività lavorativa anche gli altri familiari, che possono entrarvi a farne parte anche dopo l'inizio dell’impresa. All’impresa familiare possono partecipare anche i minori di età. Una delle principali ragioni per cui è stata introdotta nel codice la figura dell’impresa familiare sta nell’esigenza di assicurare ai familiari (lavoratori) una partecipazione «agli utili dell’impresa ed ai beni

acquistati (art. 230/bis comma 1). In quanto alla amministrazione dell'impresa, è disposto che «le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano» all'impresa familiare. Manca ogni norma intorno alla responsabilità per le obbligazioni dell'impresa, e circa la soggezione al fallimento (secondo la giurisprudenza, sull'idea che si tratta di una impresa individuale, soggetto al fallimento è solo il titolare dell'impresa familiare, e non gli altri partecipanti: Cass. 27 giugno 1990 n. 6559). L’IMPRESA PUBBLICA (art. 41, 43 Cost.) - L’impresa può essere esercitata anche dallo Stato o da altri enti pubblici. L’intervento pubblico nell’economia può assumere forme diverse a seconda degli elementi adottati: A. l'attività commerciale può essere esercitata direttamente dallo Stato o da un altro ente pubblico territoriale (regione, provincia, comune) mediante apposite aziende distinte solo sul piano amministrativo; B. può essere esercitata da un ente pubblico c.d. economico, cioè da un ente che ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di una attività commerciale; C. lo Stato e gli altri enti pubblici possono partecipare come soci a società commerciali, in genere società per azioni. La scelta dell’uno o dell’altro strumento dipende da molteplici fattori, non solo economici ma anche politici (negli ultimi decenni: Ferrovie dello Stato; Ente Nazionale Energia Elettrica). Ma all’inizio degli anni novanta si è proceduto alla loro «ristrutturazione» in società per azioni, alle quali lo Stato, e talvolta anche altri soggetti pubblici, partecipano come soci (solitamente) di maggioranza, e alle quali possono partecipare, anch’essi come soci, soggetti privati in grado di apportare ulteriori capitali per l'esercizio e lo sviluppo delle relative attività imprenditoriali. Rilevanza sul piano giuridico: sia per quanto riguarda il potere dello Stato o dell’ente amministrativo di «dirigere» l'attività imprenditoriale; sia per quanto riguarda l'applicazione del particolare statuto (di diritto privato) dell’impresa commerciale. Nell’ipotesi sub C: questo statuto trova integrale applicazione anche quando le azioni della società appartengono tutte all’ente pubblico (tale circostanza non incide sulla natura dell’impresa che formalmente rimane privata). Nell’ipotesi sub B: lo stesso statuto si applica quasi integralmente: agli enti pubblici economici (art. 2093 comma 1 e art. 2201). Questi enti non sono però soggetti al fallimento (art. 2221 cod. civ. e art.11 Legge fallimentare). Nell’ipotesi sub A: infine, lo statuto dell’impresa commerciale - con esclusione, in ogni caso, del fallimento - trova applicazione «limitatamente alle imprese» esercitate dallo Stato o dagli altri enti pubblici territoriali (art. 2093 comma 2). ACQUISTO E LA PERDITA DELLA QUALITÀ DI IMPRENDITORE COMMERCIALE – L’IMPRENDITORE OCCULTO Per diventare imprenditore commerciale basta iniziare l'esercizio di un’impresa commerciale. È sicuro che diventa imprenditore colui nel cui nome l'impresa viene esercitata. È invece controverso se lo diventi anche colui nel cui interesse l'impresa è esercitata da un prestanome: coloro che risolvono positivamente detto problema assumono che nel nostro ordinamento non è richiesta la SPENDITA DEL NOME per l'imputazione dell’attività d’impresa, e che pertanto il dominus, anche se ignoto ai terzi, è egualmente responsabile nei loro confronti per l'attività commerciale svolta dal prestanome; di conseguenza lo qualificano imprenditore occulto e perciò - in caso di insolvenza - soggetto al fallimento assieme al prestanome. L’Imprenditore commerciale deve iscriversi nella sezione ordinaria del registro delle imprese: se non lo fa, viola un obbligo e perciò incorre in una sanzione amministrativa, ma diventa egualmente imprenditore commerciale; viceversa, se viene iscritto nella sezione ordinaria (commerciale) del registro delle imprese senza esercitare effettivamente un’attività commerciale, non diventa imprenditore commerciale. SI PERDE tale qualità quando si cessa dall’esercitare effettivamente un’impresa commerciale. CONSEGUENZE GIURIDICHE: il fallimento può essere dichiarato fino ad un anno dalla cancellazione dell’imprenditore dal registro delle imprese o, se anteriore alla cancellazione, dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa. GLI IMPEDIMENTI ALL’ESERCIZIO DELL’IMPRESA COMMERCIALE Per ragioni di incompatibilità : - A determinate professioni (notai; avvocati; impiegati dello Stato): se tuttavia essi violano detto divieto, diventano egualmente imprenditori commerciali MA sono sottoposti a sanzioni amministrative e ad aggravamento

delle sanzioni penali nell’ipotesi in cui falliscano e siano colpevoli di bancarotta (art. 219 cpv. Legge fallimentare). - Ad alcune categorie di imprese (ad es., bancarie, di assicurazioni) senza avere ottenuto le prescritte autorizzazioni amministrative. - A coloro che sono condannati per bancarotta o per ricorso abusivo al credito (art. 216 ss. Legge fallimentare): tale divieto ha però durata temporanea e la sua trasgressione è punita con una sanzione penale (art. 234 Legge fallimentare); inoltre ai falliti, e ai soggetti sottoposti a particolari misure di prevenzione o condannati per particolari reati. LA CAPACITA’ AD ESERCITARE UN’IMPRESA COMMERCIALE Sono dettate disposizioni particolari a tutela del patrimonio dell’incapace, e quindi nel suo interesse: per cui se l'impresa viene esercitata senza osservarle, l'incapace non diventa imprenditore commerciale e perciò non è soggetto al corrispondente statuto professionale. DUE NOZIONI: 1) i rappresentanti legali (genitore esercente la potestà o tutore) degli INCAPACI ASSOLUTI (minori ed interdetti) non possono validamente compiere, in nome e per conto dell’incapace, atti di straordinaria amministrazione, se non dopo autorizzazione dell’autorità giudiziaria, la quale abbia accertato che si tratta di atti di necessità o di utilità evidente per l'incapace (art. 320 comma 5 – art. 371 comma 2 – art. 424); 2) gli INCAPACI RELATIVI (art. 397 – 425) (minori emancipati e inabilitati) possono personalmente compiere atti di straordinaria amministrazione col consenso del curatore e, di solito, dopo autorizzazione dell’autorità giudiziaria che (anche qui) ne abbia accertato la necessità o l'utilità evidente. Codesta disciplina (che richiede di volta in volta l’autorizzazione per ciascun atto) non è evidentemente conciliabile con le esigenze poste dall’esercizio di una attività commerciale. Di regola non è consentito che vengano esercitate imprese commerciali dall’incapace relativo o dai rappresentanti dell’incapace assoluto in nome e per conto dell’incapace stesso. DUE ECCEZIONI: 1. esigenza di evitare all’incapace assoluto i danni che potrebbero derivargli (qualora gli fosse inderogabilmente vietato l’esercizio dell’impresa) dall’essere costretto a trasferire ad altri un’azienda commerciale pervenutagli a titolo gratuito (per successione o donazione): in questa ipotesi il rappresentante legale (genitore o tutore) può essere autorizzato dal tribunale, che lo reputi conveniente per l'incapace, a continuare l’attività imprenditoriale (e quindi non occorreranno singole autorizzazioni per ciascun atto), in nome e per conto dello stesso incapace (art. 320 comma 5, art.371 comma 2, art. 424). Per l'interdetto questa disciplina vale anche quando sia opportuno continuare un’impresa che egli aveva iniziato prima dell’interdizione. Nelle stesse ipotesi, l'inabilitato può essere autorizzato dal tribunale a continuare, con l'assistenza del curatore, l’impresa commerciale (art: 425: in questo caso l'autorizzazione può però essere subordinata alla nomina di un institore). La norma deve ritenersi estensibile per analogia all’emancipato. 2. il minore emancipato, (il matrimonio costituisce ormai la sola ipotesi di emancipazione del minore ammessa nel nostro ordinamento: art.390) può essere autorizzato dal tribunale non solo a continuare, ma anche ad iniziare una impresa commerciale senza l'assistenza del curatore (art. 397); e in tal caso egli acquista la piena capacità di agire, potendo compiere da solo qualsiasi atto di straordinaria amministrazione (eccettuate le donazioni: art. 774 cpv.), anche se estraneo all’esercizio dell’impresa. Si prevede espressamente il potere del tribunale di revocare, d’ufficio o su istanza del curatore, l'autorizzazione data all’emancipato per l'inizio dell’impresa commerciale (art. 397 comma 2) ed anche le autorizzazioni alla continuazione dell’impresa commerciale. Tutti questi atti di autorizzazione all’esercizio della impresa commerciale, nonché la revoca dell’autorizzazione all’emancipato, devono essere iscritti nel registro delle imprese (art. 2198). PUBBLICITÀ MEDIANTE IL REGISTRO DELLE IMPRESE (art.2188) La legge vuole che chiunque ne ha interesse abbia la possibilità di conoscere facilmente i dati principali relativi alle imprese che esercitano la loro attività nel nostro paese. Per raggiungere tale scopo opera un sistema di pubblicità imperniato sulla costituzione di un registro, denominato registro delle imprese (art.2188). L’ufficio del registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia presso la camera di commercio (art. 8 comma 1 della Legge 29/12/1993 n. 580). Il registro è diviso in due sezioni principali, una ordinaria e l’altra speciale. Nella SEZIONE ORDINARIA sono iscritti gli imprenditori

commerciali, individuali e sociali; i consorzi e le società consortili; i gruppi europei di interesse economico; gli enti pubblici economici, le società estere che hanno in Italia la sede dell’amministrazione ovvero l'oggetto principale della loro attività (art. 7 comma 2 del D.P.R. 07/12/1995 n.581). Nella SEZIONE SPECIALE sono iscritti gli imprenditori agricoli, i piccoli imprenditori e le società semplici: vi vengono annotati anché gli artigiani; seppure iscritti nell’albo provinciale delle imprese artigiane (art. 13 Legge 443/1985). I dati da iscrivere sono quelli del art. 2196 e nell’art. 18 D.P.R. n.581/1995. Le imprese sociali devono chiedere l’iscrizione dell’atto costitutivo e delle successive modifiche. Gli atti da iscrivere nel registro devono essere depositati in forma autentica (art. 11 D.P.R. n.581/1995). Prima di procedere all’iscrizione, l'ufficio del registro deve accertare che sussistono le condizioni richieste dalla legge (art. 2189 comma 2 e 3; iscrizione obbligatoria/d’ufficio (art.2190) poi art.2191 , art.2192, art.2193, art.2194, art.2199). Tranne che per gli imprenditori agricoli, l'iscrizione nella sezione speciale ha invece solo una funzione di- pubblicità-notizia, nel senso che consente ai terzi di prendere cognizione dei dati pubblicati, senza che l'omissione della registrazione glieli renda però inopponibili. L’iscrizione ha inoltre anche una funzione di certificazione anagrafica (cioè, di documentazione e di individuazione delle imprese iscritte in un registro pubblico). Il registro delle imprese, tenuto (e consultabile) con tecniche informatiche, è pubblico (art.2188). Ciascun ufficio rilascia, anche per corrispondenza o con tecniche telematiche, a chiunque ne faccia richiesta, certificati e copie tratti dai propri archivi informatici (art. 8 comma 6 e 8 Legge 580/1993; art. 24 comma 3 D.P.R. 07/12/1995 n.581). OBBLIGO DI DOCUMENTAZIONE DELLE OPERAZIONI D’IMPRESA: CORRISPONDENZA E SCRITTURE CONTABILI (art. 2214 – 2216 – 2217 – 2215 – 2219 – 2220 – 2709 – 2711 – 2710) L’imprenditore commerciale deve compilare e conservare tutti i documenti necessari perché, sia egli stesso che gli altri, ed in particolare gli organi giurisdizionali, possano rendersi conto delle operazioni compiute e dei risultati delle stesse. Attraverso la contabilità si può in ogni momento fare il punto sull’attività già svolta, indagare sulle cause dei risultati positivi o negativi, correggere gli errori d’impostazione compiuti e programmare l'attività futura. L’imprenditore ha quindi interesse alla tenuta della contabilità e l'obbligo in tal senso impostogli e le relative sanzioni hanno soprattutto lo scopo di spingerlo alla tenuta di una contabilità regolare. Detti documenti possono distinguersi in due grandi categorie: a) corrispondenza à l'imprenditore commerciale deve conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite (art. 2214 comma 2) b) scritture contabili art. 2214 comma 1 à si dividono ulteriormente in: o libro giornale, nel quale l'imprenditore deve indicare giorno per giorno le operazioni d'impresa (art. 2214 comma 1, art. 2216); o libro degli inventari à in cui all'inizio dell'impresa e dopo ogni anno di esercizio l'imprenditore deve elencare gli elementi attivi e passivi (cioè: diritti ed obblighi) del suo patrimonio compresi i rapporti estranei all'impresa, determinandone il valore (inventario); all'inventario devono seguire lo stato patrimoniale (il quale riassume in grandi categorie le attività e le passività relative alla sola impresa, esposte analiticamente nell'inventario, e presenta quindi un quadro della situazione patrimoniale dell'impresa) ed il conto economico (nel quale devono essere esposti con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite subite nell'esercizio: art. 2217 commi 1 e 2): stato patrimoniale e conto economico costituiscono il bilancio d'esercizio; c) altre scritture contabili richieste dalla natura e dimensioni dell’impresa (art.2214 comma 2) à (scritture relativamente obbligatorie); è la stessa legge che stabilisce l’obbligo della tenuta di determinate scritture in relazione alla natura societaria dell'impresa o al tipo di attività esercitata (ad es.; imprese di assicurazione); è viceversa la prassi che finisce con lo stabilire altre scritture relativamente obbligatorie in relazione all'oggetto dell'impresa o alle sue dimensioni; Per garantire la maggiore veridicità possibile delle scritture contabili; è stabilito: a) il libro giornale e il libro degli inventari, prima di essere messi in uso, devono essere numerati progressivamente in ogni pagina; quando si tratta di scritture contabili che secondo le leggi speciali devono essere bollate (in ogni foglio) o vidimate dall'ufficio del

registro delle imprese o da un notaio, questi devono dichiarare nell'ultima pagina il numero dei fogli che le compongono (formalità estrinseche iniziali) (art. 2215); b) il libro degli inventari deve essere annualmente sottoscritto dall'imprenditore (art. 2217); c) tutte le scritture devono essere tenute secondo le regole di un'ordinata contabilità, senza spazi in bianco, senza interlinee e senza trasporti in margine; non si possono fare abrasioni e, se è necessaria qualche cancellazione, questa deve eseguirsi in modo che la parole cancellate siano leggibili (formalità intrinseche) (art. 2219). La corrispondenza e le scritture contabili devono essere conservate per dieci anni (art. 2220 commi 1 e 2). La conservazione può anche avvenire «sotto forma di registrazioni su supporti di immagine» (art. 2220 comma 3), e quindi anche con riproduzioni informatiche. Se il commerciante non tiene le scritture contabili obbligatorie o le tiene irregolarmente, in caso d'insolvenza non può essere ammesso al concordato preventivo e, dichiarato fallito, è punito per il reato di bancarotta semplice. Contro l'imprenditore le scritture, anche se tenute irregolarmente, hanno valore di prova piena (art. 2709: si tratta di una presunzione semplice, che l'imprenditore può superare fornendo la prova contraria). Perché le scritture possano fare prova contro l'imprenditore, occorre ottenerne la produzione in giudizio. Se ne può pretendere la comunicazione o l'esibizione (art.2711); la comunicazione integrale può essere chiesta al giudice solo in tre casi, e cioè quando si tratta di controversie relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni e alla successione ereditaria; negli altri casi il giudice può ordinare, anche d'ufficio, l'esibizione di singole scritture contabili o anche di tutti i libri, ma in quest'ultimo caso solo per estrarne le registrazioni concernenti la controversia. Costituisce un'eccezione ai principi che le scritture, quantunque predisposte dallo stesso imprenditore, possano fare prova a suo favore. Non si tratta però di prova piena (la valutazione del valore della prova è infatti rimessa all'apprezzamento del giudice), ed inoltre è subordinata alle seguenti condizioni (art. 2710): a) che i libri siano regolarmente tenuti; b) che si tratti di rapporti tra imprenditori commerciali; c) che si tratti di rapporti derivanti per entrambi gli imprenditori dall'esercizio della loro impresa. SOTTOPOSIZIONE ALLE PROCEDURE CONCORSUALI L’imprenditore commerciale, che si trovi in stato di insolvenza (cioè, che non sia in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni secondo la definizione dell’art. 5 Legge Fallimentare) è soggetto al fallimento (art. 2221), procedura che ha lo scopo principale di alienare tutti i beni dell’imprenditore (preservando, per quanto possibile, l'unità del complesso aziendale) per soddisfare mediante il ricavato dell’espropriazione tutti i suoi creditori con il rispetto dell’ordine di graduazione dei crediti e garantendo la parità di trattamento di quelli chirografari; ovvero è soggetto, nel ricorso di determinati presupposti dimensionali, alla c.d. amministrazione straordinaria (D.Lgs 08/07/1999 n.270), procedura che ha lo scopo principale di consentire il recupero dell’equilibrio economico dell’impresa, così perseguendo anche il soddisfacimento dei creditori. DISCIPLINA DI TUTELA DEI CONSUMATORI. SICUREZZA DEI PRODOTTI E RESPONSABILITÀ DEL PRODUTTORE Lo statuto dell’imprenditore commerciale, ampiamente modificato negli anni, è stato anche integrato da una normativa di origine comunitaria, che ha imposto ulteriori obblighi di comportamento soprattutto agli imprenditori commerciali, per la protezione dei consumatori e degli utenti, per tali intendendo «le persone fisiche che agiscono per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta». Costoro, appunto perché privi di specifiche competenze professionali per valutare le caratteristiche dei prodotti e dei servizi che hanno intenzione o necessità di acquisire, sono considerate persone particolarmente vulnerabili, e quindi bisognose di una particolare protezione giuridica. Pertanto, in attuazione dell’art. 153 del Trattato della Comunità europea, è stata introdotta anche nel nostro ordinamento nazionale una normativa particolare diretta ad «assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti» ed a riconoscergli tra altri «come fondamentali i diritti: alla tutela della salute; alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi; ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità; all’educazione al consumo; alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali» (art. 1 e 2 D.Lgs 06/09/2005 n.206). In questo codice

settoriale (codice del Consumo) si prevedono controlli amministrativi e sanzioni anche penali per coloro che violano l'obbligo di immettere nel mercato prodotti sicuri ed è prevista una particolare ipotesi di responsabilità extracontrattuale a carico degli imprenditori che producono beni mobili (art. 2195 comma 1) anche se destinati ad essere distribuiti tra il pubblico dei consumatori tramite l'attività di altri imprenditori commerciali che svolgono attività intermediaria nella circolazione dei beni (art. 2195 n. 2: si tratta dei c.d. fornitori). Nelle economie industrializzate, la disciplina giuridica non è sempre adeguata a tutelare gli interessi dei consumatori e il consumatore non ha di solito un rapporto contrattuale con il produttore e quindi, se l'uso del prodotto ha cagionato danni a persone o cose, non ha azione di rivalsa nei suoi confronti (sia il consumatore che il danneggiato potrebbero esercitare contro il produttore l'azione aquiliana di diritto comune, ma si tratta di azione di applicazione non agevole). Pertanto, «il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto» (art. 114 cod.cons.). Pertanto per la RESPONSABILITA’ del produttore (imprenditore commerciale o anche agricolo) nel codice del consumo si ha che: 1) sono prodotti tutti i beni mobili (anche se incorporati in altri beni, mobili o immobili), compresi quelli agricoli (anche trasformati; possono anche esservi state aggiunte sostanze (ad es. conservanti). È considerato prodotto anche l'energia elettrica (art. 115 comma 2); 2) sono qualificati produttori, oltre i fabbricanti del prodotto, anche i rappresentanti dei fabbricanti se questi ultimi non sono stabiliti nella Comunità, e, in mancanza di rappresentanti, gli importatori del prodotto; inoltre, coloro che si presentano come fabbricanti contrassegnando i prodotti con l’apposizione del proprio nome, marchio o altro segno distintivo: infine «gli altri operatori professionali della catena di commercializzazione nella misura in cui la loro attività possa incidere sulle caratteristiche di sicurezza dei prodotti» (art. 103 comma 1 lettera d); 3) è difettoso il prodotto che non offre la sicurezza dell’uso al quale può essere ragionevolmente destinato (art. 117 comma 1). Il produttore deve risarcire i danni provocati dall’uso del prodotto difettoso, se il danneggiato adempie all’onere di provare il difetto del prodotto e il nesso di causalità tra difetto e danno (se più persone sono responsabili del danno, tutti sono obbligati in solido al risarcimento: art. 120 e 121). A sua volta, il produttore, per non rispondere del danno, ha l’onere di dimostrare l'esistenza di una delle cause di esclusione della propria responsabilità ammesse dalla legge (ad es., che il difetto non esisteva quando il prodotto è stato messo in circolazione: art. 118). Sono risarcibili i danni alle persone (per morte o per lesioni personali), ed i danni conseguenti a distruzione o a deterioramento cagionati, in conseguenza dell’uso del prodotto difettoso. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in tre anni che decorrono dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del responsabile (art.125). Quando il produttore non è individuato, è sottoposto alla stessa responsabilità il fornitore che ha distribuito il prodotto. AZIENDA (art. 2555) Per esercitare l’impresa è necessario poter disporre di un complesso di beni e di servizi (tra questi assume posizione rilevante l'attività dei prestatori d’opera): infatti, se si esercita un’attività di produzione senza questo complesso o con un complesso di minima importanza, manca l’organizzazione e quindi, ai sensi dell’art. 2082, non vi è impresa. Questo complesso viene denominato azienda nell’art. 2555, il quale peraltro fa riferimento a un complesso di soli beni, tacendo dei servizi, con una descrizione della fattispecie incompleta rispetto alla realtà effettivamente regolata; infatti la disciplina in tema di azienda, è intesa a proteggere entro certi limiti l’unità economica del complesso, la quale, in relazione alla sua funzionalità all’esercizio dell’impresa esige anche i servizi. L’unità economica dell’azienda si ritrova infatti sotto due profili: - quello di servire alla produzione; - quello della realizzazione del profitto. Impresa ed azienda, non costituiscono termini sinonimi: -il concetto d’impresa, nel senso che si riferisce all’attività dell'imprenditore (art. 2082) - (piano soggettivo); -il concetto di azienda, nel senso che costituisce lo strumento per l'esercizio di quella attività (art. 2555) - (piano oggettivo). COSTITUZIONE – ORGANIZZAZIONE DI AZIENDA Per costituire l'azienda non solo si usano beni e servizi, ma di solito anche i beni mobili e immobili, materiali ed immateriali, fungibili ed infungibili,

consumabili es: per produrre automobili, ad es. è necessario disporre di edifici, macchinari, materie prime, idee inventive, moneta (l'insieme di tutti questi elementi costituisce un’azienda automobilistica). Ugualmente vari possono essere i diritti in forza dei quali l'imprenditore gode degli elementi dell’azienda (diritti aziendali): così, dei macchinari egli può essere proprietario o usufruttuario o locatario. Non vi è concordia tra gli interpreti, che per iniziare l'impresa sia necessario iniziare il collocamento dei beni o servizi presso i consumatori. Anche i rapporti coi consumatori importando movimento e rinnovamento negli elementi aziendali, incidono sulla composizione dell'azienda, mentre tutti gli elementi aziendali (anche quelli c.d. fissi) sono soggetti a necessità di sostituzione per logorio fisico e soprattutto per logorio economico. CLIENTELA à Per conseguire gli scopi finali dell’impresa è importante la conquista e la conservazione di un certo flusso di domanda (che poi diventa clientela) della convenienza di acquistare beni o servizi presso l’impresa. AVVIAMENTO à E’ la capacità dell’impresa di conseguire profitto: si può fare riferimento al profitto passato, con constatazione retrospettiva; ma di solito dalla previsione di capacità future di profitto dipende il valore dell’azienda. Infatti l’avviamento è la differenza tra il valore dell’azienda calcolato in base all’avviamento imputabile all’azienda ed il valore di investimento apportato. Rapporti tra azienda, clientela ed avviamento: a) la disciplina dettata per l’azienda presuppone un complesso (appunto l’azienda) che sia dotato non solo di funzionalità alla produzione, ma anche di clientela; b) clientela ed avviamento si riferiscono a una realtà più complessa (imprenditore/azienda) nell’esercizio dell’impresa. Una ulteriore distinzione: - avviamento o clientela oggettivi : rappresentano l’aliquota di profitto realizzata per le qualità di alcuni elementi aziendali (ad es., lo sfruttamento di un brevetto, della posizione di un locale) - avviamento o clientela soggettivi: rappresentano l’aliquota di profitto realizzata per le capacità e i rapporti personali dell’imprenditore. CONSERVAZIONE DELL’AZIENDA La disciplina dell’azienda mira a favorire la conservazione dell’unità economica e quindi del valore dell'avviamento. Il relativo interesse (alla permanenza dell’azienda) è andato gradatamente aumentando d’importanza nel passaggio da una economia di capitalismo iniziale (con prevalenza di aziende commerciali e di piccole aziende) ad un’economia di capitalismo avanzato (con prevalenza di aziende industriali e di grandi aziende), nella quale esistono molte aziende con investimenti di grandi capitali con molti posti di lavoro, che andrebbero in gran parte dispersi o perduti nell’ipotesi di dissoluzione dell’azienda (es.Fiat,Telecom). L’interesse alla conservazione dell’azienda può essere difeso: 1) sia ostacolandone la dissoluzione da parte di coloro che secondo le regole generali ne avrebbero il potere; 2) sia favorendo la circolazione dell’azienda come complesso unitario. SOTTO IL PRIMO DEI DUE PROFILI, l’esigenza di ostacolare la dissoluzione dell’azienda è stata affrontata: a. sul piano giurisprudenziale si è dato un particolare valore significativo all’insolvenza solo a quelle esecuzioni singolari che hanno ad oggetto il capitale fisso; b. sul piano normativo favorendo (nella gestione del fallimento) la conservazione del azienda attraverso la prosecuzione dell’esercizio (ed anche le norme c.d. di tutela dell’avviamento commerciale: 1. per facilitare all’imprenditore la conservazione dell’immobile adibito all’esercizio di attività «industriali, commerciali e artigianali» 2. per assicurare all’imprenditore, in caso di perdita dell’immobile cui consegua la perdita di clientela, un indennizzo a carico del locatore L.392/78). c. nella legislazione della crisi delle grandi imprese insolventi, ammesse a procedure di amministrazione straordinaria quando ne è possibile il recupero dell’equilibrio economico, così perseguendo anche la conservazione dell’ occupazione. SOTTO IL SECONDO PROFILO, e cioè per la circolazione dell’azienda come complesso unitarioà per facilitare la circolazione dell’azienda come complesso unitario, si può considerarla quale bene indivisibile quando dotata di avviamento (quando cioè il suo valore in base all’avviamento supera il valore di investimento): si evita così che l'azienda possa essere smembrata per la divisione tra più contitolari e la liquidazione di patrimoni sociali. Sul piano legislativo il codice ha solo dettato, limitatamente alle aziende commerciali (per le quali vale soprattutto la qualifica di beni-chiave), una regola relativa alla prova dei contratti di trasferimento e di godimento dell’azienda (art. 2556 comma 1):

essi devono essere provati per iscritto (non è quindi ammessa prova per testimoni o presunzioni: artt. 2725, 2729 comma 2). Occorre inoltre osservare, a seconda della natura dei singoli beni, le forme particolari richieste dalla legge per il trasferimento di ciascuno di essi. Da questa situazione può accadere che qualcuno di essi non si trasferisca perché si è trascurato di osservare la forma prescritta per il suo trasferimento (con relativa nullità dell'intero contratto di trasferimento dell’azienda, se risulta che il trasferimento di quel bene era considerato essenziale: art. 1419). Conseguenza analoga può verificarsi per la pluralità delle regole di circolazione. A questo rischio si è inteso sopperire con la disciplina posta nel 2° comma dell’art. 2556, in cui è prevista, per le aziende commerciali (ma solo per queste) una unica regola di circolazione, consistente nella iscrizione del contratto nella sezione ordinaria del registro delle imprese (dell'imprenditore alienante) iscrizione che consente di risolvere a favore di chi la richiede, tutti i conflitti relativi all’acquisto dei diritti aziendali, con esclusione di quelli relativi a diritti reali su beni immobili. ALTRE REGOLE RELATIVE ALLA CIRCOLAZIONE DELLA AZIENDA Il legislatore si è poi preoccupato di favorire il trasferimento di tutti gli elementi aziendali e il trasferimento di tutti i rapporti conclusi per il collocamento dei beni o servizi prodotti dettando le seguenti regole: 1) Per assicurare il trasferimento dei rapporti contrattuali in corso di esecuzione, l’articolo 2558. Una disciplina particolare è prevista per la sublocazione e la cessione del contratto di locazione relativa all’immobile in cui era esercitata l'impresa dell’alienante. L’art. 36 Legge 1978/392 ammette la cessione o la sublocazione dell’immobile « anche senza il consenso del locatore, purché venga insieme ceduta o locata 1’azienda (si può opporre per gravi motivi al trasferimento della locazione entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del trasferimento dell’azienda). 2) per quanto riguarda i CREDITI art. 2559. 3) per quanto riguarda i DEBITI art. 2560. 4) a facilitare il trasferimento della clientela e dell’avviamento è intesa la norma relativa al c.d. DIVIETO DI CONCORRENZA art. 2557. 5) Per regolare altri aspetti particolari alla costituzione di diritti di godimento sull’azienda (usufrutto o affitto: artt. 2561, 2562). Il complesso dei poteri e degli obblighi del titolare del godimento sono funzionali all’obbligo fondamentale di gestire la azienda e mantenerne l'avviamento: potere di trasformare le materie prime e di venderne i prodotti; ma obbligo di conservare l'efficienza dell’organizzazione e degli impianti, e quindi di sostituire i macchinari in conseguenza di logorio fisico od economico ecc.. Tutto ciò comporta la possibilità di una differenza tra gli elementi aziendali esistenti all’inizio e quelli esistenti alla fine del diritto di godimento: detta differenza è regolata in denaro (il concedente sarà o creditore o debitore del titolare del diritto di godimento). I SEGNI DISTINTIVI: LA DITTA à art. 2563 LA DITTA è il c.d. nome commerciale dell’imprenditore, ossia il nome con il quale egli esercita l’impresa distinguendola dalle imprese concorrenti e sollecitando (soprattutto attraverso la pubblicità) i consumatori alla conclusione degli atti d’impresa. La ditta designa una realtà economica complessa, i cui elementi sono l’imprenditore e l’azienda e si distingue dal nome civile non solo per la diversità degli atti conclusi a mezzo dei due segni, ma anche e soprattutto per la diversità di disciplina degli stessi (art 2563 contenente il “principio di verità” ed il “principio di libertà” – art. 2564 contenente il “principio di novità della ditta”). L’imprenditore acquista il diritto alla ditta mediante l’uso della stessa (art. 2564: “ditta originaria”). La ditta può essere acquistata anche per trasferimento, sempre che venga acquistata insieme all’azienda (art. 2565 comma 1: “ditta derivata” – trasferimento della ditta): solo in questa ipotesi, infatti, da un lato il trasferimento della ditta si presenta come mezzo per favorire il trasferimento dell’avviamento e dall’altro lato non si ritiene vi sia inganno dei consumatori, in quanto la stessa ditta viene a contraddistinguere un’impresa diversa dalla prima solo per la persona dello imprenditore ma identica alla prima sul piano dell’azienda. Poiché l'acquirente, nell’usare la ditta acquistata non è tenuto ad inserirvi il proprio nome, se ne deve concludere che il principio di verità vale solo per la ditta originaria e non per la ditta derivata. Nel trasferimento dell'azienda per atto tra vivi perché il trasferimento comprenda anche la ditta è necessario che ciò sia espressamente convenuto (art. 2565 comma 2). Nel trasferimento dell'azienda per causa di morte la ditta si trasmette

al successore, a meno che il defunto non abbia disposto diversamente nel testamento (art. 2565 commi 2 e 3). Il principio di libertà e l'istituto della ditta derivata consentono all’imprenditore, che eserciti una pluralità di imprese, di adottare per ogni impresa una ditta diversa. IL MARCHIO – art.2569 FUNZIONE DEL MARCHIO art. 2569 regolato dal D.lgs 30/2005 definito “codice proprietà industriale” Il marchio (mezzo formale) si può definire come l’elemento unificatore o costitutivo di una serie. Tale unificazione è sostanziale e consiste in una coincidenza di qualità nelle unità che compongono la serie. (IN PRECEDENZA) Nella fase di capitalismo iniziale o corporativo: un’organizzazione interimprenditoriale garantisce la corrispondenza tra marchio e qualità (non alla sua provenienza): questo svolge una funzione di tutela dei consumatori e indirettamente una funzione concorrenziale (oggi sono i marchi collettivi che garantiscono l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti come ad es. vini pregiati - art. 2570 Cod. Civ., art. 11 Codice Proprietà Industriale). (OGGI) Nell’attuale fase di capitalismo avanzato: il marchio garantisce direttamente la provenienza del prodotto dalla stessa impresa e solo indirettamente le qualità inerenti a tale provenienza: ha funzione (direttamente concorrenziale) di differenziazione tra i prodotti delle diverse imprese, a cui il consumatore attribuisce particolari qualità. Sono importanti anche i marchi di commercio, che traducono la prevalenza economica, in un certo momento storico, dei commercianti all’ingrosso sia rispetto ai produttori della merce (gli artigiani) sia rispetto ai commercianti al minuto. Con l'avvento della rivoluzione industriale la categoria di imprenditori economicamente più forte diventa quella degli industriali, i quali tendono a legare a sé direttamente con un rapporto di clientela i consumatori e quindi a distinguere e fare apprezzare i loro prodotti rispetto a quelli dei concorrenti: i marchi di fabbrica (concorrenza per la conquista della clientela). Con l’affermarsi del settore terziario, l’esigenza di differenziazione si è estesa ai servizi (Legge 1178/59): il marchio di servizio (destinato a contraddistinguere servizi di trasporto, assicurazioni, spettacolo ecc). In relazione alla pluralità dei loro prodotti o di tipi di un prodotto base le grandi imprese adottano una pluralità di marchi, scegliendo poi tra due possibilità: - collegare tra di loro i vari prodotti, sottolineando la loro provenienza dalla stessa impresa (marchio generale (adottato per tutti i prodotti) + marchio speciale (per ogni prodotto o per ogni tipo dello stesso prodotto); - non collegare i prodotti all’impresa (e quindi tra di loro), adottando solo il marchio speciale. FUNZIONI del MARCHIO: 1. distintiva (tendenzialmente concorrenziale) in quanto il marchio distingue i prodotti o i servizi, in modo che i consumatori siano facilitati nell’esprimere il loro giudizio – funzione tutelata dall’art.20 D.Lgs 30/2005 lettere a) – b); 2. attrattiva che si ha quando l'imprenditore, invece di differenziare i propri prodotti soprattutto attraverso le innovazioni tecniche, li individua con un segno che lo rende ambìto ai consumatori di prestigio, i quali acquistano i prodotti così contrassegnati, determinandone il successo (marchi di rinomanza o marchi celebri ad es. il marchio Pierre Cardin) – funzione tutelata dall’art.20 D.Lgs 30/2005 lettera c). CONTENUTO DEL MARCHIO (artt.7 - 8 Codice Proprietà Industriale) Questi può avere per oggetto tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente: parole, disegni, lettere, cifre, suoni, colori e loro combinazioni. Il marchio può consistere anche nella forma dei prodotti o della sua confezione (c.d. marchi di forma, o tridimensionali), purché si tratti di forma di fantasia, priva di valore funzionale o estetico (forma arbitraria o capricciosa) la cui funzione esclusiva sia quella di individuare la provenienza del prodotto. L’art. 8 regola la possibilità di inserire nel marchio il ritratto o il nome di persona diversa (solo col consenso della stessa) dal titolare del marchio (il ritratto del titolare può essere sempre inserito e così il nome, sempre che abbia il requisito della novità). La violazione dell’art.8 rende nullo il marchio; la nullità può essere fatta valere solo dal titolare del ritratto o del nome (e, in caso di morte, dai suoi eredi) (art. 122), e l'azione si estingue se il titolare non l'abbia esercitata entro cinque anni dal momento in cui ha avuto conoscenza dell’uso del marchio (art. 28).Il marchio può anche essere costituito dal nome non notorio di un terzo, anche senza il suo consenso, purché l'uso del marchio non ne leda la fama, il credito o il decoro (art. 8 comma 2) ma può correre il rischio che il titolare del nome successivamente inizi una attività

concorrente ed inserisca il suo nome nella ditta (art. 21 comma 2). I REQUISITI DEL MARCHIO 1) della liceità, in mancanza del quale il marchio è nullo (art.14 comma 1 e art.25) le parole, figure, segni adoperati per la composizione del marchio non devono pertanto essere contrari all’ordinamento giuridico o al buon costume, né contenere indicazioni non veritiere relative ai prodotti contrassegnati. 2) dell’originalità (art.13). Il contenuto del marchio non può consistere nella figura generica del prodotto da contrassegnare o nelle parole che, secondo le regole linguistiche designano il prodotto o lo descrivono (ad es. penna; autoradio); il contenuto deve avere capacità distintiva. 3) della novità: il marchio adottato non deve essere identico o simile al marchio, che già un altro soggetto abbia acquistato il diritto di utilizzare in modo esclusivo per prodotti dello stesso genere o di genere affine in tutto il territorio dello Stato (art.12); nè contenere altro segno distintivo (ditta, sigla, insegna) acquistato da altro imprenditore, anche se questi non abbia adottato detto segno distintivo anche come marchio (art.22). In mancanza del requisito della novità, il marchio è nullo ed il suo uso costituisce contraffazione. Riepilogando, i rapporti tra marchio e ditta risultano così regolati: 1) una impresa non può adottare come ditta, per svolgere attività identica o affine, un segno già adottato da altri come marchio, e non può comunque adottare come ditta un marchio registrato di rinomanza (art. 22); 2) non si può adottare come marchio un segno già adottato come ditta da parte di impresa che svolga attività identica o affine (art. 12 co. 1° lett. c); 3) non si può adottare come marchio un nome notorio (art. 8 co. 3°); 4) chi adotta come marchio un nome di persona non notorio non può impedire al titolare del nome di adottarlo successivamente come ditta anche per svolgere attività in concorrenza; 5) se si violano i predetti principi, marchio o ditta posteriori sono nulli (art. 25). ACQUISTO DEL MARCHIO (art. 2569, 2570, 2571 C.C.) Acquisto del marchio: il diritto all’utilizzo esclusivo del marchio si può acquisire in DUE modi: 1) mediante l’uso. Si acquista mediante l’uso sia apponendolo sui prodotti sia adoperandolo nella pubblicità. Se l’uso è avvenuto in modo da rendere noto il marchio solo in una parte del territorio dello Stato, il diritto acquistato riguarda solo questa parte del territorio e quindi per il resto del territorio il marchio è ancora nuovo e sullo stesso può acquistare per registrazione il relativo diritto anche un imprenditore concorrente 2) mediante la registrazione presso l'Ufficio italiano brevetti e marchi. Il diritto esclusivo (art.2569 e art.2571) si acquista in tutto il territorio dello Stato e per tutti i prodotti indicati nella domanda di registrazione. La registrazione è il solo modo di acquisto del marchio collettivo (art. 2570 cc. e 11 c.p.i.). I principali vantaggi, che presenta l'acquisto del marchio per registrazione rispetto all’acquisto per uso possono essere così riassunti: a) certezza della prova del fatto costitutivo e della sua data (conseguente nullità del marchio successivo per mancanza di novità); b) impossibilità che il marchio successivo, nullo per mancanza di novità, possa diventare valido per convalidazione; se invece un marchio, successivamente registrato, è nullo, se è stato usato pubblicamente ed in buona fede per cinque anni consecutivi (art. 28 c.p.i.) la nullità non può più essere fatta valere; c) acquisto del diritto in tutto il territorio dello Stato; d) possibilità di registrare, insieme al marchio che si intende usare, altri marchi simili (c.d. marchi di protezione), creando così una vasta rete di protezione intorno al marchio effettivamente usato; e) solo per i marchi registrati è previsto il reato di contraffazione, alterazione o uso di marchi contraffatti o alterati (art. 473 cod. pen.); f) solo la registrazione fa acquistare il c.d. diritto di priorità. Sul piano internazionale (la c.d. Unione di Parigi) una convenzione internazionale del 1883 (più volte riveduta in successivi accordi) regola due istuituti: il c.d. «diritto di priorità» e la «registrazione» presso l’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale. In forza del diritto di priorità, chi ha registrato un marchio in uno degli Stati aderenti all’Unione può chiedere entro sei mesi la registrazione anche negli altri Stati unionisti, prevalendo su altri che nei predetti sei mesi abbia posto in essere, in detti Stati, un fatto costitutivo del diritto al marchio (uso o registrazione) (art. 4 c.p.i.). Mediante la registrazione presso l’OMPI con un unico deposito si acquista il diritto al marchio in tutti gli Stati dell’Unione indicati dal richiedente; g) dal regolamento C.E. n. 40/94 è stata ammessa anche la registrazione del c.d. marchio

comunitario presso l'Ufficio per l'armonizzazione del mercato interno (UAMI), con cui si conferisce al titolare del marchio il diritto di utilizzarlo in modo esclusivo in tutto il territorio dell’Unione europea. TRASFERIMENTO DEL MARCHIO (2573 cc e art. 23 co. 1° c.p.i.) Il marchio può essere trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato; il trasferimento del marchio può avvenire, anche solo attraverso il trasferimento della conoscenza delle tecniche di fabbricazione del prodotto (c.d. know how). Ma poiché nell’ultimo comma dell’art. 23 (nonché nell’art. 2573 C.C.) si stabilisce che in ogni caso dal trasferimento non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico, l’innovazione non è affatto radicale, in quanto resta sempre illecito un trasferimento che non consenta all’acquirente una produzione uguale nei caratteri essenziali a quella dell’alienante. CONTRATTI DI LICENZA DEL MARCHIO (art.23 D.Lgs 30/2005 detto anche C.P.I.) I contratti di licenza esclusiva: il titolare del marchio deve temporaneamente cessare dalla produzione dei beni o servizi contrassegnati dal marchio, per evitare di perdere l’avviamento e per non correre il rischio dell’estinzione del marchio per mancato uso per oltre cinque anni, ne trasferisce temporaneamente (per la durata della licenza) l’uso ad altro soggetto (licenziatario): si tratta di un trasferimento del diritto, anche se temporaneo (art. 2573 comma 1). I contratti di licenza non esclusiva: il titolare del marchio vuole solo ampliare la sfera d’incidenza del suo segno attraverso l’apposizione di esso alla produzione di altro o di altri produttori (marchio cousato da parte di due o più produttori. A realizzare ciò è volto il contenuto del contratto di licenza, nel quale si stabiliscono la qualità dei prodotti fabbricati o dei servizi prestati dal licenziatario ed i controlli con cui il licenziante si assicura che tale qualità sia realizzata. L’inosservanza di tali disposizioni costituisce violazione da parte del licenziatario del diritto al marchio (art. 23 comma 2). ESTINZIONE DEL MARCHIO (art.12, art.24, art.26, art.122, art.13 comma 4) Al venir meno della funzione del marchio o dei suoi requisiti possono ricondursi le cause di estinzione del marchio (qualificate cause di decadenza): 1) al venir meno della funzione del marchio può ricondursi la sua mancata utilizzazione entro cinque anni dalla registrazione o la sospensione dell’utilizzazione per cinque anni, a meno che la mancata utilizzazione o la sospensione dell’utilizzazione non sia stata l’effetto di cause indipendenti dal titolare del brevetto (tra dette cause non rientra però la mancanza di mezzi finanziari). Salvo il caso di diritti acquistati da terzi con la registrazione o con l'uso, la decadenza non può essere fatta valere qualora tra la scadenza del quinquennio di non uso e la proposizione della domanda o eccezione di decadenza sia iniziato o ripreso l'uso effettivo del marchio almeno tre mesi prima della proposizione della domanda o eccedecadenza (art. 24 c.p.i.). 2) Se viene cioè meno il requisito della liceità quindi il marchio è contrario all’ordinamento ed al buon costume (art. 26; 122 c.p.i.): 3) Il marchio si estingue per il venir meno del requisito della originalità nell’ipotesi di «volgarizzazione», ossia quando il marchio, a causa della sua diffusione, ha perduto la sua capacità distintiva (art. 13 comma 4 c.p.i.: es . «aspirina» «caffè hag»); 4) Il marchio si estingue anche per il venir meno del requisito della novità quando, venga registrato, come marchio uguale o simile relativo a prodotti dello stesso genere, un marchio successivo, ma destinato ad avere effetto da data anteriore. 5) Il diritto al marchio per registrazione ha poi durata limitata nel tempo: dieci anni dalla data di deposito della domanda di registrazione (art. 15 comma 4), ma può esserne chiesta la rinnovazione prima della scadenza per eguale periodo (di decennio in decennio) (art. 15, 16 c.p.i.); se poi il marchio continua ad essere usato, il diritto al marchio permane secondo la disciplina del marchio non registrato. INSEGNA (art.22 D.Lgs 30/2005) Può essere nominativa, cioè costituita solo da parole; emblematica, costituita solo da figure o anche da numeri; mista, quando è costituita insieme da parole e da figure. Per godere di tutela giudiziaria, l'insegna deve avere capacità distintiva. Anche l'insegna deve possedere il requisito della novità, cioè non deve essere uguale o simile a quella di altro imprenditore. Il diritto di utilizzare l'insegna in modo esclusivo si acquista - al pari del diritto alla ditta -

mediante l’uso. Le parole che costituiscono la ditta possono essere riprodotte - se sussistono i requisiti di novità e di originalità - anche nell’insegna, nel marchio e nel nome a dominio aziendale, ed allora il contenuto dei diversi segni distintivi viene a coincidere (art. 22 c.p.i.). LA TUTELA GIUDIZIARIA DEI SEGNI DISTINTIVI - Ai segni distintivi si applica una particolare disciplina di tutela giudiziaria, che nelle sue linee fondamentali è comune a tutti i diritti di proprietà industriale (art. 117 ss. c.p.i.). Pertanto, anche il diritto all’utilizzazione esclusiva dei segni distintivi è tutelabile davanti all’autorità giudiziaria con un’azione di natura reale (della stessa natura, cioè, dell’azione di rivendicazione) diretta ad impedirne la violazione ad opera di terzi. In particolare, il titolare della ditta (o dell’insegna) che l’ha usata per primo (o che per primo ha iscritto la ditta nel registro delle imprese commerciali) può pretendere che nessun altro imprenditore, anche se ha il nome identico, usi una ditta o una insegna uguale o simile alla propria, quando tale uso può creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata: il concorrente dovrà perciò modificare o integrare la ditta (o l’insegna) con indicazioni idonee a differenziarle (art. 2564 per la ditta, art.2568 per l’insegna). Il titolare del marchio può pretendere che nessun altro lo sopprima durante la circolazione del prodotto (è infatti vietato al commerciante di sopprimere nel prodotto il marchio del produttore: art. 2572 c.c., art. 20 comma 3 c.p.i.). Può inoltre agire contro chi adotti un marchio uguale o simile per prodotti dello stesso genere. Chi è titolare di un marchio di rinomanza (dandone prova) può impedire che un terzo possa apporlo su qualunque prodotto, anche di genere diverso. Si può chiedere la condanna dell’usurpatore a cessare dall’uso e a risarcire l'eventuale danno: il giudice può inoltre disporre la distruzione dei marchi contraffatti e, ove necessario, dei prodotti da essi contraddistinti, purché gli stessi non appartengano a chi in buona fede ne fa uso personale o domestico. Il marchio registrato è difeso anche mediante una tutela penale. Tutti i segni distintivi sono inoltre tutelati dalla disciplina, dettata per la repressione della concorrenza sleale. BENI IMMATERIALI: LE OPERE DELL’INGEGNO e LE INVENZIONI INDUSTRIALI Le invenzioni industriali sono ricomprese nel concetto di proprietà industriale (Cod. Proprietà Industriale) LE OPERE DELL’INGEGNO sono ricomprese nel concetto di proprietà intellettuale (Legge diritto d’autore n.633/41). Si possono ambedue considerare beni immateriali tipicamente aziendali: il diritto esclusivo del proprietario alla loro utilizzazione economica («privativa») di solito si attua attraverso l'esercizio di una impresa, o direttamente o attraverso la concessione del diritto patrimoniale ad un imprenditore artt. 2575 ss. Formano oggetto del diritto di autore (art. 2575) le opere dell’ingegno (cioè le idee) purché siano dotate di un minimo di originalità espressiva (anche le opere fotografiche). Non bisogna confondere il proprietario della copia del libro o dello spartito (beni materiali) e il proprietario dell’opera dell’ingegno (bene immateriale): questi è colui che ha creato l’opera e che, a seguito della creazione, è divenuto a titolo originario titolare del diritto di autore (art. 2576). Il diritto d’autore ha un contenuto complesso: patrimoniale e morale (art. 2577). Sul piano patrimoniale l’autore è proprietario dell’opera che ha creato; solo egli ha il diritto esclusivo di produrre i beni o i servizi nella cui composizione entra l’idea (ad es., di stampare la musica o riprodurla in un concerto; o di trasferirlo ad altri concedendo un diritto, reale o personale (art. 2581). Così gli autori concedono agli editori il diritto di stampare le loro opere, ottenendo in compenso una determinata somma di denaro (contratto di edizione): se il diritto di utilizzazione economica non è stato trasferito (il trasferimento deve essere provato per iscritto), il proprietario dell’opera può chiedere al tribunale di impedire (c.d. inibitoria) la prosecuzione dell’attività illecita (art. 156 l.d.a.), nonché il risarcimento dei danni e la distruzione dei beni abusivamente prodotti dal terzo (art. 158 l.d.a.). Il diritto di proprietà sulle opere dell’ingegno (comprese le opere fotografiche) dura per tutta la vita dell’autore e per settant’anni dopo la sua morte (artt. 25, 32-bis L.633/41). Sul piano morale l’autore di ogni idea, in seguito alla creazione della stessa, acquista il diritto di paternità dell’idea, diritto che è intrasferibile e che serve a garantire l’interesse alla fama e alla notorietà che può derivargli dalla sua creazione (art. 20 ss. L.633/41). In forza di tale diritto morale, l’autore può decidere se pubblicare o meno

l'opera (diritto d’inedito), pubblicarla sotto il suo nome (o in anonimo), pretendere che l’idea non venga deformata, mutilata o modificata, che non venga diffusa priva del suo nome, che altri non se ne attribuisca la paternità (plagio): anche in tutti questi casi l’autore può adire l'autorità giudiziaria per ottenere la cessazione del fatto lesivo, l'eliminazione delle conseguenze nocive e il risarcimento degli eventuali danni sofferti. Innovazioni normative.Con successive modifiche apportate alla legge sul diritto d’autore, sono state espressamente qualificate opere dell’ingegno, riconoscendogli la corrispondente protezione giuridica: a) software b) le banche di dati; c) i disegni industriali (con carattere creativo e valore artistico). LE INVENZIONI INDUSTRIALI Sono costituite dalle idee: a) di beni materiali nuovi (cioè non ancora ideati e prodotti: ad es., i primi calcolatori elettronici). b) di processi nuovi per produrre beni già conosciuti. c) invenzioni di minore rilievo: i c.d. MODELLI INDUSTRIALI. Questi si distinguono in: modelli di utilità (ad es., ad una poltrona per dentista si dà una forma particolarmente efficace per l'uso a cui deve servire) e disegni e modelli (ad opera dei c.d. designers) che consistono in idee che danno ai prodotti (ad es., mobili, stoffe, oggetti vari) una forma o una combinazione di linee o di colori di particolare carattere individuale (ad es., la forma della fanaleria di un’automobile o della rubinetteria di un bagno) (art. 31 c.p.i.). Per essere proprietario dell’invenzione, non basta avere creato l’idea ma è necessario richiedere, prima di divulgare l'idea, la concessione del BREVETTO. La materia è regolata dal D.Lgs 30/2005 che adegua e coordina la normativa interna con quella internazionale (Convenzione costitutiva dell’Unione di Parigi - disciplinata dal Trattato di Cooperazione Internazionale del 1970 - dall’accordo TRIP.s (Agreement on Trade-Related Aspects Intellectual Property Rights) del 1995, e da due convenzioni: sui «brevetti europei» e sul «brevetto comunitario». Si hanno pertanto: brevetti nazionali, la cui concessione attribuisce al titolare il termine di un anno per chiedere il brevetto anche negli altri Stati aderenti all’Unione di Parigi: c.d. diritto di priorità; brevetti europei, che conferiscono al titolare, in ciascun Stato contraente per il quale il brevetto è stato concesso, gli stessi diritti che gli conferirebbe il brevetto nazionale concesso in quello Stato; brevetti comunitari, che possono essere rilasciati solo per l'insieme di tutti gli Stati aderenti alla Comunità. I brevetti europei e comunitari sono definiti regionali, per distinguerli dai: brevetti internazionali che vengono concessi sulla base di un’unica «domanda internazionale». Anche i disegni e i modelli industriali possono formare oggetto di un deposito internazionale con effetti giuridici anche in Italia. BREVETTI NAZIONALI Per avere il diritto di ottenere il brevetto è necessario: che l’idea sia nuova (cioè, non sia ancora conosciuta): un’invenzione è considerata nuova se non è conosciuta allo stato della tecnica (art. 46 c.p.i. - c.d. novità estrinseca); che l’idea sia dotata di un minimo di creatività (secondo l’art. 48 c.p.i. deve arrecare un progresso o un miglioramento nel campo della tecnica industriale - c.d. novità intrinseca); che l’idea sia adatta ad avere un’applicazione industriale (compresa quella agricola) (art. 49 c.p.i., 2585 c.c.: c.d. industrialità); che l’oggetto prodotto mediante l’idea o il processo produttivo non sia contrario all’ordine pubblico o al buon costume (art. 50 c.p.i.: c.d. liceità). Possono costituire oggetto di brevetto anche le invenzioni di medicamenti e i processi per la loro produzione ma non i metodi di diagnosi o i metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale (art. 45 c.p.i.). Il TITOLARE DEL BREVETTO, in quanto proprietario dell’invenzione, ha: il diritto esclusivo di utilizzazione economica (art. 66 comma 1, c.p.i.). il titolare dell’invenzione può vietare ai terzi, se oggetto dell’invenzione è un prodotto di produrlo, usarlo, metterlo in commercio, venderlo o importarlo e lo stesso per un procedimento brevettato (art. 66 com. 2 lett. a e b); Il titolare del brevetto ha però l’onere di attuare l’invenzione, e l’attuazione non deve essere gravemente insufficiente rispetto ai bisogni del paese (art. 69 c.p.i.); per l’attuazione dell’invenzione, il titolare del brevetto può trasferire ad altri il diritto di produrre gli oggetti brevettati (c.d. «contratto di licenza»). In caso di mancata attuazione entro tre anni dalla data del rilascio del brevetto per cause dipendenti dal titolare del brevetto il Ministero delle attività produttive può concedere una licenza obbligatoria ad ogni interessato che ne faccia richiesta: se l'invenzione non viene attuata entro due anni dalla concessione della

prima licenza obbligatoria, si verifica la decadenza del brevetto e il diritto di proprietà si estingue (art. 70 c.p.i). TUTELA GIUDIZIARIA: se gli oggetti brevettati vengono prodotti abusivamente da terzi, il titolare del brevetto e i suoi aventi causa possono agire in giudizio chiedendo misure cautelari (quali la descrizione degli oggetti, il loro sequestro, la c.d. inibitoria, cioè un provvedimento che ne vieti la fabbricazione), nonché la loro distruzione, oltre al risarcimento dei danni (art. 124 ss. c.p.i). Sono brevettabili anche le nuove varietà vegetali (art.104-105-106 c.p.i.) e i modelli di utilità (art. 82 c.p.i.); mentre invece non sono brevettabili i disegni e i modelli, topografie di semiconduttori il cui diritto esclusivo di utilizzazione economica deriva dalla loro registrazione presso l'Ufficio brevetti e marchi . La proprietà sulle invenzioni industriali dura per venti anni (comprese le nuove varietà vegetali). La proprietà dei modelli di utilità e delle topografie di semiconduttori dura dieci anni; quella dei disegni e dei modelli cinque anni, prorogabili sino a venticinque anni (di quinquennio in quinquennio). In genere, i diversi termini di durata dei diritti di proprietà industriale iniziano a decorrere dalla data di presentazione della domanda di brevetto o di registrazione. Trascorsi tali periodi di tempo, cessa la protezione giuridica dei diritti di proprietà industriale, e quindi le idee inventive possono essere liberamente utilizzate da tutti. Non è invece soggetto a termini di durata ed è intrasferibile (art. 2589, 2590, cod. civ., 62 c.p.i.) il diritto morale dell’inventore al riconoscimento della paternità della scoperta. LE INFORMAZIONI SEGRETE - È interesse generale che le idee inventive siano conoscibili da chiunque; di qui, la disciplina della brevettazione. L’inventore può tuttavia preferire mantenere l’invenzione segreta: con il rischio che essa, se conosciuta da terzi, non sia più brevettabile per mancanza del requisito della novità; ma con la speranza, se il segreto viene mantenuto, di poterla utilizzare economicamente per un periodo più lungo di quello assicuratogli dalla brevettazione. Anche l'interesse al segreto è in qualche misura tutelato dall’ordinamento, che protegge le informazioni segrete, intendendo per tali le informazioni tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, che non siano note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore; che abbiano valore economico in quanto segrete; che siano sottoposte, da chi ne ha il legittimo controllo, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete (art. 98 c.p.i). Pertanto anche le informazioni aziendali riservate si possono considerare oggetto di un diritto di proprietà industriale che è tutelato anche dalla disciplina della concorrenza sleale. IL PRINCIPIO DI CONCORRENZA (la sua storia) Entriamo nell’ottica dell’insieme di imprese e del loro operare simultaneo. In questa visione si collocano: a) la collettività delle persone coi loro bisogni da soddisfare: è la domanda di beni e servizi con aspirazione al benessere; b) un flusso continuo di beni e di servizi: (il c.d. prodotto nazionale) è l’offerta di beni e servizi; c) il luogo dove domanda ed offerta s’incontrano: il mercato. Il rapporto tra mercato e produzione è visto come un rapporto dinamico à quindi “mercato dinamico” Il modello dinamico del mercato si afferma con il nascere ed il diffondersi della teoria liberale (i cui valori base sono il singolo individuo ed il progresso sociale). La teoria dinamica riconosce che l'organizzazione della società non può essere considerata come stabile, perché i conflitti sociali non possono essere eliminati. Il progresso economico è cioè frutto di una gara tra le imprese, gara che giova alla collettività se i mezzi di lotta sono adeguati alla realizzazione del progresso in quanto consistono nelle innovazioni tecniche, nella riduzione di costi e prezzi, nella capacità di prevedere e soddisfare i desideri dei consumatori (giudici della gara). Il mercato dinamico è quindi un “MERCATO CONCORRENZIALE”. Le sue caratteristiche sono: - libertà anzitutto nel mercato dei fattori produttivi (materie prime, credito, lavoro); - libertà di iniziativa economica; - potere di gestire l’impresa (rischio – potere – profitto accumulazione del profitto e suo reinvestimento); - libero gioco della concorrenza; sovranità del consumatore costituito giudice della gara, e quindi profitto = premio; conseguente valorizzazione di quelle differenze sociali che possono essere giustificate col diverso contributo al progresso sociale; - pluralità adeguata di imprese ed assenza di imprese giganti; - Stato che rimuova tutti gli ostacoli ad una equilibrata concorrenza e realizzi l’uguaglianza che serve per la libertà nella gara; - si giunge così al mercato che

attraverso il giudizio dei consumatori decide la quantità e la qualità dei beni da produrre e il successo o il fallimento dei singoli imprenditori. E’ cosi che il mercato condiziona l’assetto produttivo. Non è stato però sempre così; anche nella storia del NOSTRO PAESE ci sono stati ostacoli rilevanti all’economia dinamica, tra cui: - il mercato del lavoro e quello del credito sono stati quasi sempre caratterizzati da mancanza di libertà e di elasticità; - la presenza nella prassi di intese anticoncorrenziali favorite nella legislazione attraverso la disciplina dei cartelli e dei consorzi. In Italia, soprattutto a causa delle difficoltà intrinseche del sistema perfettamente concorrenziale, si è passati da un capitalismo concorrenziale ad un capitalismo oligopolistico. LE RAGIONI di questo passaggio sono fondamentalmente: - libertà ed uguaglianza sono due valori difficilmente conciliabili; - la concorrenza genera un processo di concentrazione, per cui le imprese più abili e fortunate espellono dal mercato o assorbono le altre (diventa quindi un mercato con prevalenza di grandi imprese). Quindi in Italia si passa da un “primo capitalismo concorrenziale” a un “mercato del cosiddetto neocapitalismo” (mercato oligopolistico. Il “MERCATO OLIGOPOLISTICO” ha le seguenti caratteristiche: - difficoltà di entrare nel mercato per la necessità di possedere mezzi tecnologici,finanziari,politici di cui difficilmente può disporre una nuova impresa. difficoltà di essere espulsi dal mercato poiché la grande impresa crea intorno a sé una serie tale di interessi che poi si tramuta in interesse generale; - ricorso a mezzi concorrenziali (ipertrofia di pubblicità con caratteristiche deteriori); - rarefazione del ricorso alle armi concorrenziali (riduzione dei prezzi e la informazione del consumatore); - politica concorrenziale che aumenta il livello della domanda ma non aumenta il livello di soddisfazione dei consumatori; - nella grande impresa si presenta gravemente alterato il rapporto tra rischio e potere, perché il cosiddetto pacchetto di comando è rappresentato generalmente da una frazione relativamente piccola del capitale. La presenza sul mercato di un numero relativamente piccolo di imprese affievolisce sempre la lotta concorrenziale e spesso questo danneggia i consumatori (limitazione della produzione, limitazione degli investimenti, limitazione allo sviluppo tecnico, limitazione del progresso tecnologico): in questo clima si configurano facilmente intese anticoncorrenziali ed abusi di posizioni dominanti. GLI SCOPI che si prefigge la c.d. disciplina antimonopolistica sono quindi quelli di eliminare o almeno contrastare le intese anticoncorrenziali, gli abusi di posizione dominante e le concentrazioni industriali. IL PRINCIPIO DI CONCORRENZA NELLA NORMATIVA La concorrenza è volta a soddisfare l’interesse generale ed in particolare l'interesse dei consumatori. E’ quindi naturale che la norma che proclama la concorrenza si rapporti al principio di tutelare il consumatore. Vedasi art. 2595 “limiti legali alla concorrenza” – Cost. artt. 41 e 43 “libertà di iniziativa economica comunque subordinata all’interesse generale” – 2597 “obbligo del monopolista di contrattare in parità di trattamento” – 1679 “obbligo del concessionario di pubblico esercizio di trasporto alla parità di trattamento delle varie richieste di trasporto”. Altri limiti solo genericamente previsti nell’art. 2595, sono stati posti con norme dispositive art. 2105 (divieto di concorrenza del prestatore di lavoro nei confronti dell’imprenditore) - art. 2301 – 2315 (divieto di concorrenza dei soci nelle società in nome collettivo ed in accomandita semplice) - art. 2390 – 2455 (divieto di concorrenza degli amministratori di società azionarie) - 2557 (divieto di concorrenza del proprietario e del locatore dell’azienda in caso di affitto od usufrutto). LA DISCIPLINA DELLA CONCORRENZA SLEALE La disciplina della concorrenza sleale può essere interpretata secondo due opposte filosofie: a) LA FILOSOFIA SOLIDARISTICA: parte dall’idea di fondo che gli imprenditori formano una categoria professionale e sociale tenuta a rispettare i vincoli di colleganza. Si può ricostruire in senso garantista la disciplina della confusione ritenendo illecita l’imitazione di comportamenti dell’impresa imitata (non è lecito appropriarsi dei risultati conseguiti dall’impresa imitata). Si può ricostruire in senso garantista la disciplina della pubblicità ritenendo illecita la pubblicità comparativa. Si può ricostruire in senso garantista la disciplina della denigrazione ritenendo illecita la diffusione di notizie ed apprezzamenti che pur corrispondono a verità. b) LA FILOSOFIA FILO CONCORRENZIALE: parte dall’idea base che la stessa è volta a potenziare il potere di scelta del consumatore, in modo che lo stesso

si orienti in senso giusto e premi i migliori. In conseguenza si restringe l’ambito di illiceità degli atti di imitazione, ritenendosi: - illecita la pubblicità menzognera e certe pratiche di vendite aggressive - lecita la pubblicità comparativa veritiera anche se determina discredito purché sia fondata su dati rigorosamente veri ed oggettivamente verificabili; si riconosce ai consumatori ed alle loro associazioni il carattere di soggetti legittimati a richiedere l’applicazione della disciplina. TUTELA GIUDIZIARIA I mezzi con cui la concorrenza viene esercitata devono corrispondere all’etica professionale, nel senso che nessun imprenditore può adottare modalità di concorrenza che appaiono scorrette, ovverosia sleali. Di fronte ad atti di concorrenza sleale è pertanto attribuita ad ogni imprenditore contro il concorrente scorretto un’azione giudiziaria: la disciplina repressiva della concorrenza sleale è perciò una disciplina tra imprenditori commerciali, che tutela il diritto di costoro a pretendere che i concorrenti adottino un comportamento corretto. Nel C.C. il divieto della concorrenza sleale è posto nell’art. 2598 (vietati “atti di confusione”, “atti di denigrazione” , “atti di vanteria” , “qualsiasi atto contrario alla correttezza professionale”). Direttamente lo stesso legislatore, peraltro, vieta gli atti che consentono a terzi di acquisire informazioni sull’azienda di un concorrente quando l’imprenditore ha adottato misure adeguate a mantenerle segrete e che, proprio a causa della loro segretezza, hanno un valore economico (ad es., il c.d. know how). In attuazione della disciplina comunitaria, è stata introdotta nella legislazione italiana una disciplina che, per realizzare adeguate finalità informative, stabilisce il contenuto minimo dei dati che devono essere riportati, in modo chiaramente visibile e leggibile, sui prodotti e sulle confezioni dei prodotti destinati ai consumatori, indicandone le caratteristiche rilevanti (art. 6 ss. cod.cons.). È stata anche ammessa la pubblicità comparativa, lecita se non è denigratoria o ingannevole: tuttavia, in presenza di atti di pubblicità comparativa illecita, o comunque di pubblicità ingannevole anche se non comparativa in concorso con l’azione giudiziaria di concorrenza sleale può intervenire in sede amministrativa anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (c.d. Autorità anti-trust) la quale può inibirne la continuazione su richiesta non solo degli imprenditori concorrenti, ma anche di singoli consumatori, delle loro associazioni, del Ministro delle attività produttive o di altra pubblica amministrazione; in sede giudiziaria, contro le decisioni dell’Autorità anti-trust si può ricorrere al giudice amministrativo (art. 19 ss. cod.cons.). L’art. 2599 indica che una volta accertati con sentenza gli atti di concorrenza sleale è la stessa sentenza che ne inibisce la continuazione, mentre l’art. 2600 indica che in caso di concorrenza sleale la colpa è presunta ed in base a questo si può ottenere il risarcimento del danno. LIMITI CONVENZIONALI ALLA CONCORRENZA - I CARTELLI Al momento dell’introduzione del codice del 1942 la prassi conosceva sia il contratto bilaterale, con cui una sola delle parti si obbligava verso l'altra dietro compenso a non svolgere concorrenza (restrizione unilaterale), sia il contratto plurilaterale denominato cartello, con cui più imprese disciplinavano, limitandola, la reciproca concorrenza. Le limitazioni potevano essere le più varie. Spesso si creava un’organizzazione comune per dare attuazione ai patti limitativi della concorrenza ed allora i cartelli venivano denominati consorzi. Nel codice del 1942 venne introdotto l’art. 2596. La norma venne riferita al contratto di restrizione unilaterale della concorrenza e giudicata accettabile in quanto lasciava all’obbligato la possibilità di svolgere un’attività (la restrizione doveva riguardare alternativamente o una determinata zona o una determinata attività) e stabiliva un limite massimo di tempo abbastanza contenuto (cinque anni). I contratti di cartello, ritenuti non regolati, vennero definiti atipici; prevalse però un indirizzo interpretativo favorevole ad ammettere la liceità di ogni cartello. Per la prevalenza di detto indirizzo ebbe verosimilmente a giocare un ruolo decisivo la disciplina di favore dettata per i contratti di consorzio (in particolare la previsione come contratto lecito del consorzio di contingentamento - art. 2603 comma 3). Ma nel del codice la disciplina di favore dei consorzi trovava una giustificazione nella previsione della necessità di approvazione del contratto da parte della autorità governativa (art. 2618) e nel controllo pubblico a cui i consorzi erano sottoposti (art. 2610). Questa situazione di favore per i cartelli ed i consorzi ha contribuito non poco a togliere dinamicità

al nostro mercato. Questa situazione si è risolta con l’entrata in vigore della legislazione antimonopolistica comunitaria e nazionale. La liceità di tutti i contratti di cartello e dei contratti di consorzio di disciplina della concorrenza, oggi in vigore in Italia, viene ad essere oggetto di esame da parte della nostra Autorità garante della concorrenza e del mercato – ANTI -TRUST (artt. 2 – 10 - 12 della Legge 10 ottobre 1990 n.287). I CONSORZI Nel primo operare del codice del 1942 il consorzio venne considerato come una struttura volta a realizzare un’intesa e quindi avente funzione anticoncorrenziale. Quindi c’era una uguaglianza di funzione tra cartelli e consorzi ma vi erano vantaggi del consorzio sul cartello sia per la possibilità di convenire una più lunga durata, dieci anni al posto di cinque (art. 2604) sia per la maggiore certezza della disciplina (si trattava di un contratto nominato). Nella prassi: Più imprenditori si consorziavano per svolgere in comune determinate fasi delle rispettive imprese. Il consorzio apparve così uno strumento di cooperazione interaziendale adeguato a ridurre determinati costi e quindi a rendere più competitive imprese medie e piccole e a favorirne la permanenza o l’entrata nel mercato, così aumentando la dinamicità della concorrenza. Con la Legge 377 del 10/05/1976 di riforma della disciplina codicistica, si favorirono i consorzi di cooperazione interaziendale: a) venne modificata la nozione di consorzio, in modo da renderla comprensiva del consorzio interaziendale: i contraenti vennero indicati come imprenditori e non più come imprenditori esercenti la medesima attività economica o attività connesse; b) lo scopo dell’organizzazione comune non venne limitato alla disciplina dell’attività d’impresa, ma esteso allo svolgimento (in comune) di determinate fasi delle rispettive imprese. c) venne modificata la disciplina del contratto soprattutto aumentandone la durata e facilitandone l’organizzazione (il nuovo testo art.2604 non pone alcun limite di durata a mano che non vi sia silenzio del contratto su tale durata); mentre l’art. 2615 comma 1 stabiliva la responsabilità solidale ed illimitata, per le obbligazioni del consorzio, delle persone che agissero in nome dello stesso, il nuovo testo ha soppresso tale responsabilità. Per i consorzi interaziendali sono state poi previste agevolazioni tributarie e creditizie con la L. 1976/374 emanata contestualmente alla legge di riforma della disciplina codicistica (agevolazioni che si ritrovano anche in successive leggi speciali). La distinzione tra i consorzi si ha in base alla loro modalità di organizzazione: a) CONSORZI CON ATTIVITA’ INTERNA Svolgono la loro attività solo all’interno del gruppo, cioè tra gli stessi consorziati, controllando che costoro adempiano le obbligazioni assunte. b) CONSORZI CON ATTIVITA’ ESTERNA In essi gli organi consortili svolgono la loro attività entrando in rapporti coi terzi; e nei consorzi interaziendali è proprio attraverso i rapporti coi terzi che vengono poste in essere le fasi svolte in comune per conto delle imprese consorziate. Si ha così una disciplina comune che si applica a tutti i consorzi e una disciplina particolare che si applica ai consorzi con attività esterna. Disciplina COMUNE (vedi art. 2603 – art.2606 – art. 2607 – art.2610 – art. 2609 – art.2611) Disciplina particolare applicabile solo ai CONSORZI CON ATTIVITÀ ESTERNA (art.2612 – art.2615/bis comma 3 – art.2615/bis commi 1-2 – art.2613 – art.2614 – art.2615) LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA (ANTI-TRUST) La legislazione antimonopolistica prima entrata in vigore è contenuta nei Trattati costitutivi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (C.E.C.A.) (e riguarda quindi solo le imprese produttrici e distributrici di carbone e acciaio: artt. 65 e 66 del Trattato) e della Comunità europea (C.E.) e riguarda tutte le imprese operanti nel mercato comune (artt. 81 e 82 del Trattato). Per il mercato nazionale italiano la legislazione antimonopolistica si è avuta con L. 287 del 10/10/1990. Questa legge affida il controllo del rispetto della legislazione antimonopolistica nel mercato nazionale ad un’Autorità amministrativa indipendente: l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (l’autorità amministrativa di controllo nel mercato comune, dove opera soltanto la disciplina antimonopolistica dei Trattati comunitari, è la Commissione delle Comunità europee: l’Autorità garante coopera con la Commissione per gli accertamenti nel territorio nazionale delle infrazioni di competenza della stessa Commissione (art. 54 Legge 6 febbraio 1996 n. 52). I fenomeni pericolosi per il mercato, che la legislazione antimonopolistica pone sotto il suo controllo, sono tre: a) le INTESE; b) gli ABUSI DI POSIZIONE DOMINANTE; c) le CONCENTRAZIONI

D’IMPRESA. Si ha INTESA quando si è di fronte ad un comportamento d’impresa concordato tra le imprese stesse. L’uniformità di comportamento può essere, o meno, frutto di un accordo;se i comportamenti uniformi sono frutto di accordo siamo di fronte ad un’intesa. Non tutte le intese sono vietate, ma solo quelle che hanno per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza (art. 81 comma 1 tratt. C.E.; art. 2 comma 2 Legge 287/1990). Le intese vietate sono nulle di pieno diritto (art. 81 comma 2 tratt. C.E.; art. 2 comma 3 legge 287/1990), sia nella disciplina comunitaria che nella disciplina italiana con conseguente irrogazione delle sanzioni pecuniarie previste (art. 15 Legge 287/1990). Competente a dichiarare la nullità per entrambe le discipline è l’autorità giudiziaria nazionale, che può anche condannare i ricorrenti al risarcimento del danno provocato alle imprese concorrenti. Entrambe le discipline (art. 81 co. 3° tratt. CE; art. 4 Legge 287/1990) prevedono la possibilità di autorizzare (autorizzazione in deroga), per un periodo limitato, intese che, contribuiscono a realizzare un sostanziale beneficio per i consumatori. Tale provvedimento può essere derogato, previa diffida, se gli interessati abusano dell’autorizzazione ovvero se viene meno alcuno dei presupposti sui quali l’autorizzazione era stata concessa (art. 4 comma 2 Legge 287/1990). Tutte le intese (cartelli e consorzi di disciplina della concorrenza) sono assoggettate al controllo della Commissione o dell’Autorità, d’ufficio o su richiesta degli interessati. La legge 287/1990, per spingere gli interessati a dare notizia esatta e completa all’Autorità delle intese realizzate stabilisce che per giungere ad un provvedimento di condanna dell’intesa l'Autorità deve aprire una istruttoria, ma la stessa non può più essere avviata decorsi centoventi giorni dalla comunicazione a meno che questa sia incompleta o non veritiera. Nel caso venga aperta l'istruttoria, prudenza vuole che non si esegua l'intesa per non correre il rischio delle sanzioni previste nell’art. 15. Per far conoscere all’Autorità le intese non comunicate, la legge prevede (art. 12 legge 287/1990) l'iniziativa della Pubblica Amministrazione e di ogni interessato, comprese le associazioni rappresentative dei consumatori. Si tratti di intese comunicate o meno, se l'Autorità decide di aprire l'istruttoria, (art. 14 legge 287/1990) notifica il provvedimento alle imprese interessate, fissando un termine per la loro audizione potendo altresì richiedere informazioni e documenti, disporre ispezioni perizie ed analisi economiche e statistiche e il segreto d’ufficio su tutti i dati dell’istruttoria. Se l'Autorità ritiene che l’intesa sia tra quelle vietate, ne proibisce l'attuazione; se l'intesa è già stata attuata, fissa agli interessati un termine per l'eliminazione delle infrazioni e, se le stesse sono gravi, commina una sanzione pecuniaria. La Legge 287/1990 prevede e sanziona l’ ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE da parte di una o più imprese. Secondo la Corte di giustizia delle Comunità Europee per impresa in posizione dominante deve intendersi quella impresa che, grazie alla sua potenza economica, può ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato e tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti e dei consumatori (praticando prezzi non giustificati dai costi e dalla realizzazione di un equo profitto, limitando a danno dei consumatori produzione, sviluppo tecnico e progresso tecnologico ecc). – vedi art.3 della L.287/1990. L’Autorità svolge un’istruttoria analoga a quella prevista in tema di intese e se accerta l'esistenza di abusi, infligge le sanzioni (solitamente) pecuniarie di cui all'art. 15. La legge antitrust regola infine le CONCENTRAZIONI: si ha concentrazione (ai sensi dell’art.5 Legge 287/1990): 1. quando due o più imprese si fondono; 2. quando una impresa o un soggetto non imprenditore, che però ha già il controllo di un’impresa, acquistano il controllo di una o più imprese; 3. quando due o più imprese costituiscono una impresa sociale comune. Eccezione particolare per le banche, istituti finanziari ed assicurazioni (vedi art. 16 comma 2, Legge 287/1990). L’operazione di concentrazione diventa RILEVANTE (art.16 comma 1) quando le imprese interessate alla fusione raggiungono un elevato livello di fatturato annuo (così anche nel Reg.C.E. 1989/4064) (dov’è si trova la sede dell’impresa non è rilevante). Se si tratta di concentrazioni rilevanti, prima di eseguirle le imprese interessate devono darne comunicazione all’Autorità; se si effettua un’offerta pubblica di acquisto la comunicazione

all’Autorità deve essere contestuale ad altra comunicazione inviata alla Consob (art.16 comma 5). Se l'Autorità ritiene di dovere indagare sulla liceità della concentrazione, deve aprire l'istruttoria (art.16 comma 7), il provvedimento deve essere emanato entro trenta giorni dal ricevimento della notifica o dal momento in cui l'Autorità ha avuto conoscenza della concentrazione e deve provvedere nel merito entro 45gg (art.16 comma 8). Se l'Autorità non ritiene necessaria l’istruttoria, ne dà comunicazione alle imprese interessate ed al Ministero delle attività produttive; di fronte a tale comunicazione o, comunque, decorsi trenta giorni dalla notifica, gli interessati sono sicuri che l'Autorità non potrà più avviare l'istruttoria, sempre che la comunicazione fatta dalle imprese sia stata esatta e completa. L’Autorità, nel far luogo all’istruttoria, può ordinare alle imprese interessate di sospendere la realizzazione della concentrazione fino alla conclusione della istruttoria (art.17). L’istruttoria dell’Autorità può chiudersi (ai sensi dell’art 18): 1. in senso favorevole alla concentrazione dandone immediata comunicazione alle imprese interessate ed al Ministero delle attività produttive; 2. in senso contrario alla concentrazione: l’Autorità deve vietare la concentrazione se questa a suo giudizio comporta la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante. Se l'operazione di concentrazione è già stata eseguita, l'Autorità prescrive le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva e ad eliminare gli effetti distorsivi. In caso di provvedimento contrario alla concentrazione se le imprese non hanno adempiuto l'obbligo di comunicazione preventiva o se poi la concentrazione vietata viene eseguita, o non si ottempera quanto prescritto è prevista una sanzione pecuniaria (art 19). Eccezionale autorizzazione di concentrazione (art 25) - Il potere di concedere tale autorizzazione viene attribuito all’Autorità da un provvedimento del Consiglio dei Ministri che indica i criteri in base ai quali l'autorizzazione può essere concessa: la concentrazione viene autorizzata per rilevanti interessi generali dell’economia nazionale nell’ambito dell’integrazione europea. Da sottolineare la particolare importanza di una norma di carattere processuale, l’art. 33, il quale da un lato stabilisce che i provvedimenti dell’Autorità possono essere impugnati dinanzi al T.A.R. del Lazio. Dall’altro lato stabilisce che la competenza per giudizi di nullità e di risarcimento del danno è dell’autorità giudiziaria ordinaria (Corte di appello) competente per territorio (si omette pertanto il primo grado di giudizio davanti al tribunale civile). SERVIZI DI PUBBLICA UTILITA (Legge n.481 del 14/11/1995) Al fine di perseguire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nei settori dei c.d. servizi di pubblica utilità (energia elettrica e gas; telecomunicazioni), la legge prevede l’istituzione di altre «Autorità» pubbliche, preposte alla regolazione e al controllo del settore di propria competenza. Dette Autorità, hanno obbligo di segnalare le violazioni della disciplina antitrust all’Autorità (generale) garante della concorrenza e del mercato (art.2 comma 33 della L.481/1995). Dalla L.egge 297/1997 è stata istituita l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, con funzioni di vigilanza sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo: in tali settori è stabilita la nullità delle intese e delle operazioni di concentrazione che consentono la costituzione di posizioni dominanti. AUSILIARI SUBORDINATI (art.2094 – 2095) - AUSILIARI AUTONOMI (art.2222 – 2195 n.5) Per svolgere la sua attività economica, l'imprenditore commerciale ha normalmente bisogno dei servizi di altre persone, che diventano perciò i suoi collaboratori o ausiliari, e che si distinguono in due grandi categorie: ausiliari subordinati (art.2094 – 2095) ed ausiliari autonomi (art.2222). Spesso gli ausiliari autonomi sono a loro volta imprenditori e con la loro impresa forniscono un determinato servizio agli imprenditori di cui sono ausiliari (art. 2195 n. 5): tale servizio di solito consiste nel procurare affari o anche nel concludere contratti stipulandoli a proprio nome, ma per conto degli imprenditori committenti). Tra gli ausiliari autonomi il codice disciplina l'attività esercitata da: gli agenti di commercio, i quali procurano degli affari a un solo imprenditore per ogni ramo d’industria (ad es., gli agenti delle compagnie di assicurazione art. 1753); i mediatori, i quali procurano affari a tutti gli imprenditori che richiedono la loro opera e che si pongono in una posizione di imparzialità nei confronti dei due contraenti, di cui procurano l’incontro (art.1754); i commissionari, che concludono contratti di compravendita in nome proprio, ma per conto di altri; gli spedi-

zionieri, i quali concludono contratti di trasporto in nome proprio, ma per conto d’altri. Altri ausiliari possono svolgere la loro attività in modo autonomo o subordinato: sono i promotori finanziari, i quali promuovono il collocamento fuori sede, nell’interesse di banche ed imprese di investimento, di strumenti finanziari e servizi di investimento. I POTERI DI RAPPRESENTANZA DEGLI AUSILIARI SUBORDINATI Tra gli ausiliari subordinati, particolare importanza rivestono quegli ausiliari che sono muniti di poteri di rappresentanza, cioè del potere di compiere in nome e per conto dell’imprenditore determinati atti giuridici i cui effetti appartengono al patrimonio dell’imprenditore. Detto potere di rappresentanza è regolato da norme particolari (che quindi fanno parte anch’esse dello speciale statuto dell’imprenditore commerciale) volte soprattutto a consentire ai terzi, che entrano in rapporto con i rappresentanti di un imprenditore commerciale, di conoscere con particolare rapidità e sicurezza gli esatti poteri di questi rappresentanti, conseguendo pertanto una tutela per l'acquisto dei propri diritti più sicura di quella che deriverebbe dall’applicazione delle disposizioni generali (art. 1387 ss.) in tema di rappresentanza (si agevola così il traffico giuridico anche nell’interesse dell’imprenditore). La direttiva, cui si ispira la normativa del potere di rappresentanza, è la seguente: il collaboratore ha tutti i poteri di rappresentanza necessari o utili per svolgere il compito, che nell’organizzazione dell’impresa gli è stato affidato, con esclusione di quei poteri che gli siano stati sottratti in modo conoscibile dai terzi o comunque quando dell’esclusione i terzi siano venuti a conoscenza. I rappresentanti commerciali si distinguono in: 1) rappresentanti generali, che hanno il potere di compiere «tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa» con eccezione di quelli espressamente esclusi dalla legge o dalla procura (ISTINTORI e PROCURATORI) 2) rappresentanti particolari, che hanno il potere di compiere solo determinati atti (COMMESSI). INSTITORE (art.2203 - 2204 – 2205 – 2206 – 2207 - 2208) è il rappresentante generale dell’imprenditore preposto all’esercizio dell'intera impresa commerciale o di un ramo particolare di essa, nella sede principale o in una sede secondaria (es, il direttore generale della filiale di un’impresa automobilistica). All’institore è quindi affidata o l’intera attività d’impresa o una parte della stessa che costituisca un’unità organica (ramo, sede secondaria dell’impresa). PROCURATORE (art.2209 – 2206 – 2207) Il procuratore (figura diffusa soprattutto nelle imprese bancarie) è un altro rappresentante generale dell’imprenditore. Anch’egli, come l'institore, ha il potere di compiere tutti gli atti di esercizio dell’impresa che non siano espressamente eccettuati nella procura: differisce però dall’institore perché non è preposto all’esercizio dell’impresa e quindi vi è un altro soggetto -lo stesso imprenditore o un institore - cui sono riservate le decisioni di vertice dell’impresa (art. 2209). COMMESSO (art.2210 – 2211 – 2212) I commessi (art. 2210): ad es., i fattorini del tram hanno il potere di concludere col pubblico i contratti di trasporto; i commessi del cinema. A tutela dei clienti art. 2212.

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