Der Hund

  • May 2020
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  • Words: 2,522
  • Pages: 7
Il Cane

Lo so, se ne staranno ancora alla finestra quando sarò dietro l'angolo, poggiati l'uno all'altra, caldi, e si desidereranno l'un l'altra. È sempre stato così e oggi lo so. Oggi. Il lampione all'angolo versa il suo verde malato, è un lampione in un quartiere nuovo della città, la sua vernice grigia non è ancora incrostata di urina di cane, è un quartiere abitato da gente giovane che non ha bisogno di cani. È un bel quartiere, lo so. E qui oggi ho freddo. Giovedì sera, abbiamo bevuto whisky, fa parte del quartiere, della gente giovane, degli alloggi arredati con sobrietà, delle lampade che pendono basse, whisky ghiacciato da bere di sera in bicchieri massicci, anche il giovedì sera. Una volta bevevamo una birra la domenica e vino, un vermouth scadente, a Natale, Pasqua e Pentecoste, e bevevamo nei bicchieri per l'acqua, se non avevamo visite. Una volta era così e credevamo – no, non ci pensavamo su – avevamo mobili i cui fregi si coprivano di polvere e tappeti senza pretese, e la lampada era sul tavolo, in mezzo, e la moglie e i bambini e i vecchi sedevano tutti intorno al tavolo a Natale, a Pasqua, a Pentecoste e di domenica e qualche volta anche di giovedì ed il lampione all'angolo spargeva fasci gialli di luce a gas e, quando i vecchi se n'erano andati, anche noi ce ne stavamo poggiati l'uno all'altra e ci sentivamo attraverso i vestiti. Oggi lo so. E so che è molto, non tutto. Un uomo vecchio, che non ha più nulla ad attenderlo, né sveglia, né colleghi, lo so, non è tutto. E questo mi chiude lo stomaco, come se la luce verde del lampione sapesse di marcio, come se il whisky sapesse di fiori avvizziti, trasportati dalla pioggia nel canale di scolo, e tuttavia era pure dolce e lusinghiero. Fiori perduti, vita perduta. Ho fatto visita a figlia e genero, qualche colpetto sul sederino nudo del nipote, il piccolo assomiglia a mia moglie quando era molto giovane, sposa nel giorno delle nozze, o forse prima e per questo ci vado, di giovedì, e bevo whisky e mi sento parlare, e oggi... Forse ho bevuto un bicchiere di troppo, forse è anche l'estate, i fiori che cadono – lo so che per me ormai è finita. Ho fatto male i miei conti. Salgo sull'ultima carrozza della metropolitana, non conto

più i passeggeri, una volta mi divertiva contare i passeggeri ogni mattino e ogni sera. Calcolavo quante carrozze della metropolitana piene di persone ci volevano per riempire le case alle quali avevo lavorato. Oggi siedo poggiato all'imbottitura dello schienale, il treno parte, cappelli oscillano, bocche sorridenti rimasticano per bene il giovedì, le borse sotto gli occhi si distendono, nel buio tra le stazioni le facce si agitano al contrario sopra le file di cavi e le cassette degli interruttori, molte facce, quante facce? Un tempo ho contato, calcolato, creduto – no, non ci ho riflettuto. Ero sempre il secondo architetto, il collaboratore, ci si poteva fidare di me, ero sempre uomo e marito che contava i soldi per le spese di casa, controllava i compiti di scuola dei figli quando ne aveva voglia, a tavola aveva un piatto più abbondante degli altri – e per questo i figli pensano che sia tutta colpa mia e lo diranno anche al nipote domani, venerdì, e sempre quando me ne sarò andato. Ma è una colpa se non sappiamo nulla l'uno dell'altra, anche quando i nostri letti stanno l'uno accanto all'altro e il gemito dei tram squarcia i nostri sogni sul far del mattino, quando il giorno imminente va già delineandosi, un venerdì magari e giorno di mercato per la donna, un venerdì e giorno di paga per il mio capo e sempre noie col primo capomastro!? Ed è una colpa se non sappiamo cosa ha spinto il ragazzo alla sponda del ponte e perché si è sporto oltremodo? Eppure portava ancora i pantaloni corti e in algebra era molto più bravo di me. È una colpa se le lacrime non piante di una donna crescono di fianco a un muro di vetro, contro il quale la voce rimbalza e, nel fragore, si rovescia perché il desiderio si è fatto insopportabilmente ridicolo? L'hanno portata fuori di casa come si porta fuori di casa chiunque, quando succede, e io sono dovuto tornare come sempre si deve tornare dopo un matrimonio, dopo un battesimo, dopo una serata a giocare a birilli e dopo le notti che passo da Ilse, perché lei deve andare presto in ufficio. Non so nulla di Ilse e forse va bene così, perché anche lei non vuole sapere nulla. Sa fare qualche cocktail, io non sono tipo da cocktail, e sa fare qualche insalata, una volta le insalate mi attiravano poco. Quando ritorno da casa di Ilse la mattina e la polvere si leva in vortice sopra i mobili ornati di ghirigori, ai quali non si dà più la cera da tempo, sento di essere a casa. Il paralume di seta è logoro e in cucina ci sono foglie di tè nell'acquaio e sul linoleum ci sono spruzzi di sapone. Le ferite del tempo sono chiuse l'una nell'altra senza cicatrici,

quando sono a casa, ma oggi – oggi... È passata l'ultima metropolitana, l'uomo nel gabbiotto ha già fatto ordine, giornale, carta di pane imburrato e bottiglia thermos sono infilati nella borsa portadocumenti aperta e, mentre sto ancora salendo le scale, la stazione viene già chiusa, portone di ghisa, notte, ecco il silenzio tra l'ultimo e il primo treno, ecco le finestre opache, ecco la ragazza dietro al vetro che, con le calze in vista, allunga una gamba, senza che qualcuno si fermi. Di giorno non si nota la primitiva spudoratezza perché di frequente il commesso passa la mano sotto la gamba e dalla vetrina prende un paio di calze particolarmente economico. Notte, è la pausa tra l'ultima e la prima uscita del cane, ritmo del dovere per il padrone del cane; qualche volta Ilse non riesce a dormire per la preoccupazione di non svegliarsi, di saltare la prima uscita domenicale di Sultan, ma per lei è giusto così, dice, tiene in ordine la giornata. Io ho voglia di turbare quest'ordine. Per trentacinque anni ho progettato case ordinate, appartamenti con di solito due o tre stanze, con bagno e cucina e allacciamento del gas, sempre il secondo architetto, del quale potevano fidarsi, e sono andato a casa 1; e oggi ho bevuto un bicchiere di whisky di troppo e passo oltre casa nostra. Certo che diciamo ancora “casa nostra” come la gente di paese, poi però, dalle quaranta alle sessanta camere in affitto, noi abbiamo solo due, tre camere! Casa nostra! Le finestre sono tutte scure e mute. Ilse abita a dieci minuti di distanza, l'ho conosciuta un giorno dal dentista. All'inizio parlavamo di corone e ponti. Non dissi che portavo una protesi già da svariati anni e a cena raccontai a mia moglie le varie esperienze di Ilse con la corona. Mia moglie aveva infatti un'avversione per il metallo all'interno della bocca e spesso si mordicchiava il labbro inferiore a causa dei bei incisivi. Finché non era accaduto il fatto del ragazzo e lei non indossò più i suoi abiti colorati e non si oppose più alla corona in oro sul canino. Mi rendo conto solo adesso che, allora, ne fui molto deluso. Naturalmente da Ilse non c'è più nemmeno una luce accesa e quando suono il campanello Sultan abbaia di scatto. Nel silenzio risona minaccioso. Di sicuro Ilse si è svegliata di soprassalto e, 1

La punteggiatura collega qui livelli temporali diversi: il punto e virgola segna il passaggio dal passato di architetto alla situazione presente.

riconoscendo il suono del nostro segnale, pensa che sono impazzito. C'è qualcosa di consolante nel suo averlo accettato, un'insolente affinità che fa bene quando è stato bevuto un whisky di troppo e si sa che i figli hanno tirato il fiato, come chi se ne è andato, sebbene il nipote paia la moglie da sposa, nel giorno delle nozze. La finestra si illumina, la maniglia della porta si abbassa, chiavi tintinnano sul selciato. Non me l'aspettavo proprio e mi tremano le dita quando blocco lo scatto della porta di casa. Le fa dunque piacere? Prima di addormentarsi ha pensato a me? La sento ammansire Sultan. La vestaglia gialla e nera le sta bene. Così senza trucco mi piace di più del solito, ho sempre la sensazione che il trucco sia per gli altri in ufficio. In soggiorno prende lo shaker dalla credenza e alcune bottiglie e lattine. Nessuna domanda, niente. La vestaglia gialla e nera la rende alta e sublime, sebbene mi arrivi solo alle spalle. Sultan si stringe a lei, ringhia e ansima non appena lei mi si avvicina e non ubbidisce all'ordine di starsene a cuccia. Al di là di questo Sultan mi è sempre piaciuto. Io accarezzo il suo pelo ricciuto, lui si fa rigido di sotto. Con pollice e indice disegno sopra ai suoi occhi un triangolo isoscele, di solito se ne sta tranquillo e le sue pupille si rivolgono con calma verso di me, ma oggi addenta prima la mia cravatta e poi la mano libera, la sinistra.

“Lascialo perdere!” dice Ilse. “Ne ha di giorni così che è proprio imprevedibile!” E mi passa il bicchiere dall'altro lato del tavolo. Un frutto rosso turbina nel bicchiere, Sultan gratta con le zampe anteriori l'imbottitura della poltrona, tento di ignorarlo, ma il suo odore me lo rende impossibile. Ilse si è accesa una sigaretta e fa spegnere lentamente il fiammifero dato il mio rifiuto. Il frutto rosso è amaro, non sono tipo da cocktail, ecco tutto. “L'hai intuito?” Ilse fuma facendo lunghe tirate. Tiene la sigaretta come non mi piace veder fare agli uomini, come un giocattolo. “Dal primo sarò la segretaria del direttore.” Sultan continua a grattare l'imbottitura della poltrona. Non so perché, d'un tratto lo scaccio. Addenta la gamba dei miei pantaloni.

Ilse scoppia a ridere – una faccia da cane? Ho bevuto troppo whisky. Non rispondo. Perché non chiude il cane in bagno tra l'ultima e la prima uscita del cane? Di giorno sì che lo fa, dice lei. Poiché continuo a non rispondere, lei stende la mano dall'altro lato del tavolo verso l'animale, lui scodinzola di gioia – e allora torno a saperlo: quando me ne sarò andato, se ne staranno ancora alla finestra, i due, Sultan struscerà il suo pelo sul polpaccio di lei. Butto giù quel cocktail amaro. Il mio stomaco si contrae. Segretaria del direttore! Dunque non è diversa da tutte le altre. Prima cosa la carriera, il riconoscimento, in alto, sempre in alto, per quel poco di calore che serve basta un cane. “Sai cosa significa?” chiede Ilse. “Eppure volevamo sempre metterci in viaggio. Un lungo viaggio in Italia volevamo fare, tu e io...” Sultan sta a zampe larghe, gli occhi umidi sotto le ciglia... “Gli piacerà essere libero una volta tanto, fare una vera vita da cani per una volta.” E allora andrà a caccia di ratti alla prima uscita per le vie strette dei quartieri intorno al porto e i bambini lo accarezzeranno e Ilse, con la sua risata seducente che la fa così giovane, si accovaccerà a mezzo passo da me, inarcando la schiena come un gatto e io – io – la mia vita – la mia vita da cane – io le starò accanto...? Cingo il muso di Sultan e faccio presa con fin troppa energia, lui sente che non lo faccio con tenerezza. Quando allento la presa, mi salta addosso. Il bicchiere vuoto rotola dall'altra parte del tavolo, naturalmente è colpa mia, non aspetto, non tengo in ordine la sua giornata, non sto a cuccia, io – sì, e io ero pur sempre il secondo architetto, il padre che contava i soldi per le spese di casa e voleva avere da mangiare a tavola per quel poco di calore che serve – per quel poco di calore... Stringo entrambe le mani intorno al collo di Sultan, sento tremare la cartilagine della laringe, il mio respiro si fa pesante, stentato, Ilse strilla. La tensione tra le mie mani cede, il cane cade come un sacco sul tavolo. Ilse si è alzata, alta e sublime nella vestaglia gialla e nera, incolore senza trucco, le labbra strette tra i denti... Sento ancora la sua mano sulla mia faccia, soprattutto gli anelli, quando mi ritrovo per strada e la

porta di casa si è chiusa dietro di me con un sibilo. La finestra in alto è illuminata. Dieci minuti, solo dieci da casa, foglie di tè nell'acquaio e spruzzi di sapone sul linoleum, un paralume logorato, un letto disfatto e di fianco un letto che è coperto – la mia faccia è umida e il dorso della mano non è in grado di asciugarla. E quando tiro indietro la testa e guardo in alto, oltre la finestra illuminata, il solco argento cupo tra le mura delle case, a testa in su verso il cielo, le case si piegano, ma non mi ricoprono, si piegano, si piegano, siamo prigionieri della forza di gravità, in algebra il ragazzo era più bravo di me, ma anche lui era prigioniero della forza di gravità, in fondo al fiume – le case si piegano, si piegano... Da Ilse c'è ancora luce. Chissà se chiama la polizia? Un pazzo ha strangolato il suo cane, uno che ha sempre colpa, le ha preso quel poco di calore che le serve per vivere. O chissà se ora è in ginocchio e accarezza quel pelo immobile? Ho voglia di bere ancora di più, di bere il cielo argenteo fino all'ultima goccia, per non avere più freddo finalmente. Padre e marito, quello che conta i soldi per le spese di casa e controlla i compiti di scuola dei figli, se ne ha voglia, e sempre il secondo architetto di cui ci si può fidare perché è un calcolatore, due, tre stanze, bagno e cucina, altezza delle stanze, consumo d'acqua, consumo di gas, tutto calcolabile, ma le case si piegano, si piegano. E ho paura delle mie mani. Paura delle case, di tutte le mie case esattamente calcolate e dei volumi esattamente calcolati. Quando me ne vado c'è ancora luce da Ilse e tutto è come sempre, i passi sul selciato, l'attesa all'angolo e il voltarsi, ma oggi lo so: le mani non ce la fanno, il cervello non ce la fa. La stretta alla gola si allenta, la paura – paura di cosa poi? I colleghi non aspettano, i figli non aspettano, paura di cosa dunque? E mi sento cantare, ruvido, roco, una vecchia canzone. Avevamo, quando ci sposammo, un grammofono. Mi sento cantare.

OSSERVAZIONI Le norme sintattiche risultano spesso stravolte perché il discorso tende a riprodurre l'accavallarsi dei pensieri nella mente della voce narrante. Prevalgono allora frasi nominali, costruzioni paratattiche, soggetti sottintesi, omissioni dei nessi logici e scelte stilistiche che conferiscono alla narrazione un ritmo irregolare e dissonante. Al lettore viene dunque trasmessa l'idea di una realtà distorta e filtrata dalle le percezioni alterate della voce narrante, la cui lucidità soggiace agli effetti dell'alcool.

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