Democrazia Formale

  • November 2019
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CONCLUSIONI

Un bilancio della Terza Ondata A conclusione di un libro che ha cercato di offrire una descrizione sia dello stato attuale della democrazia, sia del modo in cui esso si è formato, è opportuno fare un bilancio sommario di quanto è accaduto e fare qualche congettura riguardo ai possibili sviluppi futuri. Per quanto riguarda la prima questione, possiamo dire che negli ultimi trent’anni non solo il numero delle democrazie è cresciuto considerevolmente, ma che nella maggior parte dei casi le nuove democrazie si sono rivelate stabili ed hanno nel complesso rafforzato il loro carattere democratico. L’avvento della democrazia ha in genere coinciso anche con diffusi miglioramenti nelle condizioni di vita dei cittadini e con l’avvio di processi di crescita sostenuti, spesso senza precedenti nella storia dei paesi1. Ciò è stato dovuto in parte al contributo positivo che è venuto dalle stesse democratizzazioni2 ed in parte al fatto che queste si sono verificate in una fase di generale accelerazione della crescita, determinata da diffuse innovazioni tecnologiche e da riforme economiche che hanno portato ad una maggiore apertura e ad un’intensificazione degli scambi internazionali. Il carattere complessivamente positivo delle esperienze economiche associate ai processi di democratizzazione non è smentito dal fatto che anche una parte (peraltro minoritaria) dei paesi retti da regimi autoritari ha compiuto progressi analoghi (a volte ancora più spettacolari) e che le difficoltà legate all’abbandono di precedenti fallimentari modelli di gestione dell’economia hanno determinato in alcuni paesi (tra i quali la Russia) l’interruzione di processi di democratizzazione che erano stati faticosamente iniziati. Nella grande maggioranza dei casi il passaggio alla democrazia ha coinciso anche con un miglioramento delle condizioni di sicurezza dei paesi interessati: le basi empiriche della tesi classica della “pace democratica”, secondo la quale le nazioni democratiche, pur facendo guerre con nazioni non democratiche, non si fanno la guerra tra loro3, si sono notevolmente irrobustite in seguito all’aumento del numero delle democrazie, al prolungarsi della loro durata ed alla forma che ha assunto la loro distribuzione territoriale4. 1

Non credo che la grave crisi che ha colpito i mercati finanziari internazionali nel corso del 2008 comporti una modifica di tale giudizio. 2 La maggior parte degli studi più recenti concorda nell’associare alle democratizzazioni un miglioramento delle prospettive di crescita. 3 Si vedano [Doyle 1997] e [Panebianco 1997]. 4 Il fatto che, come abbiamo ripetutamente sottolineato nei capitoli precedenti, le nuove democrazie si siano sviluppate soprattutto a partire dai confini di aree che già erano democratiche, accresce considerevolmente il numero dei conflitti potenziali, in quanto le guerre solitamente scoppiano tra nazioni confinanti o comunque vicine, e rafforza la plausibilità

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Nel periodo di cui ci occupiamo, la diffusione della democrazia è stata accompagnata da significative trasformazioni dei sistemi politici democratici: redistribuzioni di poteri (tra organi di uno stesso stato, tra diversi stati, tra stati ed entità non statali, tra stati nazionali ed organismi sovranazionali ecc.) e mutamenti nelle forme di organizzazione dell’azione politica (p.es. nel ruolo e nel peso dei partiti). Alcuni osservatori hanno visto in questi fenomeni il segno di una crisi della democrazia e del passaggio ad una fase “post-democratica”; non è questa la sede per affrontare questo tema, anche perché quanti parlano di crisi della democrazia assumono (in genere in modo implicito) degli standard di democraticità diversi da quelli essenzialmente formali e procedurali che abbiamo adottato nella nostra analisi. Riteniamo comunque che si debba evitare di scambiare la scomparsa di alcune espressioni della vita politica democratica per una scomparsa della democrazia stessa. Molto di ciò che passa per sintomo della crisi della democrazia corrisponde semplicemente ad un mutamento della democrazia o ad uno spostamento del suo centro di gravitazione; conseguenza del fatto che una serie di trasformazioni avvenute nella società e nell’economia hanno ridotto il campo d’azione e la portata di alcune funzioni dello stato (nella gestione o regolazione dell’economia o nella redistribuzione del reddito) che erano state al centro della vita politica democratica fino agli ultimi decenni del secolo XX. Non siamo affatto convinti che la democrazia formale sia immune da crisi o rappresenti la forma di organizzazione politica destinata ad affermarsi come unica e definitiva, ma riteniamo che molte delle trasformazioni in atto, e di quelle prevedibili per il futuro, potranno verificarsi nel quadro di quel tipo di democrazia e non svuoteranno di significato la nozione formale di democrazia né diminuiranno la rilevanza della distinzione tra democrazie (formali) e non-democrazie. E’ possibile un prolungamento della Terza Ondata? Una volta confermato un giudizio positivo su ciò che la Terza Ondata ha rappresentato, ci si può domandare se i processi che hanno caratterizzato i decenni passati siano destinati a durare anche nei prossimi anni ed a portare, se non ad una compiuta democratizzazione del pianeta, quantomeno ad un ulteriore deciso allargamento di quelle che sono attualmente le aree integralmente democratiche. Tutto induce a ritenere che non è questo ciò che il prossimo futuro ci riserva, che la Terza Ondata si è conclusa e che nei prossimi anni vedremo sì la nascita di qualche nuova democrazia, o il ritorno alla democrazia di qualche paese che se ne era allontanato, ma che si tratterà di casi relativamente isolati e non destinati a moltiplicarsi nelle forme che sono state tipiche dell’ultimo quarto del XX secolo.

della tesi secondo la quale l’assenza di guerre è dovuta al carattere democratico dei paesi esposti al rischio di conflitto.

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Il riconoscimento di questo fatto non implica che il tema della diffusione della democrazia abbia cessato di essere una questione di grande rilevanza politica, o che i paesi democratici non abbiano più alcuna possibilità di influire sull’evoluzione politica dei regimi che attualmente non sono democratici. In primo luogo vi è un’area, rappresentata da un gruppo di paesi che si situano sui confini orientali dell’Unione Europea, in cui politiche simili a quelle che hanno sostenuto la Terza Ondata potrebbero produrre frutti positivi, grazie alla forza di attrazione democratica che la prospettiva di adesione all’UE esercita sui paesi con essa confinanti. E’ probabile che la democrazia (almeno per ora “di bassa qualità”) si estenda a quei paesi dell’area balcanica che non l’hanno ancora raggiunta (Bosnia, Macedonia, Albania e… Kosovo); è anche possibile, ma più incerto, che l’UE, e con essa la democrazia, si estenda ad alcune repubbliche della parte europea dell’ex Unione Sovietica (Bielorussia, Moldova, Ucraina, Georgia e Armenia), una prospettiva che sarà comunque ostacolata (e forse impedita) da azioni di contrasto sempre più decise e spregiudicate da parte della Russia e degli alleati su cui essa può contare all’interno di quei paesi, azioni delle quali la crisi georgiana ha fornito un illuminante esempio5. Ancora più importante e significativo il caso della Turchia, per la quale si prospettano tre possibilità: i) democratizzazione con ingresso nell’UE (con la prima come condizione necessaria per il secondo e quest’ultimo come fattore di consolidamento della prima); ii) democratizzazione senza ingresso nell’UE, la prospettiva più immediata e la forma che necessariamente sarà assunta dalla prima, in quanto, anche nella migliore delle ipotesi, una Turchia democratica dovrà aspettare ancora diversi anni prima di entrare nell’UE; iii) arresto del processo di democratizzazione ed involuzione autoritaria. Per ora si sta realizzando la seconda alternativa, ma non è chiaro se essa preluderà alla prima o se si cadrà nella terza6. Se tutti questi casi si concludessero positivamente, le democrazie europee formerebbero un’area continua comprendente anche quattro paesi mussulmani o a maggioranza mussulmana 7, un’area che avrebbe tuttavia raggiunto la massima estensione attualmente concepibile, essendosi spinta fino ai confini di regioni fortemente refrattarie alla democrazia rappresentate da un lato dalla Russia e dall’altro dal Medio Oriente arabo. L’emergere di nuove forme di autoritarismo dinamico ed il mutamento dei rapporti strategici a livello internazionale 5

[Lucas 2008]. Malgrado i vistosi e ripetuti successi elettorali, il prestigio e la fiducia internazionali di cui gode e le ripetute prove che ha dato di affidabilità democratica, i militari non hanno ancora riconosciuto la legittimità del partito islamista al governo. 7 Bosnia, Albania, Kosovo e Turchia. 6

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Ciò che soprattutto impedisce di guardare con troppo ottimismo al futuro, e che getta ombre di dubbio anche sulla possibilità di una conclusione favorevole dei casi cui abbiamo accennato sopra, è il fatto che di recente si sono formate delle aree di autoritarismo forte e dinamico, che non solo sembrano capaci di contrastare le spinte alla democrazia che si manifestano al loro interno, ma anche di operare a livello internazionale come punto di riferimento e come sostegno per le forze che si oppongono alla democratizzazione. I nuovi regimi autoritari, di cui la Russia e la Cina forniscono i due esempi più significativi, sono eredi di precedenti regimi totalitari dei quali conservano alcuni tratti, essendosi tuttavia sbarazzati dalla zavorra rappresentata da ideologie ormai screditate e da forme di gestione dell’economia rivelatesi fallimentari; come conseguenza del rafforzamento politico, militare, economico e finanziario di questi paesi, il quadro strategico ed i rapporti di forza a livello planetario sono nettamente cambiati rispetto all’ultimo decennio del secolo scorso. Nella fase culminante della Terza Ondata le spinte alla democratizzazione erano state rafforzate dal fatto che i paesi di più vecchia tradizione democratica non solo avevano vinto la sfida economica, tecnologica e militare, ma si presentavano anche come depositari delle ricette fondamentali per il successo economico (sintetizzate dal cosiddetto Washington Consensus), esercitavano un sostanziale controllo sui maggiori organismi internazionali (ONU, FMI, WTO, Banca Mondiale) ed erano i soli ad avere formato un’alleanza militare capace di (ed autorizzata a) intervenire in qualsiasi parte del pianeta. In un simile contesto per la maggior parte dei paesi la democratizzazione politica sembrava un ingrediente necessario di ogni strategia di successo, o anche solo di sopravvivenza. Seppure in forme e per motivi diversi, la Russia e la Cina si presentano oggi ai loro abitanti ed al resto del mondo come due storie di successo: hanno fatto a meno della democrazia, non si sono ispirate al Washington Consensus, possono fare a meno del FMI e della Banca Mondiale (e nel caso della Cina si propongono addirittura come alternativa ad essi per i paesi emergenti) e sono riuscite a convincere una serie di governi che la loro sicurezza non dipende solo dalla benevolenza degli Stati Uniti e dall’avere un regime da essi gradito o apprezzato. La crisi che nell’autunno del 2008 ha colpito i mercati finanziari, originata negli Stati Uniti e che dallo stesso paese ha derivato quei tratti che ne hanno moltiplicato gli effetti, ha compromesso agli occhi dei popoli dei paesi non democratici il prestigio del modello liberaldemocratico occidentale non solo nella sfera economica ma anche in quella politica. Con la salita al potere di Putin la Russia è tornata ad assumere un ruolo per certi versi analogo a quello che in passato aveva avuto l’Unione Sovietica: essa sfida apertamente l’Occidente, ha ripreso la corsa agli armamenti, fa un uso spregiudicatamente politico delle proprie esportazioni di petrolio 4

e di gas naturale e sta ristabilendo un’egemonia sui paesi confinanti, in particolare su quelli che con essa condividono un passato sovietico8. La Cina, che a differenza della Russia è importatrice e non esportatrice di prodotti energetici, segue una linea più elastica, di penetrazione economica in tutte le parti del globo, attraverso l’esportazione di manufatti ed investimenti resi possibili dalle ingenti risorse finanziarie accumulate attraverso gli avanzi di bilancia corrente. Essa accresce continuamente il suo potere economico (ed anche militare) e si candida decisamente a svolgere un ruolo di grande potenza, tendenzialmente pari a quello degli Stati Uniti, senza tuttavia dare segno per ora di aspirare a crearsi nelle regioni confinanti una sfera di influenza diretta e riservata del tipo di quella che la Russia si è venuta costruendo (o ricostruendo) sui propri confini. Il quadro che sta emergendo potrebbe essere definito come una nuova forma di bipolarismo: da un lato un nucleo di nazioni saldamente democratiche (che va dall’Europa Centrale all’Oceania, passando per il Nord America ed il Giappone), cui abbiamo dato il nome di “arco delle democrazie”, all’interno del quale si vanno sviluppando forme di progressiva integrazione e che continua ad esercitare (seppure in forma attenuata rispetto al passato) una certa attrazione sulle aree confinanti; dall’altro un nucleo autoritario comprendente la Russia e la Cina, che si è molto rafforzato in termini politici, strategici ed economici e che con tutta probabilità continuerà a farlo anche nei prossimi anni. Democratizzazione e status di grande potenza Il fatto che i processi di democratizzazione tendano ad arrestarsi, o ad incontrare forti resistenze, quando ci si avvicina ai confini di paesi come la Russia o la Cina pone il problema di quali siano le prospettive di democratizzazione di queste grandi potenze autocratiche; mentre rinviamo ai capitoli XIV e XVI per le considerazioni che direttamente riguardano le caratteristiche specifiche dei due paesi, ci sembra opportuno dedicare qualche parola agli effetti specifici che produce il loro essere grandi potenze. Un esame esaustivo del rapporto tra natura (democratica o autocratica) dei regimi e status di grande potenza dovrebbe prendere in considerazione in termini comparativi la capacità dei regimi di: i) acquisire e mantenere tale status conservando il proprio carattere, un problema che oggi si pone per la democrazia indiana; ii) conservare il proprio carattere dopo avere perso quello status, esempi di riuscita in questo senso sono stati forniti dalla Gran Bretagna ed anche, dopo qualche pericolosa oscillazione, dalla Francia dopo la Seconda Guerra Mondiale9; iii) conservare lo status di grande 8

I rapporti che con essi stabilisce non riproducono il modello brutalmente oppressivo dei satelliti dell’epoca sovietica e sono piuttosto del tipo da protettore a cliente. 9 Germania, Giappone e, in una certa misura anche Italia, offrono esempi di cambiamenti di regime associati alla perdita dello status di grande potenza.

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potenza dopo avere mutato il carattere del regime, la Russia ci sembra fornire un esempio negativo, dapprima con la perdita di quello status nel corso di un confuso e contraddittorio processo di democratizzazione e in seguito con la riconquista dello stesso dopo avere interrotto ed invertito quel processo. Dal punto di vista che qui interessa il caso più rilevante è il terzo, esemplificato appunto dalle vicende russe; il problema che si pone è in sostanza se una grande potenza possa conservarsi tale anche attraversando un processo di democratizzazione. In linea di principio la semplice esistenza di casi di grandi potenze democratiche dovrebbe suggerire una risposta positiva; in pratica ciò è reso problematico dal fatto che i poteri di cui una grande potenza dispone portano spesso l’impronta del regime (autocratico o democratico) sotto il quale sono stati acquisiti e non sono facilmente trasferibili in un ambiente radicalmente diverso. Anche se lo scarso numero di casi empirici osservabili non consente di formulare una tesi generale, diversi elementi ci inducono a ritenere che il ruolo di grande potenza tenda a favorire la conservazione del carattere autocratico del regime in quanto: i) rende più compatte le élites al potere e favorisce lo stabilirsi di una stretta integrazione tra i vertici politici, economici e militari, ii) inserisce il paese in una rete di rapporti con paesi satelliti o clienti con regimi analoghi, rapporti che sarebbero compromessi da un mutamento di regime in senso democratico della potenza dominante. La condotta internazionale della Cina e della Russia rende plausibile questa tesi: in entrambi i paesi le élites sembrano convinte che il mantenimento del carattere autocratico sia una condizione praticamente necessaria per la conservazione (o il recupero) dello status di grande potenza. Non intendiamo sostenere che esse siano necessariamente portate ad opporsi a qualsiasi processo di democratizzazione di paesi che facciano parte della loro sfera di influenza o a sovvertire il carattere democratico di paesi che intendono attirare nella stessa; ma che una chiave di lettura del loro comportamento possa essere fornita dall’esistenza di una certa propensione a farlo. L’ipotesi si attaglia particolarmente al caso della Russia 10, la cui politica estera dopo la salita al potere di Putin ha avuto come obiettivi fondamentali di: i) impedire la democratizzazione degli stati nati dalla dissoluzione dell’URSS che non sono ancora entrati a fare parte dell’UE (Ucraina, Georgia, Moldova e Bielorussia); ii) tenere sotto pressione i paesi baltici (in particolare l’Estonia), cercando di incrinare i rapporti degli stessi con l’UE (p.es. contestando loro una condotta incompatibile con gli standard dell’UE stessa); iii) neutralizzare l’attrazione democratica che l’UE esercita sui suoi confini; iv) creare (anche con il ricorso al ricatto energetico) in seno all’UE una divisione tra un blocco di paesi filo-russi ed uno di paesi filo-americani, proponendosi come punto 10

A differenza della Russia la Cina proclama, e in parte anche pratica, una politica di non ingerenza negli affari interni dei paesi con i quali ha più stretti legami; come conseguenza di ciò essa tiene nei confronti dei regimi autocratici un atteggiamento che potremmo chiamare di benevola accettazione, mentre la Russia segue una condotta di attivo coinvolgimento nella promozione di e nel sostegno ad autocrazie amiche.

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di riferimento del primo (una divisione che avrebbe come conseguenza probabile una spaccatura dell’UE stessa). Di questo disegno non fa certamente parte la trasformazione in autocrazia di paesi come la Francia, la Germania o l’Italia, di cui la Russia spera di conquistarsi l’alleanza, ma ne fa certamente parte l’abbandono da parte dell’UE di quella forma di “discriminazione democratica” che ha finora ispirato la sua politica ed è stata il criterio cui si è ispirata la sua politica di allargamento. Se è vero che il carattere autocratico del regime può favorire l’acquisizione o la conservazione del ruolo di grande potenza, è anche vero che vi sono ambiti in cui solo la democrazia consente di eccellere e che il permanere dell’autocrazia può alla fine trasformarsi in un ostacolo al pieno dispiegamento di quel ruolo. Ciò vale soprattutto nel campo del soft power, e cioè della cultura e del sapere, ed in quello della finanza, campi che possono fiorire solo in un contesto di libero accesso alle informazioni, di trasparenza e di piena responsabilità per le iniziative assunte 11: lo sforzo di immaginazione per concepire una Harvard cinese o una Wall Street russa è decisamente fuori dalla portata della gente comune. L’instabilità politica nelle aree in cui i due blocchi si confrontano più direttamente Il confronto tra il polo delle democrazie e quello (o quelli) delle autocrazie assume forme diverse dai tempi della Guerra Fredda: non si estende a tutto il pianeta, ma si concentra in alcune aree situate sui confini di entrambi i nuclei. In alcune aree tale confronto ha prodotto una marcata instabilità politica: ciò è avvenuto soprattutto nelle regioni che separano la Russia dal resto dell’Europa, nelle quali l’instabilità ha assunto dapprima la forma di rivoluzioni democratiche, le cosiddette rivoluzioni colorate (“delle rose” in Georgia e “arancione” in Ucraina), ed in seguito quella dello scontro tra quanti desiderano ancorarsi (politicamente e militarmente) al polo democratico e quanti vogliono invece ricongiungersi al polo autoritario12. Fino a poco tempo fa si poteva ritenere che il confronto non si sarebbe espresso direttamente in termini di rapporti di forza militari, di corsa agli armamenti e di scontri armati, dopo la crisi georgiana (agosto 2008) ciò non è più possibile. Nelle intenzioni della Russia l’attacco alla Georgia rappresenta più un monito all’occidente che il preludio ad una serie di azioni analoghe; quale sarà la risposta occidentale non è ancora chiaro in quanto le posizioni dei diversi paesi sono ancora in larga parte imprecisate, e comunque tra loro diverse. E’ quindi difficile prevedere se il progetto russo di contenimento e di roll back avrà successo o se l’occidente riuscirà a garantire la prosecuzione dei 11

Le recenti crisi finanziarie, che hanno messo in evidenza serie carenze sotto questi rispetti non smentiscono, ma piuttosto confermano questa tesi, in quanto hanno messo in evidenza quanto essenziali siano quegli elementi e come solo in una democrazia si possa insieme denunciarne le carenze ed approntare i rimedi. 12 I tentativi di replicare in altre repubbliche ex sovietiche le “rivoluzioni colorate” sono rapidamente falliti, in seguito a dure repressioni (Uzbekistan) e all’involuzione seguita alla “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizistan.

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(peraltro tormentati) processi di democratizzazione e, in caso affermativo quale sarà il prezzo in termini di deterioramento dei rapporti con la Russia. La parte orientale del blocco dei paesi autoritari, quella sulla quale la Cina si affaccia con i suoi confini meridionali, comprende i paesi del Sud Est Asiatico che aderiscono all’ASEAN13ed ha caratteristiche decisamente diverse da quella sulla quale si esercita l’egemonia russa: in primo luogo si tratta di una regione aperta, formata soprattutto da isole e penisole in un mare sul quale si affacciano anche grandi e medie potenze democratiche (USA, Giappone, Australia, India) ed in cui vige un complesso equilibrio multipolare; a ciò si deve aggiungere che tutti i paesi della regione, pur diversi per grado di sviluppo e ricchezza, manifestano una straordinaria vitalità economica, che si orienta soprattutto al settore manifatturiero, deve poco o nulla alle risorse naturali e molto alle doti di laboriosità, industriosità e parsimonia delle popolazioni, e sta portando alla formazione di una consistente e dinamica classe media. Si tratta di caratteristiche che nel lungo periodo prospettano un quadro favorevole allo sviluppo della democrazia, anche se attualmente le popolazioni sembrano desiderose di arricchirsi più che di occuparsi di politica. I progetti di integrazione economica, sul modello dell’UE, attualmente discussi dai paesi membri dell’ASEAN potrebbero, se portati a conclusione, creare precondizioni favorevoli all’emergere e al consolidarsi di democrazie nella regione, attraverso la formazione di un sistema integrato di rule of law e di organismi sovranazionali regionali, naturalmente più aperti di quelli strettamente nazionali all’influenza economica, culturale e politica che proviene dall’area delle democrazie. Le prospettive della democrazia nelle altre regioni Nelle altre regioni del globo, che comprendono l’America Latina, l’Africa, il Medio Oriente e buona parte dell’Asia Meridionale e Sud-Orientale, le dinamiche politiche non sono direttamente riconducibili al confronto tra i due poli di cui si è detto sopra, anche se il progredire della globalizzazione e la proiezione internazionale delle grandi potenze autoritarie tendono ad accrescere il peso delle logiche bipolari. Le nazioni africane, comprese le (relativamente) poche democrazie, sono quelle che presentano la maggiore precarietà. Un cauto ottimismo riguardo alla possibilità di una certa stabilizzazione delle democrazie oggi esistenti, e di un’evoluzione in senso democratico di quelle che attualmente sono solo delle semidemocrazie, può derivare dal fatto: che va crescendo il numero dei paesi che sembrano avere imboccato un sentiero di crescita abbastanza sostenuta 14 e che la piaga dei conflitti, pur ancora grave, si sta forse riducendo.

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Association of South East Asian Nations. Tra questi figura la maggior parte delle pur precarie democrazie africane.

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Il Medio Oriente (esclusa la Turchia di cui già si è detto) continuerà ancora ad essere l’area di maggior sofferenza per la democrazia. Il peso del petrolio (notevolmente accresciuto dopo i vistosi rincari degli ultimi anni) e la crescente presa dell’islamismo radicale, di cui parliamo nel prossimo paragrafo, sono fenomeni di cui è difficile sopravvalutare la portata negativa; qualche nota di cauto ottimismo può venire dal fatto che nella regione si stanno verificando alcuni fenomeni nuovi e interessanti, tra i quali l’emergere di forme avanzate di modernità nel campo dell’economia, della finanza e dell’informazione. In America Latina assistiamo da un lato ad un consolidamento della democrazia nei paesi maggiori della parte meridionale del continente (Argentina, Brasile, Cile ed Uruguay), favorito anche dal fatto che è in atto una certa attenuazione delle forti ineguaglianze che continuano a caratterizzare le società della regione e che in alcuni paesi (in particolare in Brasile) si assiste all’emergere di nuovi strati di classe medio-inferiore; dall’altro, il regime populista di Chavez in Venezuela sta assumendo tratti sempre più autoritari e coltiva ambizioni egemoniche (sostenute dai petrodollari) nei confronti dei paesi della regione, nelle cui vicende interne si intromette in modo sempre più sistematico, e si propone come erede del castrismo ed antagonista degli Stati Uniti non solo nel contesto latinoamericano, ma su scala planetaria15. Rincaro del petrolio ed emergere di nuove ideologie antidemocratiche Abbiamo visto nel capitolo VII come la presenza di ingenti risorse petrolifere costituisca un serio ostacolo all’affermarsi della democrazia; le vicende degli ultimi anni, che da un lato hanno visto il prezzo del grezzo quintuplicarsi in altrettanti anni e dall’altro l’involuzione autoritaria di paesi come l’Iran o il Venezuela e l’estendersi del sostegno cinese ai regimi autoritari dei paesi africani ricchi di petrolio (Sudan e Angola), inducono a ritenere che, con il crescere del suo prezzo l’influenza negativa del petrolio tenda ad estendersi ad aree sempre più vaste16. L’avventura american in Iraq aveva come obiettivo di democratizzare e di legare all’Occidente uno dei maggiori produttori di petrolio; l’obiettivo è stato mancato in modo clamoroso e l’azione ha contribuito a determinare il successivo rincaro del grezzo, dando un impulso ed una motivazione aggiuntiva al programma di riarmo nucleare dell’Iran ed alimentando i flussi di petrodollari che vanno a finanziare in tutto il mondo le correnti dell’islamismo radicale (da Hetzbollah, ai Talebani, ad al Qaeda).

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La recente (dicembre 2007) sconfitta di Chavez nel referendum sulle riforme costituzionali, attraverso le quali chiedeva la possibilità di rinnovare un numero indefinito di volte il suo mandato presidenziale ed un notevole ampliamento dei suoi poteri in vista della trasformazione in senso socialista dell’economia, segna una battuta d’arresto del suo progetto e potrebbe avere effetti positivi di portata generale per tutta la regione. 16 Il giornalista Thomas Friedman sostiene che la relazione tra prezzo del petrolio e diffondersi o rafforzarsi dell’autocrazia ha il carattere di una legge (una delle poche di cui si possa parlare nella sfera politica) [Friedman 2006].

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Con l’emergere dell’islamismo radicale si è assistito alla ricomparsa del fenomeno di correnti ideologiche dal forte carattere antidemocratico, un fenomeno che nel corso della Terza Ondata sembrava essersi esaurito con la fine delle dittature fasciste prima ed il crollo dell’Unione Sovietica poi. La minaccia che l’islamismo radicale presenta per la democrazia assume diverse facce: i) nel caso dell’Iran quella di un regime direttamente espresso da correnti radicali dell’islamismo sciita; ii) in Arabia Saudita, quella di un’alleanza (cementata dalla spartizione della rendita petrolifera) tra il clero wahabita e la casa regnante; iii) nella maggior parte dei paesi arabi, quella di movimenti politici di ispirazione religiosa (il principale dei quali è formato dalla rete internazionale della Fratellanza Mussulmana) che godono di largo consenso, che in molti paesi probabilmente vincerebbero elezioni regolari ma che, una volta conquistato il potere, potrebbero rinnegare la democrazia e perseguire agende più radicali; iv) quella di regimi che, negli stessi paesi in cui quei movimenti sono presenti, giustificano il proprio carattere non democratico ed illiberale come necessario per scongiurare la presa del potere da parte di quei movimenti e per combattere il terrorismo islamico. Quale ruolo potranno svolgere le nazioni democratiche nel promuove l’ulteriore diffusione della democrazia Nei capitoli precedenti abbiamo posto ripetutamente l’accento sul peso che nei processi di democratizzazione hanno avuto fattori esterni ai paesi direttamente interessati; ciò pone il problema del ruolo che i paesi che già sono democratici possono svolgere e delle responsabilità che per gli stessi ne derivano. Desta una certa preoccupazione il fatto che i risultati clamorosamente negativi prodotti in Iraq dal progetto di realizzare un manu militari “cambiamento di regime” abbiano finito per gettare il discredito sull’idea stessa di una strategia di generale promozione della democrazia. Sarebbe errato liquidare la questione come semplice espressione di un idealismo velleitario e pericoloso, ignorando il potenziale espansivo di cui le democrazie naturalmente dispongono. L’ampia casistica delle forme di influenza esterna che abbiamo esaminato nei capitoli precedenti suggerisce che vi sono possibilità e prospettive assai più promettenti e meno rischiose, riconducibili alle ampie e molteplici riserve di soft power di cui le democrazie dispongono. Alla base di esse sta la constatazione del fatto che, in un’epoca di globalizzazione, un punto di forza delle democrazie consiste nella superiore capacità che esse hanno mostrato di stabilire tra loro legami (commerciali, finanziari, culturali, giuridici, di alleanza militare ecc.) solidi ed intensi, sviluppando sistemi multilaterali, o reti di legalità e forme di integrazione, che favoriscono la crescita economica e migliorano le condizioni di sicurezza di tutti i paesi che ne fanno parte; i regimi autocratici sono 10

rimasti in genere esclusi da questi processi e quando hanno tentato di attivarne di propri hanno in genere ottenuto risultati insignificanti.17. Là dove quelle condizioni sono state realizzate la democrazia si è consolidata ed ha esercitato un’attrazione sulle aree confinanti; là dove invece esse sono mancate la democrazia ha stentato ad affermarsi o è rimasta precaria. Il problema che si pone è se soluzioni del tipo di quelle che hanno consentito la stabilizzazione della democrazia possano essere adottate anche per promuovere il passaggio dall’autocrazia (o dalla semidemocrazia) alla democrazia; più precisamente se l’essere un paese democratico sia una condizione preliminare alla sua partecipazione al tipo di rapporti che facilitano il consolidamento della democrazia, o se paesi non democratici possano stabilire con paesi che già sono democratici rapporti simili a quelli che le democrazie sono portate a stabilire tra loro e se, in caso affermativo, ciò possa indurre i paesi che ancora non sono democratici ad imboccare la strada di un’effettiva democratizzazione. Si tratterebbe in sostanza di offrire a paesi in cui è presente un certo potenziale democratico la possibilità di “ancorare” i propri processi di democratizzazione ad un’area democratica, realizzando con i paesi che ne fanno parte delle forme di integrazione simili a quelle che essi hanno già realizzato tra loro nel corso della Terza Ondata. Tutto ciò può essere riassunto nei seguenti punti essenziali: i) la formazione di nuclei o di reti integrate di legalità (rule of law) è più facile e può dare risultati più stabili del tentativo di promuovere direttamente la democratizzazione delle istituzioni propriamente politiche: una volta che tali reti siano state costituite, l’effettiva democratizzazione risulta più facile e ne è per certi versi una conseguenza naturale; ii) l’adesione a tali reti comporta per i paesi interessati l’assunzione di una serie di impegni nei confronti degli altri paesi partecipanti e la necessità di sottoporsi a controlli ed alla possibilità di sanzioni; iii) poiché la perdita o la trasformazione della sovranità che da ciò deriva ha conseguenze destabilizzanti soprattutto per i regimi autocratici, più propensi di quelli democratici a conservare le prerogative tradizionali della sovranità, l’offerta di partecipazione determina una spontanea autoselezione dei paesi che sono disposti ad intraprendere un percorso di democratizzazione18; iv) gli organismi che operano come tessuto connettivo delle reti, e che rappresentano le forme di sovranità integrata proprie delle stesse, sono più esposti di quanto non

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Nelle forme federative è presente un intrinseco elemento di democraticità, derivante dal fatto di essere fondate sulla libera determinazione dei partecipanti, «la definizione più semplice [del federalismo] è quella di autogoverno e partecipazione al governo» [Elazar 1998, 11-12]. Un’entità non democratica che partecipi ad una struttura federativa si trova nella condizione imbarazzante di negare ad entità minori che di essa fanno parte dei diritti che essa stessa rivendica in quanto parte dell’entità più ampia. A ciò si deve aggiungere che il fatto che, nei processi integrativi e federativi, gli stati non partecipino in genere come entità compatte ed in blocco, ma a livelli diversi e attraverso organi particolari e distinti, introduce un elemento di pluralismo nella loro stessa struttura. 18 Il fatto che l’appartenenza alle reti di cui si è detto presenti in genere dei benefici economici, cui i paesi non possono rinunciare senza pagare un prezzo pesante in termini di competitività, può indurre ad aderirvi anche paesi che siano tiepidi o riluttanti nei confronti della democrazia, esponendoli alle dinamiche di cui si è detto.

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siano i singoli paesi partecipanti all’influenza economica, politica e culturale delle democrazie e possono quindi trasformarsi in veicoli di influenza o di contagio democratico. La condotta dei paesi democratici nei confronti di questi processi dovrebbe ispirarsi congiuntamente a principi di apertura e di selettività: l’apertura dovrebbe consistere nell’incoraggiare comunque la formazione di reti e l’avvio di processi di integrazione tra paesi non ancora democratici e nell’essere piuttosto generosi nell’estendere a questi ultimi alcuni dei rapporti che i paesi che già sono democratici hanno stabilito tra loro; la selettività nel condizionare l’intensificarsi di tali rapporti alla realizzazione di effettivi e verificabili progressi in direzione della democrazia19. Un tratto fondamentale di questo approccio dovrebbe essere il suo carattere doppiamente multilaterale, nel senso di stabilire rapporti tra gruppi integrati di paesi che appartengono al nucleo delle democrazie e gruppi analogamente integrati di paesi che non ne fanno parte20. Divisione di ruoli tra Unione Europea e Stati Uniti Parlando del ruolo delle democrazie ci siamo riferiti all’insieme dei paesi democratici, e più precisamente al nucleo di paesi compiutamente democratici ed economicamente sviluppati che formano “l’arco delle democrazie” ed agli organismi internazionali nei quali gli stessi occupano una posizione dominante. Anche all’interno di questo nucleo è tuttavia possibile individuare entità con caratteristiche distinte ed uniche e che possono svolgere (e di fatto svolgono o hanno svolto) ruoli diversi: tra queste spiccano da un lato l’Unione Europea e dall’altro gli Stati Uniti. Gran parte di quanto abbiamo detto finora si adatta particolarmente alla prima ed è venuto il momento di prendere in esame specificamente il caso dei secondi. Nei sistemi integrati e retti da regole si sviluppa spesso una divisione di ruoli tra le entità che semplicemente operano nel quadro di un sistema di regole comuni e quelle cui spetta il compito di gestire i rapporti con entità esterne al sistema: una forma di multilateralismo differenziato o con specializzazione di funzioni, che è in genere la sola praticabile quando non sia possibile conferire ad un organo collegiale tutti i poteri necessari per svolgere entrambi tipi di funzioni. Quando le funzioni del secondo tipo sono svolte da un solo paese questo assume nel sistema quello che può essere chiamato il ruolo di n-esimo paese21. In un sistema di relazioni internazionali in cui 19

Le politiche di vicinato dell’UE nei confronti dei paesi del Mediterraneo e dell’Africa presentano alcuni tratti dell’impostazione delineata sopra; gli scarsi risultati che nel complesso esse hanno ottenuto finora sono probabilmente dovuti alla loro timidezza politica, al fatto di essersi concentrate soprattutto sugli aspetti commerciali e sui rapporti con l’UE (a scapito dei rapporti tra i paesi esterni all’Unione) ed al fatto di essere state troppo influenzate dai legami che alcune potenze europee (in particolare la Francia) avevano con le loro ex colonie. 20 In ciò esso si differenzierebbe nettamente dall’approccio che la Cina segue nella sua strategia di penetrazione in Africa ed in America Latina, una strategia decisamente bilaterale, che stabilisce rapporti distinti ed esclusivi tra la Cina stessa e ciascuno dei singoli paesi. 21 Il termine è stato coniato con riferimento al ruolo che gli Stati Uniti svolgevano nel sistema monetario di Bretton Woods e deriva dal fatto che, in un sistema di cambi fissi cui partecipano n paesi, vi sono solo n-1 cambi ed altrettanti vincoli alle politiche monetarie, e che vi è quindi un paese, tipicamente quello la cui moneta svolge la funzione di

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sono presenti forze estranee e potenzialmente ostili il ruolo di paese n-esimo richiede strumenti e regole di condotta in parte diverse da quelle degli altri paesi, tra questi occupano un posto importante, ma non esclusivo, la disponibilità di ingenti forze militari e la capacità di farne impiego in modo tempestivo e deciso. Per diversi decenni questo ruolo è stato svolto dagli Stati Uniti, e ciò li ha portati a difendere gelosamente quasi tutte le prerogative tradizionali della sovranità, estraniandosi da molti dei processi di integrazione sovranazionale che hanno interessato gli altri paesi e che sono stati uno dei tratti distintivi della Terza Ondata. Con lo sviluppo dell’integrazione europea, una parte dei compiti del paese n-esimo è effettivamente passata ad organi di tipo collegiale; una parte consistente degli altri, segnatamente quelli riguardanti la difesa ed i rapporti con le principali potenze esterne, è rimasta di competenza degli Stati Uniti. Con la fine della Guerra Fredda la divisione dei ruoli è diventata ancora più problematica e si è incrinato il consenso riguardo ad essa: gli Stati Uniti hanno continuato a muoversi come se nulla fosse cambiato, ed hanno addirittura adottato, soprattutto dopo l’emergere della minaccia del terrorismo, una visione estensiva delle proprie responsabilità e della propria autonomia, mentre una parte dei paesi europei ha dato l’impressione di ritenere che si potesse fare addirittura a meno del paese n-esimo. Lo spazio, ed i limiti delle nostre competenze, non ci consentono di esaminare in modo approfondito questo problema, ci limitiamo a ribadire la nostra convinzione che una politica di promozione della democrazia deve coinvolgere la maggior parte dei paesi democratici ed avere un carattere multilaterale e coordinato e che tale coordinamento dovrà prevedere una distribuzione di ruoli specifici e differenziati. Ciò comporterà per un verso l’attribuzione ad un paese, o ad un gruppo di paesi, di un “ruolo n-esimo” (o di una serie di ruoli di tale tipo), seppure in forma aggiornata alle nuove condizioni, e quindi l’impiego di strumenti diversi e l’assoggettamento ad un insieme di vincoli e di regole diversi, e per un altro che tale distribuzione di ruoli sia condivisa e che ciascuna delle parti si assuma delle responsabilità nei confronti delle altre e l’onere di spiegare e motivare ad esse la propria condotta.

riserva, che è libero dal vincolo di cambio e la cui politica monetaria diventa quindi la politica di tutto il sistema.

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