C I R 20

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Corrispondenze Informazioni Rurali C.I.R. n° 20

Nel prossimo secolo,o in quello successivo, dicono, ci saranno valli, pascoli in cui ci incontreremo, se ce la facciamo. Per scalare queste cime, un parola per te, per te e per i tuoi figli: state assieme, imparate dai fiori, siate lievi (Gary Snyder "For the children", Turtle Island) Notiziario del Centro Documentazione di Pistoia Rivista Mensile Spediz. Abb. Post. -45%, Art.2, comma 20/b – Legge 662/96- Filiale Pistoia Direttore Maurizio Matteucci Reg. Tribunale di Pistoia n.152 del 7-12-1970

tassa riscossa taxe percue Pistoia C.P.O

I ragazzi del Casone. La realtà della valle di Campanara in questi ultimi mesi è sostanzialmente cambiata: si è accresciuto il numero degli occupanti e tra coloro che sono arrivati l'attività principale è quella di Artigianato artistico: scultura-lavorazione del legno che si affianca a quelle preesistenti cioè l'allevamento delle capre che permette la produzione di formaggio, la lavorazione delle terra su estensioni maggiori per il foraggio e l'autosufficienza, e poi lavorazioni artigianali in cuoio, feltro e la manifattura al telaio. Come è naturale le nuove energie hanno portato miglioramenti sensibili: nuova stalla, nuovo laboratorio, nuovo forno per il pane, ristrutturazione delle case; un'attenzione costante e sempre più premurosa verso la conservazione del cibo ci permette di avere buone scorte per l'inverno. Ci sono ancora casolari agibili ma non abitati e ruderi da ristrutturare interamente o in parte: i tetti specialmente sono da rifare. La valle rimane aperta e garantisce l'ospitalità per brevi o lunghi periodi a chiunque sia interessato a condividere la nostra esperienza. Per contatti: [email protected] [email protected] [email protected]

La fatica della bellezza di Renato Pontiroli I boschi che abbracciano la casa si sono spogliati dei colori cangianti d’autunno, restano pennellate di giallo sui pioppi, qualche macchia marrone di foglie secche abbarbicate su castagni e querce e il verde intenso di edere che avvolgono alcuni alberi. Le prime gelide folate di maestrale mulinellano il fogliame caduto lungo i pendii ed è tempo di starsene vicini alla stufa, lavorando, leggendo, cucinando corroborati da un caffè lungo o da una tisana. La stufa però necessita continuamente di essere riempita di legna, quindi esco e imbocco la salita di fianco al fosso che scende dallo Scravaion, durante i tanti giri ho memorizzato alcuni pioppi, faggi e carpini caduti negli anni precedenti. Salgo lentamente con la sega a mano, dopo aver rassicurato il bosco che non taglierò nessun albero vivo, lo faccio sempre per non sentirmi “osservato” malamente, una ghiandaia si alza improvvisamente da un ramo, facendo un putiferio incredibile: allarme, allarme…più sopra rumori di zoccoli e di rami rotti: cinghiali, stupiti…oggi non è giornata di caccia! Uno spesso strato di foglie secche ricopre sassi e pozze d’acqua, gli scarponi faticano a fare presa, ogni tanto scivolo anche perché queste camminate sono occasione di sporadici “stadi modificati di coscienza” naturalmente indotti, allora mi appoggio a un tronco, chiudo gli occhi e immagino di immergere radici giù nel terreno, fino a sentire la roccia, la vena d’acqua, il pulsare della Terra, annuso l’aria e resto immobile. Provo a vedere questo luogo con i sensi dei suoi abitanti non umani originari. È per questo che non uso e non ho mai usato la motosega nel bosco. Tagliare i tronchi secchi, impilarli in verticale contro gli alberi: se piove assorbiranno poca acqua e basterà un vento leggero ad asciugarli; la misura…quella giusta per portarli in equilibrio sulle spalle fino a casa. Questo è il settimo inverno che passiamo a Borgo Cerri, ad occhio e croce mi sono portato un 500 quintali di legna a spalla, che noi accendiamo stufe dai primi di settembre fino a fine aprile. Un amico dei Bassi mi dice sempre che se facessi il conto delle ore mi accorgerei che conviene comperarla, e quelle ore impiegarle in lavoro produttivo. Certo, comperarla…alberi tagliati, argani, trattori, gasolio, motoseghe. Un tempo in questo borgo vivevano 70 persone, Sigfrido (il vicino più vicino) racconta: “I boschi allora erano puliti e curati, la legna buona si vendeva, quella mediana si usava per scaldarsi (poco), le ramaglie grosse facevano carbone e le vedi a mezza costa le piazzole delle carbonaie, scure di terra … con le ramaglie piccole fascine … le foglie di faggio si portavano con i muli ad Albenga per le stalle al posto della paglia”. Se il borgo tornasse ad essere abitato bisognerebbe fare tagli selettivi, trasportare i tronchi con un trattore, argani, motoseghe…Si pulirebbero le terrazze per fare orti, foraggio, cereali e poi stalle per gli animali, i pascoli sull’anfiteatro…Un tempo facevo di questi sogni e speravo si avverassero. Cammino leggero con i due tronchi sulle spalle, mi fermo e riprendere fiato, guardo le terrazze dove i ginepri e i carpini e i pruni e la rosa selvatica preparano per il bosco a venire, dove passano le volpi e i tassi e le faine, forse il lupo, poi sotto, in lontananza il nostro orto dove caccia la poiana e lenta striscia la vipera, poco sopra la strada che Manù percorre sempre ad andatura bradipeda per non schiacciare salamandre, rospi, ramarri. Mi incammino leggero con il peso di questa bellezza impagabile e le motoseghe … mettetevele dove dico io.

Incontro sulla scuola familiare La Casotta, Nibbiano – Pecorara – Casa Perotti, 2 agosto 2008 Sulla terrazza coperta ricavata da un vecchio fienile, con lo sguardo aperto sulle colline piacentine, un gruppo di famiglie si è riunito, all’inizio di agosto, per discutere sul tema della “scuola familiare”. L’incontro è nato dall’esigenza di confrontarsi, di ascoltare le esperienze in corso o già portate a termine, e di raccogliere le opinioni di tutti quelli che si erano dichiarati interessati all’argomento, attraverso i contatti raccolti via mail. Già dal primo cerchio di presentazione – che si è deciso di estendere anche agli assenti, avvalendo-si della posta tradizionale o elettronica – si sono messi in luce alcuni bisogni essenziali che la scelta della scuola familiare – o di qualsiasi altra forma d’impegno diretto nell’educazione dei propri figli da parte dei genitori – di fatto consente di soddisfare. Sin dall’inizio Susanna – che frequenta la quinta in una multi-classe di una scuola di montagna – ci ha segnalato, ad esempio, le sue difficoltà a imparare “i metodi di apprendimento” prestabiliti e in varie forme imposti dalla maestra, – tecniche, riassunti, schemi, scalette, diagrammi, ecc. – piuttosto che la difficoltà di “mandar giù nozioni” che ancora non riesce a sentire come “inutili” o potenzialmente dannose. Le dichiarazioni di Susanna hanno dato lo spunto al gruppo per chiarire, attraverso la discussione, che: - la scuola familiare dovrebbe essere un modo per lasciare ai bambini libera scelta e che le regole di organizzazione del loro “tempo di istruzione” siano in qualche modo decise insieme a loro e non imposte, organizzate dall’alto (nella prospettiva delle esperienze di Neill a Summer Hill); - la scuola familiare è un modo di assecondare i bisogni dei bambini al di fuori della logica rigida di classificazione dei compiti di apprendimento per età (imparare a leggere entro i sei anni, a far di conto entro i sette, a esprimersi in italiano entro gli otto, e così via); - la scuola familiare non dovrebbe essere “solo” una forma di “ripetizione” del modello di istruzione “canonico” attuata tra le mura domestiche, messa in atto da operatori momentaneamente prestati allo scopo (genitori o altri precettori più o meno “occasionali” più o meno professionali) secondo la logica del testo di legge che vuole infatti accertare, con l’esame annuale, le competenze dei genitori ad impartire l’istruzione obbligatoria ai propri figli; - la scuola familiare non è riducibile ad una questione di scelta di metodi, regole o tecniche alternativi alla logica dell’alternarsi di compiti – assegnati in forme rigide – e premi/punizioni – decisi in modo sempre arbitrario; - la scuola familiare non è riducibile alla messa in discussione (in crisi, in dubbio…) o alla revisione sistematica (e a qualsiasi altra forma di rielaborazione specialistica) del corpus di

saperi comunque istituzionalizzato (che sia il programma ministeriale, il palinsesto della tv, la Bibbia o qualsiasi altra raccolta di testi “sacri”…) che si da “per scontato” sia alla base del processo di “educazione” che si intende mettere in atto. Riassunto in uno slogan, la Scuola Familiare non si riduce all’alternativa tra Un-Schooling e Home Schooling (Claudio). Non a caso, una delle motivazioni forti emerse nello scambio dialogico tra le famiglie presenti all’incontro de La Casotta, è la necessità di difendersi dalla omologazione, dalla distruzione della specificità del messaggio culturale locale, tribale, familiare all’interno del marasma relativistico e consumistico della cultura di massa. Questo timore è alla base di quasi tutti i diversi approcci presentati e accomuna le diverse attese espresse, anche quando queste ultime riguardavano gli aspetti meramente tecnici connessi alla scuola familiare – tipo: sono insegnante e/ma voglio imparare a fare scuola familiare… A questo timore potrebbe rispondere una scuola familiare che sia una forma di scambio multi-familiare, una sorta di “mercatino delle idee”, della creatività, uno spazio dello scambio libero e, perciò, necessariamente creativo. Tutti si sono dichiarati convinti, con Clara espressamente citata da Chiara, che per fare scuola familiare “è necessario avere una vita interessante e del tempo libero”. Il bambino, infatti, non dovrebbe essere il “centro” della vita familiare, il nucleo che ne assorbe tutte le energie e che va “protetto” dalle influenze esterne. Dovrebbe bensì esserne “il motore”, cioè la spinta propulsiva delle scelte di vita dei genitori che lo coinvolgeranno a pieno in tutte le loro esperienze di vita. Esperienze che saranno, perciò, “naturalmente interessanti” e qualificanti l’apprendimento del bambino senza che intenzionalmente i genitori ne determinino in qualche misura gli orientamenti e gli apprendimenti – ora ti insegno a cucinare i fagioli piuttosto che a fare gli aeroplanini di carta… Si è giunti a sostenere che l’aspetto di “naturalità” della scelta della scuola familiare dovrebbe, infatti, risiedere in quest’atteggiamento non impositivo – non impongo a mio figlio di fare una vita alternativa perché penso che questo sia un bene per lui – ma propositivo – viviamo insieme questa esperienza, io ascolto i tuoi bisogni, le tue risposte e attraverso un feedback, anche e soprattutto emotivo, ri-oriento il mio comportamento in una direzione piuttosto che in un’altra. La scuola familiare può essere intesa, in questa prospettiva, come un corollario “naturalmente conseguente” alla scelta del contatto continuo, come ha proposto Alfonso, del portare i piccoli, di non separarli mai dalla vita degli adulti in nome dei loro presunti bisogni di socializzazione autonoma. Bisogna, infatti, fare molta chiarezza “interiore” quando si parla di “bisogno di socializzazione” o di “necessità di imparare a socializzare” da parte del bambino. Bisogna, cioè che ci chiariamo: si tratta del nostro desiderio che il bambino impari, o del nostro timore che non impari, a socializzare, e che quindi, resti escluso, che tenda a “fare il solitario”, ecc? Che cosa ci impedisce di scegliere la scuola familiare? Il nostro bisogno che nostro figlio impari il più presto possibile a esercitare su di sé l’autocontrollo per entrare in relazione con persone che non ha scelto, per adattarsi coercitivamente ad un sistema che non comprende, e così via? Non dobbiamo trascurare però il fatto che di tutti questi sforzi di adattamento imposti a nostro figlio, noi genitori siamo responsabili e dovremo, prima o poi, rendergli conto in prima persona – non vale l’argomento: il mondo è così com’è e tu lo impari punto e basta, gli devo offrire anche il mio perché, tendendo conto che il suo comportamento conseguente sarà probabilmente l’ adesione a un nostro consiglio, invito, imposizione piuttosto che una sua libera scelta. Questa esigenza di preservare le facoltà di scelta del bambino, considerandolo a pieno titolo una “persona” e non un “minore” dovrebbe portare, come ha sostenuto Ruggero, a rispondere alle varie “circolari” del Ministero e in particolare all’ultima (che impone l’esame annuale) presentandosi come interlocutori qualificati – sulla base delle esperienze portate a termine – e non solo ideologicamente contrari a una scuola di Stato, a una scuola troppo

succube alle logiche del consumismo e del conformismo, alla Scuola come unica struttura rituale in cui hanno luogo i “riti di passaggio”, di accettazione relazionale e di appartenenza sociale. La discussione ha portato in luce una serie di timori diffusi circa il senso di inadeguatezza o la paura dei genitori di “non dare abbastanza” ai propri figli attraverso la scuola familiare – in termini di saperi necessari o minimi o istituzionali – anche in relazione al proprio vissuto di scolari non sempre ben integrati o esplicitamente ribelli. A tal proposito, Silvia ha proposto di considerare attentamente quanto sostiene Etain, che consiglia i genitori impegnati in una relazione continua con i propri figli a segnare, a fine giornata, su di un quaderno, tutto quello che si è fatto insieme durante il giorno, per poi scoprire quanto grande sia il patrimonio di conoscenze trasmesso quotidianamente e quanto vasto sia potenzialmente il programma degli argomenti effettivamente trattati da un bambino “seguito”, anche in confronto ai cosiddetti programmi ministeriali… che sono invece solo formalmente portati a termine da una classe ordinaria di scuola dell’obbligo. In questo senso, Alfonso ha proposto che la discussione e il confronto con le Istituzioni sullo status della scuola familiare andrebbe quindi estesa o canalizzata nel dibattito sul valore legale del titolo di studio che in Italia di fatto blocca tanti aspetti della vita scolastica – l’autonomia, la personalizzazione dei percorsi formativi, la libertà dell’insegnamento, la ricerca pedagogica, ecc. La contraddizione è, come ha sottolineato Annalisa, palese: se non ci importa nulla della scuola istituzionale perché dovrebbe importarci qualcosa dell’esito dell’esame? Quindi perché preoccuparsi se l’esame di accertamento dell’operato dei genitori che optano per la scuola familiare – secondo gli attuali orientamenti di legge – passa dalla cadenza ciclica (alla fine del ciclo delle elementari, alla fine dal ciclo delle medie, ecc.) alla cadenza annuale (sic! vedi testo della circolare del 14 marzo 2008 sul sito del Ministero della Pubblica Istruzione)? Se nostro figlio non dovesse superare l’esame noi genitori non rischiamo nulla: né sanzioni né riduzioni della patria potestà. Solo il non conseguimento del titolo di studio: l’obbligo di istruzione lo si considera comunque assolto dalla nostra dichiarazione in cui ci assumiamo la responsabilità dell’educazione di nostro figlio secondo la modalità, prevista dalla legge, della scuola familiare. A un eventuale insuccesso potrebbe eventualmente seguire, l’anno successivo, la necessità (ma non necessariamente l’obbligo, almeno per ora!) di sottoporsi a una “doppia verifica” (o anche solo alla semplice ripetizione di quella non superata…) e questo in funzione delle ansie da prestazione dei genitori: cioè se e solo se i genitori desiderino “tenere al passo” il proprio figlio con i coetanei frequentanti la scuola dell’obbligo… oppure lasciarlo libero di scegliere se e quando superare le prove corrispondenti ai diversi gradi di svolgimento dei famosi programmi ministeriali… Bisogna tuttavia essere sempre “attivi” e vigili per evitare che nel rapporto con le istituzioni, alcune determinate persone – cioè insegnanti, dirigenti o “verificatori” a vario titolo – non preparate o ideologicamente contrarie a qualsiasi forma di deroga dai cammini istituzionalmente previsti, si accaniscano contro il bambino, torturandolo psicologicamente o semplicemente non ascoltandolo, come ha riferito Christine a proposito dell’esperienza di suo figlio Johannes. Di fatto dall’ascolto delle esperienze portate avanti sino a oggi, è emerso quanto sia piuttosto frequente che, a fronte di una formale disponibilità ad accettare l’allievo “esterno”, molte strutture scolastiche siano, di fatto, totalmente non attrezzate a gestirlo, sia in termini relazionali sia in termini genericamente culturali, per cui non sono infrequenti, purtroppo, i casi di comportamenti che ancorché illeciti – esami a porte chiuse, accanimento su argomenti o schemi logici tipicamente scolastici, svalutazione degli elaborati autonomamente presentati a documentazione dei percorsi formativi e/o educativi svolti – sono gravemente lesivi della dignità del bambino.

Da qui la necessità, sottolineata da Chiara, di tenere strettamente unito e in contatto continuo il gruppo degli operatori della scelta della scuola familiare, anche attraverso incontri come questo de La Casotta, sia per proteggere i bambini da comportamenti vessatori sia per movimentare la discussione a livello sempre più pervasivo degli apparati istituzionali. Silvia ritiene che sia il caso di “affrontare l’esame” quando ci si sente pronti a mettersi in discussione: l’esame potrebbe essere uno dei tanti modi per evitare il rischio di mettere i propri figli “sotto una campana di vetro”, per favorire il confronto, per affermare “questo è il modo di vivere nostro”, presentarlo ai bambini come una presentazione verso l’esterno, cercando di essere “elastici” nell’accoglierne l’esito… A molti sembra necessario preservare il concetto di “educazione” rispetto a quello di “esperienza”: chi fa scuola familiare non vuole solo ridurre tutto alle esperienze del quotidiano vuole anche trasmettere una cultura, una delle forme di cultura di cui la scuola pubblica non garantisce “più” la trasmissione – sapere contadino, artigiano, religiosospirituale, magico, sentimentale, emozionale – nonché un diverso rapporto adulto-bambino basato sul rispetto reciproco, su un reale rispetto ascolto bilaterale e mutuamente vantaggioso. Molto interesse ha suscitato l’esperienza di Loredana che ha iscritto la figlia ad una scuola “normale” con l’obbligo di frequentarla solo una settimana al mese, con grande elasticità di valutazione e di atte-stazione da parte dell’istituzione in merito alla effettiva frequenza e al lavoro svolto autonomamente dalla famiglia durante le settimane di scuola “familiare”. Anche se si tratta di una scuola particolarmente “attrezzata” – ha “gestito” i bambini degli Elfi per circa un ventennio, con diverse modalità e secondo diversi “accordi” – il modello proposto è sembrato a molti “esportabile” almeno presso le scuole presenti in piccoli centri con problemi di numero di iscritti. Anche l’esperienza di Jacqueline ha suscitato notevole interesse: la sua famiglia ha due bambine iscritte alla scuola ordinaria, che frequentano regolarmente, mentre al pomeriggio, alla sera o durante le festività e le vacanze, svolgono attività creative o esperienze lavorative con i genitori, portate avanti senza imposizioni con il criterio della libera scelta da parte del bambino e dell’educazione fra pari adulto-bambino (o qualunque altro purché non ripeta lo schema duale maestro-allievo già sperimentato a scuola). Inoltre le bambine compartecipano alle esperienze relazionali degli adulti che le selezionano in base a vari criteri di opportunità, ricreatività, piacevolezza… Ascoltando le esperienze dalla voce dei bambini viene fuori che la scuola non piace perché “bisogna alzarsi presto”, perché i bimbi della scuola sono ostili, ti prendono in giro o fanno cose inutili e ripetitive. Ma è da apprezzare perché se non la frequenti rischi di avere pochi amici. E se ti prendono in giro puoi sempre fartelo entrare da un parte e uscire da quell’altra… le loro opinioni sembrano dunque confermare che gli aspetti più “difficili” della scuola ordinaria sono la rigidezza dell’organizzazione – che non può tenere conto delle esigenze o dei desideri dei singoli bambini – e le dinamiche relazionali imposte dalla stessa organizzazione a gruppi di bambini che non si scelgono in base a reciproche affinità o interessi ma si trovano obbligati a stare lì tutti insieme. Dall’ascolto delle esperienze, anche indirette, si è maturato il convincimento unanime che sia necessario confrontare gli stili di vita che pratichiamo per capire come avviare pratiche di mutuo sostegno, oltre che di comprensione/conoscenza. Non a caso si è accesa una discussione sulla definizione “terminologica” di Scuola familiare, chiedendosi perché familiare (in opposizione a pubblica/sociale)? C’è qualcuno che la chiama parentale (che potrebbe essere solo una cattiva traduzione dall’inglese…) o addirittura paterna (in opposizione a materna, viene da supporre…). Claudio ha proposto il termine apprendimento continuo, altri hanno sottolineato il valore di parole come conoscenza, autonomia ed educazione che sarebbe comunque il caso di mettere in

evidenza. Ciò che è apparso evidente, è che a tutti sta stretta essenzialmente la nozione di scuola, che evoca comunque l’idea di un sistema, più che quella di un processo… mentre ciò di cui si è andati discutendo è appunto questo: un processo. Che coinvolga persone, genitori e bambini, piccoli gruppi o intere comunità. Che sia di apprendimento o di educazione – che, come ricorda Annalisa, viene dal latino ex ducere che vuol dire guidare, portare fuori – poco importa. Che sia una costellazione di esperienze e di nozioni sembra quasi scontato e forse inevitabile. Ma che sia un processo, una pratica comune messa in atto da tutti i partecipanti, dove nessuno è soggetto passivo di nessun altro, dove le decisioni sono condivise e le scelte comuni, e non un sistema dato una volta e per tutti. Alfonso ha proposto una “metafora idraulica”: l’educazione è il sistema (qualunque sistema) per travasare la cultura-liquido dal recipiente collettivo istituzionale al recipiente cerebrale individuale. Tutto sta nel capire chi manovra il rubinetto!

Avalon, 27-30 dicembre 2008 Incontro sulla scuola familiare e l'educazione liberatoria È stato un incontro ricco di spunti e di stimoli! Un resoconto corale sarà disponibile prossimamente! È emersa forte la voglia di incontrarsi periodicamente e fare rete. Si è quindi deciso di creare un volantino, che presenti il progetto della rete e le sue attività (cercasi volontari per collaborare!)

E inoltre è stato indetto un prossimo incontro dal 5 al 18 di giugno in Toscana a Gricigliana presso l'Associazione Venti di Terra: un campo estivo di due settimana con cerchi, laboratori e attività! Per info e collaborazioni rivolgersi a: francesco d'ingiullo, casetta dei buoi, 66050 palmoli 329 8064297 [email protected] Ecco intanto in anteprima un primo resoconto dell'incontro, scritto da Elisa, in attesa degli altri, sempre se arriveranno! Un incontro, un convegno... una comunione di anime. Parlare della scuola, dei figli è parlare di noi stessi, delle nostre esperienze, emozioni e paure. In molti ci siamo riuniti in cerchio per condividere la sfiducia nell'istituzione “scuola pubblica” e per trovare un'alternativa: spontaneamente si sono aperti i nostri cuori... che grande emozione! Proprio così, era un sogno che ora non è più così distante dalla realtà. Niente di troppo tecnico e concreto in questi tre giorni; nessuna soluzione burocratica o programmatica, ma piuttosto una grande ed emozionante esternazione. È stata toccata la corda profonda del problema dell'essere umano con l'autorità e il limite in cui la polarità degli estremisti segna i solchi in mezzo ai quali si trova la via del cuore che si nutre di libertà e di autodisciplina allo stesso tempo. Molti bambini interiori si sono svegliati pregandoci di ascoltarli, di

ritornare a quella parte preziosa della vita in cui è ancora tutto scoperta, meraviglia e chiedendoci di non soffocare e condizionare la sete di esperienze e la curiosità che apre le infinite vie della conoscenza. La passione deve scorrere in ciò che si trasmette, educare come innamorarsi e entusiasmarsi assieme agli argomenti del sapere in modo che nulla sia mai banale e distante dalla vita. Argomento avvincente è stato quello sul senso delle parole, sul rivestirle del loro significato; la comunicazione con tutte le sua difficoltà ci trasporta molto verso un piano intellettuale da una parte e verso la competizione, il bisogno di attenzione dall'altra; di nuovo ci troviamo a sondare nel profondo di noi stessi poiché dietro la difficoltà a capirsi c'è comunque l'anelito a restare uniti, insieme per superare quel muro invisibile che è in noi: mi è sembrato che uno scuola nuova vorrebbe proprio tendere a non coltivare forme di chiusura e piuttosto aprire alla condivisione e alla creatività. Sofferenza per l'animo è anche non avere fra scuola e vita quello che sarebbe un naturale collegamento: vorremmo che molte più attività pratiche coronassero l'esperienza della scuola avvicinando l'uomo alla natura invece che allontanarlo. “sapere, saper fare, saper essere.” il sogno di una nuova scuola prende il volo sulle ali di sapienze più varie , più profonde, più umane e meno meccaniche: uno spazio non tanto fisico quanto animico e spirituale per incontrarsi, grandi e piccini, e ascoltarsi spregiudicatamente: quali sono le nostre esigenze più profonde, e partire proprio da queste di modo cha la scuola non sia un indottrinamento ma una fonte di strumenti per affrontare il pellegrinaggio della vita dando importanza e valore alle cose semplici e scoprendo il modo come in un gioco, liberi dalla paura e dal senso di inadeguatezza che una disciplina rigida e cieca, così come una libertà senza coscienza e rispetto, ci provocano. Mettiamoci in Gioco: un mondo diverso si fa insieme!

Terra Preta, l’oro nero della Terra di Nicola, http://ortodicarta.wordpress.com Il suolo più fertile del mondo, si troverebbe in una piccola area nel bel mezzo dell’Amazzonia. È il frutto del lavoro compiuto una quindicina di secoli fa dalle popolazioni locali, che mescolavano al terreno i resti di ossa animali e corteccia d’albero carbonizzate. In portoghese si chiama Terra preta do índio. Il carbone (o per meglio dire biochar) derivato da biomassa bruciata ha un enorme potere nel rendere più fertile la terra, più di quanto facciano composti chimici, o concimi animali. Inoltre, questa tecnica migliora la capacità del suolo di immagazzinare carbonio, e potrebbe quindi rivelarsi un utile strumento nella guerra contro il riscaldamento globale.

Il biochar, è inerte, e dunque resiste all’azione dei microbi del sottosuolo; è molto poroso, e perciò riesce a trattenere l’acqua; è neutro o alcalino e quindi riduce l’acidità del terreno; è un buon isolante che può ridurre la temperatura media del suolo in climi caldi ed è capace di catturare minerali come il calcio, il potassio, il magnesio e il fosforo. In termini di fertilità e produttività, migliorerà la qualità del suolo. Ha un effetto a lungo termine. Dopo che lo aggiungi una volta resterà per centinaia di anni. La produzione del biochar non è particolarmente problematica: si tratta di un processo chiamato pirolisi, che prevede la combustione di materiale organico in assenza di ossigeno. Quando coltiviamo con il biochar stiamo, a tutti gli effetti, cercando di seguire le orme degli antichi creatori della Terra Preta. Non sappiamo ancora esattamente come funzionasse il processo, così come non sappiamo esattamente come e se sia trasferibile dal suo luogo di origine. Siamo lasciati soli a decifrare i segreti della Terra Preta sperimentando nei nostri orti e giardini e comparando le nostre esperienze. 1) Cos’è il biochar? Il biochar è fondamentalmente carbone prodotto attraverso un processo di pirolisi a bassa temperatura. La pirolisi ad alte temperature è quella che genera il carbone classico a cui siamo abituati. Idealmente il biochar viene prodotto in modo tale da preservare la massima ritenzione di bio-oli condensati. Quando utilizzato in maniera generica, il termine biochar, si riferisce semplicemente al carbone prodotto da una qualsiasi biomassa di scarto, senza considerare se abbia o meno una componente di bio-oli condensati. A questo livello il biochar è semplicemente carbone utilizzato con finalità agricole. 2) Quali sono i benefici dell’utilizzo del biochar nel giardinaggio? • Addizionando biochar si ottengono i seguenti benefici: • Stimolazione della crescita delle piante • Riduzione delle emissioni di metano • Riduzione emissioni protossido di azoto (circa 50%) • Riduzione dell’utilizzo di fertilizzanti (circa 10%) • Riduzione dilavamento nutrienti • Sequestro del carbonio in un deposito sotterraneo stabile e a lungo termine • Abbassamento dell’acidità del suolo • Riduzione dell’inquinamento da alluminio • Innalzamento del numero e qualità degli aggregati nel suolo grazie all’aumento delle ife dei fungi • Miglioramento della capacità di ritenzione idrica del terreno • Aumento di Ca, Mg, P e K disponibili nel terreno • Aumento della respirazione microbica del terreno • Aumento della massa microbica • Stimolazione dell’azione di fissaggio dell’azoto da parte dei legumi • Maggior estensione delle micorrize • Maggiore capacità di scambio di cationi 3) Quanto biochar devo utilizzare per ottenere questi risultati? Questo è ancora oggetto di studio. Sicuramente i risultati saranno maggiori con maggiori quantità. Se può soddisfarvi una stima di massima, azzarderemmo che un rapporto di 5 kg a m2 (1 lb/ft2) dovrebbe essere sufficiente ad ottenere i benefici nella maggior parte dei giardini. In ogni caso si possono già riscontrare notevoli benefici legati alla struttura biologica del suolo con rapporti ben inferiori a 1Kg/m2. Questa FAQ include informazioni per l’uso di piccole quantità di biochar nell’orto e nel giardino ottenendo i migliori risultati.

4) Quanto occorre perché i benefici siano visibili? E quanto sono durevoli nel tempo? Alcuni effetti, come l’abbassamento dell’acidità del suolo, sono immediati. Altri sono legati alla biologia del suolo e possono necessitare di tempi più lunghi. L’aumentata capacità di scambio dei cationi può richiedere diversi anni per svilupparsi completamente. La buona notizia è che questi effetti durano molto a lungo. Gli effetti del biochar nella Terra Preta sono durati millenni. 5) Che relazione c’è tra biochar, carbone agricolo e Terra Preta? Il carbone agricolo è un altro nome per definire il biochar. Questo era la materia prima per la creazione della Terra Preta dos Indios così come per crearne la controparte moderna, Terra Preta Nova. La Terra Preta originale fu creata da una miscela di carbone, cocci di argilla e vario materiale organico. Questo, unito alle caratteristiche microbiche di quei terreni, risultò in un terreno ad altissima fertilità reputato in grado di autogenerarsi. Gli effetti del biochar nella Terra Preta de Indio si sono sviluppati e protratti per millenni. Inizialmente, gli studi, indicano la non possibilità di ottenere immediatamente gli efftti completi della Terra Preta, ma, in ogni caso, effetti persistenti parziali sono già stati riscontrati in studi a lungo termine. Il livello di dipendenza diretta legata alle specificità del suolo amazzonico non sono ancora note. In qualche modo questo è ciò che voi, giardinieri-ortolani, dovrete riuscire a scoprire. È probabile che i reali effetti del biochar siano riscontrabili dai vostri nipoti ma non da voi. 6) Cos’è la pirolisi? La pirolisi è la scomposizione chimica di materiale organico per mezzo del calore in assenza di ossigeno. Questo processo crea gas (chiamati syngas), catramine e ceneri. Il risultato è una combinazione di carbone, condensato di bio-oli, catrame e cenere. 7) Cosa si considera come “bassa temperatura” nella produzione del biochar? Il punto più basso della scala di valori teorica è di 120°, la temperatura più bassa a cui il legno carbonizza, e quindi del processo di pirolisi. Un limite inferiore della scala più pratico è quello di prendere a valore la temperatura di combustione guidata del legno, normalmente 350°. Il punto massimo teorico, che separa il biochar dal carbone tradizionale, dipende dal processo di produzione utilizzato e dal materiale combustibile utilizzato, ma viene generalmente indicato con 600°. Queste indicazioni sono comunque rilevanti nel caso di carbone ottenuto da legna ma non valgono nel caso del bamboo o di altre biomasse ad lto contenuto di cellulosa. Il carbone di legna ha, al suo interno, uno strato di bio-oli condensati la cui funzione è identica a quella del glucosio per la crescita della fauna microbica. Il carbone prodotto ad alte temperature perde questo strato e di conseguenza non è in grado di promuovere la fertilità del suolo. 8) Posso sostituire con altre forme di carbone il biochar? Assolutamente. Sebbene gli oli presenti nel biochar giochino un ruolo fondamentale per la fertilità del suolo è stato dimostrato che anche il carbone privo di questi oli da eccellenti risultati. In generale viene comunque consigliato di evitare i pellets di carbone industriale poiché i leganti utilizzati per la sua produzione possono apportare elementi indesiderabili al terreno. Sebbene alcuni leganti vengano segnalati come innocui. Vedi 5.08 per avere informazioni su come ricevere del carbone di pula di riso standard per condurre le proprie analisi casalinghe in vaso e compararle con quelle di altri. 9) Il carbone si disgrega nel terreno? Il carbone è altamente stabile, i microbi sono in grado di decomporlo e disgregarlo ma molto lentamente.

10) Come posso unirmi alla comunità di discussione sulla Terra Preta 1. Bioenergy lists: Terra Preta: the intentional use of charcoal in soils. 2. Bioenergy lists: Terrapreta — Discussion of terra preta, the intentional placement of charcoal in soil. 3. Hypography Science Forums: Terra Preta 11) Come faccio ad ottenere il biochar? Potete acquistare il carbone da ditte produttrici specializzate, le quali sono in grado di fornire un’ampia gamma di prodotti per ammendare i terreni. O potete autoprodurlo. Con l’esperienza si può arrivare ad ottenere del biochar con la giusta capacità di ritenzione che dia i benefici attesi. 12) Cosa posso coltivare per produrre il mio carbone? In Inghilterra, il carbone disponibile in commercio viene prodotto dalle “potature” come viene fatto da circa 2000 anni. Questo è considerabile un sistema ecologicamente valido e può contribuire alla preservazione ed alla salute delle foreste Inglesi. 13) Posso bruciare ossa per fare il carbone da utilizzare in giardino? Si. Pare che il carbone di ossa, con quello prodotto da altri tipi di scarti alimentari, fosse una delle componenti della Terra Preta. 14) Come posso fare il mio carbone? In generale le carbonaie più diffuse al mondo sono quelle dette a buca coperta o pila coperta (fornace di terra), i piccoli orticultori preferiranno però iniziare con sistemi più semplici e su scala ridotta. La pirolisi casalinga non è un processo particolarmente complesso ed il sistema del fusto di metallo può essere una buona base di partenza. La variazione più popolare è quella a fondo ventilato. Con un minimo di capacità manuali e gli attrezzi giusti si può arrivare, partendo da un fusto di metallo, a costruirsi la propria fornace ad alta resa. Se abitate in una zona dove è illegale produrre fumi dovrete fare molta attenzione a cosa utilizzerete come combustibile. Non importa quale tecnica utilizzerete per produrre il carbone ma scegliere materiale legnoso, asciutto e di dimensione uniforme da garanzie di una buona produzione. L’uniformità è una delle ragioni per cui i carbonai usano sempre durame precedentemente tagliato. Se volete utilizzare il calore generato per cucinare prendete in considerazione la cucina a biochar di Robert Flanagan o il sistema a due fusti di Folke Gunther. Il fusto interno, nel sistema di Folke, agisce come ritorto, limitando l’accesso di aria al combustibile per la durata del processo. Una fonte di calore esterna pirolizza il contenuto del ritorto il quale, attraverso una serie di piccoli fori, permette la fuoriuscita dei gas ma limita l’accesso di ossigeno. Il sistema ritorto è sicuramente quello che permette una maggiore efficienza.

15) Quali sono i sistemi per avvicinarsi a grandi produzioni di carbone per il giardinaggio? Un grande fusto ritorto. Utilizzate un fusto con un coperchio con una buona tenuta. Posizionatelo su un supporto appoggiato a terra e praticate dei fori sul fondo in modo da sfruttare l’effetto “ritorto” dei gas volatili infiammabili. Un’alternativa più elaborata è quella di collocare un tubo perforato che dalla sommità del fusto porti i gas verso la parte inferiore, nel braciere. Scegliendo accuratamente la materia prima con questo sistema, che rimette in circolo i fumi attraverso la “ritorsione” dei gas, non solo da un’ottima resa in termini di produzione ma abbatte drasticamente l’emissione di fumi. Fornace da acido piroleico (wood vinegar) [da implementare] Non sono sicuro che in questo caso si possa ridurre l’intensità dei fumi, ma lo spero. 16) Come posso ottenere del carbone che abbia le caratteristiche strutturali e chimiche del biochar? La struttura è caratterizzata principalmente dalla materia prima. Il durame è attualmente il preferito da questo punto di vista ma gli studi in questo campo sono ancora mobili. La chimica è più definita. Il processo di carbonizzazione deve essere tenuto sotto controllo per assicurare la ritenzione dei condensati. Gli strumenti per ottenere questo su scala domestica sono limitati ma fortunatamente molto semplici. In tutti i casi si tratta di limitare l’accesso di aria nella camera per ridurre la combustione con fiamma e per mantenere una temperatura di pirolisi il più bassa possibile così da non consumare e disperdere tutti gli elementi volatili ed il catrame. Sicuramente, tollerare la produzione di fumi, segno di una scarsa combustione, può voler dire aumentare la ritenzione degli elementi volatili. Così come il soffocare la combustione prima che si trasformi da combustione di gas di legna in combustione di gas di carbone può essere efficace. Questo può tradursi in una produzione mista di carbone “nero” e carbone “marrone”, entrambi comunque ottimi per il giardino.

17) Quanto carbone posso pensare di riuscire a produrre? Su una base strettamente di peso ed energia, intorno al 20% con una fornace a bruciatore superiore (TLUD Top Lit Updraft) con una bassa velocità superficiale e 60% con una a fuoco ritorto in condizioni ideali. 40% è un obbiettivo ragionevole. [Necessità di Fonte] 18) Quali materiali refrattari posso usare per realizzare una fornace? Una fornace a fiamma ritorta? E’ possibile ricoprire il bidone con argilla, sassi, sabbia ecc. 19) Quali gas vengono prodotti durante l pirolisi? I principali gas combustibile sono il monossido di carbonio e l’idrogeno, con una piccola percentuale di metano. In casi di alta percentuale di umidità nel combustibile, si produce anche anidride carbonica. 20) Quanto calore viene prodotto durante la pirolisi? La pirolisi, di per sé, è un processo endotermico, ossia, richiede una fonte di calore esterna. Il potere calorifero dei gas prodotti è di 5.000 – 5.900 kJ/m3. Nonostante sia di molto inferiore comparato ai valori del gas naturale, da 33.320 a 42.000 kJ/ m3, ha comunque una sua ragione d’essere. 21) Il carbone è meglio come combustibile che come ammendante del terreno? Può essere. Il suo valore come ammendante è sicuramente più alto quando viene usato in piccole dosi come inoculante, o come appoggio a concimazioni. Ha anche una grande utilità nelle coltivazioni che richiedano forti concimazioni. 22) Il carbone a più valore come combustibile che come compensazione dei gas serra? Forse si. Forse no. 23) Cosa faccio con il carbone dopo averlo prodotto? Potete usarlo così com’è, appena fatto soprattutto se in piccole dosi. Per applicazioni più importanti le scelte possono essere di spezzarlo, setacciarlo, inzupparlo, aggiungervi materiale secco, compostarlo.

24) Perché dovrei trattare il biochar invece di utilizzarlo così com’è? Ci sono molti motivi per cui convenga farlo. 25) Di che dimensioni dovrebbe essere il biochar e in che modo Si può spezzare o setacciare il biochar? Per spezzarlo io mi affido a mortaio e pestello: un bastone di 5 cm di diametro e un contenitore da circa 20 litri appoggiato su un foglio di compensato. Per setacciare e dividere il biochar probabilmente è più utile un piano inclinato (rete per letto) di uno orizzontale soprattutto per grandi quantità. 26) Come posso rendere il biochar più facile da spezzare? Bagnarlo ed asciugarlo sembra aiutare. Spezzarlo leggermente inumidito aiuta a controllare l’inevitabile polvere. 27) Oltre all’acqua con cosa posso inzuppare il biochar? Compost tea, MiracleGro, emulsione di farina di pesce, urea, altra urea... 28) Posso aggiungere il biochar al compost? Si. Questo permette di intridere il biochar di sostanze biologiche e umiche. In più, grazie alla proprietà di assorbire gli odori, consiglio di metterne una manciata ad ogni aggiunta di scarti nel secchiello dell’organico vicino alla cucina. 29) Il biochar modifica il processo di compostaggio? Osservazioni estemporanee indicano che l’aggiunta di biochar fresco finemente macinato può accelerare il processo di compostaggio. 30) Il biochar può danneggiare i lombrichi nel mio compost? È stato osservato che se la percentuale di biochar rimane inferiore al 50% non vi sono problemi, con percentuali maggiori l’attività dei lombrichi può risultare ridotta.

31) Posso usare il biochar nella Compost Toilet? Si. Qui, il potere di assorbire gli odori, è nuovamente fondamentale. 32) Come applico il biochar e qual è il dosaggio limite di applicazione per ottenere effetti dal biochar? Dai dati ad oggi disponibili sembra che i coltivi rispondano positivamente ad applicazioni di almeno 50 Mg C ha-1, sempre che si applichi una sufficiente concimazione per impedire che il carbone induca uno stallo (vedi 5.04). Questa misurazione equivale a 5Kg/m2 ed è attivo con una dispersione del carbone a 5 cm di profondità. I coltivi possono presentare segni di riduzione dello sviluppo con applicazioni superiori. Secondo gli studi fino ad oggi eseguiti, non si è presentata riduzione della crescita per la maggior parte delle specie vegetali e condizioni del suolo anche con applicazioni di 140 Mg C ha-1. 33) Come viene utilizzato generalmente il biochar? Normalmente viene mescolato come quando si preparano i letti aggiungendo compost o altro materiale organico. 44) Qual è il dosaggio normale di applicazione del biochar? Questo non è ancora stato precisamento definito. 45) Ci sono dei benefici ad utilizzare il biochar come pacciamatura? [Miglior ritenzione dell’azoto e degli elementi azotati, riduzione delle emissioni di metano e protossido. Riscaldamento dei letti in primavera. 46) L’aggiunta di biochar può causare uno stallo nella crescita? Nel caso di terreni poveri di azoto, l’aggiunta del biochar può effettivamente causare uno stallo nei processi di crescita. Eventualità comunque relativamente rara in situazioni di orto/giardino dove si può disporre di concimi quali compost, letame, scarti di cucina. Una testimonianza La combinazione data dall’inserimento di biochar ricco di C/N e sacche abiotiche di N minerale può, in alcune situazioni, portare ad una riduzione dell’azoto disponibile per le piante (Lehmann and Rondon 2005). Esperimenti condotti nel nord della Svezia, in ogni caso, hanno mostrato un aumento della nitrificazione e diminuzione dell’ammonizzazione in seguito all’aggiunta di C attivo in una foresta di abeti (Berglund et al. 2004). Sembra che gli effetti del biochar sull’azoto (N) presente nel suolo non siano ancora stati completamente compresi. Studi in serra condotti in Columbia hanno dimostrato che le leguminose sono in grado di compensare la carenza di N attraverso l’aumento di N2 fissato biologicamente, processo stimolato dalla presenza di biochar (Rondon et al. 2004). Le non leguminose, in ogni caso, potrebbero necessitare di concimazioni azotate per compensare l’immobilizzazione. Come effetto indesiderato si può avere, di conseguenza, una maggiore necessità di composti azotati la cui produzione a costi energetici molto elevati (West and Marland 2002) 47) Cosa si può fare per prevenire lo stallo? Si possono adottare tre possibili soluzioni singolarmente o abbinate: (i)il biochar viene applicato esclusivamente alle leguminose fintanto che non si sia fissato sufficiente azoto

da permettere una situazione economicamente soddisfacente per la coltivazione di nonleguminose senza la necessità di aumentare l’applicazione di composti azotati; (ii) il biochar viene caricato di N attraverso una fase di compostaggio o attraverso un processo di produzione di energia (Lee and Li 2003); il biochar viene applicato in dosi controllate che permettano la sedimentazione di N e ottimizzi la produttività delle piante. 48)Il biochar influisce sull’ecologia del suolo? La struttura stessa del carbone fornisce rifugio per molti organismi benefici dai minuscoli batteri ai grossi lombrichi. Il carbone è in grado di accrescere l’attività delle micorrize. Questo fattore non sembra essere influenzato dalla temperatura di produzione del carbone. In Giappone vi è una lunga tradizione dell’uso del carbone come ammendante. Afferma Nishio (1996) : “l’idea che l’applicazione di carbone nel terreno possa stimolare le micorrize arbuscolari locali nel suolo e quindi promuovere lo sviluppo delle piante è cosa relativamente nota in Giappone, sebbene questa pratica sia limitata dagli alti costi”. La stretta relazione tra il carbone e le micorrize è probabilmente importante nella realizzazione del potenziale del carbone di accrescere la fertilità del suolo. Nishio (1996) riporta l’inefficacia del carbone nello stimolare la crescita di alfalfa in terreno sterilizzato, ma la crescita aveva un aumento di un fattore di 1.7-1.8 quando alla coltivazione veniva aggiunto terreno non sterilizzato contenente micorrize locali. Warnock et al (2007) suggerisce quattro possibili meccanismi attraverso cui il biochar potrebbe influenzare l’abbondanza di funghi micorrizici. In ordine decrescente di prove scientifiche disponibili sono: “alterazione delle caratteristiche fisico-chimiche del suolo; effetti indiretti sulle micorrize attraverso l’azione su altri microbi presenti nel suolo; detossificazione dei componenti allelochimici nel biochar ed interferenze nelle segnalazioni pianta-fungo nonché rifugio dai predatori. Il carbone di legna prodotto a basse temperature (più che lo sfalcio o legni ad alto contenuto di cellulosa) possiede uno strato interno di bio-oli condensati disponibili ai microbi per cibarsene, l’effetto di questi bio-oli è identico al glucosio per lo sviluppo microbico (Christopher Steiner, EACU 2004) Steiner et al [2008] ha osservato che la respirazione basale (RB), la massa microbica, la popolazione e l’efficienza dei microbi (espressa dal quoziente metabolico) cresce in maniera costante e significativa con l’aumento delle concentrazioni di carbone (50, 100 e 150 g/Kg soil). L’applicazione della condensazione dei fumi (acido piroligneo, AP) provoca un netto aumento della respirazione indotta del substrato (RIS), delle caratteristiche precedentemente menzionate ed un aumento esponenziale delle popolazioni. Supponiamo che il condensato dei fumi contenga sostanze facilmente degradabili, utilizzabili dal metabolismo dei microbi, e solo una minima parte di agenti inibitori. La formazione di aggregati viene promossa: La presenza nel suolo di biochar promuove attivamente la formazione di aggregati attraverso la stimolazione delle ife dei funghi. Il biochar è in grado di fornire habitat per le ife esomicorriziche, la sporulazione avviene nelle microporosità grazie alla minor competizione dei saprofiti (Saito and Marumoto. 2002)

49) Quale tasso di crescita ci si può attendere? Ci si può attendere che il peso totale del raccolto sia, nella maggior parte dei casi, visibilmente maggiore con una combinazione di carbone-concime che non con la sola concimazione. In alcuni casi i risultati ottenuti sono notevoli. Steiner (2007) ha riportato un raddoppio nella produzione di granoturco in coltivi trattati a carbone+concimazione rispetto a quelli trattati solo a con concimazione. I raccolti sono diminuiti nell’arco di quattro cicli di coltivazione, anche se la riduzione è stata minore nei casi di applicazione di carbone. Le concentrazioni di P, K, Ca, Mg sono rimaste significativamente elevate nei terreni trattati con carbone nonostante il sequestro operato dalle coltivazioni. Considerando che le sperimentazioni sono state effettuate in poche località, non dovrebbe essere una sorpresa scoprire che i effetti attesi possano risultare leggermente inferiori a questa previsione. I dati sugli effetti del carbone sulle coltivazioni sono ancora ridotti – solo un limitato numero di cultivar su una limitata tipologia di terreni sono stati investigati. Le iterazioni tra cultivar, tipologia di suolo, condizioni locali, metodo di produzione, di applicazione e percentuale d’uso del biochar devono essere ancora studiate in dettaglio prima che il biochar possa essere contemplato come ammendante nella coltivazione su larga scala. In ogni caso ci sono chiare prove che l’aggiunta di carbone per determinate cultivar e determinate tipologie di suolo può avere effetti benefici. 50) Esistono sistemi attraverso cui si possa condurre le proprie sperimentazioni in modo che possano essere utili anche per altri? Certamente: CharDB, il database internazionale open-source delle sperimentazioni con biochar. Ora puoi registrare le tue esperienze di concimazione con biochar in un formato omologato “CharML” che dovrebbe facilitare la comparazione dei dati inseriti. Questo, si spera, dovrebbe condurre a nuove ed interessanti conclusioni ed ad una conoscenza più approfondita del fantastico mondo del biochar!” 51) In che misura il biochar limita la produzione d’azoto? Lo studioso del suolo Lucas Van Zweiten ha osservato una notevole riduzione delle emissioni di protossido d'azoto in una situazione agricola in cui ha utilizzato il biochar di cui disponeva. Generalmente terreni con alti livelli di nitrati, una robusta struttura organica e sufficiente umidità hanno livelli molto alti di produzione di protossido, di conseguenza i benefici osservati da Van Zweiten sono probabilmente maggiori. In ogni caso, Gli effetti del biochar sulle emissioni di protossido d’azoto sono un fattore ampiamente sconosciuto. Nonostante sia probabile la riduzione dell’emissione diretta di N2O e quella indiretta, attraverso la riduzione di dispersione di nitrati, nessuna di queste possibilità è stata adeguatamente dimostrata su un’ampia gamma di terreni e cultivar diversi. Grazie a: Ortodicarta e Philip Small Per vedere l’articolo Terra Preta e accedere a tutti i link: http://avambardo.atwiki.com/page/Terra%20Preta

All’ Acquacheta, trent’anni dopo di Marco Bucciarelli

Al Passo del Muraglione imperversa un vento freddo, domenica 20 luglio 2008, un vento che m’ infila di continuo i capelli in bocca e negli occhi. È il modo un po’ irruento in cui il vento mi dà il buongiorno; è il suo modo di proteggermi dagli insetti, dal sudore e da altre molestie, ed io lo apprezzo. Amo il vento più del mare, più del sole, più di altri fenomeni meteorologici, e rimango un bel po’ lì in piedi come uno spaventapasseri, in mezzo alla strada troppo trafficata nella domenica mattina estiva, con capelli e camicia svolazzanti, rimango fisicamente immobile fra le due corsie della strada, ma i pensieri mi corrono in qua e in là, e nemmeno il vento riesce a tener dietro al pensiero. Guardo il muro eponimo (quello da cui trae origine il nome del Passo del Muraglione), a proposito del quale in Toscana si racconta che venne costruito soltanto contro il vento, e mi vengono in mente gli Psilli, quel popolo nordafricano che (a quanto riferisce Erodoto) si estinse perché dichiarò guerra al vento e la perse: rimasero tutti sepolti sotto una bufera di sabbia. Penso anche ad un altro popolo sahariano, questo ancora esistente, i Tubu, che definiscono se stessi «figli del vento». E come potrei, in piedi di fronte al Muraglione toscano, non pensare al Muro di Berlino, a ridosso del quale ho vissuto tanti anni? E pensando a Berlino, oggi che è il venti luglio, mi viene in mente che in Germania è festa nazionale, è il sessantaquattresimo anniversario dell’ unico attentato (fallito) ad Hitler... Ci mancava soltanto questa associazione d’ idee! Mi scuoto. Al Passo del Muraglione c’ è scritto che l’ Acquacheta è raggiungibile a piedi in tre ore e mezza. Grazie al vento freddo, e nonostante che mi sia caricato di fardelli come un mulo, dopo due ore e mezza sono già ai Romiti. Qui l’ Acquacheta, avanti di gettarsi giù a capofitto nel burrone, ha modellato nel corso delle ére geologiche un piccolo grande pianoro, incastonato fra monti che lo riparano dal vento: lo trovo pieno di turisti distesi su asciugamani, sembra di essere in spiaggia. Facendo attenzione a non calpestare nessuno, passo oltre e mi dirigo verso il Briganzone. Il primo luglio scorso, in una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, ero tornato ai Romiti per la prima volta dopo trent’ anni. Non era domenica; non avevo incontrato che una persona o due; mi ero spogliato e mi ero lavato nell’Acquacheta; ero rimasto un giorno e due notti nelle sue foreste, per la prima volta nelle sue foreste dopo trent’ anni! E durante le tre settimane successive non ho fatto altro che pensarci. Sapevo che la mia contrada, l’Istrice, avrebbe vinto, ma non sono andato nemmeno al Palio. Sentivo il richiamo della foresta, più di quello della piazza: almeno in questo, sono più vicino all’ Istrice io degli altri istriciaioli... In fondo, sono un istrice io stesso: silenzioso, schivo, scontroso, e il mio motto potrebbe essere proprio quello ufficiale della Contrada dell’Istrice: «sol per difesa io pungo». E dunque il venti luglio ho ceduto di nuovo al richiamo della foresta e son tornato all’Acquacheta. Con una decina di mele, sei o sette fruste di pane integrale (le baguettes a Siena si chiamano fruste), sacco a pelo, quattro libricini leggeri (poesia medievale, in quattro vecchie lingue ormai cadute in disuso): insomma con l’ indispensabile per sopravvivere tre o quattro giorni. Son tornato all’Acquacheta nonostante alla radio abbiano previsto temporali in Appennino (da anni ho abolito la televisione, la lavatrice, il telefono e la cottura del cibo, ma ho ancora la radio). Stavolta, tuttavia, è domenica e sembra che tutto il mondo si accalchi intorno alle cascate; ecco perché, a differenza di tre settimane avanti, stavolta non mi rinfresco nel fiume, non

sosto affatto, mi lascio súbito alle spalle la bolgia dei turisti e mi dirigo verso il Monte Làvane, che dall’alto dei suoi 1241 metri domina l’Acquacheta da settentrione. Con tutti i miei fardelli addosso, faccio fatica ad arrivare al podere Briganzone e lo trovo in condizioni molto peggiori di trent’ anni fa: praticamente non c’ è piú nemmeno un vano il cui tetto non sia crollato. In compenso merda di mucca dappertutto, e le mucche stesse si aggirano come spettri fra le macerie. Sono le mucche brade introdotte dal demanio; tre settimane fa erano ai Romiti, oggi evidentemente i turisti han fatto scappare anche loro... «Ah, ma davvero?» mi contraddicono a muggiti: «Così, noi saremmo fantasmi che si aggirano fra le macerie, eh? Senti chi parla! E te? Ma non ti vedi, te?» Hanno ragione. Vago inciampando fra le macerie, lo sguardo fisso da sonnambulo, come un fantasma. Núgoli di ricordi mi svolazzano, scuri pipistrelli, nella caverna del cranio. «Ma vàttene al Briganzone!» si diceva trent’ anni fa a Pian Barúccioli e a Trafossi quando si voleva mandare qualcuno al diavolo o a quel paese. Il Briganzone appariva ai nostri occhi come un posto irraggiungibile, più sperduto ancora di quelli dove abitavamo noi, un posto maledetto, il cui stesso nome sembrava definirlo un covo di briganti. Eppure mezzo secolo fa, o poco più, era un podere e una civile abitazione. In tempo di guerra, Yurij vi era stato mandato al confino o in prigionia, e vi era poi rimasto spontaneamente. E chissà quanta gente ci viveva, poiché da qualcuno Yurij doveva pur averla appresa, quella parlata toscanaccia che più tardi lo distingueva dai romagnoli a San Benedetto in Alpe, dove si era trasferito ed era diventato il becchino del paese... I funerali erano rari a San Benedetto, e lui se ne consolava con il vino. Fra un bicchiere e l’ altro bestemmiava e s’ intratteneva volentieri con tutti, ma soprattutto con chi parlava come lui, cioè con i toscani. Un giorno di ventinove anni fa io partii dall’Acquacheta per andare a Firenze alla visita di leva (esisteva ancora la coscrizione obbligatoria). Credo che fosse già marzo, ma sulle montagne c’ era ancora la neve. Yurij mi venne dietro finché non salii sulla corriera a San Benedetto; a giudicare dal commiato che mi dava, si sarebbe detto che partissi per le lontane Americhe come Geppetto. Mentre mi accompagnava alla corriera, ogni poco mi toccava il braccio e mi chiedeva di mandargli una cartolina da Firenze, me lo chiedeva col tono di chiedere un favore importantissimo, quasi con le lacrime agli occhi: «Anche senza francobollo... Pago io la tassa...» disse, e aggiunse: «Basta indirizzare a Yurij, non c’è bisogno né di cognome né d’indirizzo!» Mentre già la corriera partiva con me dentro, Yurij da terra gridò ancora una volta: «Mi raccomando la cartolina!» Naturalmente comprai la più bella cartolina illustrata che trovai a Firenze e, col senno di poi, avrei fatto meglio a comprare anche un francobollo; ma lui aveva detto che gli arrivavano anche senza, dunque gliela spedii senza, indirizzando a Yurij, San Benedetto in Alpe. Quando lo rividi, due o tre settimane piú tardi, gli chiesi se gli fosse arrivata, ma per tutta risposta Yurij abbozzò il gesto permaloso di chi è stato profondamente, ingiustamente ferito da un’ offesa imperdonabile; e da allora non mi parlò mai più. Tutto questo mi torna in mente ora, ventinove anni più tardi, guardando i ruderi del Briganzone, dove Yurij aveva vissuto e preso quell’ accento toscano che poi non perse mai. Sebbene i tetti del Briganzone siano ormai più un pericolo che un riparo, non voglio allontanarmene troppo per l’ eventualità di un temporale. I pochi prati all’ altitudine del Briganzone, tuttavia, sono occupati dalle mucche. Decido di continuare il sentiero che sale al Monte Làvane finché non troverò un pratino su cui trascorrere la sera e la notte, in modo da dover scendere e non salire al Briganzone in caso di temporale. Rimango seduto un’ ora o due sul primo spiazzo erboso che scelgo, ma è troppo scosceso per passarvi la notte. Salgo ancora, fino a trovare una radura un po’ più piana, e vi distendo il sacco a

pelo. Alla mia destra, in basso, i ruderi del Briganzone e le macchioline bianche delle mucche nel verde. Alla mia sinistra, in alto, la vetta boschiva del Monte Làvane. Tutto intorno creste montane più basse coperte di foreste, con qualche sprazzo prativo di verde più chiaro. Fino al tramonto il cielo rimane sereno, ma al crepuscolo cominciano ad arrivare nuvole da occidente, da dove il vento imperversa tutta la notte spingendo verso levante nubi dense che fuggono all’impazzata, senza tuttavia che il cielo torni sereno, perché la mandria delle nubi in fuga non finisce mai, anzi s’infittisce, è un branco senza fine, quello in fuga precipitosa verso levante, una coltre spessa che quasi mai nel corso della notte lascia intravedere la luna poco più che piena. Accanto a me ho un lampioncino portatile ad energia solare, ma un grosso riccio viene a raschiarcisi rumorosamente ed insistentemente contro: è una protesta eloquente. «Hai ragione», gli dico; e spengo il lampioncino. Il vento, e con esso la fuga precipitosa delle nuvole, cessa all’alba, e d’improvviso tutto è intriso d’ umidità (ecco il più grande merito del vento: contrastare l’umidità!), che si condensa in una pioggerella fina come nebbia, sotto una coltre di cielo grigio. Io mi ero aspettato un temporale, violento ma breve, e invece mi ritrovo una pioggerella all’inglese, che può durare per giorni interi. Decido di non proseguire il mio cammino verso il culmine del Monte Làvane, ormai reso invisibile dalla coltre umida che l’avvolge. Appendo ai rami di un albero il sacco a pelo e le scorte alimentari: tornerò con la canicola, la settimana o il mese prossimo. Scendo al Briganzone, alla cui fonte prendo acqua da bere, e giù fino ai Romiti, dove non c’è più nessuno (ormai è lunedì mattina). Prima di guadare l’ Acquacheta e iniziare la lunga salita fino al Passo del Muraglione (per la quale impiegherò poi quasi quattro ore), decido però di andare a rivedere Pian Barúccioli, dove arrivai quasi trent’ anni fa, nel dicembre 1978, quando la comune, la famosa comune degli «zappatori senza padrone», era stata fondata da appena un anno e mezzo. Ci vuole meno di mezz’ora di cammino, dai Romiti a Pian Barúccioli, e dunque si può fare anche sotto la pioggerella, che del resto si rivela circoscritta al versante toscano dell’Acquacheta. È ancora abbastanza presto, Pian Barúccioli è avvolta nel silenzio quando vi arrivo. Ma le case sono evidentemente abitate, dunque mi siedo fuori in attesa che appaia qualcuno. Rispetto il silenzio, e intanto guardo e confronto ciò che vedo con le immagini che mi porto dentro: quello che vedo con gli occhi mi pare un piccolissimo, insignificante agglomerato di case, non paragonabile con la mitica Pian Barúccioli che raggiunsi dopo una marcia lunghissima e difficile nella neve alta. Non avevamo nemmeno vetri alle finestre, a quei tempi, mentre ora qualcuno ne vedo (solo qualcuno), e addirittura vasi di fiori alle finestre e pannelli fotovoltaici... Intanto qualcuno si affaccia e mi guarda con aria interrogativa. Mi scuso dell’ intrusione ma, spiego, volevo rivedere i posti dove vivevo trent’ anni fa. L’aria interrogativa del suo sguardo si trasforma immediatamente in interesse e curiosità. Scende, viene fuori. A me intanto torna in mente un verso letto in uno dei quattro libricini medievali: Ih wallota sumaro enti wintro sehstic ur lante... Sessanta fra estati e inverni vagai lontano... Insomma ci mise trent’anni, anche Teodorico, per far ritorno in Romagna. Chi esce di casa è un ragazzo giovane che, a quanto pare, trent’anni non ce li ha nemmeno. Parla con leggera cadenza romagnola (peccato soltanto leggera), dice di chiamarsi Penna (ne gioisco, perché è segno che a Pian Barúccioli si usano ancora nomi vagamente pellerossa) e vuol sapere come mi chiami io o come mi chiamassi trent’anni fa. Saputolo, dice di aver letto il mio nome in qualche libro, e si mette a chiamare Gerri a gran voce. Questa è stata forse la gioia più grande della mia breve visita a Pian Barúccioli:

Gerri esiste ancora! È l’unico dei comunardi della prima ora che ritrovo, ed è importante che proprio lui sia rimasto, perché fu tra i primi, se non il primo in assoluto, ad arrivare qui nel 1977, tanto è vero che gli abitanti di tutti i paesi della montagna romagnola parlavano di noi come dei «seguaci di Gerri della Rocca», ed era inutile spiegargli che non eravamo seguaci proprio di nessuno. Gerri ci mette un bel po’ a uscire di casa, ma la calma è sempre stata uno degli aspetti più belli del suo carattere. Anzi, ora scorgo nei suoi occhi una pace più completa, più distesa di quella che aveva un tempo. Esteriormente è meno in carne di trent’ anni fa, è più smunto, e i suoi capelli han perso un po’ del nero che avevano, ma sono ancora lunghi uguale. Entriamo nella nuova cucina che han ricavato da uno dei due fienili (la cucina di un tempo è oggi un rudere), mi fanno vedere le innovazioni tecniche (l’elettricità fotovoltaica, l’acqua che arriva in casa senza più dover andare a prenderla alla fonte), mi dicono che ora esiste addirittura una strada e un posteggio a quattrocento metri da Pian Barúccioli. Su quest’ultimo punto io, camminatore alla Jack London, storgo molto la bocca. Chiedo notizie di questo o quel compagno d’un tempo: due o tre son morti, della stragrande maggioranza s’è persa ogni traccia, sui restanti ricevo qualche informazione; ne fornisco a mia volta sulla mia vita, e soprattutto rievoco... Ti ricordi...? Gerri ricorda per filo e per segno tutto di tutti, molto meglio di me — eppure ne ha vista arrivare e partire tanta di gente in trent’anni! La prima cosa che mi chiede è perché non gli ho portato «un bel brunello di Montalcino, ché te sei di quelle parti, no?» — Non ha dimenticato nemmeno di dove sono! Salendo a Pian Barúccioli dai Romiti ho cercato invano la fonte alla quale ci abbeveravamo... «Ah quella?» dice Gerri, «è da mo’ che è seccata! Nemmeno una goccia, nemmeno d’ inverno!» Andavamo a prendere l’acqua laggiù, la portavamo a casa con le taniche, in salita... Ti ricordi il sistema che Marisa aveva inventato per farci il bagno? Ci faceva entrare a turno nella tinozza, ci versava l’acqua in capo, ci lavava i capelli... Quando nomino Marisa, la sua Marisa, Gerri s'infervora: «Lo sai cosa fa adesso la Marisa? Fa la cuoca dai monaci e ascolta Radio Maria a tutto volume!» Oddio! Questo mi sembra il destino peggiore: peggio di quello di chi è morto o di chi è scomparso senza lasciare tracce. Parliamo per due o tre ore di tante cose (che il tacere è bello, direbbe Dante, sí com’ era il parlar colà dov’era), poi mi sento un po’ d’intralcio e mi rimetto in cammino verso i Romiti. «Ma a Trafossi non ci vai?» si stupisce una ragazza, giovane anche lei come Penna e anche lei con leggera, anzi purtroppo soltanto leggerissima cadenza romagnola. Sa che nel 1979 fui tra i fondatori di Trafossi, la seconda comune dell’Acquacheta, anch’essa ancora esistente ma senza più nessuno della prima ora. Se ora vado anche a Trafossi, come faccio poi ad arrivare a piedi al Passo del Muraglione? Ecco perché m’incammino verso i Romiti e non verso Trafossi. Ma ho appeso il sacco a pelo a un albero fra il Briganzone e il Monte Làvane, dunque prossimamente tornerò fra queste foreste e andrò a rivedere anche Trafossi, la «mia» Trafossi.

Per un riconoscimento giuridico delle Comunità Intenzionali Introduzione Le comunità rappresentano una tra le forme più antiche di aggregazione tra esseri umani: oggi possono costituire avanzati laboratori di sperimentazione sociale, eppure non esistono strumenti giuridici per regolare le svariate attività che queste realtà comprendono. L’Italia ha una lunga e ricca storia di esperienze comunitarie, che i sociologi indicano con il termine “intenzionali” per distinguerle dalle "comunità di fatto", cioè quelle che si formano spontaneamente: ma dispetto di una storia così ricca e vivace, le esperienze comunitarie non hanno trovato finora collocazione nell’ordinamento giuridico italiano. La questione che si solleva interessa altre esperienze di fatto che risultano, appunto, prive di propri diritti e, proprio per questo, con minori opportunità di esprimere le loro caratteristiche e potenzialità, e quindi discriminate. Con l'espressione "riconoscimento giuridico delle Comunità Intenzionali" intendiamo in primo luogo affermare l'esistenza di un modello sociale, economico e di valori, che rivendica la piena dignità della propria esperienza. In altri termini, l'idea di un "riconoscimento" non indica la richiesta di vantaggi di parte, ma rappresenta il modo per poter efficacemente esprimere - con pienezza di comprensione ed in coerenza con l'Ordinamento giuridico italiano - ciò che si è e si fa, inquadrandolo nel contesto in cui si è inseriti. Elementi di utilità sociale delle Comunità

Nel concepire l'idea di una legge che riconosca le Comunità Intenzionali è necessario conoscere le molteplici opportunità di utilità e crescita sociale che queste costituiscono, non solo per il territorio sul quale sono insediate, quanto per lo Stato stesso. A questo proposito, basti ricordare il ruolo svolto nella tutela, nel recupero e nella valorizzazione di siti spesso marginalizzati, nei quali l'operosità comunitaria produce il miglioramento di terre incolte, procedendo con elementi quali la riforestazione, la pratica dell'agricoltura biologica, la valorizzazione dei prodotti tipici, il riutilizzo di infrastrutture, il recupero delle consuetudini che erano alla base degli usi civici, così come molto altro ancora. In altri termini le comunità possono essere considerate i sensori dei bisogni del territorio, la cui efficacia potrebbe essere amplificata se esistessero apposite convenzioni con le istituzioni. La Regione Piemonte e la Comunità Europea promuovono politiche pubbliche per ripopolare la montagna, con spese che non sempre sono commisurate ai risultati. La disponibilità di persone che a questo si dedicano gratuitamente con forme di volontariato è un elemento prezioso di che andrebbe riconosciuto e favorito. Non è irrilevante ricordare su questo punto l’oneroso prezzo in vite umane e i costi ingenti per la spesa pubblica in anni recenti, dovuti ai danni derivanti dal dissesti idrogeologici in Piemonte, che in tal modo potrebbero pià facilmente essere evitati, grazie ad un lavoro adeguato di uso dei terreni. Un territorio abbandonato necessita di interventi di ogni sorta; le comunità provvedono ad eseguire a proprie spese le urbanizzazioni primarie e a creare servizi utili di manutenzione e uso delle risorse. Le comunità ristrutturano siti abbandonati e periferici, li fanno rivivere, li rendono abitabili con l'impiego delle energie rinnovabili e con sistemi poco impattanti. Con il loro lavoro riqualificano e nobilitano ciò che altrimenti andrebbe perduto. Anche in questo caso, il risparmio per la collettività derivante dal provvedere in forma autonoma all'uso delle risorse, ai costi energetici, per alcuni casi allo smaltimento dei rifiuti, andrebbe quantificato con cifre di valutazione in termini di diversi "zeri". Con il loro insediarsi in un territorio, molte volte si tratta di territori in fase di spopolamento, le comunità insediano in loco anche attività produttive (in genere nascono e si sviluppano antichi

mestieri, arte e artigianato d'eccellenza), infrastrutture e servizi, elementi poi fruibili anche da parte del resto della popolazione insediata nell’area. Sotto il profilo sanitario, la presenza delle comunità svolge una preziosa opera di prevenzione, che si traduce in un risparmio tangibile per la spesa pubblica in quanto ai costi per l'assistenza sanitaria ed ospedaliera. La qualità della vita e la pratica di stili di vita armonici, previene in molti casi la necessità di ricorrere all'uso di farmaci, ad esempio antidepressivi e psicofarmaci, che i servizi sanitari erogano abitualmente. Gli effetti sociali sono molto più estesi di quanto fin qui espresso. Dal punto di vista educativo, i piccoli he crescono in comunità hanno molte più figure di riferimento educativo, capaci di completare ed integrare il quadro parentale di nascita, diversamente da quanto avviene sempre più spesso oggi in una famiglia mononucleare. Altrettanto importante è il ruolo che hanno in comunità gli anziani, così come altri soggetti deboli, che trovano molteplici occasioni di partecipazione e coinvolgimento alla vita sociale. Motivare e coinvolgere i giovani in ruoli attivi e responsabilizzanti previene i fenomeni di disagio e microdelinquenza, che più facilmente si manifestano in assenza di un contenitore affettivo e progettuale, come la comunità rappresenta. Non certo ultima per importanza è la grande risorsa che le comunità rappresentano nel volontariato: sostenere il volontariato è una scelta coerente con la vita comunitaria, trattandosi di attività che formano gli individui ad affrontare nella pratica la partecipazione ai bisogni della collettività. Un requisito fondamentale da recepire in una legge che riconosca le comunità, dovrebbe essere proprio il riconoscimento dell'impegno sociale, misurabile in servizi di utilità pubblica e privata. Le Comunità nel contesto urbano

Per ampliare le considerazioni su come le Comunità Intenzionali possano costituire importanti risorse per la società, occorre non limitarsi ad osservare le comunità che si costituiscono in territori extra-urbani, ma anche quelle che si costituiscono nelle grandi città. E' sempre più frequente leggere sulle prime pagine dei giornali notizie su come l'inflazione abbia raggiunto dimensioni preoccupanti, con conseguente impennata dei prezzi relativi ai generi di prima necessità e la difficoltà ad "arrivare alla fine mese" per un numero crescente di famiglie. I dati Istat pubblicati lo scorso anno indicano che più di 13.000.000 di persone sono a rischio di povertà nel nostro Paese e, purtroppo, si tratta di un trend in aumento. Parallelamente occorre considerare che un problema crescente della nostra società è costituito dallo sfilacciamento del tessuto sociale, che unitamente a problemi di isolamento e solitudine, si amplifica soprattutto nei grandi centri. La riduzione della quantità e qualità delle relazioni interpersonali è la carenza più grossa che può affliggere una società, in quanto nessuna politica pubblica può avere efficacia se non ha una base, anche culturale, su cui poggiare. In risposta a questi disagi stanno nascendo risposte spontanee da parte di gruppi di cittadini che si organizzano in forma solidale, per affrontare insieme problemi comuni che altrimenti, da soli, non si potrebbero risolvere. Ad esempio, nelle grandi città si stanno diffondendo forme di collaborazione interfamiliari per svolgere acquisiti condivisi (Gruppi di Acquisto Solidale), esempi di applicazione a fattispecie diverse dei modelli comunitari, che la recente Legge Finanziaria ha voluto incentivare attraverso trattamenti fiscali agevolati. Recentemente stanno nascendo, anche nel nostro Paese, vere e proprie comunità urbane, ispirate all'esperienza nord europea del co-housing, altrimenti detti “condomini solidali“. Si tratta di esperienze che non hanno nulla a che vedere con gli squatter e le case occupate: sono infatti tradizionali nuclei familiari e singole persone che scelgono di vivere assieme per fronteggiare, uniti, problemi economici e disagi difficili da affrontate in solitudine.

Dalla coabitazione, nata così per necessità di una vita più serena e facile, si sviluppano accordi reciproci, forme organizzate di muto aiuto e gestioni economiche condivise, creando ad esempio per le spese condivise una "cassa comune", fino ad arrivare a regole di vita comuni, condivisione di tempi, di auto, di lavatrici, e altre situazioni comuni scelte, alle quali ispirarsi. Così facendo si attivano processi compensativi che permettono di ammortizzare tra più persone quei costi e oneri e difficoltà che altrimenti sarebbero insostenibili per un solo nucleo familiare, contrastando nel contempo i problemi derivanti dal crescente isolamento. Gli strumenti giuridici a disposizione delle Comunità

Dopo aver riassunto come le Comunità Intenzionali costituiscano delle straordinarie opportunità di utilità sociale, vediamo ora quali difficoltà queste affrontino e di quali strumenti giuridici possono disporre. In estrema sintesi gli aspetti che occorrerebbe disciplinare con una legge appropriata riguardano: - la proprietà, da intendersi in forma indivisa; - l'organizzazione del lavoro; - le opportunità urbanistiche, da applicare a misura della socialità comunitaria; - i diritti ed i doveri tra gli appartenenti alla stessa comunità. Non esistendo attualmente una disciplina che possa consentire al modello comunitario di esprimersi completamente, le comunità fanno ricorso agli istituti giuridici vigenti, evidenziando i limiti della loro applicazione. Nel dettaglio citiamo alcuni punti chiave: Le Associazioni. Le comunità perseguono scopi non lucrativi, ma rappresenta una forzatura farle rientrare in scopi limitati e definiti delle associazioni, poiché gli scopi comunitari sono complessi e variabili per definizione. Inoltre, il lavoro prestato in ambito associativo può solo essere svolto in forma volontaria, mentre la realizzazione delle finalità comunitarie richiede un impegno sovente “full time”. Un altro limite è legato alla scarsa credibilità che le associazioni hanno nei confronti degli istituti di credito, il che rende difficile l'erogazione di prestiti e mutui. Le Imprese Societarie. Un'impresa è un'organizzazione a scopo di lucro, per questo poco adattabile alle finalità mutualistiche della comunità ed ai meccanismi di regolazione e compensazione interni. Il lavoro comunitario è invece più assimilabile a quello volontario, che a quello salariale. Inoltre i costi applicati al lavoro in un’impresa sono pensati per attività volte a produrre ricchezza individuale e non sono mirati alla crescita collettiva come avviene invece in una forma comunitaria. Soffermandoci su questi primi due istituti, occorre rilevare come le comunità si pongano a cavallo tra le "associazioni" e le "imprese", che sono anche i due approcci attualmente più vicini rispetto al tema del lavoro. Il primo costituisce il settore "no-profit", finalizzato ad attività volontarie di pubblica utilità, il secondo rappresenta il settore "profit", finalizzato all'accumulo del capitale. Le Comunità, con il solo fatto di esistere, stimolano a riflettere sulla necessità di disciplinare un nuovo soggetto giuridico, rendendo possibile l'operare con modalità profit, ma con il fine di reinvestirne i proventi in attività di utilità sociale e di carattere collettivo. Con questo approccio si potrebbero trattare più correttamente anche gli aspetti previdenziali e gli accordi interni alla comunità stessa, derogando in parte alle regole di un sistema che nasce per tutelare i lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, ma che non è pensato per avere in considerazione le finalità solidaristiche proprie delle comunità. Altri istituti utilizzati normalmente per supplire alla carenza legislativa comunitaria sono:

Le Cooperative. Le comunità perseguono scopi mutalistici, in parte assolti dal modello cooperativo, anche se oggi questo è stato equiparato al modello societario. D'altra parte, la comunità rientra forzatamente nella veste cooperativa, perché questa non è idonea a gestire anche funzioni non economiche. Inoltre, anche sotto il profilo economico, la cooperativa accoglie prevalentemente il lavoro dipendente e salariato, mentre non contempla quello proveniente dalla libera attività comunitaria. Le Fondazioni. La Fondazione è un'aggregazione legata ad un patrimonio. Si tratta di uno strumento “rigido“, con meccanismi di controllo che non si adattano ad una comunità, nè possono consentirne l'avvio, poiché nella fase iniziale manca proprio il patrimonio. Infine, ma con un profondo distinguo dai quattro precedenti istituti: la Famiglia. Il Codice Civile dedica un intero libro al diritto di famiglia. Le Comunità intenzionali sono per certi aspetti simili alle famiglie contadine dell'800, pertanto non così distanti dal paradigma di famiglia allargata. Come tali necessitano della regolamentazione dei diritti e dei doveri che nascono tra le persone che condividono la stessa scelta di vita. Per un riconoscimento giuridico delle Comunità Intenzionali

Un riconoscimento giuridico delle Comunità Intenzionali dovrebbe innanzitutto definirne finalità ed oggetto, istituendo un apposito registro nazionale. Tra criteri per l'iscrizione al suddetto registro sarà opportuno stabilire l'anzianità minima ed il numero di aderenti, scoraggiando eventuali impieghi impropri e strumentali del nuovo isituto. Il carattere da evidenziare in questo senso è la stabilità del percorso comunitario svolto fino al momento del riconoscimento, pertanto, a titolo indicativo, potranno risultare congrui gli istituti comunitari sorti con almeno 5 anni di attività e la composizione di 20 soggetti appartenenti, minori compresi. Tra gli elementi identificativi dovranno altresì essere misurabili, in termini oggettivi, quali sono le ricadute di utilità sociale che le comunità costituiscono per la collettività. A questo proposito potrà essere opportuno definire l'attività profusa in termini di volontariato, od equivalente impegno quantificabile, che consenta anche di stabilire forme di collaborazione concertata con le Istituzioni. Uno strumento che si può impiegare in tal senso è il Bilancio-Etico-Sociale, rendicontando tramite esso sulle attività svolte e sulle ricadute di queste, delineando un quadro omogeneo, puntuale e trasparente della complessa interdipendenza tra i fattori economici e quelli socio-politici connaturati e conseguenti alle scelte fatte. La proprietà potrà essere intesa in forma collettiva, ai sensi degli art. 2659 e 2660 del codice civile, con l’obbligo di destinare i beni ricevuti e le loro rendite al conseguimento delle finalità istituzionali. Le Comunità intenzionali potranno stabilire rapporti di lavoro al loro interno in regime di agevolazione fiscale, in ragione della loro accertata utilità e di quanto espressamente affermato nelle finalità statutarie. Si richiama a tal proposito quanto illustrato sopra in merito alla collocazione del lavoro svolto in ambito comunitario, in una posizione mediana tra le attività "non profit" e quelle precipuamente finalizzate al profitto. Oltre al lavoro, le risorse economiche attraverso cui le Comunità Intenzionali potranno finanziarsi riguarderanno, a titolo non esaustivo: donazioni, lasciti, eredità ed erogazioni liberali, contributi di amministrazioni od enti pubblici, entrate derivanti da prestazioni di servizi verso terzi privati o pubblici. La disciplina dovrà anche prevedere la regolazione dei rapporti intercorrenti tra i membri conviventi della comunità, ribadendo come diritti e doveri abbiano una natura mutualistica e solidaristica, equiparati a quelli tra familiari come disciplinati dal Codice Civile, anche ai fini dell’assistenza sanitaria, rispetto ai conviventi residenti.

Sarà inoltre opportuno prevedere la possibilità di concedere opportunità urbanistiche secondo parametri ed indici che tengano conto delle esigenze di gruppi umani comunitari. Tali possibilità saranno recepite all'interno dei Piani Regolatori comunali, anche ricorrendo allo strumento delle Aree Speciali. La normativa di riferimento per quanto non espressamente previsto dalla legge potrebbe rimandare alla disciplina delle associazioni di promozione sociale (L. 383/2000). §-§-§-§-§ Disciplina delle Comunità intenzionali Preambolo La Repubblica riconosce il valore civile e la funzione di utilità sociale delle organizzazioni comunitarie sociali disciplinate dalla presente legge. Esse sono formazioni attraverso le quali oltre ad esprimersi la personalità dei cittadini si contribuisce alla realizzazione dei valori di solidarietà sociale, civile, economica e culturale, alla tutela dell’ambiente ed al perseguimento di obiettivi di ricerca etica, interiore e spirituale. La funzione sociale delle organizzazioni è espressa altresì dallo svolgimento di compiti ed attività in favore della collettività con momenti di risparmio della spesa pubblica. Art. 1. Definizione Le comunità sono aggregazioni di persone fisiche le quali condividono intenzionalmente un progetto di vita caratterizzato dalla ricerca etica e spirituale e fondato su forme di comunione dei beni, collettività delle decisioni, solidarietà e sostegno reciproco tra gli aderenti, attuato infine mediante forme di convivenza continuativa, anche legate ad un determinato territorio od a momenti di valorizzazione degli usi civici. Art. 2. Requisiti per la costituzione Le Comunità si costituiscono per atto pubblico rogato da notaio. Possono costituirsi le aggregazioni di persone fisiche che hanno i seguenti requisiti: a) numero di persone di almeno 10 iscritti, compresi i minori all’atto della presentazione della domanda; b) progetto di vita comunitaria caratterizzato dalle finalità di cui all’art.1, da attuarsi medianteforme di convivenza continuativa tra gli aderenti specificamente previste ed indicate; c) svolgimento di attività di utilità sociale, da indicare nell’atto costitutivo d) previsione di un ordinamento interno ispirato ai principi di uguaglianza e pari opportunità tra gliaderenti con indicazione della elettività delle cariche, dell’obbligo del bilancio etico sociale, dei criteri di ammissione, delle modalità di scioglimento e degli obblighi devolutivi in caso di scioglimento. Le comunità in possesso dei requisiti prima indicati possono richiedere la iscrizione nel Registro Nazionale delle Comunità istituito presso il Dipartimento degli Affari sociali della Presidenza del Consiglio; tale iscrizione viene deliberata in favore delle comunità che ne fanno domanda a seguito della verifica della sussistenza dei requisiti e delle condizioni di cui al presente articolo e purché risulti che le comunità siano esistenti ed operanti da almeno 3 anni. La iscrizione nel Registro Nazionale attribuisce alla comunità la personalità giuridica nonché tutti i diritti, gli obblighi, i benefici e le qualità previste dalla legge in favore di detti soggetti e per i rapporti da essa disciplinati. La iscrizione nel Registro Nazionale attribuisce alla comunità un trattamento normativo e fiscale equiparato a quello degli enti no profit ed ONLUS. Il Registro Nazionale presso il Dipartimento è tenuto e vigilato da uno speciale ufficio (Osservatorio Nazionale per le Comunità) del quale dovrà essere chiamato a far parte un

rappresentante nazionale delle Comunità. Art. 3. Risorse economiche. Le Comunità traggono le loro risorse economiche da: - quote e contributi degli associati; - donazioni, lasciti, eredità ed erogazioni liberali; - contributi di amministrazioni od enti pubblici; - entrate derivanti da prestazioni di servizi verso terzi privati o pubblici; - proventi di cessioni di beni derivanti da attività economiche svolte tramite prestazioni d’opera degli associati, di carattere commerciale, artigianale o agricolo; - altre entrate derivanti da iniziative promozionali finalizzate al finanziamento della Comunità. Le Comunità sono tenute per almeno tre anni alla conservazione della documentazione relativa alle entrate di cui al comma precedente. Le Comunità hanno l’obbligo di rendicontazione delle proprie entrate ed uscite in bilanci annuali. Le Comunità sono tenute a reinvestire al proprio interno i proventi derivanti dalle attività economiche svolte, coerentemente con le finalità istituzionali, con il divieto di distribuire tra i membri gli utili eventualmente maturati. Art. 4. Bilancio etico-sociale. Le Comunità possono sottoscrivere convenzioni con pubbliche amministrazioni per l’erogazioni di servizi a terzi a titolo oneroso. Le Comunità redigono annualmente il bilancio sociale rendicontando sulle quantità e sulle qualità di relazione con i gruppi di riferimento rappresentativi dell’intera collettività, mirante a delineare un quadro omogeneo, puntuale, completo e trasparente della complessa interdipendenza tra i fattori economici e quelli socio-politici connaturati e conseguenti alle scelte fatte. Art. 5. Strutture per lo svolgimento delle attività sociali. Le Comunità possono ricevere in comodato dalle pubbliche amministrazioni beni pubblici mobili ed immobili per lo svolgimento delle proprie attività istituzionali. Possono altresì stipulare con Enti pubblici territoriali locali convenzioni particolari per la costruzione e/o l’ampliamento di strutture edilizio-urbanistiche anche in deroga ai PRGC ovvero per il riconoscimento di “Area Speciale” agli insediamenti destinati al conseguimento delle finalità istituzionali ed a qualsiasi titolo detenuti dalle singole Comunità, anche come momenti di valorizzazione degli usi civici. Art. 6. Proprietà. Le Comunità possono avere intestati beni di proprietà collettiva, ai sensi degli articoli 2659 e 2660 del codice civile, con l’obbligo di destinare i beni ricevuti e le loro rendite al conseguimento delle finalità istituzionali. Art.7. Prestazioni di lavoro I membri che prestano la loro attività lavorativa presso la Comunità in maniera continuativa e prevalente hanno diritto al mantenimento sulla base della condizione patrimoniale della comunità stessa ed in modo che sia garantito un livello corrispondente a quello definito dall’art. 36 della Costituzione e 230 bis c.c. La Comunità ha comunque la facoltà di organizzare forme di lavoro diversificate con trattamenti fiscali autonomi di cui al seguente art. 8. Art. 8. Disciplina fiscale e agevolazioni. Le Comunità possono stabilire rapporti di lavoro al loro interno in regime di agevolazione fiscale nella misura forfettaria fissa per IRPEF del 20% per le prestazioni d’opera onerose ed in regime di

esenzione fiscale per le prestazioni d’opera libere e gratuite prestate dai propri associati per il perseguimento di fini istituzionali. Le Comunità intenzionali possono organizzare forme di scambio lavoro-ospitalità, soggette alla agevolazione fiscale sopra indicata, al netto dei costi di ospitalità. Art. 9. Diritti e doveri degli associati conviventi. I componenti delle Comunità hanno tra loro diritti e doveri di natura mutualistica e solidaristica, equiparati a quelli tra familiari come disciplinati dal codice civile, anche ai fini dell’assistenza sanitaria. Art. 10. Eredità In caso di successione nel patrimonio di un associato appartenente alla Comunità intenzionale riconosciuta per morte del medesimo, in mancanza di altri successibili l’eredità è devoluta alla Comunità intenzionale di appartenenza in deroga all’art. 586 c.c. Art.11. Iscrizione nel Registro Nazionale delle Comunità in sede di prima applicazione della legge L’iscrizione nel Registro Nazionale delle Comunità è consentita, su domanda da presentarsi presso il Dipartimento degli Affari sociali della Presidenza del Consiglio entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, a coloro che a tale data dimostrino di avere svolto da almeno 3 anni la attività di cui all’art. 2 e con il possesso dei requisiti ivi previsti, pur attraverso l’utilizzo di altri istituti giuridici previsti dall’ordinamento. Entro un anno dalla data di iscrizione al Registro Nazionale dei soggetti di cui al primo comma i medesimi dovranno provvedere alla loro trasformazione in Comunità secondo le forme ed i requisiti di cui alla presente legge. Art. 12. Norma di rinvio. Per quanto non espressamente previsto dalla presente legge, alle Comunità intenzionali si applica la normativa della disciplina delle associazioni di promozione sociale di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 383. Bologna, 13 Settembre 2008 Ricorso contro la legge che impone l’accatastamento come abitazione civile dei fabbricati che appartengono a chi non possiede più i requisiti per mantenere la ruralità, come coltivatore diretto o con l’iscrizione alla camera di commercio. Non potete cancellare formalmente con un decreto quella che è una realtà di fatto “antica quanto il mondo”. Fino a prima degli anni ’50, le fattorie agricole familiari impostate sull’autosufficienza erano il 90% e solo il 10 % viveva dell’industria o del terziario. Ora i rapporti si sono invertiti e meno del 5% vive di agricoltura, ma questo non autorizza ad alienare una parte importantissima della nostra storia, perché la trasformazione che c’è stata e che ha visto il sopravvento dell’urbanizzazione e dell’industria, non ha certo portato beneficio all’ambiente e alla salute dell’essere umano. Ora, si vuole ridurre ancora quel 5% legittimando solo coloro che pagano i contributi o sono iscritti alla camera di commercio (coltivatori diretti o imprenditori agricoli), ossia solo coloro che della agricoltura ne fanno un business e sono grosse aziende! Noi, popolo degli Elfi, siamo di fatto e concretamente una comunità agricola autosufficiente. Ci auspichiamo che venga varata una legge per il riconoscimento giuridico delle comunità, siamo

fautori con le altre comunità ed eco-villaggi di una proposta di legge in tal senso. Nella nostra comunità si vive con le proprie produzioni agricole, si pratica agricoltura di sussistenza, si commercializzano soltanto piccole quantità di eccedenze nelle annate buone (farina di castagne, olio). Ma capitano annate, con condizioni climatiche avverse, in cui siamo costretti a comprare anch'esse. Non siamo in grado di pagare i contributi perché il lavoro agricolo non ci consente di avere un profitto. Quello che guadagniamo non è quantificabile, perché varia di anno in anno; è inutile stilare una media degli ultimi 5 anni (per esempio), poiché comunque sarebbe irrisorio, confrontato con i dati dell’industria: ma per noi è sufficiente per viverci! Integriamo le nostre entrate con lavori precari, come artigiani, artisti di strada e facendo le pizze ad alcuni festival, o con lavori agricoli stagionali, ciò per soddisfare quei bisogni della comunità o dei singoli a cui la comunità non può provvedere. Il lavoro del contadino è soggetto a variabili temporali non prevedibili, soprattutto quando si pratica l’agricoltura biologico-naturale (senza l’utilizzo di sostanze chimiche di sintesi per le concimazioni e per i trattamenti antiparassitari). Con l’agricoltura naturale, che non prevede monoculture intensive e favorisce la biodiversità, vale il principio della compensazione: a seconda della condizioni atmosferiche e delle influenze cosmiche, un anno c’è scarsità di un prodotto, ma abbondanza di un altro, e viceversa. Adesso i politici (guarda caso nell’aula di Montecitorio non siede neanche un contadino) vogliono con un colpo di spugna decretare l’espulsione dei contadini veri dalle terre e cancellare la cultura e il modo di vivere più antico del mondo, dignitoso ed eco-compatibile. Essi con la legge privano il piccolo contadino di legittimità, lo estrapolano dal suo contesto, gli impongono delle gabelle burocratiche economiche con il fine di mandar via i veri custodi della terra, in nome della dittatura dell'industria, dell'agro-business, del turismo, della città. Già le normative sanitarie sono in vigore e si sta cercando di rimediare ai danni che hanno prodotto con l'esonero per le produzioni tipiche locali. Questo stile di vita, libero, autonomo, e autogestionario fa paura al potere. Noi non accettiamo di venir defraudati del nostro lavoro, sviliti nella nostra dignità, depredati dai burocrati che si sono fatti “stato”. Ciò offende la memoria e la cultura nei nostri padri e dei nostri antenati, quella cultura che con questo decreto si cerca di cancellare, adducendo false motivazioni. La giustificazione non può essere quella di far accatastare e far pagare l’I.C.I. a chi ha trasformato il proprio fabbricato rurale in una villa con piscina, e non pratica per nulla l’agricoltura. Nella maggioranza dei casi essi hanno beneficiato dei contributi agricoli con la complicità degli amministratori di turno. Di queste storie ne è piena la cronaca degli ultimi 50 anni. Certamente essi vanno perseguiti e devono pagare l’I.C.I. corrispondente al tipo di abitazione (cioè di lusso). Ma una legge giusta non può fare di tutta erba un fascio, deve tenere conto delle categorie più povere, di coloro che praticano una agricoltura di sussistenza e hanno un reddito minimo, inferiore ai 12.000 euro all’anno. Questi ultimi sono penalizzati da questa legge e alla fine saranno costretti ad andarsene, poiché – pur avendo i requisiti agricoli richiesti dalla legge – non sono iscritti presso i coltivatori diretti o la camera di commercio. Lo scopo della legge non può essere esclusivamente l'incasso indiscriminato delle imposte, bensì anche la tutela delle fasce più deboli. Ma questa legge non lo fa, anzi, potrebbe avere l'effetto opposto. Se essa verrà approvata, la figura del contadino-agricoltore di sussistenza scompare dalla lista delle professioni, come già è avvenuto alle anagrafi comunali, dove vorrebbero registrarti soltanto come coltivatore diretto o imprenditore agricolo, e bisogna insistere per mantenere la dicitura agricoltorecontadino. Essa rimane pur sempre una professione e un modo di vivere, anche se non si è iscritti da nessuna parte, e comprende tutti coloro che praticano l'agricoltura per vivere. Le stesse considerazioni si possono estendere alle associazioni no-profit che hanno partita IVA agricola. La maggior parte della loro attività riguarda il settore agricolo e prevede la difesa del territorio, quindi esse hanno diritto allo stesso trattamento. Mario Cecchi, Popolo Elfico della valle del Burrone IL

campagna popolare per una legge che RICONOSCA L’AGRICOLTURA CONTADINA E LIBERI IL LAVORO DEI CONTADINI DALLA BUROCRAZIA ESISTE un numero imprecisato di persone che praticano un’agricoltura di piccola scala, dimensionata sul lavoro contadino e sull’economia familiare,orientata all’autoconsumo e alla vendita diretta; un’agricoltura di basso o nessun impatto ambientale, fondata su una scelta di vita legata a valori di benessere o ecologia o giustizia o solidarietà più che a fini di arricchimento e profitto; un’agricoltura quasi invisibile per i grandi numeri dell’economia, ma irrinunciabile per mantenere fertile e curata la terra (soprattutto in montagna e nelle zone economicamente marginali), per mantenere ricca la diversità di paesaggi, piante e animali, per mantenere vivi i saperi, le tecniche e i prodotti locali, per mantenere popolate le campagne e la montagna. Per quest’agricoltura che rischia di scomparire sotto il peso delle documentazioni imposte per lavorare e di regole tributarie, sanitarie e igieniche gravose,per ottenere un riconoscimento che la distingua dall’agricoltura imprenditoriale e industriale, per ottenere la rimozione degli ostacoli burocratici e dei pesi fiscali che ostacolano il lavoro dei contadini e la loro permanenza sulla terra, CHIEDIAMO CHE 1. Chi coltiva un appezzamento di terra, qualunque sia la sua dimensione, per l’autoconsumo familiare e per la vendita diretta e senza intermediari, possa liberamente: a. trasformare e confezionare i propri prodotti nell’abitazione o nei suoi annessi, attraverso le attrezzature e gli utensili usati nella consueta gestione domestica; b. vendere i propri prodotti agricoli (comprese le sementi autoriprodotte), alimentari e di artigianato manuale ai consumatori finali, senza che ciò sia considerato atto di commercio. 2. I contadini che, come occupazione prevalente, praticano la coltivazione del fondo e del bosco o l’allevamento o la raccolta di erbe e frutti spontanei, esclusivamente per l’autoconsumo familiare e per la vendita diretta ai consumatori finali e agli esercenti locali di vendita al dettaglio e ristorazione, e che non siano anche lavoratori dipendenti o liberi professionisti né abbiano dipendenti, salvo eventuali avventizi impiegati in attività di raccolta SIANO ESONERATI DA a. il regime Iva, la tenuta di registri contabili, l’obbligo di iscrizione alla camera di commercio; ogni imposta o tassa relativa all’occupazione prevalente, alla propria abitazione e al fondo,comprese quelle di registrazione e proprietà relativa all’acquisto di terreni confinanti con i propri e confinanti tra loro; b. l’applicazione del sistema HACCP e, più in generale, le norme vigenti in materia di igiene e sicurezza degli alimenti; c. i vincoli progettuali e urbanistici per: - la costruzione di stalle, serre e altri annessi sui propri terreni e per l’esclusiva occupazione prevalente, purché realizzati con una dimensione massima di 30 mq e a un piano fuori terra, secondo tipologie bene inserite nel contesto ambientale, con strutture solo rimovibili e senza possibilità di cambio della destinazione d’uso; - la ricostruzione di manufatti preesistenti in terra, in legno o in pietra a secco; ABBIANO DIRITTO DI d. macellare direttamente nel proprio fondo il bestiame nato e allevato nel podere, limitatamente a un numero di capi proporzionati ai membri della famiglia e ai propri ospiti, e seppellirne i resti secondo le consuetudini locali, fatti salvi gravi motivi sanitari o la non idoneità dei terreni; e. esercitare nella propria abitazione e sul proprio fondo attività di ospitalità rurale, fino a un massimo di dieci coperti e posti letto, senza necessità di autorizzazioni e senza essere soggetti a regole fiscali e sanitarie;

f. pagare i minimi contributi assistenziali e previdenziali; g. ricevere, attraverso le regioni, servizi gratuiti a domicilio di: - assistenza veterinaria e agronomica; - assistenza burocratica e ricezione per qualunque domanda, dichiarazione, denuncia o modulistica di altro genere a qualunque titolo richiesta dall’amministrazione pubblica o comunque dovuta per legge. 3. I contadini definiti nel punto 2 siano registrati in uno specifico albo del comune di residenza e possano attestarsi con autocertificazione, vera fino a prova di falso. 4. Il lavoro prestato ai contadini definiti nel punto 2, nel loro fondo,gratuitamente o come apprendistato o come scambio di opere, sia assimilato al volontariato e – salvo l’uso di scale o di macchine e attrezzature elettriche o a motore - non sia assoggettato a obblighi contributivi e previdenziali. 5. Siano abolite le limitazioni sui contratti agrari in natura, purché favorevoli ai conduttori per una misura non inferiore al 70% del raccolto.

Per firmare e scaricare il modulo della petizione: www.agricolturacontadina.org prime adesioni: Ass. Consorzio della Quarantina - Ass. Civiltà Contadina – Rete Bioregionale Italiana – Ass. Antica Terra Gentile – Corrispondenza Informazioni Rurali (CIR)

L'indirizzario è in aggiornamento! In caso di necessità http://cir.a.wiki-site.com

CALENDIMAGGIO! INCONTRO della RETE BIOREGIONALE 15-16-17 maggio a Colà di Lazise, Verona loc. Palù di Pesenata informazioni: Giuseppe Moretti 0376 611265 e Vincenzo Benciolini 045 7590990 320 00582172

La rete delle reti Fine del petrolio e crisi globale Lettera di Mario Cecchi, indirizzata a: Via Campesina, Asci, Movimento per la Decrescita, CIR, Consorzio della Quarantina, Civiltà Contadina, I Semi Rurali, Conacreis, Foro contadino, RIVE, Seminasogni, Re Nudo, Ilconsapevole, AAMTerranuova, Rainbow Family, Indiani Padani, Ass.Libera, CARTA, Mag6, Rete di Permacultura, Rete bioregionale italiana, A.C.F., Umanisti, e quanti altri interessati...

Nel panorama italiano non c'è nessuna forza politica in grado di incarnare i valori del cambiamento necessari per dare una risposta concreta alla crisi globale. La stragrande maggioranza sono ancorate nella difesa dei propri particolari interessi e agiscono con logiche di marketing o di potere esercitando sull'intera società italiana una violenza continua e sistematica con le loro faide, i conflitti e le divisioni portate avanti con un linguaggio indegno e arrogante, tanto che si assiste a una quasi rassegnata accettazione generalizzata. Stenta a farsi strada una nuova cultura, una nuova etica nella politica, nelle relazioni, non più basata sulla competitività antagonista ma sul dialogo e sulla collaborazione. Chi è cosciente di questo, è cosciente del fatto che non si possono delegare i valori della libertà, dei diritti, dell'uguaglianza, del rispetto delle diversità, della difesa della Madre Terra, dell'ambiente, della biodiversità, dall'inquinamento e dalla predazione continua ed esasperata praticata dal dominio capitalista. Consapevoli che non vi è nessun ascolto e nessuna pratica per sviluppare la dialettica del cambiamento reale, invitiamo il variegato popolo ambientalista, delle associazioni, delle comunità, degli ecovillaggi, della finanza etica, etc a confrontarsi sulle tematiche inerenti per trovare una strada comune, per cercare quello spirito di condivisione e collaborazione necessario per uscire dalla deriva culturale, sociale e umana dovuti alla dittatura economica burocratica partitocratica che opprime qualsiasi possibilità di cambiamento. Dalla parte della MadreTerra, insieme dal basso si può.

L'incontro “RETE DELLE RETI” si terrà a Villa Sorra - Panzano di Castelfranco Emilia (MO) 23 e 24 Maggio 2009 in occasione del

FESTIVAL “LA CITTA’ OLISTICA” - 2° Edizione Recessione economica e fine del petrolio: le proposte delle associazioni di ricerca etica e degli ecovillaggi per uscire dalla crisi. Due giorni di soluzioni, buone pratiche e sogni per un mondo sostenibile. Il Festival, quest’anno alla sua seconda edizione, vuole essere il luogo d’incontro tra esperienze e progetti diversi, che hanno in comune l’interesse per la ricerca etica ed interiore, il benessere e le discipline olistiche, l’alimentazione responsabile, la non violenza, la sostenibilità, il naturismo e molto altro ancora. L’obiettivo è quello di rendere disponibile a tutti gli interessati lo straordinario patrimonio di esperienze maturate nell’ambito delle associazioni olistiche e degli ecovillaggi, anche sotto forma di risposte a problemi impellenti, che la recessione economica rende sempre più evidenti. Diverse le iniziative in programma, tra le quali: tavole rotonde, dibattiti, musica da vivo, danze, mostre fotografiche, happening artistici, teatro delle ombre, animazione per bambini.

Sono disponibili spazi espositivi tutto attorno alla villa ad uso delle associazioni e degli operatori del settore (i partecipanti dello scorso anno sono stato 56 standisti, la capacità ricettiva è altissima). Gli ambienti all’interno ed all’esterno della villa saranno adibiti ad ospitare workshop e stage ad uso delle associazioni e dei singoli operatori olistici soci. I workshop hanno la caratteristica di essere aperti al pubblico, permettendo a chi lo desidera una conoscenza esperienziale delle discipline olistiche e la partecipazione a laboratori per l’educazione ambientale. Durante la due giorni sarà attivo un padiglione gastronomico con cibi biologici, a cura della cooperativa sociale “La Lanterna di Diogene”, un progetto che offre lavoro a persone diversamente abili. In caso di maltempo, oltre alla struttura della villa, sarà possibile utilizzare un’apposita tensostruttura. Su richiesta è anche possibile l’organizzazione di uno spazio campeggio.

La finalità più importante del festival è quella di far conoscere e collegare tra loro le reti ed i network che operano nel nostro Paese, con l’obiettivo di dare forma ad una “rete delle reti”, che possa creare sinergie e dare più forza al lavoro di tutti. Per informazioni su come arrivare consultare il sito: www.villasorra.it.

Prossimo incontro del C.I.R. alla Greta, nella valle dell’Acquacheta il 29 – 30 – 31 Maggio 2009 La strada non è semplicissima e c’è parecchio sterrato da fare, se non siete sicuri della macchina parcheggiate nei pressi della sbarra arancione e proseguite a piedi per circa un’ora, troverete segnali. Se avete dubbi… chiamateci. Podere La Greta, 50060 S. Godendo (FI) Tel 3478801251 Portare piatto, bicchiere, posate, sacco a pelo, tenda, cibi biologici e …chi più ne ha, più ne metta!

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