Asiatica Venetiana, 2, 1997, pp. 3-17
Adriana Boscaro “Una letteratura compagna dell’uomo per l’eternità”. Ricordo di Endō Shūsaku Quando nel 1969 l’Occidente “scoprì” Endō Shūsaku 遠藤周作 (1923-1996) per il clamore suscitato dalla traduzione di Chinmoku 沈黙 (1966, Silenzio), 1 si trovò di fronte a uno scrittore che da anni affrontava il tema della diversità e che per anni ancora avrebbe frugato nelle pieghe più nascoste dell’animo umano alla ricerca della scintilla capace di scuoterne la coscienza. Salito alla ribalta nel 1955 con Shiroi hito 白い人 (Uomo bianco) che gli valse il premio Akutagawa, ma con alle spalle già un nutrito bagaglio di saggi, racconti e traduzioni, bestseller in numerose occasioni, apprezzato umorista, forse impropriamente definito il Graham Greene del Giappone, vincitore di tutti i maggiori premi letterari giapponesi, candidato due volte al Nobel, Endō è scomparso il 29 settembre 1996. In ricordo di molti incontri allietati da cordiali discussioni, da arguzie e battute di spirito che, velando uno stato di salute precario, le rendevano fastosamente allegre, da bevute “proibite” e perciò più apprezzate, quanto segue è un tentativo di riprendere il filo della sua avventura umana e letteraria e, allo stesso tempo, un omaggio allo scrittore amico.2 La molla che fece scattare l’interesse agli inizi degli anni settanta (Silenzio poneva — in termini che non è esagerato definire laceranti — il problema dell’inserimento della religione cattolica in Giappone) si basava su due fatti: uno era lo scoprire che uno scrittore giapponese fosse divenuto un best-seller con una tematica della quale l’Occidente si sentiva in un certo qual senso “defraudato” ritenendola propria, l’altro erano le soluzioni talvolta poco ortodosse che Endō proponeva per risolvere situazioni di stallo. Anche in Giappone d’altronde le reazioni all’uscita del libro erano state discordanti: mentre da una parte la linea ufficiale della Chiesa aveva contestato atteggiamenti, prese di posizione, dichiarazioni dei personaggi tanto che il 1
Chinmoku ha avuto due traduzioni in italiano. Silenzio (tr. dall’inglese di E. Codronchi Torelli), Roma, Coines, 1973 (rist. Milano, Rusconi, 1982), e una non riconosciuta da Endō, effettuata dall’originale da B. Tonutti (Silenzio, Tokio, Dai Nippon Printing Co., 1972). 2 Alcuni aspetti della narrativa di Endō sono già stati trattati in passato da chi scrive. Cfr. A. Boscaro, “Otoko to kyūkanchō di Endō Shūsaku”, Il Giappone, xiv, 1974, pp. 119-138; “Alcune note introduttive sul ‘caso Endō’”, Annali di Ca’ Foscari, xiv, 3, S.O. 6, 1975, pp. 49-59; “Sul contrasto tra ‘eroe’ e ‘baka’ nell’ultimo dramma di Endō Shūsaku”, Annali di Ca’ Foscari, xv, 3, S.O. 7, 1975, pp. 141-157; “Menamugawa no nipponjin di Endō Shūsaku”, Il Giappone, xvi, 1976, pp. 123-184; “In margine alla Vita di Gesù di Endō Shūsaku”, Annali di Ca’ Foscari, xvii, 3, S.O. 9, 1978, pp. 139-141; “Il cristianesimo di Endō Shūsaku”, in Atti del Secondo Convegno di Studi sul Giappone, Firenze, Aistugia, 1979, pp. 25-35; “The Meaning of Christianity in the Works of Endō Shūsaku”, in P. O’Neill (ed.), Tradition and Modern Japan, Tenderten, Paul Norbury Publ., 1981, pp. 81-90; “Man in the Novels of Endō Shūsaku”, in M. Melanowicz (ed.), Man and Society in Japan Today, Warsaw, Warsaw University Press, 1984, pp. 107-118.
romanzo fu proibito nella diocesi di Tōkyō, dall’altra proprio i lettori non cattolici apprezzavano in quegli stessi punti l’umanità che l’autore vi aveva trasfuso. Alcuni commentatori cercarono di mediare, immedesimandosi nella diversa realtà giapponese,3 mentre lo scrittore stesso ha spesso espresso il suo disagio per tale situazione: Secondo me, gli scrittori cristiani nel Giappone del dopoguerra si sono sentiti gravati da un senso di colpa mentre scrivevano. Avevano sempre presente l’interrogativo se la loro opera fosse compatibile con i principi riconosciuti e ratificati dalla teologia tradizionale oppure se li tradiva. Tale fondata preoccupazione che la letteratura non potesse andare a braccetto con la religione, con il passar del tempo li portò ad affrontare l’angosciosa realtà che le loro opere rattristavano e turbavano sacerdoti e credenti. Io stesso (e forse anche altri avranno più o meno avuto le stesse esperienze) ho toccato con mano quanto le mie opere riuscivano a oscurare il volto di sacerdoti e addolorare il cuore di suore che stimo: tuttavia nello stesso istante sentivo che mi era impossibile non scrivere. In questo senso gli scrittori cristiani del dopoguerra non sono i figli benedetti della chiesa, e sebbene pur sempre figli sono più simili al Figliol Prodigo del Vangelo. A ogni lettera di lettori in cui mi si dice che le mie opere risvegliano in loro un profondo interesse per il cristianesimo, sono più in imbarazzo che felice. E tale imbarazzo deriva dal fatto che devo suggerire loro, visto che si interessano al cristianesimo, di studiarlo e di mettersi in contatto con qualche sacerdote. In altre parole, provo sempre un senso di solitudine che deriva dal fatto di non riuscire a fare a meno di scrivere quello che scrivo, e che quanto scrivo non trova il sostegno morale dei teologi e del clero.4
Quali erano queste “devianze” che tanto irritavano? Dove Endō trasgrediva pur nella piena libertà dello scrittore? Un punto fondamentale, in particolare per Silenzio, era l’ambientazione storica che coinvolgeva personaggi noti a cui venivano messe in bocca affermazioni poco ortodosse. Una breve traccia della trama potrà far meglio comprendere le diverse posizioni. L’antefatto: missionari gesuiti erano giunti in Giappone nel 1549, avevano predicato e diffuso la fede cristiana, avevano avuto anche un discreto successo, ma poi le mutate condizioni politiche avevano portato alle persecuzioni e ai primi ordini di espulsione per i missionari di ogni ordine, mentre in Europa giungeva la sconvolgente notizia che il Padre Provinciale, Cristovão Ferreira, aveva abiurato sotto la tortura dell’ana tsurushi 穴吊るし.5 La trama: due 3
Limitandoci qui alle reazioni in occidente, si veda Francis Mathy, “Shusaku Endo: Japanese Catholic Novelist”, Thought, vol. 42, no. 167, 1967, pp. 587-614; Francis Mathy, “Endo Shusaku: White Man, Yellow Man”, Comparative Literature, I, Winter 1967, pp. 58-74; Diego Pacheco, “El sacerdote caído, en las obras de Endoo Shusaku”, Razon y Fé, no. 831, 1967, pp. 371-394; Ferdinando Castelli S.I., “Un ‘thrilling’ teologico. “Silenzio” di Shusaku Endo”, La Civiltà Cattolica, 3 nov. 1973, anno 124, n. 2961, pp. 234-246. Il punto di vista di Endō in “Concerning the Novel ‘Silence’”, The Japan Christian Quarterly, Spring 1970, pp. 100-103. 4 Endō Shūsaku, “Nihon to Iesu no kao” 日本とイエスの顔 (Il Giappone e il volto di Gesù), Kikan sōzō 季刊創造, 1, 1976, p. 92. Endō fa qui esplicito riferimento a un’opera di Inoue Yōji 井上洋治 dallo stesso titolo in cui l’autore trattava del “volto giapponese di Gesù”. 5 La tortura consisteva nell’appendere a testa in giù in una buca dal fondo coperto di escrementi, le mani legate dietro la schiena e avvolta in una stuoia, la persona che si voleva far abiurare. Per impedire una morte troppo repentina (e quindi una mancata apostasia), un piccolo foro veniva praticato dietro un orecchio, in modo da far defluire lentamente il sangue goccia a goccia.
gesuiti sbarcano clandestinamente in Giappone nel 1639 per capire cosa sia realmente successo a Ferreira; il protagonista, Sebastião Rodrigues, 6 e il suo compagno affrontano peripezie e pene inenarrabili: ma lo sconforto maggiore è dato dall’ostinato silenzio di Dio che non risponde alle loro invocazioni di aiuto e non li sostiene moralmente. Rodrigues è arrestato e posto in una lurida prigione, il suo compagno ha la testa mozzata. Un giorno il gesuita riceve la visita di un vecchio, un certo Sawano Chuan 沢野忠庵 (il nome giapponese del rinnegato Ferreira), che tenta di dissuaderlo dalla sua ostinazione con l’unica argomentazione possibile: è follia continuare a pensare che il cristianesimo possa attecchire, il Giappone è un’immensa palude dove tutto marcisce. È inutile piantare i semi del cristianesimo, inevitabilmente morranno. Dio, il cristianesimo, gli insegnamenti dei padri sono stati fraintesi, manipolati, adattati, resi diversi dalla mentalità dei giapponesi: non è più quindi il Dio dei cristiani. All’incredula e sdegnata reazione di Rodriguez, Ferreira abbozza un paragone: “No, questo non è Dio, è come quando una farfalla è presa nella rete di un ragno, da principio certamente è una farfalla, ma il giorno dopo soltanto la parte esteriore, le ali e il tronco sono quelli di una farfalla; la sua sostanza è andata perduta, non ne è rimasto che l’involucro. Anche il nostro Dio in Giappone, proprio come una farfalla presa nelle rete del ragno, mostra soltanto l’aspetto e la forma di Dio, è già diventato un cadavere”.7
Il gesuita è sempre più confuso. Ritornato in cella, queste parole gli rimbombano nella testa insieme a quelle che definiscono il Giappone una palude, sente le urla e i lamenti dei cristiani appesi nel pozzo, ode i passi strascicati dei guardiani, il canto del gallo, lo stridio delle corde del pozzo, il cigolio dei chiavistelli: soltanto Dio non parla. Di fronte a tale ossessivo silenzio, e alle pressioni di Ferreira che lo incita a salvare gli altri condannati sottoponendosi al fumie 踏 絵,8 cioè a calpestare l’immagine del Cristo sotto gli occhi degli inquisitori in segno di abiura, Rodrigues si trova davanti a una drammatica scelta. Resistere e affrontare il martirio per la fede, oppure decidere per il sacrificio più grande: quello di tradire per amore verso il prossimo. Ed ecco finalmente Dio rompere il suo silenzio: “Calpesta pure” gli dice l’uomo del medaglione di rame “calpesta pure! Più di tutti io posso capire il dolore del tuo piede… Calpesta pure! È per essere calpestato da voi che sono venuto in questo mondo, è per condividere i vostri dolori che mi son fatto carico della croce”.9
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Endō ha preso a modello di padre Rodriguez un altro apostata, Giuseppe Chiara, giunto in Giappone nel 1644. Arrestato e sottoposto alla tortura dell’ana tsurushi, cedette dopo pochissimo. Gli fu dato il nome di Okamoto San’emon 岡本三衛門 e visse sino a 84 anni. 7 Endō Shūsaku, Chinmoku, in Endō Shūsaku bungaku zenshū 遠藤周作文学全集 (La letteratura di Endō Shūsaku), Tōkyō, Shinchōsha 新潮社, 1975, vol. 6, p. 175. 8 Il termine fumie (lett. ‘calpestare-raffigurazione’) connota sia l’atto in sé sia l’oggetto che doveva essere calpestato, cioè immagini del Cristo o della Madonna dipinte su legno o incise su metallo. Tali immagini, consunte dall’essere state ripetutamente calpestate, erano divenute per i cristiani simbolo dell’amore e del dolore di Dio. 9 Chinmoku, cit., p. 200.
Come giudicare questa presa di posizione? Anche cercando di giustificare il tutto come atto d’amore nei confronti dei condannati che così verranno (almeno si spera) salvati, affermare che pure Cristo “per loro avrebbe certamente abiurato”10 rasenta il blasfemo. E ancora, come legittimare l’incoraggiamento di Cristo stesso a calpestare la propria immagine? Siamo vicini alla tematica dell’“etica della situazione” (e sarà bene ricordare che Endō era laureato in letteratura francese e che Bernanos, Mauriac, Maritain, Claudel erano tra i suoi autori preferiti) dove determinanti sono le circostanze e nella quale il rapporto è diretto tra Dio e il singolo. Più volte, in vari romanzi, Endō ha sottolineato che l’uomo non è da ritenere responsabile degli atti che compie per viltà quando è una fortuita circostanza della vita a metterlo di fronte a un evento più grande di lui.11 Dice il contadino Kichijirō, reo di aver tradito: “Sono nato debole. Chi ha un cuore pavido non può morire martire. Che devo fare? Perché mai sono nato qui, in questo mondo?”12 Fu questo il punto di maggior controversia: sostenere (e far ammettere da Dio) che il perdono è assicurato a chi tradisce per viltà o semplicemente perché, non essendo abituato alla lotta, non possiede la tempra necessaria a contrastare il male. Passò addirittura in secondo piano il fatto che il cristianesimo non fosse ritenuto abbastanza forte per attecchire in Giappone, paragonato a una palude che tutto inghiotte. Lo ripete ancora in chiusura del romanzo il Grande Inquisitore Inoue Chikugo no kami (a sua volta un ex-convertito) all’apostata Rodriguez: “Lei non è stato sconfitto da me, ma da questa palude che è il Giappone. […] Il cristianesimo che avete portato in Giappone ha cambiato forma ed è diventato una cosa strana” disse il signore di Chikugo mentre dal petto gli saliva un profondo sospiro. “Il Giappone è un paese fatto così. Non c’è niente da fare, non è vero, Padre?”13
Non è la prima volta che uno scrittore giapponese tratta questo argomento. C’è ad esempio un delizioso racconto di Akutagawa Ryūnosuke 芥川龍之介 del 1921, Kamigami no bishō 神々の 微笑 (Il sorriso degli dei). Narra delle visioni avute da padre Organtino14 mentre passeggia nel giardino del Nanbanji, la chiesa cattolica di Kyōto: in un rapido susseguirsi di scene gli passano davanti agli occhi fatti della mitologia del paese e alcune divinità, tra le quali primeggia la dea del sole Amaterasu. Ma mentre nel testo di Endō l’angoscia del dilemma pervade l’atmosfera e i protagonisti lo vivono come un dramma insostenibile, qui il tutto rimane 10
Chinmoku, cit., p. 198. Attraverso i dubbi che fa esprimere da Rodrigues quando perdona Kichijirō, Endō si interroga anche sulla figura di Giuda, il traditore per eccellenza. Un traditore oppure un pupazzo necessario per lo svolgimento del dramma che porterà alla crocefissione? Rodrigues ammette che non sa spiegarsi come Cristo — che è l’Amore — abbia dapprima “permesso” che Giuda lo tradisse, e poi lo abbia respinto spingendolo al suicidio. 12 Chinmoku, cit., pp. 190-91. 13 Chinmoku, cit., p. 216. 14 Organtino Gnecchi-Soldo (1530-1609), nativo di Brescia, operò nella regione di Kyōto dal 1570 al 1588. Molto noto tra i giapponesi, compare spesso nelle cronache con il nome di Urugan. 11
sospeso tra sogno e realtà e si risolve in una schermaglia verbale tra il gesuita e un saggio “spirito” locale che lo previene sull’impossibilità della vittoria del Dio cristiano perché: “La nostra non è una forza distruttrice. È una forza che trasforma.[…] Non potete esser certo che il vostro Dio vincerà. Per quanto il cristianesimo possa diffondersi, non prevarrà mai”. La voce del vecchio si affievolì in un sussurro quasi impercettibile. “Forse persino il vostro Dio si tramuterà in una creatura di questa terra. È accaduto alla Cina e all’India e accadrà anche all’occidente. Noi siamo ovunque, negli alberi, nell’acqua dei torrenti, persino nella brezza che spira tra le rose. Siamo nell’estremo riverbero di sole che indugia sui muri dei templi. Siamo ovunque e in eterno. Badate, state all’erta…”15
Il fatto che sia stato Silenzio a far conoscere Endō all’estero (successo ribadito quattro anni dopo da Iesu no shōgai イエスの生涯) ha indubbiamente influito sul taglio dato dalle critiche occidentali: si può addirittura dire che, per quanto riguarda almeno il lettore italiano, lo scrittore è stato presentato sotto un’etichetta che con insistenza metteva in luce solo un aspetto della sua produzione. Basti pensare ai titoli di giornali e riviste comparsi negli anni settanta: “Un Cristo giapponese”, “Ha messo il kimono a Gesù”, “Un giapponese parla di Gesù” e così via. Colpiva, come si è già detto, il fatto che con un argomento del genere Endō fosse diventato famoso e best seller. Sfuggiva, al contrario, il background che aveva dato vita a una tale intensità di scrittura, di cui erano per di più del tutto ignoti altri aspetti basilari. Nato a Tōkyō nel 1923, Endō a tre anni si trasferì con i genitori in Manciuria, a Dairen (oggi Luda), dove resterà sino ai dieci prima di tornare in Giappone, a Kōbe, solo con la madre e il fratello maggiore a causa del divorzio dei genitori. Questi anni di “perifericità”, pur se per un breve periodo, senza dubbio influirono sulla formazione del piccolo Endō, privato dell’avvolgente protezione di un ambiente a lui familiare e per di più costretto a schierarsi a favore di uno dei genitori nella crisi sorta tra di loro. Tra parentesi, la “perifericità” non è un fatto da sottovalutare: un’impronta diversa segna gli scrittori nati oppure vissuti durante gli anni della formazione in un ambiente altro che la capitale Tōkyō. Penso ad Abe Kōbō 安部公房 (1924-1993) che trascorse la sua adolescenza sul continente a Mukden (oggi Shenyang), dove tornò nei difficili momenti degli ultimi anni di guerra e dove soffrì il trauma della resa, e la cui immensità farà nascere più tardi nella sua opera visioni di deserti dell’anima. Penso a Ōe Kenzaburō 大江健三郎 (1935-), nato in un piccolo villaggio dell’isola di Shikoku che resterà il suo mondo; a Inoue Yasushi 井上靖 (19071991), nativo dello Hokkaidō, la grande isola dagli spazi sconfinati, che la sua narrativa ricreerà in quelli del vicino continente; a Nakagami Kenji 中上健次 (1946-1992) del villaggio di 15
Trad. italiana in Ryūnosuke Akutagawa, La ruota dentata e altri racconti (a cura di Lydia Origlia), Milano, SE, 1990, pp. 37-51. Verso la fine del racconto l’autore si chiede chi ha prevalso alla fine: Dio o Amaterasu? La risposta è che ancora non lo si sa, ma che è un quesito che prima o poi andrà risolto: e Akutagawa lascia intendere che il vincitore sarà il Giappone.
Shingū nella penisola del Kii dove, oltre che dal posto periferico, la liminarità gli era data dall’essere un burakumin, un “fuori casta”, un “emarginato”. Per Endō bambino lasciare Tōkyō significò una sorta di ripiegamento in se stesso, una vita in simbiosi con la madre, il rifiuto per parecchi anni della figura paterna, e anche al ritorno in Giappone crescere in un mondo costruitogli addosso da altri. Così: Da bambino, buona o cattiva sorte che fosse, fui battezzato. Uso il passivo in quanto non fu un libero atto da parte mia. Mia madre, che frequentava la chiesa cattolica su pressione di sua sorella e che aveva già ricevuto il battesimo, ordinò a me e a mio fratello di studiare la fede cristiana. […] Dopo un anno di istruzione fui battezzato con altri bambini la domenica di Pasqua. Il prete formalmente mi chiese se credevo negli insegnamenti di Cristo e io, come gli altri bambini, formalmente risposi: “Sì”. Quell’istante segnò il corso della mia esistenza. A quel tempo però non avevo la minima idea del peso che quel “sì” avrebbe avuto nella mia vita.16
Da questa inconscia accettazione di un fardello insopportabile, nascerà la determinazione di divenire “ponte” tra culture diverse: e quale mezzo migliore che le parole, l’affabulazione, il narrare di cose di tutti giorni per trasmettere un messaggio fondato essenzialmente sull’amore? Non fu tuttavia un processo facile. Per anni Endō si dibatté in quello che lui chiamava lo yōfuku 洋服 (abito occidentale) che gli era stato imposto, al posto di un comodo e accogliente wafuku 和服 (abito giapponese): […] avevo indossato, così com’era, un abito occidentale già confezionato e acquistato per me da mia madre. Ma non mi andava bene: era lungo in alcune parti, largo qua e là, corto in altri punti. Quell’abito e il mio corpo non erano fatti per stare insieme e a partire da una certa età ciò mi mise a disagio.17
Soprattutto in occasione del suo primo soggiorno all’estero, a Lione, la sensazione che il cristianesimo fosse un qualcosa di totalmente estraneo, un abito occidentale “fuori misura” si fece più sentire.18 Il senso di smarrimento e d’impotenza che l’aveva attanagliato durante gli anni universitari quando la lettura di opere di scrittori cattolici francesi (Mauriac, Bernanos, Julien Green) aveva scavato un solco profondo tra il suo essere giapponese e cattolico allo stesso tempo, divenne insostenibile. Leggevo le loro opere e sentivo che c’era un abisso. Dal racconto delle loro conversioni capivo che erano tornati al cristianesimo come si torna al luogo natio. Ma nella mia più intima natura di giapponese, io non sentivo il cristianesimo come un viaggio di ritorno a casa. Questi autori non hanno mai trattato del tormento dello straniero. Più mi addentravo nello studio della letteratura cristiana più lo stacco tra me e loro si faceva profondo. […] proprio perché nel cristianesimo c’è
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“Ihōjin no kunō” 異邦人の苦悩 (Il tormento di uno straniero), in Endō Shūsaku no sekai 遠藤周作の世界 (Il mondo di Endō Shūsaku), numero speciale della rivista Shinpyō 別冊新評, 1973, pp. 55-56. 17 “Ihōjin no kunō”, cit., p. 56. 18 Laureato in letteratura francese all’Università Keiō, Endō fu il primo borsista giapponese del dopoguerra a varcare l’oceano. Rimase a Lione due anni e mezzo, poi si trasferì a Parigi per un breve periodo.
un qualcosa di estraneo alla nostra sensibilità, sento maggiormente la distanza che mi separa dall’Occidente.19
Fu proprio in Francia, a contatto con una cultura “altra”, che lo scrittore prese la decisione più importante della sua vita. In un paese che avrebbe potuto essere una seconda patria se egli avesse accettato che la componente cattolica (lo yōfuku) si imponesse sul natio wafuku, Endō scoprì invece la propria nipponicità sino allora negata o fraintesa, accettò che le due potessero emotivamente coesistere. La lunga lotta interiore che da sempre aveva contrapposto la sua sensibilità giapponese alla cultura cristiana, quello che egli chiamava il conflitto tra il sangue “panteista” dei giapponesi e il sangue “monoteista” degli europei, trovò una soluzione. Una volta capito che non era tanto lo yōfuku a procurargli quel profondo senso di disagio, bensì la sua resistenza nell’ammettere che potesse anche andargli bene, Endō si rese conto che non gli rimaneva che accettare quella “trasfusione di sangue”. Nelle parole del critico Takeda Tomoju 武田友寿: “Fu un atto di rassegnazione che gli permise una produzione letteraria molto originale: per la prima volta esiste uno scrittore cattolico in Giappone”.20 Questo iter è espresso in una serie di romanzi e in diversi saggi. In Nanji mo mata 爾もまた (Anche tu, 1964),21 che si svolge in Francia, ci è narrata la storia di Tanaka (alter ego di Endō), un giovane studioso di Sade che si dibatte tra sofferenze morali e fisiche che altro non sono che quelle dello scrittore. 22 Tanaka si è posto come fine ultimo quello di raggiungere il “castello” (che raffigura la cultura occidentale) del divino marchese e l’autore, per mezzo di una trasparente simbologia, ci descrive il processo di espulsione del suo sangue panteista davanti al maniero, sepolto da una tempesta di neve e raggiunto dopo sforzi sovrumani. Nel romanzo c’è tutta la forza figurativa della scena ma già prima, nel saggio Kamigami to kami to 神々と神と (Dèi e Dio) aveva precisato: Per noi che siamo figli degli dèi (神々の子である僕たちは) non è possibile capire, solo attraverso la conoscenza intellettuale del cattolicesimo, la psicologia, la lingua, il modo di vivere di coloro che sono figli di Dio 神の子であるこれらの人々. […] La conquista intellettuale del cattolicesimo non si tramuta di colpo, per noi giapponesi, in un atto di fede nell’Assoluto. Anzi,
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“Ihōjin no kunō”, cit., p. 57. Takeda Tomoju 武田友寿, Endō Shūsaku no sekai 遠藤周作の世界 (Il mondo di Endō Shūsaku), Tōkyō, Chūōshuppansha 中央出版社, 1969, pp. 314-15. 21 Nanji mo mata, con Rouan no natsu ル–アンの夏 (Estate a Rouen) e Ryūgakusei 留学生 (Studente all’estero), forma Ryūgaku 留学 (Studi all’estero), tre storie del difficile tentativo di inserimento di giovani giapponesi in Europa, in epoche diverse. 22 Sarà opportuno ricordare che l’esperienza di borsista all’estero fu traumatica anche per Endō. Per di più, a Parigi si ammalò e dopo un ricovero in ospedale dovette tornare in Giappone. A causa di varie operazioni ai polmoni, la sua salute fu sempre malferma. L’angoscia per la malattia, il senso di solitudine di chi è ricoverato, le allucinazioni notturne ritornano in molti suoi scritti, come nell’ultimo romanzo Fukai kawa 深い川 (Fiume profondo) del 1993. 20
alle volte, più ci addentriamo nel cattolicesimo, più sentiamo in noi la resistenza del nostro sangue panteista.23
Per superare questa impasse Endō lavorò per anni, costruendo situazioni, immagini e figure (talvolta in realtà in modo ripetitivo e quindi un po’ irritante per il lettore fedele) che alla fine gli consentirono di far accettare la figura del Cristo ai suoi compatrioti. Il primo passo fu, per lo scrittore stesso, il sottrarsi alla tentacolare spirale della sensibilità nipponica che lo affascinava e lo impauriva allo stesso tempo, come dice in un fondamentale saggio del 1963: […] nel mondo cristiano, dato che l’uomo non è Dio, egli l’accetta o lo nega, gli ubbidisce o gli resiste; nel primo caso è necessario un atteggiamento attivo di accettazione, nell’altro la lotta. Per la nostra sensibilità panteistica, che considera uguali la totalità e il singolo, non c’è bisogno di assumere un atteggiamento dinamico o conflittuale. Nostra intima aspirazione non è la volontà di superamento di noi stessi accompagnata dalla lotta per l’esistenza terrena, da lamenti o da dolorose suppliche, ma una certa qual tenera nostalgia, un desiderio di sentirsi riassorbire. […] Sinora ho trattato a grandi linee della differenza fra la sensibilità estetica occidentale, che possiede tre fondamentali caratteristiche (senso della limitatezza, tensione e dinamismo), e quella nostra che aspira a essere assorbita così com’è: ne ho parlato in quanto, in ultima analisi, anche dopo essermi fatto cattolico, la sensibilità nipponica mi seduce e mi risucchia nel suo mondo. Preso dall’irresistibile fascino della poesia e dell’arte che sono frutto di tale sensibilità, mi sento afferrare dal panico. Ho paura perché questo mondo, che mi culla fra le finissime sfumature di una luce trasparente e di una sottile e delicata oscurità, in realtà è il mondo della sonnolenza, chiuso in una via senza uscita, velato da un malinconico nichilismo. Il senso del nulla insito nella sensibilità giapponese a volte mi fa davvero paura.24
Parte da questa presa di coscienza il lungo percorso che lo porterà a formulare i concetti di “palude” (沼 numa) e di “baka” (バカ). Qui la palude rappresenta lo stato di non-azione passiva che caratterizza il mondo senza confini, senza limiti, indifferente a Dio al peccato alla morte (la “triplice insensibilità”) dove tutto galleggia in uno stato di sonnolente passività, dove non si lotta mai, che è il mondo concavo giapponese (boko 凹), 25 visto in contrapposizione al delimitato mondo convesso occidentale (deko 凸), che ha confini invalicabili ed è in perpetua tensione con Dio, sia che l’accetti sia che lo rifiuti. Davanti a questi estremi, Endō arriva a sostenere che il male (che sarà poi redento dal sacrificio personale del baka di turno) è preferibile all’inerzia e all’apatia morale della palude.26 23
“Kamigami to kami to”, prima parte di Hori Tatsuo ron 堀辰雄論 (Su Hori Tatsuo) in Shūkyō to bungaku 宗教と文 学 (Religione e letteratura), (Endō Shūsaku bunko B2), Tōkyō, Kōdansha 講談社, 1977, p. 154. 24 “Nihonteki kansei no soko ni aru mono - Metafisikku hihyō to dentōbi” 日本的感性の底にあるもの ・ メタフィ シック批評と伝統美 (1963, Ciò che sta alla base della sensibilità giapponese - La critica metafisica e la bellezza tradizionale), in Endō Shūsaku bungaku zenshū, cit., vol. 10, pp. 151-152. 25 Il Grande Inquisitore Inoue ripeterà nel dramma Ōgon no kuni (1966, Eldorado) che il vincitore ultimo è sempre la palude, suggerendo che i cristiani dovrebbero ammettere quanto il suo tepore avvolgente concili una dolce sonnolenza ben preferibile alle fiamme fatte scaturire dalla dottrina di Cristo. 26 Il romanzo che meglio sviluppa quest’idea è Kazan (1959, Vulcano), nei due personaggi principali dello spretato Duran, che rappresenta il deko, e dell’ignavo Suda Junpei che si culla nell’apatia del boko.
Secondo Endō, l’insensibilità dei giapponesi nei confronti di Dio è inoltre dovuta all’errata presentazione fattane dai missionari gesuiti nel XVI secolo: a un popolo che visceralmente tende a un rapporto di totale abbandono con la divinità di cui richiede la compassione e la comprensione, venne presentato un Dio che incute terrore, che punisce, che condanna, il Dio Padre del Vecchio Testamento che tuona dall’alto, un’immagine ostica e distante. Il cristianesimo fu recepito come religione della condanna, più che della pace e dell’amore. Nel loro desiderio di essere sicuri del perdono invece, i giapponesi hanno bisogno di una religione “materna” non di una “paterna”. E fu così che gli apostati/credenti sottoposti alla prova estrema del fumie, oppressi dal tormento dell’aver tradito e di dover continuare a vivere nella finzione tradimento/fede, convinti che il Dio “padre” non li avrebbe mai perdonati, si rifugiarono nella Madonna “madre”, da loro identificata nelle fattezze del bodhisattva Kannon 観音.27 Vi vedevano l’immagine della “madre” perché avevano paura del “padre”. Questi apostati avevano paura di Dio che è a conoscenza del loro passato oscuro. Al suo posto cercavano un’altra presenza che li perdonasse e sentisse il dolore delle loro ferite. Non il padre della collera, ma la madre della compassione. […] Per gli apostati e i loro discendenti, la Madonna diventa la madre che intercede per loro.28
Come via d’uscita, Endō presenta l’unica figura che poteva far breccia nel cuore dei giapponesi: quella del muryoku naru Iesu 無力なるイエス, il debole Gesù, il dōhansha Iesu 同 伴者イエス,29 il Cristo “compagno dell’uomo”, un Dio d’amore, quindi. Un’idea non certo nuova per l’occidente,30 ma di forte impatto per il Giappone. L’opera che a livello narrativo ha fatto conoscere questa figura del Cristo è Iesu no shōgai イエスの生涯 (1973, Vita di Gesù).31 In tale processo di nipponizzazione, che però lo porta a una demitizzazione di taglio protestante,32 Endō si è ovviamente allontanato dall’ortodossia ufficiale: come quando, ad
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Si tratta dei cosiddetti kakure kirishitan 隠れキリシタン (lett. ‘cristiani occulti’) che pur assoggettandosi al fumie restarono fedeli nel cuore alla dottrina cattolica. Il nucleo principale si trovava nel Kyūshū. Kannon assume forme diverse per salvare dalle 11 calamità coloro che invocano il suo nome. Nella credenza popolare ha spesso sembianze femminili. 28 “Chichi no shūkyō haha no shūkyō Maria Kannon ni tsuite” 父の宗教 ・ 母の宗教 マリア観音について (1967, Religione paterna e religione materna - Su Maria Kannon), in Endō Shūsaku bungaku zenshū, cit., vol. 10, p. 186. Nel già citato “Ihōjin no kunō” (pp. 60-61) del 1973, Endō fa esplicito riferimento a Erich Fromm dal quale prende a prestito la definizione di “religione paterna” e “religione materna”. L’idea di una predominanza “materna” nella cultura giapponese non è però certo nuova, e alcuni critici contemporanei hanno segnalato la contrapposizione con quella “paterna” delle culture europee. Si può quindi ben immaginare l’impatto in Giappone delle parole di Paolo Giovanni I (Papa Luciani) quando nel 1978 stupì il mondo cattolico parlando del carattere anche “materno” di Dio. 29
I pellegrini buddhisti usavano indossare un largo copricapo di paglia (sugegasa 菅笠 su cui era scritto dōkō futari 同 行二人, in viaggio in due). Alla luce di questa usanza la figura del dōhansha Iesu acquista un significato tutto particolare. 30 Cfr. T. Ziolkowski, Fictional transfiguration of Jesus, Princeton, Princeton University Press, 1972 dove l’autore prende in esame opere di Papini, Mann, Hesse, Faulker, Gore Vidal ecc. nelle quali compaiono personaggi ‘tagliati’ sulla figura del moderno eroe perdente, sul modello di Cristo compagno dell’uomo. 31 Trad. it. di F. Muratori e F. Moriguchi, Vita di Gesù, Brescia, Editrice Queriniana, 1977. 32 Tra i testi da lui usati (in particolare studi sulla Bibbia) ci sono i lavori di G. Bornkamm, H. Lietzmann, C. H. Dodd.
esempio, sottolinea con insistenza che Cristo non è in grado di fare miracoli, e non lo nomina mai ma lo chiama “quell’uomo”, ano otoko あの男 oppure ano hito あの人. Eppure è proprio con questa visione del Cristo accettabile da chiunque, dall’intellettuale e dall’uomo della strada, di un uomo che non fa miracoli ma li compie solo in forza del suo sconfinato amore per il prossimo che Endō ha definitivamente lanciato il ponte tra le due culture, raggiungendo così l’obiettivo di dare un senso al suo fare una “letteratura compagna dell’uomo per l’eternità”. Ma non bastava: nonostante ciò il Cristo rimaneva ancora una figura troppo astratta. C’era bisogno di un tramite, di una “controfigura”, di un qualcuno nel quale concretizzare questa fonte d’amore. Nasce così il baka バカ, cioè il “balordo”, l’“idiota”, il “sempliciotto”, il “grullo”, il “fool”, o meglio ancora il “wonderful fool”.33 Per cercare di capire cosa rappresenti questo baka, sarà forse utile sottolineare le differenze con l’idiota dostoievskiano: se ambedue ripongono una fede assoluta nel prossimo e sono inesperti della vita, il primo tuttavia agisce dove il secondo pensa solo di agire; è volitivo dove l’altro non lo è; aiuta e paga di persona dove l’“idiota” è capace solo di mostrare commozione per le pene altrui. Nel suo candore il baka però ha un’istintiva comunicativa, e se pur interviene nei momenti più sbagliati, se è insistente e spesso irritante, se sconvolge la vita altrui, alla fine il suo esempio riesce a fendere la crosta che ricopre la “palude”: attraverso questa fessura passa la parola divina. Il baka diventa quindi il tramite tra l’uomo e Dio. Il prototipo di baka, e senza dubbio il più famoso, è il protagonista di Obakasan おバカさん (1959), un goffo francese dall’ingombrante nome di Gaston Bonaparte e dalla faccia da cavallo. Costui piomba, inaspettato e all’inizio non gradito, nella casa di Takamori e Tomoe, fratello e sorella: meglio ancora, affonda come un sasso nella “palude” dove i due vegetano nella loro banale ed egoista quotidianità. È trascinato, dal suo carattere, dal suo amore per il prossimo, dalla sua ingenuità e dal suo candore, a finire nelle più incredibili avventure. Tuttavia c’è sempre una molla a giustificazione di quello che fa, ed è uno smisurato amore per il prossimo che egli riconosce sia negli uomini sia negli animali e che mette in atto in una Tōkyō brulicante di figure minori indimenticabili — prostitute, ladri, marioli, piccoli negozianti, indovini, donnette, magnaccia, ciarlatani, perdigiorno. Quando le sue azioni, talvolta irresponsabili e quindi incomprensibili ai due fratelli, fanno lentamente breccia per condurli in una realtà sconosciuta, la reazione di Tomoe, affarista e opportunista, è di stupefatta ammirazione: “non è un balordo, non è un balordo, è un fantastico balordo! (バカじゃない、バ
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È la traduzione data da F. Mathy all’edizione inglese (Wonderful Fool, London, Peter Owen, 1974) di Obakasan (1959).
カ じ ゃ な い 。 あ の 人 は バ カ さ ん な の だ わ )”. 34 Il fine è raggiunto: d’ora innanzi i due guarderanno in modo diverso il mondo che li circonda. La serie dei baka include tra gli altri il protagonista di Hechimakun ヘチマんくん (1961, Lo zuccone), la piccola Micchan di Watashi ga suteta onna わたしが・棄てた・女 (1963, La donna che ho abbandonato), il “barone” di Ichi ni san! 一・二・三! (1963, Uno, due, tre!), fuggito dal manicomio ma più saggio degli abitanti della palude, fratel Ussan di Bara no yakata 薔薇の館 (1969, La casa delle rose), Pedro Kibe di Menamugawa no nipponjin メナム河の日 本人 (1973, I giapponesi del Menam), ma soprattutto Hirame (lett. “Sogliola”), il protagonista di
Kuchibue o fuku toki 口笛をふく時 (1974, Quando fischietto), una bellissima figura di baka, patetica ma non sdolcinata, goffa ma mai irritante che ne fa il parente più stretto e più completo di Gaston. Sono i puri di cuore, i semplici, gli sprovveduti, gli “eroi perdenti”, così cari questi ultimi al cuore dei giapponesi.35 Endō è convinto che sono le situazioni a determinare chi di volta in volta si comporterà da eroe, persino contro la propria volontà. Non esistono quindi eroi in assoluto, ed egli si schiera sempre dalla parte del perdente, parteggia per chi è umiliato e offeso, difende le sue scelte perché dettate dalla paura. Già nel 1967 scriveva che era cosciente di un paio d’occhi dietro alle sue spalle, quelli del Cristo, che guardavano i suoi personaggi nascere sulla carta dando loro una dimensione umana particolare.36 La galleria dei “non-eroi” comprende, tra gli altri, il contadino di Ōgon no kuni 黄金の国 (1966, Eldorado) che oltre ad abiurare è un delatore, Suguro che non fa niente per opporsi al cinismo che regna nell’ospedale di Umi to dokuyaku 海と毒薬 (1957, Il mare di veleni), il vecchio e pavido Suda di Kazan 火山 (1959, Vulcano)37 che per viltà si piega alle convenzioni e finisce per restare solo. La solitudine, quindi: quella degli studenti giapponesi in Francia, dei missionari in Giappone, degli abitanti della palude, del samurai Hasekura nel suo viaggio in Europa in Samurai 侍 (1980, Il samurai), 38 dello scrittore cattolico Suguro in Sukyandaru スキャンダル (1986, Scandalo).39 Di Il samurai (vincitore del premio Noma per la letteratura 1980) Endō disse che “era stato copiosamente lodato e del tutto frainteso”, che il romanzo era stato visto soltanto come un’affascinante narrazione di un evento storico, mancante tuttavia delle drammatiche tensioni
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Obakasan, in Endō Shūsaku bunko, Tōkyō, Kōdansha, 1974, p. 244. L’empatia per il perdente è vista attraverso una serie di personaggi da Ivan Morris, The Nobility of Failure, London, Secker & Warburg, 1975. 36 Cfr. “Watashi no bungaku” わたしの文学 (1967, La mia letteratura), in Endō Shūsaku bungaku zenshū, cit. vol. 10, pp. 365-372. 37 Trad. it. (dall’inglese), Vulcano, Milano, Rusconi, 1985. 38 Trad. it. (dall’inglese), Il samurai, Milano, Rusconi, 1983. 39 Trad. it. (dall’inglese), Scandalo, Milano, Rusconi, 1989. 35
tra le due culture che avevano caratterizzato Silenzio e altre opere precedenti.40 L’intento dello scrittore era invece di descrivere la lenta presa di coscienza di una realtà diversa da parte del “samurai”, di farne un suo dramma personale, e non più uno scontro tra le due parti. Non ci sono vincitori e vinti, la partita finisce alla pari, ognuno va verso il destino che lo attende: rimangono solo le esperienze individuali. Il fatto: nell’ottobre 1613 quattro samurai si imbarcano su un galeone diretti nella Nuova Spagna (Messico) su ordine del loro signore, Date Masamune 伊達政宗, daimyō cattolico di Sendai nel nord-est del Giappone. Due gli obiettivi: stringere legami commerciali con la Nuova Spagna in modo da evitare la mediazione dei mercanti spagnoli delle Filippine, e visitare il re cattolico Filippo III e papa Paolo V a Roma. I due protagonisti principali sono il frate francescano Luís Sotelo (1574-1624), che assumerà il nome di Velasco nella finzione, e Hasekura Tsunenaga 支倉常長 (1571-1622), un samurai di rango minore strappato alla sua terra. Il viaggio fu tutto sommato un fallimento, anche per le condizioni avverse al cristianesimo già instauratesi in Giappone e per la continua lotta tra i vari ordini religiosi per la supremazia, che non facilitarono certo una missione perdente in partenza.41 Il romanzo scorre su due binari: il punto di vista di Velasco, aggressivo e ardente di passione, si contrappone a quello passivo e apatico di Hasekura. Ma proprio su quest’ultimo Endō lavora di più, facendogli rivivere sue esperienze personali tanto che Il samurai può essere considerato una sorta di shishōsetsu 私 小 説 , un percorso della memoria dove i tratti autobiografici sono ben visibili in chi conosca l’avventura umana dello scrittore: la solitudine vissuta da bambino, l’agonia del lungo viaggio per nave alla volta della Francia, le difficoltà di adattamento all’estero, un perenne senso di straniamento. E quindi il personaggio Hasekura è più complesso da interpretare, meno trasparente di quello di Velasco che ricalca noti clichés. Il povero Hasekura, sballottato in un mondo che gli è estraneo, posto di fronte a una realtà più grande di lui, accetta a malincuore di essere battezzato, un tradimento nei confronti degli antenati, gli abitanti della palude. Tuttavia lo fa, anche se, da samurai, gli è difficile credere nel potere di quell’Uomo dal volto emaciato. Come sottolinea Van C. Gessel,42 una chiave di lettura può essere suggerita già dal titolo che Endō aveva originariamente dato al romanzo, Ō
ni atta otoko 王に会った男 (L’uomo che incontrò un re): sia lo Hasekura della realtà che quello della fiction incontrarono in effetti più di un re — basti pensare a Filippo III e Paolo V — ma
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Citato in Van C. Gessel, “Voices in the Wilderness - Japanese Christian Authors”, Monumenta Nipponica, vol. xxxvii, no. 4, Winter 1982, pp. 444-45. 41 Tra l’altro i gesuiti si erano ben preoccupati di avvertire Filippo III di Spagna che i veri motivi dell’ambasceria era altri e che proprio il loro daimyō aveva già dato inizio alle persecuzioni; Sotelo non riuscì a farsi nominare vescovo del Giappone; gli accordi commerciali restarono lettera morta; al loro ritorno in Giappone, Hasekura trovò una situazione così cambiata da farlo apparire una figura anacronistica e Sotelo fu fatto salire sul rogo nell’agosto 1624. 42 Van C. Gessel, “Voices in the Wilderness”, cit., p. 447.
l’autore intendeva il Re dell’amore e della compassione, colui che consola e lenisce le ferite: da questo incontro, un viaggio fallimentare si trasforma in un vittorioso percorso alla ricerca del proprio io. Viaggio che finirà tragicamente in quanto il suo daimyō gli ordinerà di suicidarsi per dimostrare così al potere centrale che il seme del cristianesimo non ha attecchito nei suoi domini. Salutato da molti come un turning point nella sua carriera di scrittore per il lavoro di scavo nella psiche umana, Il samurai fu seguito nel 1986 da Scandalo nel quale Endō approfondisce la sua analisi sulle opposizioni di cui è colmo l’animo umano (conscio-inconscio, bene-male, coscienza del peccato-indifferenza al peccato e così via). Alla base vi è uno studio che lo scrittore pubblicò nel 1985 su Thérèse Desqueyroux di Mauriac,43 Watashi no aishita shōsetsu わたしの愛した小説 (Un romanzo che ho amato),44 nel quale riconosce di seguire le teorie sul dualismo di Jung,45 precisazione forse non necessaria per chi ha seguito l’evolversi della sua produzione dove in quasi tutti i suoi personaggi alla fine si attua la riconciliazione degli opposti. Se Il samurai era ancora legato all’impatto tra due culture e allo scontro tra due modi di pensiero e, ambientato al di fuori del Giappone, trattava una realtà che poteva risultare diversa,
Scandalo, che si svolge a Tōkyō e ha per protagonisti gente e luoghi di tutti i giorni, risultava senz’altro più avvincente al lettore medio. Per di più Endō ne fa un thrilling psicologico, con numerosi colpi di scena. Ci viene presentato Suguro, uno scrittore cattolico alla fine di una brillante carriera di autore impegnato nello scandagliare il lato oscuro dell’animo umano.46 Acclamato e indicato come esempio di retta vita, viene a un tratto travolto dallo scandalo: una donna lo accusa di ipocrisia e di corruzione, di essere — proprio lui, il fustigatore del male — un frequentatore di luoghi equivoci e di pornoshop. Le prove sono talmente schiaccianti che lo scrittore ne rimane travolto. Ed ecco comparire sulla scena un uomo, in tutto e per tutto simile a Suguro, che lo 43
Il romanzo (uscito nel 1927) è uno dei preferiti di Endō in quanto vi si tratta del conflitto tra peccato e grazia. Le preferenze di Mauriac vanno (così come per Endō) verso coloro che hanno forti dubbi, non verso coloro in pace con la propria coscienza. Il cristianesimo vi viene visto come sofferenza della carne che si placa solo nell’amore di Dio, in un rapporto dialettico che trova concreta espressione in immagini liriche. Come ha osservato Hiroishi Renji 広石健二 in Endō Shūsaku no subete 遠藤周作のすべて (Su Endō Shūsaku), Tōkyō, Chōbunsha 朝文社, 1991, pp. 40-42, Endō è rimasto molto colpito dallo “sguardo senza anima” di Thérèse e dalla sua “fatica di vivere”, che ricreerà nel personaggio di Mitsuko in Fukai kawa 深43い川 (1993). 44 Watashi no aishita shōsetsu, Tōkyō, Shinchōsha, 1985. 45 Questo argomento è affrontato da Mark Williams, “In Search of the Chaotic Unconscious: A Study of Scandal”, Japan Forum, vol. 7, no. 2, Autumn 1995, pp. 189-205. 46 Effettuando questa scelta l’autore gioca con il lettore facendo convergere immediatamente l’attenzione su se stesso (sia Suguro sia Endō hanno ricevuto i maggiori premi letterari del paese e sono in attesa di un riconoscimento ancor più prestigioso, alcuni particolari sulla degenza in ospedale del protagonista corrispondono a ben noti eventi della vita di Endō). Il dubbio che possa esistere un’identificazione dello scrittore-Suguro con lo scrittore-Endō (pur celata dietro una confessione in terza persona) dapprima si insinua subdolo nel lettore, poi si fa più pressante tanto da indurlo a pensare che si tratti di uno shishōsetsu in piena regola. Una volta convinto poi (o perlomeno sospettoso) di questo scambio d’identità, la curiosità del pubblico fu tale che parecchie persone si recarono nella zona di Tōkyō descritta, Kabukichō, per chiedere nei vari locali se davvero lo scrittore Endō li frequentava e se gli episodi narrati erano veri.
segue come un’ombra e che viene scambiato per lui, con il risultato che Suguro comincia ad avere seri dubbi esistenziali. Per fugarli si mette davvero a frequentare i luoghi equivoci di Kabukichō dove quello bazzica, ma più ricerca la verità sull’impostore più scopre che il suo destino gli è indissolubilmente legato. Infatti questo “uomo-ombra” ha la sola funzione di svelare l’“altro sé” che è in Suguro, di scoprire le parti tenute celate nel più profondo dal suo inconscio, di fargliele accettare e di fargli affrontare la realtà con una forza di coesione che gli è data dalla consapevolezza della conoscenza. Dopo essersi ribellato, dopo aver cercato ogni possibile via d’uscita, dopo esser passato attraverso avvilenti esperienze personali (non solo più vissute a tavolino per descriverle nei suoi romanzi), alla fine Suguro è pronto a riconoscere la sua “totalità”, ad ammettere che per poter parlare di peccato bisogna averlo conosciuto. E con lui Endō ha dato il tocco finale alla sua galleria di personaggi.