WALTER BONAVENTURA (
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BACKSCAPE [Back: Away from something so as to leave something else uncovered or revealed] [http://is.gd/5g6YK]
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Backscape di Matteo Peterlini è un dispositivo che permette l’accesso a un piano originario della visione tramite un linguaggio macchinico produttore di segni significanti (linee e toni di grigio) attraverso la notomizzazione e la disattivazione della visione stessa. Originario non significa affatto il raggiungimento di un fantomatico stadio di purezza iniziale. Occorre bandire ogni senso ‘essenzialista’. Originario significa qui, precisamente, ‘originante’. Il luogo da cui origina e scaturisce la visione, allo stesso modo per cui la sorgente è il luogo da cui scaturisce l’acqua, che ha già però compiuto un percorso a noi precluso. Nello stesso senso non essenzialista va inteso il ‘dove’ di questo luogo: non ‘dietro’ la visione nel senso che dietro vi sia qualche cosa come una ‘sostanza’ di cui la visione sia la rappresentazione (ché la visione non è mai sostanza, ma sempre ‘procedura’ e ‘costruzione’ e ‘relazione’), ma dietro nel senso di qualcosa che la precede. Backscape ci mostra con precisione quel luogo visionario che precede la costituzione del mondo e dell’uomo. Anzi mostra come ‘mondo’ e ‘uomo’ siano costruzioni, procedure, risultati, anziché sostanze originarie, astratte inizialità, ‘cose naturali’. Backscape è la mappa di questa relazione costitutiva e costituente. B a c k s c a p e è l’operatore di una logica di (s)fondamento e la sua funzione consiste nel ricondurre fenomenologicamente l’originario e il primo, al derivato e al secondo.
Merleau-Ponty – grandissimo pensatore francese la cui importanza nella riflessione sull’arte non è forse ancora stata adeguatamente compresa – fu forse tra i primi a dare un nome a questo luogo originario, indicandolo come la chair du monde. In questa carne uomo e mondo, soggetto e oggetto, stanno ancora in una zona d’indistinzione precedente a ogni elaborazione concettuale e cosiddetta razionale. Svelare modalità e consistenza di questa zona è precisamente il compito che spetta a una filosofia fenomenologica, così come la delineò Merleau-Ponty. Svelare modalità e consistenza di questa zona è precisamente ciò che fanno le pratiche artistiche e poetiche, ingaggiandosi nello sforzo di tradurre quella lingua delle cose di cui parla Benjamin in una lingua delle forme, evitando invece la lingua concettuale, astratta e universalizzante di una certa filosofia e di una certa scienza. Che non è poi altro, se si vuole, che un tentativo di ridenominazione del mondo che in sé richiama – anche se alla lontana causa la sua incompiutezza e contingenza dovuta al carattere caduco dell’esistente – quella prima paradisiaca nominazione scaturita dalla collaborazione tra Adamo e Dio nel paradiso terrestre. Laddove proprio il nome diviene nome proprio, in quanto custodisce il proprium di ogni cosa, la sua individualità più precisa e concreta e tangibile, non disciolta nell’astratta universalità del concetto. Ciò significa, dunque, che tali forme artistico-poetiche sono nuclei di pensiero che lo contengono non come un qualche cosa di estrinseco poi aggiunto didascalicamente, ma proprio in quanto forme. Vale a dire che possiedono, in definitiva, un loro proprio contenuto di verità. Perché se l’ethos in quanto habitus, in quanto forma acquisita e carattere passa per la verità di ciò che viene espresso e la giustezza (attenzione, non: l’esattezza) del modo d’esprimerlo (darstellen, dice la lingua tedesca),di mostrarlo, dunque di rappresentarlo, montarlo, narrarlo, assemblarlo, allora la verità è una categoria estetica e come tale va trattata.
Come tutti i grandi pensatori – dove la loro apparente difficoltà si scioglie in esempi esemplari – anche Merleau-Ponty ci offre un’immagine in cui quest’idea di un mondo pre-logico, pre-discorsivo, pre-cogito ci diventa subito chiara. L’immagine consiste nel noto Cézanne del “cesto di mele”, apparentemente lontanissimo da Backscape, su cui Merleau-Ponty scrive un bellissimo testo: Le doute de Cézanne (1945). In questa tela il bordo inferiore del tavolo, coperto in parte dalla tovaglia, anziché tracciare una linea retta sullo stesso piano si spezza in due linee che corrono su piani sfalsati. Perché Cézanne fa questo, si chiede Merleau-Ponty? Perché è solamente la nostra conoscenza razionale (determinata dalle nostre conoscenze della geometria euclidea, determinate a loro volta dalla nostra storia e dalla storia della nostra cultura) che ‘aggiusta’ i due tronconi ricomponendoli in un’unica linea. La percezione al suo stato pre-riflessivo, di per sé, di linee ne vede due, e spezzate. La pittura di Cézanne, dice Merleau-Ponty, è una pittura che dipinge il mondo all’alba del suo apparire, una pittura che dipinge la carne del mondo, prima che qualcosa come mondo e uomo, soggetto e oggetto si costituiscano. Una pittura che cerca di costruire una logica dell’apparenza, una grammatica della sensazione, un’intelligenza della visione. Una pittura che cerca di vedere il mondo prima del suo venire pensato e ricompreso in un pensiero concettuale, astraente-universalizzante. E dov’è altrettanto chiaro che proprio la capacità di trovare un pensiero nelle e delle cose, un pensiero non pensato da un soggetto (se per pensiero intendiamo una qualsiasi sorta di organizzazzione, relazione e comunicazione tra enti) è la vera novità dell’insegnamento che Merleau-Ponty trae dalla pittura di Cézanne. Ecco di dove proviene il tratto inumano dell’arte di Cézanne, la sensazione di star guardando il reale così come lo potrebbe guardare un’altra specie, con altre categorie. O la sensazione di poter vedere il mondo nella sua alba e nella sua preistoria.
Torniamo a Backscape. Qui, grazie alla potenza del digitale – di cui possiamo individuare la specificità proprio nella sua capacità di convertire il continuum del mondo nel discreto della sua rappresentazione, tramite il linguaggio elementare del codice binario (elementare nel senso greco della stoicheia: qualsiasi prima cosa da cui poi altre di qualche serie prendono la loro origine; un elemento, un primo principio) – e di un linguaggio macchinico inumano e/o preumano, riusciamo a svelare processi costitutivi prettamente umani che si rivelano, come detto sopra, procedure e artefatti, costruzioni culturalmente e concettualmente orientate. La stessa natura – nel senso di ‘ciò che appare, che si manifesta’ così com’è ben espresso dal termine greco physis – in questi Backscape si mostra per ciò che è: costruzione umana concettualmente e storicamente determinata. Backscape come operatori della trasformazione dal continuum della carne al discreto della conoscenza, colata nelle forme conoscitive, ovvero nei segni. Ecco perché ciò che appare nei Backscapes è, precisamente, una natura straniata, una natura vista ma non colta, una natura conosciuta ma non ri-conosciuta, ovverosia una natura non ricondotta a forme simboliche, abitudini visive, tradizioni storiche: una sorta di puro reale pre/a/in-umano. Backscapes sono dunque ossimorici ‘paesaggi naturali’, dove lo sguardo della macchina desoggettivizza l’umano sguardo permettendogli, appunto, una visione originaria nel senso accennato più sopra, nel senso di Cézanne. Una visione desoggettivata, vale a dire priva dell’intenzionalità. Backscape come dispositivo di mortificazione dell’intentio, come morte di una visione concettualmente informata raggiunta non lavorando per sottrazione, cercando di recuperare un piano originario in quanto tale già da sempre perduto e/o irraggiungibile e nascosto da uno stratificarsi di segni e significati secondi e derivati – e infatti il ‘tra’ delle striscie di pixel (un po’ come nel divisionismo) è bianco e vuoto, glauco e cieco, white e
b l a n k – ma, al contrario, per addizione di segni e accumulazione allegorica. Accumulazione allegorica che, nel suo essere continua, nel suo ‘gonfiarsi’, giunge a un autosvuotamento e a una autosospensione in cui la visione si mostra come pura potenza-di vedere, come pura possibilità-di vedere e dove si rivela, appunto, come gioco delle categorie della visione. Un gioco, però, nel senso che questa parola acquista – più esplicitamente che in italiano – in molte lingue europee: jouer, Spiel, play. Gioco come movimento, gioco come incastro e intreccio, gioco come rappresentazione e, infine, come ‘musica’. Backscapes come Spiel, come play, cioè dispositivi d’immanenza e di contingenza che ‘spengono’ e ‘disattivano’ la bella apparenza dell’arte tagliando, come un rasoio di Occam, ogni possibile riferimento a una sfera di ‘Valori’ trascendenti e/o naturali e/o immutabili, mostrando invece il carattere problematico e il carattere di gioco, appunto, vale a dire il carattere artificioso, costruito, storicamente e culturalmente determinato del mondo e dell’umano e della loro percezione e conoscenza da parte nostra. Backscapes come dispositivi che ci mostrano le condizioni stesse dell’apparire e del loro darsi in una forma e quindi nella promessa inesaudibile della coincidenza tra il visibile e l’invisibile, tra le cose e le parole. Dunque – e questo ci fornisce l’altro lato di questa morte, la pars construens – Backscape come dispositivo e come potenza-di portare alla luce, di generare, di far nascere una nuova visione.