Antropologia Sociale 0708 Seconda Dispensa

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UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA DIPARTIMENTO DI ARCHEOLOGIA E STORIA DELLE ARTI

ANNO ACCADEMICO 2007/2008 PRIMO SEMESTRE

ANTROPOLOGIA SOCIALE PIERO VERENI MATERIALI DIDATTICI SECONDA PARTE Indice della dispensa 1. Appunti per la lettura di Modernità in polvere 2. Scheda sintentica del volume Modernità in polvere 3. Arjun Appadurai. Parole chiave 4. Introduzione al volume Antropologia dei Media 5. L’immaginazione e il potere: luoghi e attori della produzione mediatica 6. Pastori e pinocchi, balordi e ballerini. il mutamento dell’immagine degli albanesi nei mezzi di comunicazione italiani 7. La soapizzazione dell’anima 8. Appunti su Don Kulick, Margaret Willson, “Rambo’s Wife Saves the Day” 9. Appunti su Elizabeth Hahn, “The Tongan Tradition of Going to the Movies” 10. La forza delle immagini. Appunti su due casi mediatici.

Piero Vereni -appunti per leggere Appadurai

Appunti per la lettura di Modernità in polvere, di Arjun Appadurai, Roma, Meltemi, 2001 (ed. originale Modernity at Large, MinneapolisLondon, University of Minnesota Press, 1996).

Capitolo primo: “Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale” In questo saggio, che è quello che ha reso famoso Appadurai tra gli antropologi e non solo, l’autore cerca di individuare un linguaggio e gli strumenti per parlare del mondo dopo la fine del progetto della modernità. Se il mondo delle diversità culturali non è più pensabile come univocamente e unanimemente diretto verso la modernizzazione (concetto divenuto perlomeno equivoco, se non privo di senso), dobbiamo pensare a nuovi modi di pensarlo. L’inizio del saggio serve a far capire al lettore che Appadurai non è ingenuo, e sa benissimo che fenomeni di uniformazione e tentativi di collegare tra loro attraverso il potere e l’economia sono sempre esistiti, prima attraverso i grandi imperi storici, poi con le diverse ondate del colonialismo. Quel che oggi è diverso, è la scala su cui i fenomeni di collegamento avvengono e, soprattutto, le forme culturali di questo movimento. Alle pagine 48 e 49 gli esempi citati servono a dimostrare un punto essenziale: il passato non è più il possedimento privato dell’individuo (quel che mi ricordo), né la trasmissione di un corpus di informazioni che appartengono alla mia ristretta comunità di riferimento (le memorie dei miei nonni, gli album fotografici che mamma raccoglie con cura), e neppure gli spazi “storici” entro cui mi colloca la “mia cultura ufficiale” (la storia che si impara a scuola), ma è diventato invece una specie di supermercato della memoria. I nuovi strumenti tecnologici di archiviazione (audiocassette, dischi, Cd-rom, archivi online, videocamere, videocassette e videoregistratori) rendono letteralmente fruibile a molti forme di passato che non abbiamo mai vissuto: oggi posso fisicamente vedere e rivedere l’omicidio del presidente Kennedy, avvenuto nel 1963, mentre non posso vedere l’omicidio del presidente Lincoln, il che può suscitare una reazione emotiva completamente diversa al “ricordo” dei due eventi (a lezione, ho cercato di dimostrare la forza dell’impatto sensoriale raccontando di come ho iniziato a instaurare un rapporto “personale” con mia figlia, pensandola in tutto e per tutto come un essere umano, quando ho visto la prima ecografia in cui il suo volto era chiaramente riconoscibile. Mio padre, che all’epoca non aveva questo strumento di contatto visivo, ha cominciato a pensare ai suoi figli come “persone” dopo averli visti alla nascita). Oggi, dice quindi Appadurai, posso “ricordare” cose che non solo non ho mai vissuto (anche la sconfitta di Caporetto apparteneva a questo ordine di ricordi) ma che non fanno neppure parte di una qualche “storia collettiva” della comunità cui sento di appartenere. 2

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Questa liberazione della memoria dalle linee della storia rende definitivamente impossibile concepire “gli Altri” entro quel paradigma evoluzionista di cui abbiamo spesso parlato a lezione, per cui il sud e l’est del mondo occidentale vengono pensati come “il nostro passato”. Se i filippini possono pensare al loro presente come al passato di una certa America pop, è molto improbabile che il loro futuro vada in un’unica direzione, quella che noi abbiamo già percorso. Tanto più che il magazzino della memoria è disponibile anche per noi, che ci inventiamo un presente sempre più commisto di passato: i revival, oppure si pensi a come la fantascienza degli anni Sessanta abbia influenzato la moda degli anni Novanta, o come film come Blade Runner, Terminator o Matrix (che fingono di parlare del futuro) citino un passato quasi proto-industriale negli stili di abbigliamento, nella forma “decadente” della tecnologia esposta. Questo fatto nuovo (la disponibilità del passato a lasciarsi acquisire da soggetti che non ne sono i “legittimi proprietari”) si può descrivere come un aspetto particolarmente evidente di un fenomeno più generale, che possiamo definire l’affrancamento dell’immaginazione, cioè la liberazione della fantasia umana dalle pastoie del pensiero nazionale (vedi quanto detto nella mia introduzione). Questo ci costringe, come analisti della realtà sociale, a modificare il nostro giudizio dell’immaginazione come qualcosa di fondamentalmente negativo, che ostacola la comprensione della “realtà reale” o che al massimo è ininfluente per comprenderne la sua composizione effettiva (è il vecchio modello materialista e razionalista che ha dato forma e sostanza all’empirismo da cui nascono le scienze sociali come l’antropologia). A pagina 50 Appadurai ci invita a considerare l’immaginazione non un elemento fuorviante, e neppure un ingrediente opzionale della vita sociale, ma una sua componente essenziale: è la nostra capacità di immaginare la realtà nella quale siamo immersi che letteralmente crea quella realtà. Quasi per dimostrare che prende sul serio quel che ci chiede di fare (di immaginare l’immaginazione come parte integrante della realtà nella quale gli uomini vivono) Appadurai comincia a immaginare nuove parole che ci permettano di capire meglio il mondo in cui siamo. Queste parole sono: etnorama (il flusso degli uomini), tecnorama (il flusso della tecnologia), finanziorama (il flusso del denaro, in tutte le sue forme), mediorama (il flusso delle immagini veicolate dai mezzi di comunicazione di massa e individuali), e ideorama (il flusso delle idee e delle ideologie, spesso legate alla politica). Come indicano le mie insistenti parentesi, si tratta sostanzialmente di flussi, che possiamo immaginare come diverse correnti di un unico mare: come possiamo individuare la corrente del 3

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Golfo nell’Atlantico, così possiamo pensare che il mondo attuale sia percorso da diversi flussi, di persone, macchine, soldi, immagini e idee. Il suffisso -orama (da panorama) sta a indicare che, diversamente che per i flussi del mare, non abbiamo una terraferma da cui guardare a quei flussi, ma vi siamo perennemente immersi anche noi. Immaginate allora di essere dentro quel mare e di guardare a quei diversi flussi che passano: ovunque voi siate, non potrete fare a meno di guardare ai flussi dal vostro punto di vista (per cui una corrente è più vicina, magari ci siete proprio immersi, mentre un’altra la vedete solo da lontano, un’altra passa sopra di voi, e un’altra ancora vi sembra invisibile). A pagina 55 Appadurai insiste su un punto fondamentale: questi flussi sono disgiunti, cioè si muovono a velocità relative diverse, verso direzioni diverse, con intensità diverse. Stabilire quali siano gli specifici rapporti di forza tra i diversi flussi è una questione empirica che va risolta caso per caso: non possiamo sapere in anticipo se un mediorama influenzerà un tecnorama, o l’inverso, o ancora se i due saranno determinati da un fianziorama. La ragione principale di questo è l’indebolimento dello stato nazionale come “contenitore” che cercava o fingeva di poter controllare i diversi livelli della vita sociale: se un tempo c’erano francesi che vivevano in Francia (gruppo nazionale), dotati di specifiche infrastrutture, entro un sistema economico nazionale, che includeva il sistema di comunicazione (tv e radio nazionali) e un sistema ideologico (l’essere francesi, per così dire), oggi ci sono francesi in Francia e molti altri paesi del mondo (etnorama francese), che utilizzano diversi canali tecnologici (tecnorama), inseriti in un sistema economico per cui il crollo della Parmalat può mandare in rovina qualche parigino che ha comprato dei bond taroccati (finanziorama), mentre tutti devono fare i conti (nonostante le resistenze dello stato francese) con un flusso mediatico (film, tv, canali satellitari, internet) sempre meno controllato dallo stato, che tanto meno controlla le ideologie dei “suoi” cittadini, per cui, molti cittadini di passaporto francese e religione islamica interpretano la questione palestinese alla luce della loro capacità di leggere l’arabo e i giornali in arabo, oppure sotto l’influsso di imam (cittadini francesi) che hanno un concetto del tutto peculiare (e molto poco francese “tradizionale”) di fraternità. La disgiuntura tra gli -orami dipende anche dalla volontà degli stati di restringere alcuni flussi (spesso, quelli finanziari) e restringerne altri (spesso quelli di popolazioni migranti). Tutto questo si può leggere alla luce di un’altra parola chiave, deterritorializzazione (p. 58). Il concetto di flusso implica movimento, e il movimento stride con la nostra idea consolidata che l’appartenenza sia locale o localizzabile. I diversi -orami non sono più individuabili in senso spaziale, ma vanno percorsi nel loro divenire e nelle loro complicate interazioni. Di fronte a questo movimento, a pagina 60 Appadurai ci informa su un’importante conseguenza: gli stati, lungi dall’accettare passivamente il loro indebolimento, sembrano spingere ancora di più verso l’uniformazione e l’omogeneizzazione (cioè cercano ancora di più di impossessarsi della 4

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nazione, cioè di fare in modo che il loro confine coincida con quello della nazione, da cui pulizie etniche, espulsioni, tentativi di assimilazione) mentre, viceversa, le popolazioni in movimento (gli etnorami) pretendono spesso di “mangiarsi” lo stato, richiedendo diritti nei paesi in cui si muovono (diritto all’infibulazione? Diritto a praticare la segregazione sessuale?) suscitando risentimenti e ulteriori reazioni omogeneizzanti. In più, il flusso degli ideorami (le idee di democrazia, autodeterminazione, diritti umani) fa sì che molte minoranze agiscano consapevolmente in modo politico, rivendicando l’indipendenza politica e la necessità di un loro stato (è questo il senso della frase di Appadurai, che stato e nazione cercano di cannibalizzarsi a vicenda). “L’etnicità come primordialismo diffuso” di cui si parla a pagina 62 è una conseguenza di questi flussi. Un po’ come ci aveva insegnato Geertz, il contatto con il diverso (migrante o “ospitante”) irrigidisce le differenze, e un po’ (come insiste Appadurai) il flusso degli ideorami e dei mediorami rende plausibile un uso politico della differenza culturale su scala planetaria. A pagina 63 e 64 Appadurai riprende una vecchia terminologia marxista (feticismo delle merci) per parlare di due forme nuove di feticismo: il f. della produzione, per cui gli stati si illudono di poter controllare il livello locale dei tecnorami e dei finaziorami, mentre sono essi stessi parte di questi flussi (è, insomma, l’illusione degli stati di poter gestire un’economia ancora “nazionale”) e il f. del consumatore, per cui ci si illude che il consumatore sia un attore sociale (possa cioè fare delle scelte), mentre in realtà il suo margine di scelta è ridottissimo dalle determinazioni dei diversi flussi. L’ultimo paragrafo di pagina 64 è importante: si dice che nella globalizzazione risulta palese la contraddizione dell’Illuminismo, che voleva contemporaneamente riconoscere l’eguaglianza di tutti gli uomini e la specifica differenza delle diverse culture. Sta dicendo che la globalizzazione ha un aspetto positivo in quanto rende disponibili nuove informazioni e nuova tecnologia per nuovi gruppi sociali, ma è anche un male perché stimola un iper-particolarismo culturale e tendenzialmente isolazionista. Tanto per non perdere il vizio, Appadurai ci ricorda che le questioni sono spesso più complicate di come vorrebbero farci credere i nostri tentativi di inquadrarle entro schemi semplici. Il capitolo si chiude con due paragrafi che racchiudono il primo una e l’altro due questioni importanti. Il primo (pp. 65-68) si chiede sostanzialmente come sia possibile riprodurre e trasmettere le culture entro questo sistema di flussi. Com’è ovvio, le culture per poter sopravvivere devono essere in grado di trasmettersi alle nuove generazioni (se di colpo tutti gli italiani decidessero di parlare francese, fra un’ottantina di anni al massimo l’italiano sarebbe scomparso). La famiglia (sede dell’inculturazione primaria) è il centro dove si condensano proprio le tensioni contraddittorie dei diversi flussi, per cui genitori e figli possono essere inseriti in flussi mediatici profondamente diversi (pensate a quello che guardate voi in televisione, e quello che guardano i 5

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vostri genitori o i vostri nonni) che si intrecciano con ideorami spesso conflittuali (un figlio no global con un padre di Forza Italia, una figlia studentessa di arabo che viaggia in Siria e una madre ancorata al modello femminista), flussi che si intersecano con tecnorami divergenti (spedire gli sms sembra essere una questione riservata a chi ha meno di 45 anni). Insomma, oggi diventa più complicato capire come fare per trasmettere il sapere e il fare delle culture. Il paragrafo finale (pp. 68-70) racchiude due ulteriori questioni, semplici nella formulazione, un po’ meno nella risposta: a) dati i diversi flussi, cosa vuol dire oggi fare comparazione (una delle parole chiave dell’antropologia) se i nostri “oggetti” che poniamo a confronto (che compariamo) non esistono più come oggetti chiaramente delimitati? b) è possibile individuare una gerarchia tra i diversi -orami, nel senso che possiamo supporre che alcuni condizionino in modo sostanziale gli altri? Alla prima domanda non c’è risposta certa, se non che oggi dobbiamo confrontare prospettive, e non più oggetti: come “vede” il flusso dei diversi orami standosene in provincia di Roma e come invece si vede da Firenze? Ma già localizzare la cosa in termini di Firenze o Roma è fuorviante. Dovrei invece selezionare un particolare soggetto riconoscibile (la comunità rumena che vive a Grotte Celoni, appena fuori Roma, i muridi senegalesi che stanno in periferia di Firenze) e tenendo quell’elemento come fulcro, provare a ripercorrere gli -orami da quel punto di vista. Ad esempio, ci sono rumeni che si sono specializzati nell’installazione di antenne paraboliche, e che fanno pubblicità della loro attività in rumeno, con piccoli manifestini che appiccicano sui pali della luce: è un frammento di mediorama probabilmente invisibile per chi non sia di lingua rumena, ma che può innestare diversi movimenti: se qualche rumeno chiama la ditta e si fa istallare l’antenna parabolica, acquisisce la disponibilità di un tecnorama che mette in moto soldi (finanziorama, per quanto risicato) per entrare in un mediorama altrimenti indisponibile (i canali che trasmettono in rumeno), aprendo così spazio a ideorami (cosa dicono i politici rumeni degli immigrati all’estero?) e magari vedendosi canali satellitari internazionali che possono fargli immaginare soluzioni alternative, e rimetterlo in moto verso altri paesi (etnorama). Ecco quindi che partendo da un piccolo manifesto mi trovo a dover maneggiare una mole notevole di informazioni e concetti. Con cosa lo posso comparare? Con i manifesti scritti in altre lingue nello stesso posto? Con altre pratiche di piccola pubblicità in altre parti? Quale che sia la nostra risposta, il lavoro di comparazione diventa proprio un esercizio complicato. Per quanto riguarda la seconda domanda di questo paragrafo finale (se ci sia una gerarchia determinante tra i diversi flussi) la risposta è quello che Appadurai ci ha dato nel corso del saggio, e che ripete con un paio di esempi: di volta in volta, caso per caso, dovrà essere la ricerca empirica a dirmi quali sono i flussi determinanti e quali invece i flussi determinati.

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Mi sono dilungato nella descrizione di questo capitolo perché contiene praticamente tutti gli elementi per capire come funziona il modello di Appadurai, che vedremo applicato anche negli altri capitoli. D’ora in avanti, le mie analisi saranno molto più stringate. Capitolo secondo: “Etnorami globali: appunti e questioni per un’antropologia transnazionale”. Il capitolo tenta di rispondere a questa domanda, posta a pagina 76: “Qual è la natura della località come esperienza vissuta in un mondo globalizzato e deterritorializzato?” Detto altrimenti: va bene gli etnorami, e tutti gli altri -orami, ma questo non toglie che gli esseri umani continuino comunque a vivere sempre e solo in un posto alla volta: per quanto si spostino e tutto si sposti intorno a loro, non possono fare a meno di pensarsi “qui”, ovunque il “qui” sia collocato. Dato il sistema di flussi, come possiamo pensare questo “qui” nuovo? Questa domanda acquisisce un aspetto centrale per l’antropologia, che come disciplina si è distinta per il suo interesse alla dimensione locale, al villaggio isolato, al gruppo minuscolo: come fare antropologia in queste condizioni deterritorializzate? Avvertenza: in questo testo Appadurai parla spesso di “realismi”: con questo termine dobbiamo intendere il sistema ideologico (la struttura retorica, se volete) che ci fa sentire immersi nella realtà come dato di fatto. Abbiamo visto a lezione che il significato è socialmente costruito. Questo vale per tutti i significati, anche quello di bicchiere, sasso, materia, e realtà. Ci sono diverse strategie retoriche che le culture applicano per farci sentire a casa nel mondo, e Appadurai chiama queste forme retoriche “realismi”. Nel pensiero scientifico occidentale i diversi realismi che hanno dominato non sembrano reggere più (cioè: ci siamo accorti che sono strategie retoriche). Alcuni di questi realismi sono definiti brevemente a pagina 76: quello evoluzionista o modernista (tutto il mondo sta andando nella stessa direzione); quello individualista (poco a poco, gli uomini diventano “individui”, razionali ed economici); quello della “gabbia d’acciaio”, concetto elaborato entro la cosiddetta “Scuola di Francorte”) per cui gli uomini sono costretti proprio dalla modernità a subire forme di dominio sempre maggiori, fino ad arrivare all’oppressione totale, che è perfetta in quanto ha annullato la nostra consapevolezza di essere oppressi; quello marxista. Tutte queste “grandi narrazioni” non servono più a capire dove siamo, e quindi dobbiamo rivolgerci ad altri tipi di analisi. Questi nuovi strumenti analitici non possono sminuire il ruolo dell’immaginazione (vedi quanto detto nella mia introduzione) e ci costringono a ripensare l’etnografia come disciplina empirica in quanto legata alla località: se ogni luogo è un punto in cui convergono i diversi -orami, “essere stati lì” non serve a nulla, come prova della nostra conoscenza, se non siamo stati in grado di guardare ai 7

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diversi flussi e al modo in cui si intersecavano in quel punto. Se non siamo in grado di inseguire i percorsi che l’immaginazione fa attraversando un punto, non capiamo molte delle scelte e delle azioni delle persone che in quel punto vivono (in classe abbiamo discusso l’esempio della cassetta spedita dall’Australia in Macedonia greca con i “balli tradizionali macedoni”, e degli effetti immaginativi e politici che può produrre in un contesto locale). Per dirla con una formula: il nostro interesse per la retorica e la letteratura (la lettura che ho cercato di fare delle vostre etnografie, come fossero testi letterari di cui cercavo di individuare la struttura retorica) non è un passatempo per antropologi annoiati che, avendo perso di vista il primitivo, devono comunque risolversi a passare il tempo, ma dipende dalla natura retorica della realtà in cui siamo immersi (gli albanesi vengono in Italia perché si sono convinti della bontà dell’Italia per i loro progetti guardando i telefilm su Italia1). Detto in altre parole: non è in questione la natura letteraria dell’antropologia, ma la natura letteraria della vita reale. Chiarito questo aspetto, Appadurai passa a presentare tre esempi che, ciascuno a suo modo, ci fanno vedere come i flussi si incrocino anche in località ben determinate, e anzi “creino” le località nel loro intersecarsi. Il primo esempio è autobiografico (pp. 81-83), il secondo letterario (pp. 83-87) e il terzo cinematografico e documentaristico (quindi anche etnografico, pp. 87-88). Il senso degli esempi è riassunto a pagina 90: “molte vite sono oggi inestricabilmente legate a rappresentazioni, e quindi abbiamo bisogno di incorporare nelle nostre etnografie la complessità delle rappresentazioni espressive (film, romanzi, resoconti di viaggio), non solo come appendici tecniche, ma come fonti primarie con cui costruire e interrogare le nostre stesse rappresentazioni”. A pagina 91-92 un altro modo di vedere la cosa, sempre pensando a cosa voglia dire località oggi per chi fa ricerca sociale, ed è la distinzione tra storia e genealogia (questa distinzione viene spiegata in modo meno criptico a pagina 102, in un capitolo che non analizziamo, ma che consiglio comunque di vedere almeno per questo passo). La storia è il collegamento di modelli di mutamento in contesti sempre più vasti o, se si vuole, il percorso di determinati flussi nel loro dipanarsi a livello globale, per cui posso fare la storia del nazionalismo se individuo la sua origine e poi ne seguo il lento propagarsi sul pianeta come dottrina politica. La genealogia invece significa lo studio delle condizioni storiche locali che consentono l’indigenizzazione di nuove forme culturali, per cui posso collegare l’indigenizzazione del nazionalismo in India ai grandi imperi moghul o alla tradizione della divisione sociale in caste, e vedere come la storia di un concetto politico deve fare i conti, a livello locale, con la genealogia entro cui cerca di innestarsi. Nel capitolo quarto Appadurai farà proprio la genealogia indiana del cricket, cioè racconterà di com’è stato possibile indigenizzare questo sport britannico per eccellenza. 8

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Il paragrafo finale è un invito rivolto a chi fa ricerca sociale, e soprattutto agli antropologi: dobbiamo pensare in modo diverso al nostro rapporto con la località, e smetterla di pensare che il nostro piccolo campo di ricerca sia un mondo isolato e magari “vergine”. Capitolo quarto: “Giocare con la modernità: la decolonizzazione del cricket indiano”. Saggio semplice, che non riassumo nella sua struttura (l’ideologia del cricket; la penetrazione del cricket in India e le sue ragioni colonizzanti; gli attori dell’indigenizzazione: principi, professionisti inglesi e australiani, sponsor commerciali; rapporto tra cricket, squadre su base religiosa e nazionalismo indiano; l’uso dei media: tv, radio e linguaggio, stampa specializzata e biografie dei campioni come collage della modernità), ma per il quale mi limito a indicare i punti sui quali vorrei che rifletteste autonomamente (cercando magari ulteriori contesti di applicazione): Rapporto tra sport e appartenenza collettiva (nazionalismo o altro). Il ruolo dei professionisti anglosassoni nel trasmettere la cultura del cricket intesa come “tecnica del corpo”, non solo come teoria, che veicola un sistema complesso di simboli (virilità, agilità, fino all’“indianità”). Il rapporto tra sport e media come esempio di intreccio tra un mediorama e un ideorama,che si rinforzano a vicenda. L’odierna globalizzazione commerciale del cricket come reazione “uniformante” alla tendenza “localizzante” dell’indigenizzazione del cricket. Capitolo sesto: “Sopravvivere al primordialismo” Lo scopo del saggio è dimostrare che i conflitti “etnici” che dalla fine degli anni Ottanta sembrano attraversare il mondo con frequenza sempre più allarmante non sono il “riemergere” di odi congelati (modello Godzilla), ma sono invece la risposta alle politiche uniformanti dello stato, a volte come reazione, a volte proprio come assecondamento di quelle politiche. L’etnicismo è quindi la reazione a una pressione esterna, dovuta alle condizioni globali e al tentativo degli stati di realizzare il progetto originario dell’unità nazionale. Non parliamo quindi di esplosioni etniche, ma di implosioni (modello Alien, o L’invasione degli ultracorpi). Per primordialismo alcuni antropologi (pochi) e molti analisti politici intendono la resistenza alla modernizzazione che si espleta per privilegiare in modo irragionevole o irrazionale i legami primordiali delle piccole comunità di appartenenza.

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Per prima cosa, bisogna notare che questa definizione mette assieme fenomeni assai diversi: a pagina 181 Appadurai ci dice che invece bisogna distinguere tra forme politiche di oppressione e sterminio del diverso e forme invece di resistenza all’omologazione nazionale: farsi saltare in aria come una bomba umana non configura lo stesso fenomeno che cercare di non pagare le tasse, o non partecipare all’attività politica del proprio paese. Comunque, la teoria del primordialismo sostiene che al di là di tutti i legami sociali o politici, quello che tiene uniti gli esseri umani (alcuni di loro in modo particolare) è prima di tutto un legame alla loro comunità secondo vincoli “naturali” o comunque “inevitabili”, che di tanto in tanto esploderebbero prepotentemente in forma violenta. Problema logico: se il primordialismo è “naturale” come mai la violenza etnica non esplode in modo casuale o uniforme nel mondo, ma in specifiche aree e in determinati periodi? Un primo tentativo di risposta dato dai sostenitori del primordialismo è proprio la carenza di modernizzazione: sono più primordialisti quei gruppi meno influenzati dal processo di modernizzazione, confermando così l’implicito evoluzionismo della loro posizione: tutti gli uomini sono stati primordialisti, ma per fortuna abbiamo inventato la democrazia liberale (o il socialismo, o un’altra versione della modernità come processo inevitabile) e quindi noi siamo sfuggiti alle maglie mortali di quei legami fatti di faide, sangue e occhio per occhio, mentre loro sono ancora intrappolati nel loro sistema di relazioni primordiali. Questa proposta interpretativa non tiene conto però del fatto (evidenziato nella seconda metà di pagina 182) che paradossalmente gli stati nati dalla decolonizzazione hanno manifestato i segni più evidenti di pratiche violente e etnocide proprio mentre mettevano a punto il loro progetto di modernizzazione assumendo tutte le istituzioni tipiche di un “moderno” stato nazionale. Detto altrimenti, quella che a noi potrebbe sembrare la cura del male si è rivelata esserne una causa, o almeno un fattore di complicazione. Il caso degli eserciti e delle forze di polizia (che in uno stato moderno dovrebbero costituire l’incarnazione della legalità in quanto espressione del monopolio dell’uso della forza da parte dello stato per fini benefici) è esemplare: invece di garantire l’ordine sociale e evitare l’esplosione della violenza politica ed etnica, molte volte le forze dell’ordine nei nuovi stati sono state lo strumento principale di terribili pratiche di violenza. Un altro modo di spiegare il primordialismo entro l’ottica modernista è quello presentato nella seconda metà di pagina 183: sono vittime del primordialismo quelle entità politiche che non hanno avuto abbastanza tempo per adattarsi alle pratiche legali della modernità, che insomma hanno mal digerito la lezione liberare e pacifica della democrazia, reagendo a volte in modo irragionevole. Ma questo non spiega casi come l’Irlanda, i Paesi Baschi, e non spiega poi com’è possibile che stati per lungo tempo pacifici e pienamente in grado di maneggiare gli strumenti istituzionali della modernità 10

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dopo molti decenni di pace siano letteralmente esplosi (vedi la Jugoslavia, cui di certo non mancava una tradizione antica di pratica statale). In realtà, dice Appadurai a pagina 184, non c’è lunghezza temporale sufficiente a garantire l’immunità da esplosioni di violenza sociale e ormai, dice a tra pagina 185 e 186, dobbiamo ammettere che le idee di giustizia sociale, di democrazia (pur declinata nelle sue diverse forme politiche) di pace sociale come bene comune, sono patrimonio comune del genere umano (non per ragioni “naturali” ma proprio perché il colonialismo prima e la globalizzazione poi le hanno diffuse su tutto il pianeta), e quindi dobbiamo ammettere che sono costituiscono un antidoto efficace contro la violenza politica ed etnica. Nel paragrafo che inizia a pagina 186 Appadurai riassume le tre prospettive interpretative che possono darci una nuova prospettiva sulle ragioni della violenza politica, e che possono allontanarci dalla visione primordialista per cui le emozioni naturali provate dall’uomo starebbero alla base dei conflitti etnici. La prospettiva neomarxista ci costringe intanto a porre l’attenzione sulle ragioni “sociali” del conflitto: molte volte, i conflitti etnici includono richieste di tipo sociale (maggiori diritti, equità, autonomia, indipendenza). Gli studi sul “neorealismo dell’immaginazione” (in cui più direttamente si riconosce Appadurai) ci segnalano che l’uso della violenza molte volte dipende proprio dal tentativo di realizzare il progetto dello stato nazionale moderno: ti uccido perché sei diverso, ti violento perché non sei omogeneo al modello che voglio imporre, ti nego perché non siamo uguali. Questa pressione negatrice della diversità (che nasce dentro la modernità, e che si rivelerà in pieno con le due guerre mondiali, che sono guerre di e tra stati nazionali) stimola la nascita di diversità irrigidite, che possono utilizzare (ribaltato di segno) lo stesso discorso politico al quale cercano di resistere: un’ideologia basata sulla purezza e la purificazione della nazione ha ottime probabilità di far nascere qualche minoranza “etnica” al suo interno, proprio perché la sua ossessione per l’eguaglianza e l’omogeneità tra i cittadini marca fino a compattarle le diversità culturali, che possono a quel punto pretendere di essere riconosciute come tali. Questo è il culturalismo di cui parla Appadurai: l’uso a fini politici della differenza culturale. Oggi il cosiddetto revival etnico è prima di tutto un fenomeno di culturalismo: non tanto identità immobili e uguali a se stesse da sempre che finalmente pretendono i loro diritti politici, ma gruppi compattati dal discorso omogeneizzante degli stati nazionali e coloniali (quindi gruppi di formazione relativamente recente) che premono per ottenere dei diritti politici in nome della loro specificità culturale. Come ha già fatto a pagina 181, anche qui Appadurai ci tiene a distinguere quei gruppi che pretendono i loro diritti (e con i quali certo simpatizza, proprio perché può riconoscere che non importa molto se siano veramente antichi o di recente formazione, quel che conta è che si battano per una vita migliore o sentita come tale) dai gruppi che invece sono “di forma sostanzialmente negativa, 11

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caratterizzati in gran parte da odio, razzismo, e desiderio di dominare o eliminare gli altri gruppi” (p. 189). Sostanzialmente, Appadurai ci tiene a distinguere in modo chiaro il Dalai Lama da Osama bin Laden: il primo utilizza il culturalismo per chiedere che i tibetani possano veder riconosciuti alcuni diritti fondamentali, come quello di studiare nella loro lingua e di proseguire come meglio preferiscono le loro tradizioni culturali, senza subire un processo di cinesizzazione forzata, mentre Osama utilizza il culturalismo per fomentare l’odio verso tutto quello che lui considera “occidente”. Fatta salva questa necessaria distinzione, possiamo riassumere questo filone di analisi in questo modo: una volta che lo stato nazionale ha messo in circolazione l’idea che la diversità culturale sia politicamente rilevante, quella stessa idea oggi sottratta al monopolio statale dai flussi mediatici, ideologici ed etnici della globalizzazione, può essere rielaborata entro progetti di contestazione antistatale consapevole di sfruttare la differenza culturale. Il terzo filone di ricerca (p. 190) che ci dice qualcosa di interessante contro il primordialismo è quello costituito dagli studi di antropologia che da un ventennio circa riflettono sulla natura culturalmente determinata delle emozioni: invece di essere qualcosa di naturale, le emozioni sono espresse secondo modelli culturali. Questo filone di ricerca si incrocia con quegli studi delle scienze sociali che da tempo riflettono sul rapporto tra corpo e potere, cioè su come il corpo non sia solo un oggetto manipolato dal potere, ma possa divenire il ricettacolo di pratiche di potere e di controllo: si tratta di un tema complesso che abbiamo provato ad accennare diverse volte, e anche l’esempio “della Playstation” può essere letto come un suo caso particolare: il sistema della produzione economica e della pubblicità legata a modelli di immaginario complessi fa si che diverse persone siano disposte ad acquisire complesse pratiche del corpo per soddisfare contemporaneamente il loro desiderio di gratificazione immaginativa (giocare al videogioco) e il desiderio di guadagno economico della Sony. Il potere della Sony di produrre macchine efficienti e attraenti e di commercializzare con successo il suo prodotto si incarna nelle dita dell’abile giocatore, che in un certo senso o in una certa misura si fa possedere da quel potere, divenendone parte. Questa metafora serve per spiegare il modello Alien da cui eravamo partiti per spiegare come Appadurai racconta l’etnicità: più che esplosioni di emozioni interne che stanno lì sepolte dalla notte dei tempi e che ogni tanto riemergono, gli scontri etnici possono meglio essere interpretati come implosioni dentro il corpo delle persone di complesse strategie di potere e di immaginazione delle identità: una volta appreso con il corpo a odiare il nemico, una volta cioè che siano diventate forme incarnate le complesse rivalità economiche, politiche, religiose e storiche che ruotano attorno allo stato moderno e alla sua crisi, ci penserà il corpo a trasformare quell’odio in machete, fucile, esplosivo.

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Piero Vereni -appunti per leggere Appadurai

Per concludere, per Appadurai la violenza etnica non è il ritorno di pratiche ataviche, il riemergere di emozioni primitive perché primordiali, ma è invece la risposta moderna alla crisi attuale delle appartenenze: sottratti al controllo imbrigliante dello stato accentratore e politicamente omogeneizzante, i flussi discussi nei capitoli precedente implodono sui corpi delle persone, insegnando loro le forme dell’odio e dell’appartenenza originariamente sorte entro lo stato, ma ormai prive del contenitore che le aveva generate e che riusciva (internamente) a contenerle, per spingerle invece verso l’esterno (il nemico oltre confine). Una volta che lo stato non riesce più – sotto la spinta della globalizzazione delle idee, delle merci e delle persone – a contenere quei modelli di appartenenza pura sotto il suo controllo, quegli stessi modelli possono essere rivendicati blandamente come richiesta di diritti, oppure essere urlati in faccia agli altri come volontà di distruzione di tutto ciò che non somiglia loro, fosse anche solo il vicino di casa.

Capitolo settimo “Il patriottismo e i suoi futuri”. Per pure ragioni di tempo, non riesco a dare di questo testo una lettura accurata, ma voglio almeno provare a veicolare l’idea di fondo e la ragione che mi ha spinto a includerlo nei capitoli del programma. Per tutto questo corso, abbiamo ragionato cercando di vedere come le appartenenze non siano un dato di fatto naturale: come impariamo la playstation o a truccarci, così impariamo a sentirci a casa nella comunità che consideriamo nostra. Questo lavoro di riflessione sulla costruzione delle appartenenze si è accompagnato allo studio di come quelle vecchie costruzioni oggi siano profondamente in crisi perché, con uno slogan, “il mondo si è messo in movimento”, rendendo instabile e friabile il terreno su cui poggiano tutte le appartenenze. Siamo quindi passati attraverso questo corso cercando di capire che le identità collettive sono una costruzione, e che questa costruzione sembra oggi potentemente “decostruita” nella sua stabilità dal processo della globalizzazione. Ma questo lavoro di consapevolezza e decostruzione non è sufficiente, perché la natura sociale dell’uomo lo porta inevitabilmente a considerarsi parte di qualche gruppo. Come possiamo ancora pensare di appartenere a qualche comunità, nelle condizioni attuali? È questa (tradotta un po’ liberamente) la domanda che Appadurai si pone in questo capitolo. La sua proposta fondamentale è quella di separare il trattino che unisce il totem politico dello stato-nazione, per far sì il nostro senso di appartenenza non sia limitato ai nostri doveri civici, e neppure coincida ossessivamente con essi. Elaborando il concetto di transnazione, Appadurai vuole suggerirci che il nostro senso di appartenenza può riuscire a travalicare i confini, e che gli stati devono fare di tutto (se vogliono sopravvivere come entità morali, oltre che politiche)

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Piero Vereni -appunti per leggere Appadurai

per assecondare questo movimento di liberazione del senso di appartenenza dal contesto politico che amministra la gestione della cosa pubblica attorno a noi. Io non so se questo modello sia praticabile, ma un’altra ragione che mi ha spinto a farvi leggere questo capitolo è la sua parte finale, dove si immagina che siano gli Stati Uniti a incarnare per primi questo modello di appartenenza transnazionale. Visto il ruolo politico degli

USA

in questi ultimi

anni, sembra difficile che la proposta di Appadurai trovi piede in tempi brevi, ma non è un giudizio strettamente politico quello che voglio dare. Il dibattito su americanismo-antiamericanismo mi pare sia stato viziato in Italia dall’incapacità di riconoscere che gli Stati Uniti, almeno nell’immaginario di quelli nati tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine degli anni sessanta (per gli altri non ho le idee chiare a riguardo) abbia incarnato lo spazio totale: il posto del bene e del male assoluto, in cui poteva letteralmente succedere di tutto, le cose più belle e quelle più orripilanti. Da questo punto di vista, decidere da che parte stare non aveva per noi molto senso: noi stavamo con gli indiani, e con Martin Luther King, ma anche con i Rolling Stones e con i film di Ridley Scott (Alien, Blade Runner, Thelma e Louise). L’America era cioè già transnazionale, perché permetteva a noi (che la vedevamo solo da molto lontano, in gran parte immaginandocela) di costruircene l’immagine che preferivamo, selezionando quel che poteva costituire la base della nostra comunità generazionale. Mi pare che oggi sia cambiato sia il modo in cui l’America vede se stessa, sia il modo in cui noi la guardiamo, e non credo che questo cambiamento mi piaccia. Preferisco dunque sperare che Appadurai abbia visto ancora una volta giusto, e che magari anche l’Europa possa provare a incarnare quell’idea di compresenza della varietà che non ha bisogno di uniformare le persone per farle sentire a casa loro.

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Scheda di Modernità in polvere

Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Roma, Meltemi editore, 2001, pp. Parole chiave: immaginazione, azione, globalizzazione, comparazione, comunità transnazionale, consumo, costruzione del corpo, costruzione del tempo, culturalismo, deterritorializzazione, diaspora, etnicità, etnografia postnazionale, identità, località, massmedia, migrazione, modernità, nazionalismo, nostalgia, statonazione.

Questo libro raccoglie il meglio della produzione di Appadurai degli anni Novanta, ed ha al suo centro un’attenzione speciale per “le dimensioni culturali della globalizzazione”. Ciò che rende il volume assolutamente unico nel panorama degli studi sulla globalizzazione è la specificità dello sguardo: l’autore ha infatti una formazione antropologica, che gli consente di privilegiare la dimensione locale anche quando rivolge l’attenzione a fenomeni internazionali. Questo significa che invece di dare priorità alla dimensione uniformante dei processi di concentrazione economica e omogeneizzazione politica planetaria, i saggi raccolti nel volume indagano come questi processi vengano vissuti sempre entro un contesto locale, e come cioè “la globalizzazione non sia una vicenda di omogeneizzazione culturale”. Appadurai elabora un modello di analisi in cui il potere politico, le strutture dell’economia e il sistema dell’informazione non si sovrappongono più entro i confini di specifici stati nazionali come avveniva nel modello classico della modernità, ma si sono invece trasformati in flussi sostanzialmente indipendenti.

Limite del potere politico (confini) Estensione del sistema economico Raggio di diffusione dei media

IL MODELLO “CLASSICO” DELLA MODERNITÀ

METODOLOGIA D’INDAGINE: per il progetto SOCIOLOGICO, porsi al CENTRO di ogni nucleo, per scoprire come i soggetti vivono ASSORBENDO la modernità; per il progetto ANTROPOLOGICO, porsi ai MARGINI o negli INTERSTIZI tra i nuclei, per scoprire come i soggetti vivono SFUGGENDO alla modernità.

IL MODELLO DEI FLUSSI GLOBALI METODOLOGIA D’INDAGINE: per qualunque scienza umana, porsi in una LOCALITÀ, per scoprire come i diversi FLUSSI si intreccino in modo peculiare per quel punto specifico, come cioè la MODERNITÀ non sia solo assorbita o evitata, ma ATTIVAMENTE COSTRUITA da parte dei soggetti.

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Scheda di Modernità in polvere

Questo libro ha la preziosa qualità di non limitarsi ad indicare sul piano astratto il passaggio dalla modernità dello stato nazionale alla globalizzazione. Appadurai cioè non è un teorico, ma rimane uno “scienziato sociale” che cerca gli strumenti per investigare la complessità della globalizzazione. Raccontandoci come il cricket (gioco English per antonomasia) si sia incarnato nelle “tecniche del corpo” di decine di milioni di indiani; come la frenesia del numero nei censimenti coloniali si faccia ancora sentire nella quantificazione delle comunità religiose indiane; raccontandoci cosa succede ad un antropologo che torna sul lontano sito della sua ricerca e scopre che il suo miglior “informatore” è emigrato a pochi chilometri da casa sua; come il sistema del pagamento dilazionato con carta di credito istituisca meccanismi di debito completamente slegati dalle piccole ciclicità quotidiane, contribuendo così a costruire una nuova percezione del tempo lineare che si incarna in pratiche di consumo che diventano pratiche del corpo; come la violenza etnica invece di essere la negazione della modernità ne rappresenti l’inevitabile versante osceno, fomentato da quegli stessi stati che dovrebbero esserne minacciati; ricostruendo come sia possibile oggi provare nostalgia per un passato che non abbiamo mai perduto, vivendo in un presente che il sistema dei consumi ci insegna ogni momento a lasciarci dietro le spalle; come in tutto questo gli individui possano ancora immaginare, con ironia e dolore, comunità a cui appartenere senza che queste appartengano ad uno stato; raccontandoci infine cosa significa essere un indiano tamil di educazione britannica e formazione universitaria americana che diventa un antropologo il cui sito di ricerca è anche il suo luogo d’origine, Appadurai sta facendo un lavoro antichissimo (osservare il mondo e gli uomini che lo creano e lo abitano, e cercare di capire) con la cura artigianale di chi accetta che le condizioni di lavoro siano talmente mutate che è giunto il momento di mettere a punto nuovi ferri del mestiere. Questo libro, oltre che uno strumento di lavoro in sé, è un tornio con cui ogni lettore può fabbricarsi i nuovi utensili necessari al suo lavoro. Indice del volume: Introduzione: Hic et nunc Messa a fuoco dei temi e degli strumenti: lo studio della modernità sottratto al mito del progresso inarrestabile; la globalizzazione come fenomeno nettamente distinto dall’uniformazione dei costumi; lo sguardo sulle identità etniche come forme tipicamente moderne e post-nazionali dell’appartenenza. L’antropologia come archivio privilegiato per questi studi. Prima parte: Flussi globali 1. Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale 2. Etnorami globali: note e questioni per un’antropologia transnazionale 3. Consumo, durata, storia Il mondo si sta riorganizzando dal punto di vista culturale in flussi transnazionali. Mentre cioè nella modernità il sistema produttivo, quello dell’informazione e quello politico si sovrapponevano coincidendo in buona parte con i confini dello stato nazionale, oggi questi flussi si sono liberati uno dall’altro, creando prospettive in conflitto tra loro e in conflitto con la logica degli stati. Come si possono studiare questi flussi indipendenti di persone, merci, informazioni e politiche? Che ruolo hanno gli individui nel manipolare questi flussi? Seconda parte: Colonie moderne 4. Giocare con la modernità: la decolonizzazione del cricket indiano 5. Il numero nell’immaginario coloniale Dato che i flussi sono in movimento, fare ricerca sociale significa oggi essere in grado di descrivere in maniera accurata cosa succede a quei flussi da una particolare prospettiva, da un determinato punto di vista. Due casi di studio indiani illustrano come la prospettiva teorica di Appadurai possa avere risvolti metodologici. Primo caso: il cricket in India. Sport importato durante la colonizzazione britannica, il cricket è entrato profondamente nell’ethos indiano: come può una società essere post-coloniale utilizzando uno strumento ludico dei colonizzatori? Secondo caso: come l’uso dei censimenti in India abbia introdotto in loco un concetto di enumerazione che mostra la sua forza fino alle sanguinose dispute tra indù e musulmani nel corso degli anni Novanta. Terza parte: Locazioni postnazionali 6. La vita dopo il primordialismo 7. Il patriottismo e i suoi futuri 8. La produzione della località Come si costruisce una comunità in questo nuovo contesto in cui persone, idee, merci e ideologie sono in rapido movimento sul pianeta e sembrano indipendenti uno dall’altro? L’identità etnica è proprio il modo in cui gli individui riescono a pensarsi come membri di una comunità anche quando sono costretti a muoversi sul pianeta o a fare i conti da un punto di vista locale con la natura globale dei processi economici. Criticando in maniera netta qualsiasi approccio primordialista all’etnicità Appadurai propone anche una visione in cui la politica potrà sempre più fare a meno dello stato-nazionale come punto di riferimento centrale della propria espressione.

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Arjun Appadurai – Parole chiave

Arjun Appadurai (1949) è professore di Antropologia e professore di Lingue e Civilizzazioni dell’Asia Meridionale all’Università di Chicago, dove è stato direttore del Chicago Humanities Studies. Fondatore della rivista Public Culture, dirige il Globalization Project all’università di Chicago. Attualmente sta conducendo una ricerca sul rapporto tra violenza etnica e immagini del territorio nei moderni stati nazionali. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Worship and Conflict under Colonial Rule (Cambridge 1981) e la cura di The Social Life of Things (Cambridge, 1986). Modernity at Large è la sua prima opera tradotta in italiano. Siti rilevanti http://anthropology.uchicago.edu/faculty/bio/arjun.html breve scheda biografica http://www.indiana.edu/~wanthro/appadurai.htm ottima scheda generale con personal data e basic concepts di Appadurai http://www.lemonde.fr/article/0,5987,3260--253665-,00.html recensione apparsa su Le Monde il 6 dicembre della traduzione francese di Modernity at Large http://globalizationproject.uchicago.edu/ pagina del Globalization Project diretto da Appadurai http://www.india-seminar.com/2001/503/503%20arjun%20apadurai.htm recente saggio di Appadurai sul rapporto tra globalizzazione e violenza Nota: qualsiasi motore di ricerca dà come esito centinaia di entrate di siti universitari anglosassoni perché Appadurai è impiegato come testo base praticamente in tutti i corsi dedicati alla globalizzazione nei suoi aspetti culturali (nuove identità, conflitti etnici, “fine” dello stato nazionale). In Italia Meltemi ha già avuto un ottimo riscontro dato che Modernità in polvere, pur essendo uscito solo a febbraio del 2001, è già stato adottato in diversi corsi di antropologia.

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Immaginazione L’immaginazione è divenuta parte del lavoro mentale quotidiano della gente comune in molte società. È entrata nella logica della vita ordinaria… è diventata una pratica sociale. Non più pura fantasia (oppio dei popoli, le cui attività reali stanno altrove), non più pura via di fuga (da un mondo definito prima di tutto da più concreti obiettivi e strutture), non più passatempo per le élites (quindi non rilevante per la vita della gente comune), e non più pura contemplazione (irrilevante per nuove forme di desiderio e soggettività), l’immaginazione è diventata un campo organizzato di pratiche sociali, una forma di opera (nel duplice senso di lavoro fisico e di pratica culturale organizzata)… Azione Ci sono prove sempre più evidenti che l’uso dei mass media nel mondo produce spesso resistenza, ironia, selettività e, in generale, azione. Terroristi che prendono come modelli figure à la Rambo (che hanno a loro volta prodotto molteplici epigoni non occidentali); casalinghe che leggono romanzi rosa e guardano le soap-opera come parte del loro tentativo di costruirsi le loro vite; famiglie musulmane che si radunano ad ascoltare i sermoni dei leader islamici su cassetta; collaboratori domestici dell’India meridionale che visitano il Kashmir in viaggi organizzati: sono tutti esempi del modo attivo in cui la gente in tutto il mondo si appropria dei media. Magliette, cartelloni pubblicitari, graffiti, ma anche la musica rap, la street dancing e le baraccopoli indicano tutti che le immagini dei media sono rapidamente assimilate entro repertori locali fatti di ironia, rabbia, umorismo e resistenza. Stato-nazione Nel corso dei sei anni in cui ho steso i diversi capitoli sono arrivato alla convinzione che lo stato nazionale, come complessa forma politica moderna, è arrivato al lumicino… l’idea che il sistema stesso degli stati nazionali sia a rischio non è affatto popolare. In questo libro la mia persistente attenzione sul trattino che lega la nazione allo stato fa parte di una progressiva argomentazione del fatto che l’epoca stessa dello stato nazionale sia giunta ad una conclusione. Quest’idea, che è una via di mezzo tra una diagnosi e una prognosi, tra un’intuizione e una dimostrazione, dev’essere spiegata in dettaglio. Tempo Oggi il passato non è una terra cui tornare in una semplice politica della memoria, ma è diventato un deposito sincronico di scenari culturali, una specie di archivio centrale del tempo, cui 18

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fare ricorso come meglio si crede… Tutto questo è scontato, se si segue Jean Baudrillard o JeanFrançois Lyotard in un mondo di segni completamente slegati dai loro significanti sociali (tutto il mondo è Disneyland). Ma vorrei suggerire che l’evidente intercambiabilità progressiva di intere epoche e atteggiamenti negli stili culturali del capitalismo avanzato è legata a forze globali più vaste, che hanno lavorato molto per far capire agli Americani che il passato è di solito un paese straniero. Se il vostro presente è il loro futuro (come in molta teoria della modernizzazione e in molte fantasie turistiche soddisfatte di sé), e il loro futuro è il vostro passato (come nel caso dei virtuosi filippini della musica pop americana), allora il vostro passato può ben apparire come una semplice forma normalizzata del vostro presente. Modernità La mia non è una teoria teleologica, che contenga la ricetta di come la modernizzazione produrrà ovunque razionalità, puntualità, democrazia, libero mercato e un più elevato prodotto nazionale lordo. …il mio approccio lascia del tutto aperta la questione di dove possano condurre (in termini di nazionalismo, violenza e giustizia sociale) gli esperimenti con la modernità consentiti dalla mediazione elettronica. Detto altrimenti, riguardo alla prognosi la mia è una teoria più profondamente scettica di qualsiasi variante della teoria classica della modernizzazione di cui sia a conoscenza. Quarto, e più importante di tutti, il mio approccio alla rottura causata dalle forze congiunte della mediazione elettronica e della migrazione di massa è esplicitamente transnazionale – addirittura postnazionale – come suggerisco nell’ultima sezione del libro. In quanto tale, si discosta radicalmente dal modello della teoria classica della modernizzazione, che si potrebbe chiamare fondamentalmente realista nella misura in cui presuppone la rilevanza, metodologica ed etica, dello stato-nazione. Globalizzazione L’archivio antropologico, e il tipo di sensibilità che produce nell’antropologo professionista, mi orienta nettamente verso l’idea che la globalizzazione non sia la storia dell’omogeneizzazione culturale. Quest’ultima affermazione è il minimo che vorrei che il lettore cogliesse da questo libro… la globalizzazione è in sé un processo profondamente storico, ineguale e addirittura localizzante. La globalizzazione non implica necessariamente e neppure frequentemente omogeneizzazione o americanizzazione… Il problema centrale delle interazioni globali odierne è la tensione tra omogeneizzazione culturale ed eterogeneizzazione culturale… Spessissimo la teoria dell’omogeneizzazione si suddivide in una tesi dell’americanizzazione e in una della mercificazione, e spesso le due tesi sono strettamente collegate. Quello che queste tesi non riescono a cogliere è che le forze che provengono 19

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da diverse metropoli, una volta importate in nuove società, tendono altrettanto rapidamente ad essere indigenizzate in un modo o nell’altro. Comparazione Quel che vorrei proporre è che iniziamo a pensare alla configurazione delle forme culturali nel mondo odierno come sostanzialmente frattale, cioè priva di confini euclidei, strutture o regolarità. Secondo, suggerirei che quelle forme culturali, che ci dovremmo sforzare di rappresentare come completamente frattali, si stanno inoltre sovrapponendo secondo modalità che sono state discusse solo in matematica pura (nella teoria degli insiemi, per esempio) e in biologia (nel linguaggio delle classificazioni politetiche). Abbiamo quindi bisogno di unire una metafora frattale per la forma delle culture (al plurale) con una descrizione politetica delle loro sovrapposizioni e somiglianze. Senza questo passo ulteriore rimarremo impantanati in comparazioni che fanno affidamento sulla netta separazione delle entità da confrontare prima di poter iniziare un serio lavoro comparativo. Come faremo a comparare forme culturali frattali che inoltre si sovrappongono nella loro copertura dello spazio terrestre? (cap. 1) Etnografia Quello che un nuovo stile etnografico può fare è cogliere l’impatto della deterritorializzazione sulle risorse immaginative delle esperienze vissute localmente. Detto altrimenti, il compito dell’etnografia diventa oggi la risoluzione di un enigma: qual è la natura della località come esperienza vissuta in un mondo globalizzato e deterritorializzato? …L’etnografia deve ridefinirsi come quella pratica di rappresentazione che getta luce sul potere che le vite potenziali immaginate su larga scala esercitano su specifici percorsi di vita Nostalgia Queste forme di sollecitazione pubblicitaria di massa insegnano piuttosto ai consumatori a sentire la mancanza di cose che non hanno mai perduto. Creano cioè sensazioni di durata, passaggio e perdita che riscrivono le storie di vita degli individui, delle famiglie, dei gruppi etnici e delle classi. Creando il sentimento di perdite che non sono mai avvenute, questa pubblicità crea quel che si potrebbe chiamare “nostalgia immaginata”, nostalgia per cose mai accadute. Questa nostalgia immaginata inverte così la logica temporale della fantasia (che istruisce il soggetto a immaginare quel che potrebbe accadere in futuro) e crea desideri più profondi di quelli che potrebbero susciatare la semplice invidia, l’imitazione o la cupidigia

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Cultura Propongo di considerare culturali solo quelle differenze che esprimono oppure formano la base per la mobilitazione di identità di gruppo… La parola cultura, nel suo senso non marcato, può continuare ad essere usata per far riferimento alla dovizia di differenze che oggi caratterizzano il mondo… Propongo tuttavia di restringere cultura, come termine marcato, a quel sottoinsieme di quelle differenze che viene mobilitato per articolare il confine della differenza. Per quanto riguarda il mantenimento del confine, la cultura diviene quindi una questione di identità di gruppo costituita da alcune differenze tra altre… Culturalismo In tutto il mondo molti gruppi, dovendo far fronte all’azione di stati interessati ad includere le loro diversità etniche entro raggruppamenti rigidi e chiusi di categorie culturali alle quali gli individui sono spesso assegnati contro la loro volontà, si stanno deliberatamente mobilitando secondo criteri identitari. Il culturalismo, per dirla in maniera semplice, è la politica dell’identità mobilitata a livello dello stato nazionale. Identità la dimensione primordiale (non importa se del linguaggio, del colore della pelle, della comunità locale o della parentela) è diventata globalizzata. Cioè i sentimenti, il cui potere maggiore è la loro capacità di stimolare l’intimità entro uno stato politico e di trasformare la località in un campo di addestramento per l’identità, si sono ora diffusi su territori vasti e irregolari con il movimento di gruppi che rimangono comunque collegati l’un l’altro attraverso raffinate potenzialità di comunicazione mediatica… l’etnicità, un tempo genio contenuto nella lampada di qualche tipo di località (per quanto vasta) è ora divenuta una forza globale, che scivola regolarmente entro e attraverso le fratture tra stati e confini

Etnicità Ci sono prove sempre più chiare che i modelli occidentali di partecipazione politica, di istruzione, di mobilitazione e di crescita economica, che avrebbero dovuto distanziare le nuove nazioni dai loro primordialismi più retrogradi, hanno avuto l’effetto opposto. È evidente che questi rimedi creano disordini iatrogeni… L’aspetto più paradossale è che… molto spesso la creazione di sentimenti primordiali, lungi dall’essere un ostacolo per lo stato modernizzatore, si pone molto vicino al cuore del progetto dello stato nazionale. Molti fondamentalismi razziali, religiosi e culturali sono quindi alimentati deliberatamente da diversi stati nazionali, o da partiti 21

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al loro interno, con l’intento di reprimere il dissenso; di costruire soggetti omogenei e di massimizzare la sorveglianza e il controllo… Corporeità Ma dato che il cricket, attraverso la convergenza di stato, mass media e interessi del settore privato, ha finito per essere identificato con “l’India”, con l’abilità “indiana”, con il coraggio “indiano”, con lo spirito di squadra “indiano” e con le vittorie “indiane”, il piacere fisico che è al centro dell’esperienza visiva maschile è allo stesso tempo parte dell’erotismo della nazionalità. Questo erotismo, soprattutto per i giovani maschi della classe operaia e del sottoproletariato, è profondamente collegato alla violenza, non solo perché tutti gli sport agonistici stimolano l’inclinazione all’aggressività ma anche perché le contrastanti pretese della classe, dell’etnicità, della lingua e della regione fanno della nazione una comunità profondamente contestata Potere e sapere Le tavole numeriche, le figure e le tabelle consentivano di addomesticare la contingenza – il disordine narrativo delle descrizioni in prosa del panorama coloniale – entro l’astratto, preciso, completo e freddo dialetto dei numeri… La storia del dominio britannico [in India] nel

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secolo può essere letta in parte come il

passaggio da un uso più funzionale del numero in quel che è stato chiamato il militarismo fiscale dello stato britannico in madrepatria, ad un uso più pedagogico e disciplinare. Non solo i corpi indiani vennero gradualmente categorizzati, ma ad essi si attribuirono valori quantitativi… altri regimi possono aver avuto degli interessi numerici e anche degli interessi classificatori, ma queste due sfere rimasero in gran parte separate, mentre fu solo nella complessa congiuntura delle variabili che costituì il progetto del stato coloniale maturo che queste due forme di nominalismo dinamico si unirono per creare una politica che ruotava attorno a comunità enumerate auto-consapevolmente (cap. 5).

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

Introduzione al volume Antropologia dei Media, Rai-Eri, in corso di stampa (2008)

Racconta il mito che Giove assegnò a Epimeteo il compito di attribuire ai diversi animali una qualità che rendesse ogni specie riconoscibile e distinta. Il distratto Epimeteo diede quindi gli artigli alle fiere, i garretti agli erbivori, le corna ai bovidi e la pelliccia ai molti che vivevano al freddo, ma dimenticò di preservare una qualità da destinare all’uomo, che si ritrovò completamente nudo e senza strumenti efficaci di offesa o difesa. Fu questa la ragione che spinse il previdente fratello, Prometeo, a rubare il fuoco agli dei1. Impietosito dalla terribile condizione dei mortali, Prometeo pose a rischio la propria vita per garantire agli uomini uno strumento di sopravvivenza. Nella forma immaginifica che gli è propria, il mito ci dice che gli esseri umani sono naturalmente incapaci di sopravvivere senza tecnologia, il che equivale a sostenere che la dimensione tecnologica è intrinseca alla natura dell’uomo. Diversamente quindi da tutti gli altri animali, per l’essere umano è impossibile trovare una definizione astratta delle sue qualità naturali, e sempre bisogna associare alla descrizione dell’uomo la strumentazione tecnologica di volta in volta disponibile. Quando diciamo che l’uomo vive all’interno della sua cultura stiamo precisamente ribadendo questa impossibilità di definirne le qualità naturali prescindendo da considerazioni puntuali sulla lingua, le pratiche, le usanze, le credenze e i manufatti di sua produzione. Mentre cioè per un qualunque altro animale possiamo pensare a una descrizione del tutto decontestualizzata (“la volpe è un canide cacciatore che nidifica in tane sotterranee e si nutre di piccoli animali”), ogni volta che parliamo dell’Uomo dobbiamo necessariamente inserirlo in un contesto, specificando di quale epoca storica e di quale area geografica stiamo parlando. Se non lo facciamo, è perché generalizziamo (quasi sempre indebitamente) da un caso specifico a una norma, il più delle volte attribuendo all’Uomo come specie quelle che sono di fatto le caratteristiche culturali degli individui da noi osservati2. 1

Traggo questa versione del mito da DAN SPERBER, Il sapere degli antropologi, traduzione di Mariangela Zanusso, Milano, Feltrinelli, 1984, 135 p. Edizione originale Le savoir des anthropologues, Paris, Hermann, 1982, 141 p. 2 Per una riflessione sistematica sul rapporto tra condizione umana e tecnologia non posso che rimandare in primis al fondamentale lavoro del grande etnologo e paleontologo francese ANDRÉ LEROI-GOURHAN, Le geste et la parole. 1. Technique et langage, Paris, Editions Albin Michel, 1964, 323 p. Traduzione italiana di Franco Zannino Il gesto e la parola. Volume primo: Tecnica e linguaggio, Torino, Einaudi, 1977, 254 p. ANDRÉ LEROI-GOURHAN, Le geste et la parole. 2. La Mémoire et les rythmes, Paris, Editions Albin Michel, 1965, 285 p. Traduzione italiana di Franco Zannino Il gesto e la parola. Volume secondo: La memoria e i ritmi, Torino, Einaudi, 1977 pp. XII, 258-482. Un

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

Se quindi è vero che non possiamo descrivere l’Uomo senza contestualizzarne il quadro tecnologico, ne deriva sul piano teoretico la necessità di includere questo contesto nell’essenza del nostro oggetto di studio. Gli antropologi sociali e culturali si riferiscono a questa necessità quando parlano della natura olistica (dal greco ollon, il tutto) della loro disciplina: pur se analiticamente in grado di separare i diversi componenti che costituiscono una determinata cultura (lingua, economia, parentela, religione, tecnologia, eccetera), l’antropologia culturale si prefigge l’intento di essere olistica, di dare cioè un quadro complessivo di un determinato sistema culturale che ne preservi l’unicità o, con un termine oggi particolarmente apprezzato, l’identità. Schematizzando quanto finora sostenuto, possiamo affermare che il contesto tecnologico è indispensabile a una descrizione del soggetto umano che garantisca la specifica identità dei diversi agglomerati sociali e culturali. Riducendo ulteriormente questo enunciato, possiamo dire che la tecnologia è un tratto essenziale delle diverse identità culturali. Del resto, è comprovato dagli studi archeologici, storici e antropologici il rapporto diretto tra livello tecnologico e quadro più genericamente culturale: la scoperta dell’agricoltura ha prodotto non solo la sedentarizzazione di gruppi in precedenza nomadi o seminomadi, ma ha anche consentito l’accumulo di un surplus produttivo che si è tradotto in stratificazione sociale, specializzazione produttiva e quindi aggregazione identitaria specifica. Se da un lato la contrapposizione tra diverse competenze tecnologiche (cacciatori opposti ad agricoltori, ad esempio) ha sempre prodotto identità collettive e contrastive (quelle che oggi chiamiamo etnie e nazioni), all’interno delle società cosiddette complesse la costituzione di specialismi produttivi (artigiani opposti a intellettuali, ad esempio) ha dall’altro aperto la strada a ulteriori frammentazioni identitarie (caste, classi e strati sociali). Per citare un altro esempio eclatante, l’invenzione della scrittura ha rafforzato confini culturali e sociali che hanno di fatto prodotto inedite configurazioni di appartenenza3. Il quadro tecnologico di un determinato contesto storico non si limita quindi a innestarsi in una cultura come un’appendice prescindibile, ma si salda direttamente alle radici della creazione culturale, modificando i rapporti di produzione e le interazioni simboliche al punto da sedimentarsi in configurazioni di appartenenza del tutto originali. saggio assolutamente sorprendente per l’originalità della prospettiva teorica nel rapporto tra cultura popolare e tecnologia è quello dell’etnologo tedesco HERMANN BAUSINGER, Volkskultur in der technischen Welt, Stuttgart, Kohlhammer, 1961, 217 p., solo di recente tradotto in italiano: Cultura popolare e mondo tecnologico, traduzione e cura di Luca Renzi, con un saggio di Pietro Clemente, Napoli, Guida, 2005, 276 p. Per considerazioni ulteriori sul rapporto tra uomo e tecnica si vedano i contributi filosofici di UMBERTO GALIMBERTI, Psiche e techne: l’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999, 812 p. e EMANUELE SEVERINO, Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 1998, 267 p. Quest’ultimo, in particolare, si interessa esplicitamente della comunicazione di massa. 3 Un testo di agile lettura − anche se sempre stimolante − sul valore politico oltre che culturale della scrittura è il classico dell’antropologo britannico JACK GOODY, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Franco Angeli, 1981, 201 p. Edizione originale The domestication of the savage mind, Cambridge, Cambridge university press, 1977, X-179 p.

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

All’interno del quadro generale del rapporto tra tecnica e identità, questo saggio cerca di studiare la specifica interazione tra quella particolare tecnologia che si associa alla comunicazione linguistica e visiva tra esseri umani e quelle specifiche forme di identità che chiamiamo collettive, che trascendono cioè consapevolmente i limiti della costruzione dell’identità personale. Se ogni tecnologia entra nella costituzione dell’identità, le pagine che seguono tentano di rispondere a una specifica domanda: qual è l’interazione tra tecnologie della comunicazione di massa e identità collettive? Lo spazio di questo studio è quindi delimitato dal confronto tra mass media e senso di appartenenza a una comunità. Queste due estremità della questione rivelano un interessante parallelismo che vale la pena di ripercorrere proprio come introduzione alla discussione che ne seguirà. I mezzi di comunicazione di massa e le identità collettive sono due ambiti di studio apparentemente distanti, ma oggi curiosamente accomunati dall’apparente fragilità di condizioni in cui versano i loro rispettivi rappresentanti più prestigiosi. Mi spiego. Entro il sistema dei mezzi di comunicazione di massa, se dovessimo pensare a uno strumento per antonomasia indicativo di tutta la categoria, difficilmente penseremmo di primo acchito a tecnologie di recente acquisizione come Internet o il

GPRS,

e più prosaicamente identificheremmo la grande e mutevole famiglia dei mass

media con la televisione, epitome e sineddoche della dimensione globale della comunicazione. Allo stesso tempo, proprio mentre sentiamo che la televisione rappresenta quasi simbolicamente l’idea stessa di comunicazione di massa, non possiamo non pensarla come obsoleta, o perlomeno sotto l’assedio di nuove tecnologie che – modificando radicalmente le forme di produzione, distribuzione e accesso al messaggio e puntando sulle premesse filosofiche oltre che tecnologiche del peer-topeer – convergono fatalmente a ridisegnare in forme del tutto nuove la pratica del broadcasting. A questo secondo pensiero ne farebbe quasi certamente seguito un terzo, attento a rivalutare il ruolo della televisione proprio nel sistema attuale della comunicazione di massa. Detto altrimenti, se pensiamo ai mass media, sembra plausibile che molti di noi infilino una sequela di riflessioni perlomeno tripartita: a) dapprima pensiamo alla televisione generalista come espressione più tipica della moderna comunicazione di massa, identificata soprattutto con la televisione del boom demografico e del miracolo economico dei primi anni Sessanta. b) subito dopo ne cogliamo i limiti strutturali in un contesto produttivo che sembra aver “superato” il televisore come canale comunicativo, sia “dal basso”, per quanto riguarda la fruizione nella sua dimensione ipertestuale e quindi non lineare (possibilità di accedere direttamente ai

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

contenuti selezionati, costruzione di contenuti à la carte) sia “dall’alto”, per quanto invece attiene alle forme della distribuzione (streaming su Internet, canali specialistici, video on demand); c) infine, mitighiamo sostanziosamente il giudizio espresso in b) tenendo conto che proprio le innovazioni tecnologiche che sembrerebbero decretarne la fine (e in particolar modo la convergenza tecnologica e il passaggio alla tecnologia digitale di distribuzione del segnale televisivo) immettono nel mezzo televisivo nuova linfa che lo fa rinascere ben prima di averne visto le ceneri. Ebbene, il campo delle appartenenze collettive presenta caratteristiche straordinariamente simili a quelle che abbiamo indicato a proposito dei mezzi di comunicazione di massa. Se si pensa alle diverse forme dell’identità collettiva, quasi inevitabilmente la prima ad affacciarsi alla mente sarà quella espressa dalle moderne entità statali, e cioè la nazione. Come nel caso della televisione, questo primo pensiero sarà seguito da un secondo in cui il senso di appartenenza nazionale viene percepito come superato o almeno sotto assedio da parte di altre, più nuove, forme di appartenenza. A queste considerazioni segue un ripensamento ulteriore, che riconosce la straordinaria capacità dell’appartenenza nazionale di riproporsi come centrale al dibattito politico internazionale proprio nel momento in cui sembrava destinata all’oblio. Provando nuovamente a schematizzare questa tripartizione, possiamo sensatamente sostenere che quando ragioniamo di appartenenze collettive: a) il primo pensiero vada alla forma di identità garantita dallo Stato nazionale moderno, e cioè all’appartenenza nazionale come espressione tipica della sua dimensione collettiva; b) subito ci rendiamo conto di come questa forma di identità sia oggi vigorosamente contestata “dal basso” (localismi, identità etniche e minoritarie) e “dall’alto” (appartenenze transnazionali e entità sovranazionali come l’Unione Europea), al punto da suscitare addirittura il dubbio sulla legittimità dell’istituzione politica che si pone come il suo naturale “contenitore”, e cioè il moderno Stato nazionale; c) proprio nel momento che appare di massimo assedio e di delegittimazione, le vicende internazionali di questi ultimi anni ci dicono invece che lo Stato nazionale, con la sua strutturazione ideologica dell’appartenenza, sembra rinascere e riconquistare una rediviva centralità politica. Televisione e nazione sono quindi, oggi, due sovrani indeboliti che tentano di riconquistare l’antico prestigio entro i loro regni, dopo aver seriamente rischiato di dover affrontare l’onta della deposizione. Non sappiamo quale sarà l’esito finale del loro sforzo, né se per la sopravvivenza di entrambe sia più conveniente tra loro un’alleanza o una guerra, ma di certo la diagnosi sulle loro condizioni generali non è più così pessimistica come poteva suonare sino alla fine del secolo scorso. Diversi eventi su scala planetaria sembrano aver restituito alle entità nazionali da un lato e alla 26

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televisione dall’altro (in particolare nella sua funzione di servizio pubblico, come vedremo nel quarto capitolo) nuova dignità e nuova legittimazione. Detto questo, come ogni riconquista, anche quella in corso non può prospettarsi come un semplice azzeramento della storia che ha condotto alla crisi, ma deve articolarsi come un proficuo ripensamento delle sue diverse fasi. Se la televisione di servizio pubblico e il senso di appartenenza collettiva legato all’identità nazionale stanno oggi ricaricandosi di senso, questo è possibile non contro il contesto critico degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, ma come risposta positiva a molti rilievi sorti allora. Come vedremo in dettaglio nel corso del primo capitolo, il contesto generale entro cui matura la crisi parallela del sistema politico basato sugli stati nazionali e del sistema di comunicazione di massa incentrato sulla televisione si può condensare nell’etichetta di “globalizzazione”. Sotto questa chiave generale includiamo la riorganizzazione complessiva del sistema produttivo mondiale, che si è espressa in prima istanza come un sostanziale ridimensionamento del ruolo degli Stati nazionali nella selezione e nella scelta delle politiche economiche complessive a favore di nuovi soggetti, inter- multi- e trans-nazionali, ma che non è assolutamente rimasta confinata al dominio economico, implicando una sequela di sommovimenti di ordine sociale, culturale e simbolico di cui stiamo ancora valutando le conseguenze4. In questo quadro introduttivo può dunque essere utile disarticolare alcuni temi specifici che dipendono dalla globalizzazione come quadro generale, per segnalare a mo’ di guida propedeutica i temi che ricompariranno costantemente nel corso di questo saggio e che costituiscono il nucleo teorico della ricerca proposta nelle pagine seguenti. Si tratta cioè di dare rilievo agli aspetti costitutivi delle identità collettive per come vengono influenzati dal sistema dei mezzi di comunicazione di massa.

Emissione/ricezione La prima opposizione, che in una certa misura racchiude tutte le altre, cerca di misurare il potere da attribuire rispettivamente ai produttori e ai consumatori del messaggio mediatico. Qualunque teoria della comunicazione prevede un’interazione complessa tra emittente e ricevente, dovuta al fatto che il messaggio codificato ha bisogno di essere decodificato dal destinatario o da chiunque 4

A uso dei lettori, segnalo alcuni tra i titoli più significativi dedicati esplicitamente al rapporto tra cultura e globalizzazione e tradotti nella nostra lingua: ULF HANNERZ, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato, Bologna, Il Mulino, 1998, X-388 p. Edizione originale Cultural Complexity: Studies in the Social Organization of Meaning, New York, Columbia University Press, 1992, ix-347 p.; ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, traduzione di Piero Vereni, Roma, Meltemi, 2001, 272 p. Edizione originale Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis, University of Minneapolis Press, 1996, xi-229 p.; JOHN TOMLINSON, Sentirsi a casa nel mondo. La cultura come bene globale, traduzione di Giovanna Bettini, Milano, Feltrinelli, 2001, 259 p. Edizione originale Globalization and Culture, Chicago, University of Chicago Press, 1999, viii-238 p.

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intenda altrimenti recepirne il contenuto. La domanda che ci si pone è quindi la seguente: chi ha più potere, l’emittente che può selezionare i potenziali messaggi o il ricevente che deve comunque decodificarli e che, apparentemente, non è tenuto a compiere questa operazione secondo le intenzioni dell’emittente? Ovviamente, il dibattito ha riguardato per lo più la quota di potere da attribuire al consumatore del messaggio mediatico, ché nessuno sembra negare un sostanziale dominio da parte del produttore. Posta in questi termini, la domanda diviene quindi: stabilito che l’emittente gode del potere di far circolare il messaggio, questo potere è assoluto o è mitigato (e se sì, in che misura) dal potere di interpretazione di coloro che consumano il messaggio? Vedremo quanto qualunque tentativo di rispondere al quesito ora posto implichi una chiara dimensione politica, dato che lo spazio interpretativo diversamente riconosciuto ai consumatori dalle varie teorie diviene direttamente uno spazio che misura il loro grado di libertà. Al di là di queste considerazione teoriche, il rapporto di potere tra emittente e ricevente subisce oggi la sostanziale influenza delle mutate condizioni strutturali. Anche se infatti il peso dei broadcaster nazionali e internazionali è destinato a rimanere centrale e dominante ancora per lungo tempo, le nuove tecnologie di comunicazione e soprattutto il passaggio definitivo al segnale digitale (che consente da un lato di superare la cronica scarsità delle frequenze e dall’altro di puntare decisamente alla crossmedialità) stanno rendendo almeno possibile il superamento della necessità del broadcasting così come si è consolidato e affermato nel secondo dopoguerra. In altre parole, è assai improbabile che, per molti anni ancora, i grandi network nazionali e internazionali vedano seriamente intaccato il loro predominio, ma è certo che dobbiamo ormai considerare conclusa l’era dell’asimmetria sistematica tra emittenti e riceventi, con i primi sostanzialmente coincidenti con grandi istituzioni e/o aziende, e i secondi relegati al ruolo di singoli utenti terminali. Almeno in teoria, è oggi possibile concepire nuovi soggetti produttori che, collocandosi in quell’immenso spazio intermedio che separa le grandi istituzioni dai singoli consumatori, scompaginano ipso facto il sistema della produzione grazie alle nuove disponibilità distributive. Se una piccola comunità locale, o un gruppo di pressione transnazionale, o i membri di una diaspora internazionale, o gli adepti a una setta/ideologia di qualunque natura e formato sono in grado di produrre contenuti che possono trasmettere direttamente − senza cioè appoggiarsi al supporto tecnologico garantito da un broadcaster tradizionale − è evidente che il modo in cui abbiamo finora concepito i rapporti di potere tra chi produce il messaggio e chi ne fruisce va profondamente ripensato. Stabilire quale sia la direzione di questo mutamento è questione che si colloca ben al là degli scopi di questo saggio, che non intende soffermarsi sulle implicazioni antropologiche delle mutazioni tecnologiche in corso5, ma si limita a inquadrare il rapporto tra tecnologie della comunicazione di massa e forme 5

Su questi temi cfr. BINO OLIVI, BRUNO SOMALVICO, La nuova Babele elettronica: la TV dalla globalizzazione

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dell’appartenenza. È comunque importante che i lettori tengano almeno in conto i margini della questione generale. Nel capitolo terzo, infatti, presenteremo e analizzeremo alcuni esempi di questo nuovo tipo di interazione tra emittenti e riceventi, con particolare rilievo al contesto extraoccidentale.

Potere e agency La questione del rapporto di potere tra emittente e ricevente si può porre anche altrimenti, in chiave più esplicitamente semiotica: il significato del messaggio è circoscrivibile al messaggio stesso (vi è “contenuto”, per così dire) oppure è “prodotto” dall’interazione tra emittente e fruitore? Ogni qual volta la ricerca si è indirizzata verso questa seconda ipotesi, l’attenzione si è concentrata sulla capacità di azione dei consumatori. L’analisi testuale del messaggio emesso non è sufficiente se vogliamo valutarne gli effetti sociali: è chiaro che a questo scopo pari attenzione va prestata al sistema produttivo in quanto struttura economica (industria) e politica (istituzione), e un’attenzione ancora maggiore va rivolta alle modalità di consumo del messaggio. Quando si parla di “etnografia dei media”, si condensa con tale espressione la necessità di superare l’analisi “interna” del messaggio per seguirne invece i percorsi “esterni” della sua diffusione e circolazione. Ma proprio l’attenzione posta alla “vita sociale” dei contenuti mediatici obbliga il ricercatore a porsi in modo esplicito la questione della dimensione attiva dei soggetti fruitori. Con un anglicismo ormai assestato, si parla di agency per indicare la capacità del soggetto di interpretare il messaggio ricevuto secondo parametri anche idiosincratici rispetto alle intenzioni autoriali e, più in generale, per porre in evidenza il suo spazio di azione che – da semplice “pedina” della rete sociale giocata da regole e strutture più grandi di lui – lo rende un soggetto dinamico e difficilmente addomesticabile da parte di qualunque forma esterna di potere. L’etnografia dei media rappresenta in via preferenziale il potere in forma diffusa all’interno di tutte le relazioni sociali, rendendo quindi inutilizzabili quei quadri analitici in cui le dinamiche politiche si distribuiscono quasi esclusivamente lungo un’unica direzione, è cioè dall’emittente al ricevente. Al contrario, nel modello di analisi che proponiamo non è il Potere Mediatico a condizionare i Soggetti (più o meno inermi), ma è il sistema di fruizione e di consumo dei mass media da parte dei Soggetti a produrre Potere Mediatico. Vedremo, in particolare nel secondo capitolo, i vantaggi analitici ma anche i rischi valutativi di questa impostazione teorica.

delle comunicazioni alla società dell'informazione, Bologna, Il Mulino, 2003, 337 p.

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Flussi: la forma dello spazio Questo ribaltamento della prospettiva da cui guardare alla produzione del sistema di potere mediatico scardina un altro assunto sostanziale della ricerca, e cioè la garanzia metodologica di poter individuare oggetti privilegiati e stabili della ricerca. Se il “documentario etnografico”, il “film esotico”, la “fiction indigena” o il “reality globalizzato” producono senso solo nel loro uso effettivo, l’attenzione deve spostarsi dallo schermo agli spettatori, e l’osservazione dell’immagine si rifrange nell’osservazione degli spettatori (“osservare chi guarda”) e delle loro pratiche quotidiane. L’etnografia dei media diventa quindi lo spazio necessariamente frammentato per un’azione sociale decentralizzata, in cui il programma trasmesso e analizzato preventivamente con gli strumenti dell’analisi testuale sia poi inseguito nella vita quotidiana: quanto se parla? Dove? Chi ne parla? Quanto e in che modo i personaggi del programma diventano modelli di ruolo? Quanto l’ideologia del programma eventualmente enucleata nell’analisi testuale trova riscontro nelle credenze, negli atteggiamenti e nelle pratiche degli spettatori? Quanto di questa struttura ideologica si riversa (e in che forme e lungo quali canali) dal mondo comunque ristretto della circolazione mediatica (programmi a loro spettatori) al mondo più vasto delle interazioni sociali? Una prospettiva di ricerca di questo tipo deve essere in grado di inseguire filoni di indagine più che specifici oggetti, tendenze più che posizioni, direttrici più che luoghi, in un processo quasi imitativo dell’impulso deterritorializzante della globalizzazione. Condurre un’indagine etnografica della fruizione dei mezzi di comunicazione può significare lavorare al contempo in due o più siti di ricerca, come vedremo nei diversi esempi presentati nel secondo e terzo capitolo.

Spessori: la forma del tempo Sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nel denotare il tempo e le sue scansioni è stato detto molto, ma sono state le riflessioni di Benedict Anderson sulle comunità immaginate6 che ci hanno resi consapevoli del rapporto strettissimo tra tempo e identità collettiva. Torneremo diffusamente nel primo capitolo su questo punto, ma in questa breve introduzione è invece importante evidenziare un aspetto peculiare, tipico della fase attuale della contemporaneità. La temperie dei nostri giorni appare affetta da una curiosa schizofrenia: da un lato sembra esservi un 6

BENEDICT ANDERSON, Comunità immaginate. Origini e diffusione del nazionalismo, prefazione e cura di Marco d’Eramo, Roma, manifestolibri, 1996, 223 p. Edizione originale Imagined Communities. Origins and Spread of Nationalism, London, Verso, 1983, 160 p.

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eccesso di presente7, dall’altro si assiste alla continua riscoperta e valorizzazione del passato attraverso la museificazione parossistica del reale (sociale o naturale)8. I mezzi di comunicazione di massa (e la televisione in primo grado) sono spesso accusati di essere i responsabili principali dell’oblio generalizzato, ma questo tipo di accuse paradossalmente dimentica che gli stessi mezzi sono anche i fautori principali del ricordo, della riscoperta della storia e della museificazione del passato. Il successo incontrovertibile di intere sezioni dei palinsesti generalisti (La nostra storia, su Rai Educazione e Raitre) e l’esistenza di canali tematici dedicati (History Channel) ci confermano che la televisione costruisce passato almeno quanto ne distrugge9. Come già accennato, sul rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e forma del tempo avremo modo di tornare, ma è importante evidenziare da subito il ruolo costitutivo del tempo garantito dai mass media. Fin dai loro esordi la radio e la televisione si sono strutturate attorno alla programmazione, che ha innescato cicli di fruizione precisi, in grado di condizionare la vita sociale: la puntuale annualità di eventi come il Festival di Sanremo, la scansione stagionale dei programmi canonici come quello abbinato alla Lotteria Italia, la sequenza delle puntate e degli episodi generati dalla serialità della fiction e – per rimanere in Italia – il mutamento epocale contrassegnato dalla programmazione ventiquatt’ore su ventiquattro e a striscia che prese piede dopo la riforma del sistema radiotelevisivo del 1975, sono tutte forme di regolarizzazione del tempo che condizionano la percezione delle identità collettive in quanto raggruppamenti di individui coesistenti nel tempo oltre che nello spazio. La simultaneità dell’evento mediatico rispetto alla sua fruizione (il suo avvenire in diretta, espressione intrinseca della necessità sociale del servizio pubblico) e la rapidità prodigiosa del passo a cui procede l’innovazione tecnologica (soprattutto per quanto riguarda – non casualmente – la dimensione delle memorie operative e di stoccaggio e la velocità di calcolo degli elaboratori elettronici) hanno contribuito però in modo sostanziale alla produzione di una peculiare conformazione del tempo presente che può dare conto della compresenza apparentemente contraddittoria di memoria e oblio, di culto del passato e proliferazione di presente. L’idea che il tempo presente sia in qualche modo “avanti” rispetto alla linea retta dello sviluppo temporale è uno dei capisaldi del pensiero occidentale, e fonda la modernità nella sua essenza. Anche senza distinguere la connotazione morale dell’antitesi tra Antichi e Moderni (che ha sempre opposto i Conservatori ai Progressisti proprio in nome del giudizio morale sulla contemporaneità, rispettivamente considerata peggiore o migliore del passato; e sul futuro, concepito come 7

Pierre-André Taguieff, L’effacement de l’avenir, Paris, Galilée, 2000, 483 p. “Senza dubbio, il mondo sta subendo un processo di museificazione, e tutti prendiamo parte a questo fenomeno. L’obiettivo sembra essere la possibilità di giungere al ‘ricordo totale’. Si tratta del sogno di un archivista impazzito?”, in ANDREAS HUYSSEN, “Present Pasts: Media, Politics, Amnesia”, Public Culture, XII (1), 2000, numero speciale Globalization, a cura di Arjun Appadurai, pp. 21-38. La citazione è da p. 25. 9 Cfr. FRANCESCA ANANIA, Immagini di storia. La televisione racconta il Novecento, Roma, Rai-Eri, 2003, 253 p. 8

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degenerativo dai primi, e migliorativo dai secondi), da diversi secoli gli uomini che partecipano delle grandi ideologie dell’Occidente hanno la nitida percezione di essere, in quanto contemporanei, diversi dai loro predecessori. Questa idea comune e venerabile trova ovviamente il suo discrimine empirico nello spessore cronologico attribuito di volta in volta alla contemporaneità: dove finisce questa labile epoca storica presente che ci caratterizza rispetto agli altri del passato? Sicuramente, la querelle rinascimentale tra Antichi e Moderni radunava attorno ai contemporanei diverse generazioni postmedievali, mentre è plausibile che la modernità dell’Ottocento vedesse i suoi albori solo nella Rivoluzione Francese. La fine della seconda guerra mondiale ha segnato un ulteriore spartiacque, relegando in un passato dichiaratamente da superare in toto gli orrori politici e militari della prima metà del Novecento. Ecco, in questa corsa verso il presente, è come se lo spessore dell’oggi disponibile si sia fatto via via più sottile: ormai il presente dura pochi istanti, e lo sforzo di molti di noi è riuscire a non lasciarselo sfuggire di mano. La velocità con cui gli avvenimenti accadono per essere narrati e il vortice di innovazione tecnologica nel quale siamo immersi (per cui il computer su cui scrivo queste pagine, che ha sei anni di vita, può essere visto da un ventenne come un reperto archeologico e commentato con espressioni tipo: “Non avevo mai visto un affare così vecchio”) hanno fatto del presente una striscia sottilissima di tempo, che ci incrocia giusto per un istante, prima di essere spinta verso il passato. I soggetti (individuali e collettivi) che si muovono sul margine di questa striscia devono agire come surfisti (non è un caso che in inglese “navigare in Rete” sia “to surf the Net”) che, se perdono l’onda, sono destinati ad affondare. Questa forma peculiare del tempo presente (una striscia che si sta assottigliando sempre più, costringendoci a vivere sistematicamente “sulla cresta”, pena la rapidissima obsolescenza che combattiamo cercando di essere edgy, un aggettivo che in inglese significa letteralmente questo: riuscire a rimanere “sul margine, lungo l’estremità”) può rendere conto del paradosso da cui abbiamo preso le mosse in questo paragrafo: una brama frenetica e perennemente frustrata di presente (tutti cerchiamo di tenere il passo con il presente, tutti vogliamo assolutamente farne parte, per cui lo inseguiamo, lo guardiamo, lo proponiamo, lo vendiamo e lo acquistiamo; ma tutti sentiamo che ci sfugge) che trova la sua quiete nel solido spessore di un passato finalmente posseduto nella sua museificazione.

Etnografia Ma posto in questi termini, il tono generale dell’etnografia dei media sembra ancora irrimediabilmente affetto da una sorta di provincialismo di ritorno. È forse il caso di accordarsi preliminarmente sul termine “etnografia”. In origine, con questo vocabolo si identificava non tanto 32

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uno stile di scrittura, quanto un oggetto descritto, cioè popolazioni non occidentali, quasi sempre di piccole dimensioni, raffigurate in un testo che pretendeva di essere esaustivo della “cultura” espressa da quell’“ethnos”. L’etnografia era, prima di un metodo, il risultato fisico della descrizione di popolazioni lontane. È solo con il tempo − e in particolare con la riflessione teorica degli anni Settanta, culminata nel volume collettivo curato da James Clifford e George Marcus dedicato espressamente alle “retoriche e politiche dell’etnografia”10 − che l’etnografia viene concepita come un metodo applicabile al di là dei contesti dichiaratamente esotici in cui era nata. Da quel momento, si può fare etnografia anche rimanendo a casa, dato che quel che conta è l’intenzione dichiarata del ricercatore di presentare un’esperienza attraverso una serie di metodi di indagine e di scrittura. Etnografia diventa un approccio di ricerca, un’attenzione per l’interazione faccia a faccia, una particolare predilezione per le pratiche di produzione e consumo culturale innestate su circuiti di piccole dimensioni. In breve, etnografia diventa tutto quel che sfugge (metodologicamente ed epistemologicamente) alla pratica della canonica ricerca sociale di impostazione quantitativa e incentrata su questionari, interviste strutturate e analisi statistiche. Nonostante, da antropologo, non possa che apprezzare questa rivalutazione interdisciplinare della metodologia debole che caratterizza l’antropologia da quasi un secolo, riconosco il rischio di una confusione terminologica dato che, come abbiamo visto, nel termine “etnografia” sembrano oggi confluire due significati nettamente distinguibili ma quasi mai distinti: etnografia1 per intendere l’esigenza di documentare un oggetto indagato rispetto ad aree marginali, poco note; etnografia2 per intendere invece il metodo di ricerca basato su pratiche deboli e spesso poco traducibili in canoni e procedure11. In questo lavoro sarà mia esplicita cura insistere anche sul significato originario di etnografia, presentando quindi casi di studio caratterizzati dalla loro distanza nello spazio o comunque da un’apparente esoticità per i lettori italiani. Duplice è la ragione che mi spinge a privilegiare questa accezione “antica” dell’etnografia avvicinandomi al mondo dei media, e in entrambi i casi ancorata all’esigenza di minare quel che, all’inizio di questo paragrafo, ho definito “provincialismo di ritorno”, l’attuale tendenza cioè − dopo un periodo di rapida e apparente accettazione di modelli “meticci” e “spuri” di appartenenza culturale − a rinchiudersi troppo facilmente nelle rassicuranti certezze della propria condizione “domestica”.

10 JAMES CLIFFORD, GEORGE E. MARCUS, a cura di, Writing Culture. The Poetics and Politics of Ethnography. A School of American Research Advanced Seminar, Berkeley, University of California Press, 198, ix-305 p. Traduzione e cura di Piero Vereni, Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Roma, Meltemi, 20013, 383 p. 11 Su questa specifica accezione di etnografia come metodo, applicata al caso dei media, vale la pena di consultare FEDERICO BONI, Etnografia dei media, Roma-Bari, Laterza, 2004, XV-160 pp., in particolare alle pp. V-IX.

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Per prima cosa, dobbiamo assumere definitivamente la consapevolezza che la modernità tecnologica non riguarda solo “noi” (occidentali) ma è un proteiforme stato globale che assume forme locali che meritano di essere studiate. Volendo essere apodittici, è il caso di sfatare la diffusa convinzione che la televisione sia nata in Inghilterra e morta negli Stati Uniti. Ha storie di radicamento e indigenizzazione che vale la pena di inseguire, cosa che cercheremo di fare in questo libro.

Alcuni dei mutamenti più significativi della televisione su scala planetaria stanno avvenendo non solo nella capitali mediatiche degli Stati Uniti, dell’Europa Occidentale o del Giappone, ma anche nelle cittadine e nei villaggi del Brasile, della Cina, dell’India, dell’Indonesia e del Sudafrica.12

Etnografia del media, in questo saggio, significa quindi anche documentazione sullo stato dei mezzi di comunicazione di massa fuori dai grandi circuiti mediatici noti a tutti (i lettori occidentali e in particolare italiani). Come già accennato, le identità (e quindi le appartenenze) si creano in antitesi temporale (antichi/moderni) ma anche spaziale (qui/lì). Ci troveremo quindi a percorrere spazi inconsueti per molti di noi (Nuova Guinea, interno dell’Australia, Amazzonia, il Canada delle riserve indiane) ma senza con questo prestare il fianco a facili esotismi. All’opposto (e questa è la seconda ragione per cui insistiamo su etnografia1), la necessità di andare altrove rispetto alle nostre abitudini di frequentatori dei media è dettata dalla volontà di superare definitivamente quell’altro atteggiamento provinciale che consiste nel credere pregiudizialmente al provincialismo altrui, per cui le audience smaliziate e “attive” si troverebbero solo entro i confini bianchi e occidentali (con la parziale eccezione del Giappone). Come vedremo, attribuire alle popolazioni non occidentali in generale un’ingenuità di fondo nei confronti delle comunicazioni di massa è forse il segnale più evidente del nostro provincialismo, che ci fa credere, come utenti, di possedere beni e tecnologia per diritto ereditario, e non per difficile conquista e adattamento. In realtà, la televisione e la radio si sono diffuse su scala planetaria molto rapidamente, per cui l’ordinaria sfasatura temporale tra Noi e Loro (con noi sempre in anticipo, ovviamente) ha subito diverse increspature (ad esempio, in Grecia la televisione è stata introdotta nel 1967, mentre in India le trasmissioni televisive sono iniziate, almeno per l’area di Nuova Delhi, nel 1959) e le nuove tecnologie della comunicazione sono stranianti, esotiche, eccitanti o sconfortanti per Noi quanto lo sono per Loro. Poter registrare l’immagine in movimento dei propri figli su di un nastro

12

LISA PARKS, SHANTI KUMAR, “Introduction”, in LISA PARKS, SHANTI KUMAR, a cura di, Planet TV. A Global Television Reader, New York and London, New York University Press, 2003, ix-470 pp. [pp. 1-17, nello specifico p. 6].

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magnetico e archiviarla in videocassette per renderla reperibile a distanza di tempo è un’operazione possibile solo da pochi decenni, e non fa molta differenza se ad apprenderne le tecniche è un impiegato statale della provincia veneta o un contadino dell’Uttar Pradesh indiano, una commessa di Oklahoma City o un’insegnante algerina. La modernità incorporata nelle tecnologie di archiviazione e trasmissione delle immagini è intrinsecamente moderna, e non pretende addestramenti propedeutici, tanto che si può imparare a usare una telecamera con notevole competenza senza aver mai visto la televisione o senza sapere leggere e scrivere. Provare a raccontare tutto questo senza rinchiuderci nel facile compiacimento della nostra modernità o dell’altrui bizzarria è un impegno che questo studio perseguirà in particolare nel secondo e terzo capitolo.

Appartenere Il potere relativo dei soggetti, i mutamenti della gestione degli spazi e la nuova concezione del tempo, la necessaria riarticolazione del rapporto Noi/Loro oltre le comuni gerarchie consegnateci dalla storia del colonialismo e della modernizzazione classica, costituiscono gli ingredienti di base di un profondo ripensamento del sistema delle appartenenze collettive. Tradotto infatti per le identità di gruppo, il lavorio dei media ci costringe a rivedere buona parte del nostro armamentario analitico classico. Se era la percezione di sé come gruppo compresente nella simultaneità spaziotemporale a generare l’identità collettiva nella modernità che ci stiamo lasciando alle spalle, il mutamento di quei parametri fondativi produce un sommovimento sostanziale nell’idea stessa di appartenenza collettiva, e quindi di identità e comunità. Qualunque sia il nostro giudizio attuale sulle identità collettive più tipiche della modernità (cioè le nazioni che hanno trovato espressione politica in un loro Stato), non vi è dubbio che trovassero la loro ragion d’essere in una duplice convinzione: che fosse possibile racchiudere i propri membri in uno spazio definito (il territorio nazionale); e che quel movimento politico di confinamento dei propri membri fosse un passo inevitabile e necessario nello sviluppo di un tempo concepito come gravido di significato nella sua interezza, per cui il presente era l’ultimo, necessario, gradino del passato. Dentro la modernità che ha dato vita agli Stati nazionali, cioè, l’istituzione statale era al contempo l’alveo spaziale e il compimento temporale della nazione. Il sistema dei mezzi di comunicazione di massa, unito alla diaspora planetaria che caratterizza i flussi umani dalla seconda metà del Novecento, ha liberato l’appartenenza collettiva da questa duplice necessità di ancorarsi nel tempo e nello spazio, rendendo

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Introduzione al volume Antropologia dei Media

legittime concettualmente (se non ancora pienamente dal punto di vista politico) identità diasporiche da un lato, e prive di una chiara radice storica dall’altro. Studiando i mass media da una prospettiva antropologica cominciamo a prendere consapevolezza della natura “mediata” di quella che chiamiamo “cultura”. Il mezzo che consente la cultura umana è certamente il linguaggio e, più in generale, la capacità simbolica dell’uomo, qualità che si esplicano sempre come − letteralmente − mezzi di comunicazione. Se quindi possiamo affermare che le culture umane sono fondamentalmente dei mezzi di comunicazione13, ne deriva che la recente diffusione planetaria dei mass media elettronici modifica radicalmente la natura della cultura umana. È proprio il rapporto di reciproca interdipendenza tra collettività culturali e comunicazione di massa che costituisce il nucleo di questa ricerca.

13

Considerazioni estremamente utili sulla natura “mediate” di qualunque dimensione culturale si trovano nella corposa rassegna di WILLIAM MAZZARELLA, “Culture, Globalization, Mediation”, Annual Review of Anthropology, XXX, 2004, pp. 345-367.

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

L’immaginazione e il potere: luoghi e attori della produzione mediatica Locale e globale Una riflessione sistematica sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella formazione delle identità collettive non può prescindere da alcune considerazioni di carattere generale sul contesto più vasto entro cui si costituiscono gli specifici rapporti tra sistema delle appartenenze collettive e sistema mediatico. In questo capitolo ci soffermeremo quindi a delineare un quadro teorico complessivo dell’attuale sistema di produzione e fruizione della comunicazione mediata da mezzi elettronici. A tale fine, sarà inevitabile un confronto anche solo sommario con le principali teorie della modernità e della postmodernità, per cercare di elaborare una descrizione plausibile della situazione attuale del rapporto tra media e identità. Questa riflessione ruoterà inevitabilmente attorno

ad

alcune

parole

chiave,

tra

cui

anticipiamo

le

coppie

locale/globale,

modernità/postmodernità e omogeneizzazione/eterogeneizzazione. È stata notata da tempo l’opposizione tra la crescente uniformità culturale a livello planetario (la cosiddetta macdonaldizzazione) e la restrizione sempre più evidente dei confini identitari sentiti come naturali (il cosiddetto revival etnico). Alcuni autori come il sociologo americano George Ritzer14 e l’economista e filosofo francese Serge Latouche15 si sono concentrati sui modi in cui gli stili di vita occidentali (spesso considerati coincidenti con quelli americani) si sono imposti su vaste aree del pianeta imponendo una patina (più o meno spessa a seconda delle prospettive scientifiche e politiche di volta in volta sostenute) di uniformità economica, politica e culturale16. Di converso, altri autori come il sociologo britannico Anthony D. Smith17 e gli antropologi Arjun Appadurai18 e 14

GEORGE RITZER, The McDonaldization of Society: An Investigation into the Changing Character of Contemporary Social Life, Newbury Park, Ca., Pine Forge Press, 1993, XV-221 p. Traduzione italiana di Nicola Raino, Il mondo alla McDonald’s, Bologna, il Mulino, 1997, 334 p. 15 SERGE LATOUCHE, L’Occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l’uniformisation planétaire, Paris, la Découverte, 1989, 143 p. Traduzione italiana di Alfredo Salsano, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, 159 p. Lo stesso autore ha ripreso e ampliato la sua teoria del peso della tecnologia occidentale nel processo globale di uniformazione con diversi saggi successivi, tra cui ricordiamo La mégamachine. Raison technoscientifique, raison économique et mythe du progrès. Essais à la mémoire de Jacques Ellul, Paris, la Découverte, 1995, 243 p. Traduzione italiana di Alfredo Salsano, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso. Saggi in memoria di Jacques Ellul, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, 215 p. 16 Gli studi sulla globalizzazione intesa in questo senso uniformante hanno trovato uno dei loro stimoli nel pionieristico lavoro di IMMANUEL WALLERSTEIN, The Modern World-System. Capitalist Agriculture and the Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century, New York, Academic Press, 1976, XVI-244 p. Traduzione italiana di Giuseppina Panzieri e Davide Panzieri Il sistema mondiale dell’economia moderna. 1. L’agricoltura capitalistica e le origini dell’economia-mondo europea nel 16° secolo. Seconda edizione rivista e corretta, Bologna, Il mulino, 1986, 535 p. 17 Anthony D. Smith, The Ethnic Revival, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1981, XXIV-240 p. Traduzione italiana di Anna Paini, Il revival etnico, Bologna, Il mulino, 1984, 364 p. 18 ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione. Traduzione di Piero Vereni, Roma, Meltemi, 2001, 272 p. Edizione originale Modernity at Large. Cultural Dimension of GLobalization,

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Ulf Hannerz19 anno insistito sui processi in corso di progressiva frammentazione dei grandi “blocchi” che costituivano il pianeta dopo la fine della seconda guerra mondiale20. Da alcuni decenni, quindi, il mondo sembra attraversato da un duplice e contraddittorio movimento: da un lato la condivisione sempre più forte e diffusa di modelli culturali e pratiche tecnologiche; dall’altro l’esclusione sempre più rigida dal proprio orizzonte identitario di ciò che non si conferma al miope modello della propria appartenenza locale. Questi due fenomeni, apparentemente antitetici, sembrano invece essere dipendenti, e in grado di crescere simultaneamente: quanto più il mondo si uniforma (stessi jeans, stessi hamburger, stessa musica, stessa

CNN)

tanto più l’unità media di

riferimento identitario (il Noi che diamo per scontato) si rimpicciolisce intensificando la sua forza politica (noi Italiani, Padani, Veneti...). Per i cittadini dell’Unione Europea questo fenomeno è sempre più visibile: da un lato uniformiamo le nostre monete, le nostre lingue e i nostri gusti (culinari, estetici, sessuali) e dall’altro rivendichiamo un particolarismo sempre più spinto (rivisitiamo dialetti moribondi e riscopriamo Palii e sagre che non si celebravano da secoli o che non si erano mai celebrati). La questione teorica che si pone all’analista è proprio la natura di questa dipendenza. Un tentativo di affrontare un simile incrocio problematico consiste nel presentarlo proprio come antitesi tra globalizzazione, da un lato, e resistenze identitarie dall’altro. In sintesi: l’affermazione delle identità locali – o comunque esplicitamente esclusive – e il rigetto del cosmopolitismo sarebbero dovuti al rifiuto dei processi di uniformazione messi in atto dalla globalizzazione. Una delle formulazioni più articolate di questo approccio interpretativo è senza dubbio quella del sociologo catalano Manuel Castells21. Nel suo ponderoso lavoro di riflessione sull’“era Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996, 229 p. 19 ULF HANNERZ, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato. Edizione italiana a cura di Arnaldo Bagnasco. Traduzione di Savina Neirotti, Bologna, Il mulino, 1998, X-388 p. Edizione originale Cultural complexity. Studies in the Social Organization of Meaning, New York, Oxford, Columbia University Press, 1992, IX347 p. 20 Sul rapporto tra singolarità globale e molteplicità locali si possono trovare riflessioni antropologiche estremamente interessanti nei saggi di CLIFFORD GEERTZ tradotti da Andrea Michler e Marco Santoro e pubblicati con il titolo Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, 1999, Il mulino, 127 p. La questione della natura poliedrica e non necessariamente orientata dai valori americani della globalizzazione è indagata con numerosi esempi nella raccolta curata dai politologi statunitensi PETER L. BERGER e SAMUEL P. HUNTINGTON, Many Globalizations. Cultural Diversity in the Contemporary World, Oxford-New York, Oxford University Press, 2002, X-374 p. Nonostante non sia più recentissimo, uno dei lavori più citati sulla teoria della globalizzazione rimane quello del sociologo americano ROLAND ROBERTSON, Globalization. Social Theory and Global Culture, London, Sage, 1992, X-211 p. Traduzione italiana di Aurora De Leonibus, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Trieste, Asterios, 1999, 285 p. 21 Questo prolifico autore ha pubblicato alla fine del Ventesimo secolo un’opera in tre parti dedicata alla riflessione sistematica sull’“era dell’informazione”: MANUEL CASTELLS, The rise of the network society, Malden, MA, Blackwell Publishers, 1996, XVII-556 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, La nascita della società in rete, Milano, Egea-Università Bocconi, XXXVI-601 p. MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, Malden, MA, Blackwell Publishers, 2004, XXII-537 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, Il potere delle identità, Seconda edizione, Milano, Egea-Università Bocconi, 2004, xvi-538 p. End of millennium, Malden, MA, Blackwell Publishers, 1998, XIV-418 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, Volgere del millennio, Milano, Egea-Università Bocconi, XI470 p.

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dell’informazione” Castells elabora una complessa teoria per cui le emergenti identità della nostra epoca “si oppongono alla globalizzazione e al cosmopolitismo in difesa delle specificità culturali e del diritto delle persone a esercitare il controllo sulla propria vita e sul proprio ambiente”22. Anche se l’analisi di Castells è estremamente raffinata e complessa nell’individuare i nessi causali tra globalizzazione e costruzione delle identità – per cui, ad esempio, l’identità progettuale dei soggetti sociali non trova più terreno di coltura nella diradata società civile, ed è invece costretta a svilupparsi all’interno di formazioni comunitarie di tipo reattivo ed esclusivo – il senso generale che se ne trae è quello di una qualche meccanicità, per cui l’eterogeneizzazione in forma di revival identitario può includere fenomeni tra loro estremamente diversi. Il fondamentalismo religioso, le comunità territoriali, l’auto-affermazione nazionalistica e, persino, l’orgoglio dell’auto-denigrazione che capovolge i termini del discorso oppressivo (come nella queer culture presente in alcuni settori del movimento gay) diventano espressione di ciò che io chiamo l’esclusione degli esclusori da parte degli esclusi e che consiste nella costruzione di un’identità difensiva...23

Il modello identitario delle appartenenze altro non sarebbe, dunque, che la “naturale reazione” alla spinta omogeneizzante della macdonaldizzazione, come se una certa quota di differenza culturale fosse comunque da dare per scontata, essenziale, incorporata nell’ordine precostituito del cosmo culturale. Ritengo particolarmente deludente questa spiegazione che, come tutte le forme di naturalismo, si limita a spostare i termini del problema al di là del discutibile: la gente, stanca di essere massificata dai mobili Ikea e dalla musica pop delle playlist radiofoniche, persegue la sua tendenza fissipara, la sua esigenza a differenziarsi. Alcune volte questa teoria dell’identità come reazione all’uniformazione globale si presenta in forme più semplicistiche (e ancor più naturalizzanti) che sostengono che al fondo del nuovo asfittico particolarismo che ci circonda si troverebbe l’esigenza (ovviamente “naturale”) degli esseri umani a individuare la propria comunità sulla base di legami emotivi che non possono essere forniti dalle fredde collettività stereotipate della globalizzazione24. Insomma: celebrando l’antico rito, o mangiando il piatto tradizionale composto secondo l’antica ricetta, l’individuo “sentirebbe” un legame con l’identità e la comunità associate a quel rituale o a quel cibo che nessun “evento mediatico” e nessun hamburger potrà mia fargli provare. Le comunità autosegregate (per dimensioni o per volontà) che rivendicano oggi una voce 22

MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota precedente [il passo è tratto dalle pp. 1-2 della traduzione italiana; il corsivo è mio]. 23 MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX [pp. 10-11]. 24 Questa posizione è sostenuta con particolare veemenza da ANTHONY D. SMITH in molti dei suoi lavori, in particolare in Nations and Nationalism in a Global Era, Cambridge, Polity Press, 1995, IX-211 p. Traduzione italiana di Alessandro Sfrecola, Nazioni e nazionalismo nell’era globale, Trieste, Asterios, 2000, 186 p. A dirla tutta, la critica al naturalismo delle identità che sto brevemente delineando in questo paragrafo è rivolta più a Anthony D. Smith (e al modo in cui la sua teoria è stata ripresa proprio dai mass media) che non a Manuel Castells, il cui impianto teorico è di ben altro spessore.

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politica coprirebbero dunque il buco emozionale inevitabilmente lasciato scoperto dalle istanze globalizzanti. Questa teoria, per quanto avvincente a prima vista, mi pare soffra di un difetto analitico (che ha poi ricadute teoriche e politiche notevoli), dato che trascura duecento anni di sostanziosi successi di quei movimenti politici e ideologici che riassumiamo coi termini convenzionali di nazionalismo e socialismo. Se cioè fosse vero che abbiamo naturalmente bisogno di una dimensione ristretta, locale in senso sempre più claustrofobico, per poter soddisfare le nostre esigenze di identità, appartenenza e comunità, come si spiega che negli ultimi due secoli il mondo è stato segnato da due forze (il nazionalismo e l’internazionalismo) che smuovevano gli animi e gli intestini sulla base di principi assolutamente antitetici a questo localismo? Una comunità immaginata, ci ricorda Benedict Anderson, è immaginata …poiché non succederà mai che tutti i suoi membri si conoscano personalmente; il contenuto del loro legame, dato il loro numero e l’estensione territoriale della nazione stessa, è necessariamente immaginato, non prodotto da relazioni concrete, a differenza di quanto si suppone accadere in un modello astratto di società tradizionale, in cui le relazioni faccia-a-faccia risultano prevalenti.25

Tuttavia, per quanto (o proprio perché) immaginata, rimane una comunità, cioè risponde a quelle esigenze emotive che la teoria del revival come reazione sembra negare quando manchi l’interazione su piccola scala (lo stesso ordine di considerazioni vale anche per l’internazionalismo socialista). Provando ad ancorarci alla logica, possiamo dire che se avessero ragione i sostenitori della natura meccanica della creazione delle identità, allora non potrebbero esistere comunità immaginate26. Ma dato che sappiamo che le comunità immaginate esistono e sono esistite, se ne deduce necessariamente che hanno torto quelli che dicono che la gente torna alle tradizioni e alle parrocchie perché ha bisogno di soddisfare le proprie esigenze di condivisione emotiva nell’unico spazio realmente possibile, la comunità esclusiva.

25

BENEDICT ANDERSON, Imagined Communities. Reflections on the Origins of Nationalism. Revised and Extended Edtion, London, Verso, 1991, XV-224 p. Traduzione italiana di Marco Vignale, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi. Prefazione e cura di Marco D’Eramo, Roma, Manifestolibri 1996, 223 p. [p. 25]. 26 A scanso di equivoci, e anticipando quanto verrà elaborato già nel finale di questo capitolo – ma sarà ripreso nel corso di tutto il saggio – faccio notare che nella concezione originaria di Benedict Anderson “immaginato” non si contrappone di certo a “reale”, come sembra credere, ad esempio, Manuel Castells alla pagina 33 del suo Il potere delle identità, op. cit. alla nota XX, quando afferma: “L’antitesi tra comunità «reali» e «immaginate» è di scarsa utilità analitica”. “Immaginato” si oppone invece a “oggettivo”, determinabile cioè secondo criteri esterni a quelli dei soggetti coinvolti. Cercando di evitare complicazioni terminologiche, possiamo dire che per Anderson la comunità è “immaginata” perché è un prodotto semiotico (un segno) che acquisisce senso per gli attori sociali che lo costituiscono. Sono i criteri che determinano il confine dell’appartenenza ad essere “immaginati”, cioè “creati” dai soggetti membri della comunità. L’originalità della prospettiva di Anderson consiste nell’aver spostato definitivamente l’attenzione analitica degli studiosi del nazionalismo dai dati oggettivi ai fatti sociali, senza per questo tramutare le nazioni in comunità “irreali”. Al contrario, secondo il principio vichiano (verum ipsum factum), le nazioni sono comunità immaginate perché sono fatte dagli uomini, e quindi conoscibili solo nella misura in cui ci si impegni a ricostruire il percorso di quel fare, che è tutt’altro che irreale.

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Il problema quindi non è com’è possibile che esistano comunità immaginate (Benedict Anderson ci ha esposto i meccanismi di base del loro funzionamento, e Michael Herzfeld27 ci ha definitivamente spiegato come non vi sia un vero conflitto tra discorso nazionale uniformante e pratiche locali individuanti), ma come mai il nuovo processo di omogeneizzazione globale non riesca a soddisfare a pieno le esigenze comunitarie. Perché quindi, fatta l’Italia si sia riusciti (più o meno) a fare gli italiani, mentre fatta l’Unione Europea o fatta l’ONU assistiamo all’esplosione di rivendicazioni sempre più accese di identità locali ed esclusive? Se poi si pensasse che l’Italia costituisce un caso assai peculiare di costruzione identitaria, vale la pena di volgersi a un altro esempio che è stato per decenni sinonimo di buona riuscita del processo di costruzione della nazione, cioè la Francia. Anche se oggi sappiamo quanto sia stato lento, coercitivo e anche violento il passaggio della multiforme e multilingue Francia medievale alla compatta nazione moderna28, è fuor di dubbio che la Francia ha incarnato forse l’apogeo del modello del moderno stato nazionale, l’epitome della coincidenza tra popolo, nazione e Stato. Se così stavano le cose, com’è che negli ultimi vent’anni la Francia è sempre meno la terra dei francesi (uniformi per lingua, cultura, passione culinaria e orgoglio) e sempre più la terra multiculturale e multilinguistica dei bretoni, dei corsi, dei provenzali, dei baschi, degli alsaziani (per non parlare delle legioni di francesi di origine africana) che ormai contestano sistematicamente il modello dell’uniformità sparando bordate sull’unità linguistica, religiosa, culturale e (orrore!) culinaria del Paese29? Se il mondo sociale fosse un sistema razionale che si sviluppa armonicamente, i passaggi avrebbero dovuto essere nitidi: la frammentazione localistica precedente la Rivoluzione Francese (enclaves, exclaves, usi locali spesso diversissimi a distanza di pochi chilometri) è stata uniformata dal processo di nazionalizzazione nel corso di tutto il Diciannovesimo secolo e nella prima metà del Ventesimo. Il mondo poco a poco ma in modo apparentemente inevitabile si è suddiviso in aree culturalmente sempre più compatte, trasformando in nazioni moderne quelle che erano mere 27

MICHAEL HERZFELD, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo. Traduzione di Emanuela Nicolcencov, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2003, 237 p. Edizione originale Cultural Intimacy. Social Poetics in the NationState, New York, London, Routledge, 1997, XIII-226 p. 28 EUGEN WEBER, Peasants into Frenchmen. The Modernisation of Rural France 1870-1914, Stanford, Calif., Stanford University Press, 1976, XV-615 p. Traduzione italiana di Alfonso Prandi, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale, 1870-1914, Bologna, Il mulino, 1989, 909 p. 29

Su come la globalizzazione abbia modificato la natura dell’identità nazionale francese si veda PHILIP H. GORDON, SOPHIE MEUNIER, “Globalization and French Cultural Identity”, French Politics, Culture and Society, XIX (1), 2001, pp. 22-41, tema ripreso ed espanso nel volume degli stessi autori The French Challenge. Adapting to Globalization, Brookings Institution Press, Washington DC, 2001, XI-152 p. Sul caso bretone si veda MARYON MCDONALD, We are not French! Language, Culture, and Identity in Brittany, London, New York, Routledge, 1989, XIII-384 p. Per quanto riguarda l’identità basca (su entrambi i lati del confine franco-spagnolo, ma con un centro di attenzione sulle province meridionali) si veda JACQUELINE URLA, “Cultural Politics in an Age of Statistics. Numbers, Nations, and the Making of Basque Identity”, America Ethnologist, XX (4), pp. 818-843. AGGIUNGERE ALTRI CASI

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espressioni geografiche. Disponiamo oramai di indagini accurate di tipo storico30 e antropologico31 che ci raccontano delle precondizioni strutturali di questo immane mutamento che ha attraversato il genere umano, ma quel che conta è che conosciamo ormai con sufficiente chiarezza anche i meccanismi emotivi implicati da questa costruzione nazionale32. Il passo successivo, se appunto il mondo fosse un sistema razionale, avrebbe dovuto essere la creazione di comunità immaginate di tipo transnazionale: mutate le condizioni economiche e tecnologiche, i sistemi Stato-nazione perdono il loro dominio assoluto sullo scenario della politica, per essere affiancati da sistemi-mondo sempre più complessi: Unione Europea, Nazioni Unite,

GATT

33

,

34

NAFTA

,

NATO

35

,

36

WTO

. Questi

sistemi sovranazionali avrebbero tutte le caratteristiche potenziali per porsi come basi strutturali alla formazione di nuove comunità immaginate: come gli Stati nazionali al loro sorgere, sono funzionali al sistema economico, si fondano su ideologie condivise dalle élites che li governano, e hanno apparentemente a disposizione i mezzi tecnologici e mediatici per veicolare un senso comunitario negli angoli più remoti dei loro rispettivi domini, possono cioè trasformare in un sentimento (o agganciare a un sentimento) la spinta uniformante dettata da ragioni economiche. Eppure non funziona, e se pochi decenni orsono i nostri nonni (alcuni di loro, almeno) potevano veramente pensare di andare a morire per la Patria – un’entità astratta quant’altre mai, su cui però si era riusciti a innestare un fortissimo senso (immaginato, appunto) di comunità – oggi fa al massimo sorridere (quando non suscita una decisa repulsione) l’idea di combattere per gli “ideali” dell’Unione Europea, tant’è vero che il documento di più elevato spessore ideale mai promulgato dall’Unione Europea (e cioè la sua Carta Costituzionale) è stato sonoramente bocciato quando sottoposto a referendum popolare in Francia e in Olanda, e il dibattito in corso dopo l’11 settembre riguarda proprio la quota di violenza che l’Europa sembra pronta ad accettare per definirsi come tale. L’opinione pubblica europea non sembra generalmente in grado di tollerare il “sacrificio” di alcuno dei suoi membri, dimostrando dunque una concezione tutt’altro che “sacra” dell’entità in nome della quale quell’eventuale sacrificio verrebbe richiesto. Eppure, sappiamo ormai con certezza che gli eurocrati di Bruxelles si sono posti esplicitamente il compito di produrre un’identità europea, sfruttando gli ordinari apparati istituzionali disponibili ai singoli stati nazionali: “persuasione” verso la stampa, per indurla a presentare in buona luce 30

Hobsbawm 1990 Gellner 1983 32 Anderson 1991, Herzfeld 1997, Nairn Two faces of Nationalism 33 General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio). Si tratta di un’agenzia delle Nazioni Unite creata con un trattato multilaterale (firmato in una prima stesura nel 1948 e ratificato con diverse variazioni nel 1994) e finalizzata a promuovere il commercio mondiale attraverso la riduzione delle tariffe doganali e dei dazi. 34 North American Free Trade Agreement (Accordo Nord Americano per il Libero Commercio), siglato tra Stati Uniti, Canada e Messico, ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994. 35 North Atlantic Treaty Organisation. 36 World Trade Organization (Organizzazione Mondiale del Commercio). 31

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l’immagine dell’UE; tentativi di riscrivere la storia dei singoli Stati membri per armonizzarla alla situazione politica attuale; produzione di simboli viventi dell’istituzione europea come, ad esempio, l’istituzione di un Premio “Donna Europea”37. Con altrettanta certezza sappiamo che la pedissequa applicazione al caso dell’Unione Europea delle strategie retoriche e simboliche che avevano efficacemente contribuito alla formazione dei moderni stati nazionali non ha avuto effetto, o comunque ne ha avuto in misura largamente inferiore alle aspettative. D’altro canto, proprio il tentativo di applicare all’Unione Europea le stesse strategie uniformanti tipiche degli Stati nazionali è una buona indicazione del fatto che l’intento di molti organismi apparente post-, trans- o sovranazionali è stato quello di recuperare su un altro piano il potere perduto degli Stati nazionali: ...ciò che si ricercava [con l’integrazione europea] non era la sovranazionalità, ma la ricostruzione del potere dello stato-nazione a un livello più alto, ossia un livello in cui fosse possibile esercitare un certo grado di controllo sui flussi globali di ricchezza, informazione e potere [...] Per questa ragione, invece di entrare nell’era della sovranazionalità e del governo globale, assistiamo all’emergere di un superstato-nazione, cioè di uno stato che esprime, nel quadro di una geometria variabile, gli interessi aggregati dei propri membri.38

La domanda che quindi dobbiamo porci è come mai le pratiche di produzione dell’identità che sembravano così efficaci se perpetrate da istituzioni legate allo Stato nazionale perdono efficacia quando vengono replicate da entità “superstatali”, per riprendere la terminologia di Castells. Non è ovviamente sostenibile l’argomentazione secondo cui queste entità sarebbero artefatte, imposte da motivazioni di ordine economico, sostanzialmente artificiali, e quindi “la gente” farebbe fatica a identificarsi emotivamente con esse: le nazioni del Diciannovesimo secolo non erano meno artificiali, ideologiche e (soprattutto) necessarie al funzionamento del sistema economico di allora di quanto non lo siano oggi i nuovi soggetti della politica internazionale. La ragione dell’emergere di identità comunitarie che prescindono dallo Stato nazionale e del fallimento emotivo delle entità politiche transnazionali va cercata altrove, e in questo altrove si può trovare anche una spiegazione credo sufficientemente chiara (ma in grado di prescindere da un meccanico legame di azione/reazione) del rapporto tra globalizzazione economica e ripresa delle identità. Stato nazionale, appartenenze, mezzi di comunicazione di massa Con una metafora che anticipa quanto diremo anche nei prossimi capitoli, dovremmo cioè riuscire a capire perché possiamo guardare la

CNN

e Teletuscolo con lo stesso interesse, se non

sempre con il medesimo coinvolgimento emotivo, senza spiegare la passione per Teletuscolo come una reazione alle trasmissioni della CNN. Anticipando l’argomentazione presentata nelle pagine che 37 38

CRIS SHORE, “Inventing Homo Europaeus”, Ethnologia Europaea, XXIX (2) Winter, 1999, pp. 53-66. MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX [pp. 352-353].

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seguono, possiamo sintetizzare dicendo che il (nuovo) legame che cinge di un’aura globale il fenomeno delle identità emergenti deve essere individuato nello scioglimento del (vecchio) legame tra potere centralizzato, corpi e immaginazione. Mentre prima un potere centrale (quasi inevitabilmente incarnato dallo Stato) gestiva il monopolio sulle forme impresse ai corpi e all’immaginazione, garantendosi così quell’omogeneizzazione nazionale necessaria alla sua sopravvivenza, ora lo Stato ha perso quel monopolio, e quindi le persone e le immaginazioni si costruiscono e si spostano secondo motivazioni confliggenti, divergenti e comunque non riconducibili a grandi configurazioni, da cui il sapore locale della loro epifania politica. Questo lavoro non si prefigge il compito di formulare ipotesi o profezie sulle sorti dello Stato nazionale. A noi basti dire che, qualunque possa essere il suo futuro, di certo il presente degli Stati nazionali è segnato dalla fine del privilegio nella gestione monopolistica dell’immaginario dei suoi cittadini. Diversi autori hanno posto in evidenza in questi anni il progressivo indebolimento del potere generale dello Stato, in particolare per quanto riguarda il suo controllo dei mezzi di comunicazione di massa39. Alcuni studiosi si sono soffermati a descrivere i pervicaci tentativi dei governi di influenzare il mercato e modificare le infrastrutture delle telecomunicazioni per adeguarle alle proprie esigenze politiche40. Altri, al contrario, hanno insistito sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nel frantumare entità statali41. Comunque sia, quel che è certo è che, oggi, il rapporto tra governi degli Stati nazionali e mezzi di comunicazione di massa che attraversano il territorio sottoposto alla loro sovranità nazionale si è complicato, e soprattutto non può più essere dato per scontato. Non stiamo certo parlando della fine dello Stato nazionale o del passaggio inevitabile a nuove forme di governo globale, dato che le pulsioni (più o meno utopiche) che sembravano orientare parte della teoria fino alla fine del Ventesimo secolo sono bruscamente rientrate nei ranghi dopo l’11 settembre 2001. Ma se lo Stato nazionale è ancora vivo e politicamente attivo, la novità irreversibile è data dal fatto che oggi deve contrattare il suo potere non solo con altre entità statali, ma con istituzioni e attori politici di dimensioni e “formati” eterogenei. L’ingresso nell’agone 39

Sulla perdita del potere dello Stato a seguito della globalizzazione e in particolare sul declino del controllo governativo sui media si vedano rispettivamente il paragrafo “La globalizzazione e lo stato” [pp. 326-346] e il sottoparagrafo “Reti di comunicazione globale, audience locali, fattori di regolazione incerti” [pp. 339-344] in MANUEL CASTELLS The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX, e la relativa bibliografia. 40 Si vedano a questo riguardo i numerosi esempi citati in MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty. The Global Information Revolution and Its Challenge to State Power, Cambridge, MA, London, The MIT Press, 2002, ix-317 p. Particolarmente succoso il paragrafo “Interactions and Influences” [pp. 5-12]. 41 JOSHUA KALDOR-ROBINSON, “The Virtual and the Imaginary: The Role of Diasphoric New Media in the Construction of a National Identity during the Break-up of Yugoslavia”, Oxford Development Studies, XXX (2), June 2002, pp. 177-187.

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politico di soggetti superstatali, infrastatali e interstatali − oltre a produrre una serie di mutazioni strutturali nel sistema produttivo e politico − ha reso l’ambito dei mezzi di comunicazione di massa un campo di contesa ben maggiore che in passato. La sostanziale marginalità economica dei settori dell’informazione e dell’intrattenimento li aveva relegati in buona parte entro l’alveo delle singole comunità nazionali (e quindi statali), fatto salvo il dominio dei grandi centri (economici e ideologici) di produzione collocati negli Stati Uniti. Ma nelle condizioni attuali gli attori e gli ambiti di intervento si sono estremamente complicati. Da un punto di vista delle potenzialità strutturali, (e sempre fatta salva l’eccezione di Hollywood) possiamo dire che per diversi decenni la produzione massmediatica è stata prevalentemente e preferibilmente nazionale sia per organizzazione sia per destinazione: il sistema nazionale dei mass media provvedeva a soddisfare tutte e sole le esigenze del proprio territorio. Secondo questo modello, la divisione del sistema politico internazionale e la divisione del sistema mediatico tendevano alla quasi perfetta coincidenza: un sistema mediatico per ogni stato nazionale, uno stato nazionale per ogni sistema mediatico, secondo lo schema della figura 142. = confini dello stato nazionale

= confini del sistema dei media

Figura 1. La coincidenza tra sistemi statuali e sistemi mediatici prima dell’avvento delle nuove tecnologie

La situazione attuale prevede invece una molteplicità di soggetti attivi e una molteplicità di destinazioni del sistema mediatico prodotto: non solo gli Stati sono affiancati da altre istituzioni, ma tutti i soggetti produttivi destinano il loro prodotto mediatico su diversi target, a loro volta statali, superstali e infrastatali. Da un lato quindi gli Stati si sforzano di proteggere il loro spazio nazionale dall’ingerenza mediatica di altri soggetti ma nel medesimo tempo − come gli altri soggetti in gioco − cercano di espandere il loro spazio mediatico al di là dei confini nazionali. Rispetto alla linearità

42

Come già accennato, questo quadro di produzione mediatica nazionale (che riguardava soprattutto carta stampata, radiofonia e poi televisione) tralascia sostanzialmente l’industria cinematografica, la prima industria mediatica a rivolgersi a una platea effettivamente globale pur se i suoi prodotti agli inizi erano quasi esclusivamente americani: “Già nel 1914, l’85 per cento del pubblico cinematografico mondiale guardava film americani. Nel 1925 le pellicole prodotte negli Stati Uniti raccoglievano oltre il 90 per cento degli incassi cinematografici nel Regno Unito, in Canada, Australia, Nuova Zelanda e Argentina, e oltre il 70 per cento degli incassi in Francia, Brasile e Scandinavia”, EDWARD S. HERMAN e ROBERT W. MCCHESNEY “The Rise of the Global Media”, in EDWARD S. HERMAN e ROBERT W. MCCHESNEY, a cura di, The Global Media: the New Missionaries of Corporate Capitalism, London, Washington, DC, Cassell, 1997, VIII-262 p. [pp. 1-19. Il passo è tratto da p. 3].

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della figura 1, la nuova situazione determina un quadro estremamente complesso, che proviamo a schematizzare in forma ipersemplificata nella figura 2. = soggetto statali

= soggetti non statali

= confini dei sistema dei media

Figura 2. L’attuale discordanza tra sistemi statuali e sistemi mediatici

Dal punto di vista della produzione e distribuzione della comunicazione legata a mezzi elettronici, le differenze rispetto alla situazione precedente schematizzata nella figura 1 sono sostanzialmente due: la proliferazione di soggetti tra loro difformi e un generale scollamento tra il luogo giuridico occupato da questi diversi soggetti e i diversi spazi mediatici da essi prodotti43. Per evidenziare quanto più possibile la concretezza di questi due aspetti, può essere utile ricostruire brevemente la storia di MED-TV, un caso per molti versi esemplare, che ci guiderà alle implicazioni

direttamente

antropologiche

e

identitarie

di

questa

nuova

disposizione

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infrastrutturale . Collocata giuridicamente sul suolo britannico, MED-TV forniva attorno alla metà degli anni Novanta un servizio di programmi principalmente in lingua curda (e solo in misura nettamente inferiore in turco, inglese e arabo), rivolto quindi ai molti parlanti di questa lingua, che notoriamente non trovano, per la loro specificità culturale, una corrispondenza politica in un’entità statale, dato che il Kurdistan come area geografica e linguistica si colloca a cavallo di quattro Stati (Turchia, Iraq, Iran e Siria). Il segnale di Med-Tv utilizzava transporders di proprietà dell’Eurovisione45 collocati su satelliti Eutelsat46. L’Eurovisione consorzia i principali broadcaster 43

Per luogo intendo un campo delimitato da regole precise, in cui l’intervento è regolato e controllato. Lo spazio è invece l’opposto, un campo tendenzialmente privo di regolamentazione e in cui i diversi soggetti sono liberi di intervenire. Naturalmente, luogo e spazio sono estremi ideali, e per ogni epoca storica e per ogni contesto è possibile stabilire quale delle due concezioni sia dominante. Per quanto riguarda il sistema delle comunicazioni, sembra evidente che il passaggio in corso sia da una concezione di luogo a una di spazio, e che questo passaggio trovi favorevoli soprattutto gli organismi non statali, e particolarmente ostili gli Stati nazionali costituiti. Su questa opposizione, cfr. MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, pp. 23-25. 44 Traggo questo esempio da MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, pp. 80-82. 45 Union Européenne de Radio-Télévision/European Broadcasting Union fu fondata nel 1950 con sede a Bruxelles e oggi raggruppa 74 membri attivi e 44 associati. La rete permanente di Eurovisione, che ha il suo quartier

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di servizio pubblico in Europa, Nord Africa e Medio Oriente, e dato che il servizio pubblico radiotelevisivo per ogni singolo Stato è gestito da agenzie che rispondono direttamente o indirettamente agli Stati corrispondenti, la diffusione del segnale di MED-TV dipendeva, in buona misura, dalla disponibilità dei gestori dei singoli transponders ad accettare di veicolarne il segnale nelle porzioni loro assegnate. Fin dall’inizio, le posizioni politiche espresse in alcuni dei programmi di MED-TV suscitarono il profondo risentimento del Governo turco, che vedeva il proprio spazio nazionale invaso da messaggi politici ritenuti inaccettabili. In un primo momento, la Turchia fece di tutto per impedire il downlink47 del segnale satellitare, favorita in questo da un dettaglio apparentemente trascurabile. In origine, infatti, il segnale di MED-TV veniva trasmesso da un satellite Hotbird collocato su un’orbita leggermente diversa da quella utilizzata dai satelliti che trasportavano i segnali Eutelsat più comuni (cioè più visti) in Turchia. Ciò significava che gli utenti che volevano vedere MED-TV dovevano orientare la loro antenna satellitare in posizione sensibilmente diversa da quella degli utenti dei più comuni satelliti Hotbird, rendendosi così identificabili a una semplice ispezione visiva da parte delle forze dell’ordine. Per proteggere i propri spettatori dal rischio di subire le rimostranze delle autorità turche, la proprietà di MED-TV si vide costretta a spostare il suo segnale sul satellite comune, forzando quindi il Governo turco a mutare strategia. Non potendo individuare le antenne paraboliche e quindi bloccare il downlink, l’attenzione si concentrò sull’uplink, e a questo punto entrarono in gioco i rapporti bilaterali tra la Turchia e i diversi Stati membri di Eurovisione e Eutelsat. Sebbene la documentazione ufficiale sia carente, si conoscono diversi casi in cui MED-TV è stata esclusa dai trasponders sui satelliti Eutelsat in seguito a pressioni esercitate dal Ministero degli Esteri turco presso i diversi gestori nazionali che garantiscono di fatto l’accesso all’uplink48. Ma questa soluzione (individuare canali di relazione con i singoli Stati, e premere perché ritirassero la disponibilità ad ospitare MED-TV sui transponders di loro competenza) era comunque una risposta di tipo tattico, cui mancava un piano strategico. L’ostacolo da superare per impedire in via definitiva le trasmissioni di MED-TV era costituito dalla licenza britannica che il servizio in lingua curda poteva vantare, licenza rilasciata dalla Independent Television Commission49 che garantiva il generale a Ginevra, impiega fino a 50 canali digitali su un satellite Eutelsat per scambiare programmi soprattutto di natura informativa e di sport. Cfr. . 46 Eutelsat fu istituita nel 1977 come organizzazione intergovernativa per sviluppare e gestire una rete satellitare destinata all’Europa. Il primo satellite della serie Hotbird venne messo in orbita nel 1983, seguito progressivamente da altri 24 lanci di satellite che fanno oggi di Eutelsat uno dei leader mondiali nella tecnologia satellitare geostazionaria. Nell’aprile 2005 i maggiori azionisti di Eutelsat S.A. hanno unito i loro investimenti in un nuovo gruppo (Eutelsat Communications) che, a fine 2005, deteneva il 95,2 per cento di Eutelsat S.A. Cfr. . 47 Nelle comunicazioni, il downlink è il collegamento da un satellite a una stazione ricevente al suolo. Di converso, l’uplink è la trasmissione di un segnale da un terminale terrestre a un satellite o a un altro tipo di piattaforma aerea. 48 MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, p. 81. 49 Questo organismo britannico di controllo ha cessato di esistere il 18 dicembre 2003, quando le sue mansioni

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rispetto di una serie di standard di obiettività e imparzialità considerati essenziali. Il passo successivo – fatale per le sorti di MED-TV – fu attirare l’attenzione del licenziatario sui contenuti trasmessi, per metterne in luce la partigianeria. Dopo una serie di multe impartite nel 1998, l’anno successivo l’Independent Television Commission ritirò definitivamente la licenza a MED-TV, che di lì a poco chiuse le trasmissioni. Questo apologo (amaro per alcuni, gioioso per altri) include alcuni nuclei portanti attorno a cui cerchiamo di riflettere in questo capitolo. La volontà di dare voce a una comunità linguistica priva di una sua espressione statuale si è espressa in questo caso attraverso la ricerca di una visibilità mediatica. Il fatto che la maggior parte delle trasmissioni di MED-TV fossero emanate in lingua curda ci dice inoltre che quella visibilità era – oltre che rivolta all’esterno – indirizzata principalmente ai suoi membri (potenziali o effettivi), in un’opera di rinforzo e sostegno dell’identità collettiva. Oltre che come dichiarazione di un’appartenenza, dunque, la possibilità di “trasmettere l’identità” è un modo oggi particolarmente efficace di “produrre l’identità”50. A parte il caso dell’Iraq, gli spettatori di MED-TV erano in buona parte cittadini abituati a usare la lingua curda in contesti esclusivamente domestici51. La semplice circostanza di poter seguire trasmissioni nella loro lingua madre rende plausibile il curdo come lingua di status ufficiale, lo rende quindi immaginabile in contesti ben diversi da quello domestico. La fruizione di una lingua in un quadro altamente decontestualizzato come quello televisivo apre cioè spazi altrimenti letteralmente impensabili di legittimazione politica, al di là e indipendentemente dagli specifici contenuti trasmessi. In questo senso, il vecchio (e screditato) adagio di Marshall McLuhan “il mezzo è il messaggio” recupera gran parte del suo valore. La semplice possibilità di utilizzare un canale satellitare per trasmettere programmi in curdo garantisce a quella lingua un prestigio altrimenti irraggiungibile, indipendentemente dal contenuto specifico delle trasmissioni, divenendo ipso facto sono state assunte nel quadro più vasto delle attività dell’Ofcom (Office of Communications), che ha ereditato i compiti di altri quattro organismi, e cioè: il Broadcasting Standards Commission (BSC), Oftel, la Radio Authority e la Radiocommunications Agency. 50 Torneremo in dettaglio su questo tema quando discuteremo la natura e la funzione degli indigenous media nel prossimo capitolo, alle pp. XX-XX. 51 Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, il curdo – che già era tollerato nell’uso quotidiano – è diventato la seconda lingua ufficiale dell’Iraq e la prima nella parte settentrionale del paese. In Siria e Turchia l’uso del curdo è vietato dalla legge, mentre in Iran è tollerato anche se non ufficialmente riconosciuto. Sulla soppressione del curdo si veda in generale AMIR HASSANPOUR, “The Politics of A-political Linguistics: Linguists and Linguicide” in ROBERT PHILLIPSON, a cura di, Rights to Language, Equity, Power, and Education, Celebrating the 60th Birthday of Tove Skutnabb-Kangas, Mahwah, NJ, Lawrence Erlbaum Associates, 2000, 310 p. [pp 33-39]; per il caso siriano HUMAN RIGHTS ASSOCIATION IN SYRIA, The Effect of Denial of Nationality on the Syrian Kurds. A Report by the Human Rights Association in Syria, dattiloscritto, novembre 2003, 20 p., reperibile in rete all’indirizzo ; per il curdo in Turchia si veda invece HUMAN RIGHTS WATCH, “IX. Restrictions on the Use of the Kurdish Language” in Turkey: Violations of Free Expression in Turkey, New York, Human Rights Watch, 1999, 122 p., reperibile in rete all’indirizzo . In quest’ultimo è riportato anche il nono comma dell’articolo 42 della Costituzione turca che così recita: “Al di fuori del turco, nessun’altra lingua sarà studiata o insegnata ai cittadini turchi in alcuna istituzione di natura linguistica, educativa o scolastica”.

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un messaggio politico per un Governo come quello turco, intenzionato a mantenere il curdo nel rango delle “parlate locali”. Questa volontà politica di espressione culturale ha trovato collocazione nella comunità curda della diaspora, e infatti il servizio in lingua curda aveva come basi produttive Londra e Bruxelles. Un gruppo politico disperso di un’entità lingustico-culturale priva di uno Stato si è attivato per generare un’immagine coerente di sé e della propria comunità di origine. Questa immagine è stata tenacemente contestata da uno Stato (la Turchia) che vedeva in pericolo non tanto la sua sovranità territoriale, quanto il diritto di gestire la produzione identitaria dei suoi cittadini. All’uso della forza, lo Stato ha presto dovuto affiancare una raffinata diplomazia che ha incluso da un lato una serie di accordi bilaterali (perlopiù informali) con altri Stati, e dall’altro l’appello esplicito alle norme che stabiliscono il diritto di appartenenza a un organismo britannico di regolamentazione. Un canonico conflitto di interessi e diritti tra minoranza e maggioranza – che si potrebbe pensare come una questione di politica interna – è stato quindi riscritto sub specie mediatica in modo da spostare radicalmente il luogo della contesa e gli attori in gioco. La minoranza interna ha trovato uno specchio e un innesco alla propria identità culturale e politica nella comunità degli espatriati. Quest’ultima – invece di trattare o scontrarsi con lo Stato o gli Stati che controllano territorialmente lo spazio occupato dalla minoranza – ha negoziato uno spazio mediatico con organizzazioni non statali e con gli Stati di insediamento, che a loro volta utilizzavano un cartello internazionale per rendere operativo quello spazio mediatico. Come la minoranza non ha trattato direttamente con la “sua” maggioranza, così la maggioranza non ha esercitato una pressione diretta sulla “sua” minoranza – o lo ha fatto solo fin quando le condizioni tecnologiche l’hanno consentito, fino a quando cioè l’orientamento delle parabole ha permesso di identificare “oggettivamente” la minoranza – ma ha intrattenuto una serie di trattative bilaterali con altri Stati e con organizzazioni non statali per oscurare lo spazio mediatico conquistato dalla comunità della diaspora. Quale che sia il nostro giudizio sulla specifica vicenda di MED-TV, la lezione che ne dobbiamo trarre per le nostre riflessioni sul rapporto tra sistema delle comunicazioni di massa e identità collettive è sostanzialmente che nella misura in cui il sistema mediatico si libera del monopolio statale, gli Stati nazionali non sono più in grado di gestire autonomamente la questione dell’identità culturale e politica dei cittadini legalmente sottoposti alla propria giurisdizione. Anche in questo caso (in cui a risultare “vincitore” è alla fine uno Stato nazionale) lo Stato maggiormente esposto (la Turchia) non avrebbe potuto raggiungere i suoi obiettivi (che rimangono formalmente di politica interna) se non si fosse posto come nodo di una rete complessa costituita da altri Stati e altre entità politiche e amministrative non statali.

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Tradotto nella pratica politica dello Stato nazionale classico, questo tipo di dinamica risulta incomprensibile. Nel modello canonico mazziniano (un popolo per ogni Stato, uno Stato per ogni popolo) la questione della fedeltà politica e della specificità culturale dei cittadini di uno Stato sovrano è demandata interamente alla politica interna, qualificando immediatamente come ingerenza qualunque caso di ingresso di soggetti terzi nella disputa tra gli apparati ideologici di uno Stato e la coscienza etnica e civica dei suoi cittadini. La questione delle minoranze, sempre considerata nel quadro dello Stato nazionale classico, ha per lungo tempo ritenuto legittima l’intrusione di un terzo soggetto solo nel caso in cui questo potesse accampare pretese giustificate sulla predisposizione nazionale della minoranza, quando cioè potesse a ragione presentarsi come “vera madre patria” della minoranza sottoposta alla giurisdizione di un altro Stato. La tradizione risorgimentale e irredentista che ha frantumato in Europa i grandi imperi Austro-Ungarico e Ottomano nel corso dell’Ottocento e fino alla fine della prima guerra mondiale – in associazione con la dottrina Wilson dell’autodeterminazione dei popoli52 – ha creato una tradizione di sovranità nazionale in cui questa associazione esclusiva in termini di identità collettiva tra entità statale e comunità nazionale ha finito per essere data per scontata. Il punto è che oggi una serie di fattori strutturali – tra cui spiccano per rilevanza le nuove disponibilità di produzione e distribuzione dei messaggi veicolati dai mezzi elettronici di comunicazione di massa – rendono obsoleto quell’automatismo. Se, insomma, secondo il modello classico, era normale pensare che l’identità dei cittadini turchi fosse una questione che coinvolgeva in esclusiva il Governo turco o al massimo eventuali Governi limitrofi interessati direttamente (come potenziali “madrepatrie”) dalla questione delle minoranze, oggi – a livello analitico oltre che politico – dobbiamo fare i conti con il fatto che la “questione curda” in Turchia passa anche attraverso l’accordo tra la Turchia e – per esempio – la Slovacchia, se questa, com’è accaduto, ha il potere di impedire il passaggio di MED-TV sui transponders da lei gestiti. È questa novità che dobbiamo essere in grado di teorizzare e per la quale dobbiamo produrre nuovi modelli, senza dunque cedere alla tentazione di credere che nulla sia cambiato (come se gli Stati avessero mantenuto intatti i loro privilegi) o che sia cambiato tutto al punto di generare una sorta di caos delle identità in cui non è possibile individuare alcuna regolarità. Un primo passo per produrre un quadro teorico coerente è ripensare in modo sistematico due concetti (modernità ed emigrazione) che hanno accompagnato negli ultimi due secoli quello di appartenenza, e verificare in che modo le mutazioni interne di questi concetti entrino in rapporto con le modifiche già indicate nel sistema dei mezzi di comunicazione di massa, così da causare un

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spiegare

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mutamento radicale nel sistema delle appartenenze. Per anticipare la tesi che intendo argomentare nelle righe seguenti, si tratta di vedere come: (a) una concezione della modernità sempre meno evoluzionista e sempre più legata alla specificità del contesto culturale in cui si realizza e (b) la metamorfosi della migrazione in diaspora dentro e attraverso il mutamento tecnologico dei mezzi di comunicazione (c) abbiano alterato gli equilibri di forza faticosamente raggiunti dagli Stati nazionali nella gestione dell’immaginazione nazionale e nella produzione di identità collettive. Le direzioni della modernità In un rapido e denso saggio53 il filosofo britannico Charles Taylor presenta quelle che lui considera le due versioni principali della teoria della modernizzazione. Secondo la prima, che definisce aculturale e che è sostanzialmente un modo di guardare ai mutamenti sociali trascurando la loro dimensione morale, la modernizzazione caratterizza una fase specifica dell’evoluzione di tutte le società umane. Indipendentemente dal punto di partenza, tutte le culture umane devono fare i conti con il progresso, la tecnologia, la crescita dell’individualismo e la secolarizzazione. Proprio perché non considera le culture come costellazioni di giudizi morali e di valori – oltre che di specifiche pratiche e tecniche – questa concezione della modernizzazione può pretendere di essere libera da giudizi di valore, e di restituire le sorti dell’umanità al suo inevitabile destino, che è riassumibile nel passaggio dalla barbarie (universale) alla civilizzazione (altrettanto universale). A questa concezione Taylor ne contrappone un’altra, che chiama invece culturale. Secondo questa teoria alternativa, la modernizzazione delle culture non avviene mai in un contesto privo di giudizi di valore ma si realizza come opzione fondamentalmente morale, e quindi secondo percorsi alternativi e spesso divergenti. Detto altrimenti, non c’è una modernizzazione, ma molte forme del passaggio da una costellazione culturale a un’altra. Scritto nel 1996, il saggio di Taylor concede alla teoria aculturale della modernità il predominio pressoché assoluto nella teoria e nella pratica politica. Anche i degenerazionisti, infatti, pur considerando la modernizzazione sostanzialmente un male, non si discostano da una concezione rigidamente evoluzionista (pur se nella sua variante negativa, degenerazionista appunto) e unilineare della sua traiettoria. Quello che nella concezione positiva della modernità è il superamento di una strutturazione culturale, nella concezione negativa viene visto come una perdita, ma il passaggio e la sua inevitabilità rimangono invariati: Da un punto di vista, l’umanità si è liberata di una lunga serie di miti falsi e dannosi. Da un altro, ha perso contatto con realtà spirituali essenziali. In entrambi i casi, il mutamento è concepito come 53

CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, The Responsive Community, VI (3), Summer 1996, pp. 16-

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una perdita di credenza.54

Secondo Charles Taylor, il dominio della concezione aculturale della modernità dipende da una serie di fattori, non ultimo il fatto che in questo modo si rende ideologicamente inevitabile (e quindi indiscutibile) il percorso occidentale della modernizzazione. La prospettiva aculturale è quindi in un certo senso rassicurante rispetto alla traiettoria del nostro percorso socio-culturale, ma questa sicurezza si sconta come seria incapacità di comprendere il rapporto tra la modernità e le altre culture: Credere che la modernità derivi da una singola operazione applicabile universalmente impone un modello falsamente uniforme ai molteplici incontri delle culture non occidentali con le esigenze della scienza, della tecnologia e dell’industrializzazione.55

Nello stesso anno di “Two Types of Modernity”, l’antropologo indiano Arjun Appadurai pubblicava una raccolta di saggi in cui in diversi passi riprende implicitamente l’antitesi di Charles Taylor tra teoria culturale e aculturale della modernità, ma ponendosi l’esplicito obiettivo di portare sostegno alla versione culturale della modernizzazione, per cui la “novità” cui assistiamo non può essere negata ma deve essere declinata nei contesti specifici in cui viene a realizzarsi56. Per ogni fenomeno culturale, dice Appadurai prendendo spunto dalle riflessioni di Michel Foucault su alcuni concetti nietzschiani57, possiamo ricostruirne la storia come movimento di diffusione dal luogo di origine (come processo cioè legato alla globalizzazione) ma con altrettanta cura dobbiamo indagarne la genealogia, il movimento parimenti storico attraverso cui quel fenomeno si indigenizza (producendo paradossalmente ulteriore identità locale, come abbiamo visto). La storia, quindi, è il collegamento di modelli di mutamento in contesti sempre più vasti o, se si vuole, il percorso di determinati flussi nel loro dipanarsi a livello globale, per cui è possibile fare la storia del nazionalismo se si individua la sua origine e poi se ne segue il lento propagarsi sul pianeta come dottrina politica. La genealogia, invece, significa lo studio delle condizioni storiche locali che 54

CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, loc. cit. alla nota precedente, p. 20. CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, loc. cit. alla nota XX, p. 24. 56 ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota XX.Tutto il libro tratta, da diverse prospettive, proprio il tema della fine del mito uniformante della modernizzazione e la sua ricostituzione in forme locali, e quindi sarebbe vano segnalare al lettore passi specifici. Per la sua particolare pregnanza per il quadro della ricerca che affrontiamo in queste pagine, credo però valga la pena di riportare almeno questo passo, tratto da p. 25 della traduzione italiana: “La macroretorica della modernizzazione sviluppista (crescita economica, alta tecnologia, industria agricola, scolarizzazione, militarizzazione) è ancora presente in molti paesi, ma è spesso interrotta, messa in questione e addomesticata dalle micronarrative di film, televisione, musica e altre forme espressive che consentono alla modernizzazione di essere riscritta più come una versione dialettale della globalizzazione che come il cedimento a politiche nazionali e internazionali su larga scala”. Del resto, il titolo originale Modernity at Large gioca proprio su un’ambiguità glocal, dato che in inglese at large significa sia “in generale” (enfatizzando quindi la dimensione globale della modernità) sia “alla macchia”, come di un prigioniero evaso (con una chiara enfasi della dimensione localizzante e idiolettale di quella modernità). 57 MICHEL FOUCAULT, “Nietzsche, Généalogie, Histoire”, in AA.VV. Hommage à Jean Hyppolite, Paris, Presses Universitaires de France, 1971, II-232 p. [pp. 145-172]. 55

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consentono la sedimentazione sul territorio di nuove forme culturali, per cui è possibile collegare l’indigenizzazione del nazionalismo in India ai grandi imperi moghul o alla tradizione della divisione sociale in caste, e vedere come la storia di un concetto politico debba fare i conti, a livello locale, con la genealogia entro cui cerca di innestarsi58. Questa duplice attenzione analitica (ai fenomeni messi in moto dalla globalizzazione economica e culturale del pianeta e al loro radicarsi in contesti estremamente locali secondo forme indigene che li rendono del tutto peculiari proprio nel momento in cui si insediano come fenomeni globali) cerca ovviamente di tener conto della dimensione culturale di ogni forma di modernizzazione e quindi supera in maniera intenzionale il modello aculturale classicamente evoluzionista. Soprattutto, questo approccio permette di scardinare la necessità che sembra correlare alcune variabili nella teoria aculturale della modernizzazione come, ad esempio, il rapporto tra modello politico, livello di sviluppo economico e tecnologico e secolarizzazione. Se infatti nella teoria classica della modernizzazione queste tre variabili sono strettamente correlate (per cui a una crescita tecnologica dovrebbe corrispondere una progressiva secolarizzazione e un rapido passaggio verso forme di democrazia liberale), oggi abbiamo piena consapevolezza che vi può essere crescita economica senza corrispondente passaggio a regimi liberali o democratici (come nel caso cinese) oppure una sostanziale espansione tecnologica senza segni evidenti di secolarizzazione (come in Iran). In modo sempre più nitido a partire dalla crisi dell’11 settembre 2001, abbiamo dunque acquisito consapevolezza non solo analitica ma anche politica che possiamo inscrivere persino forme apparentemente regressive come il fondamentalismo religioso entro il quadro generale della modernizzazione59, che quindi si frantuma in diversi percorsi locali che lottano per il predominio. Perduta la strada maestra dell’evoluzione sociale, la modernizzazione può quindi significare anche l’acquisizione di competenze tecnologiche per la realizzazione di obiettivi apparentemente premoderni: la ripresa su nastro magnetico dello sgozzamento dei prigionieri durante la seconda guerra in Iraq è un esempio particolarmente efferato di questa commistione apparentemente contraddittoria di mezzi “moderni” (di comunicazione di massa) e di fini “barbarici”, ma nel prossimo capitolo vedremo invece applicazioni del tutto pacifiche di questo stesso principio. Il primo punto che dobbiamo tenere presente nel nostro tentativo di realizzare un quadro teorico che ci consenta di comprendere come i mezzi di comunicazione di massa producano oggi forme identitarie è che non vi è un percorso necessario che conduca dal tradizionale al moderno, se con quest’ultimo termine intendiamo il sistema di valori che caratterizza il mondo occidentale. La circolazione dei 58 APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota XX. I riferimenti all’opposizione storia/genealogia sono alle pp. 91-92 e 102-103. 59 Cfr. ad esempio la brillante analisi del fondamentalismo musulmano di JOHN GRAY, Al Qaeda and what it means to be modern, London, Faber and Faber, 2003, 145 p. Traduzione italiana di Lorenzo Greco, Al Qaeda e il significato della modernità, postfazione di Sebastiano Maffettone, Roma, Fazi, 2004, 155 p.

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messaggi garantita dalla globalizzazione, dunque, non certifica una progressiva omogeneizzazione culturale del pianeta, dato che i percorsi storici di quei messaggi possono essere molto lontani dalle loro strategie genealogiche di sedimentazione locale. Migranti, diasporici e indigeni Ma, assieme a questo punto, ce n’è un altro che va tenuto presente con chiarezza, ed è – in estrema sintesi – il passaggio dalle migrazioni alle diaspore. Abbiamo già accennato nell’introduzione al rapido movimento della popolazione sul pianeta grazie alla diffusione di mezzi di trasporto sempre più veloci e sempre più economici. L’innovazione tecnologica dei trasporti, associata alla rapidità con cui si spostano i messaggi attorno al pianeta, ha provocato un radicale mutamento del modo in cui le comunità si pensano e agiscono come tali. Così, in un saggio dedicato proprio al concetto di diaspora, l’antropologo americano James Clifford condensa la situazione attuale: ...le forme diasporiche della nostalgia, della memoria, e della (dis)identificazione sono condivise da un ampio spettro di minoranze e popolazioni migranti. E popoli dispersi, un tempo separati dalle terre d’origine da vasti oceani e da barriere politiche, si trovano sempre più in relazioni di frontiera con la vecchia patria grazie a un viavai reso possibile dalle moderne tecnologie dei trasporti, delle comunicazioni e della migrazione del lavoro. Aerei, telefoni, videocassette, videoregistratori e mobilità dei mercati del lavoro, riducono le distanze e agevolano il traffico, legale e illegale, fra i luoghi del mondo.60

Gli uomini hanno sempre viaggiato cercando altrove migliori condizioni di vita, ma nel farlo dovevano essere disposti a lasciare dietro di sé buona parte dei loro affetti e delle loro conoscenze. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, questo spostamento ha coinvolto milioni di persone in fasi diverse, fino a giungere agli attuali movimenti di popolazioni dal Sud verso il Nord del mondo. Ma se fino agli anni Cinquanta del Ventesimo secolo l’opposizione basilare era quella tra stanziali e migranti (con i secondi ferocemente tesi per propria volontà o per la pressione dello Stato ospite a diventare quanto più rapidamente possibile parte dei primi) la tecnologia associata ai trasporti e alla comunicazione ha mutato lo scenario, producendo almeno tre categorie distinte di raggruppamenti identitari in base al loro specifico rapporto con il territorio: 1. Migranti. Continuano ad esistere i migranti. Persone che si spostano, per speranza o per disperazione, da un posto a un altro e intendono integrarsi nel luogo di arrivo. Si sforzano di imparare rapidamente la lingua del paese in cui sono ospiti o almeno pretendono che la parlino i 60

JAMES CLIFFORD, “Diaspore”, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, traduzione di Michele Sampaolo e Giuliana Lomazzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, 475 p. [pp. 299-342; il passo citato è da p. 302]. Edizione originale Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge, MA, - London, Harvard University Press, 1997, 408 p.

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loro figli, per far sì che la loro condizione di forestieri venga rapidamente meno, e si trasformi in piena cittadinanza. I migranti non intrattengono rapporti stabili o continuativi con il posto da cui provengono, e quindi ne costruiscono al massimo un’immagine idealizzata, rapidamente oleografica e sempre più distante dalla realtà. Spesso accettano addirittura una sorta di amnesia che consente un più rapido inserimento nella comunità di arrivo. L’emigrazione italiana dell’Ottocento (in Francia prima, nelle Americhe poi) era in massima parte concepita e organizzata come produzione di migranti, ben disposti a cedere quote rilevanti della loro identità italiana (spesso solo regionale o locale) in cambio di una prestigiosa e nuova identità “moderna” (francese o variamente americana). 2. Diasporici. Ma la condizione di migranti, necessaria e senza alternative praticabili (se non l’emarginazione sociale) per quanti partivano fino agli anni Cinquanta, presto si è mutata in una scelta, dato che la possibilità di mantenere contatti costanti con il luogo di provenienza ha reso via via plausibile l’alternativa di sentirsi parte di una comunità diasporica. Oggi è, in molti casi, materialmente possibile spostarsi all’altro capo del pianeta per sempre senza abbandonare non solo la lingua di socializzazione, ma anche le abitudini alimentari, i gusti musicali, il panorama politico e i giornali o i programmi televisivi preferiti. Ci si può radicare cioè in un territorio senza perdere il contatto reale (non solo il legame affettivo) con la propria patria d’origine. Ovviamente, questa disponibilità non è equamente distribuita sul pianeta (immagino sia difficile sentirsi membro della diaspora greca, poniamo, in Nuova Guinea) ma i grandi flussi migratori e le mete principali sembrano rendere strutturale questa condizione. Com’è immaginabile, sono gli Stati nazionali ad essere scossi nella loro natura costitutiva dalle diaspore, dato che queste minano il requisito primigenio dello Stato nazionale moderno, e cioè l’uniformazione dei propri membri a un modello regolare di tratti culturali e valori morali condivisi. La pretesa di una comunità diasporica di mantenere non solo i contatti, ma anche la propria fedeltà, associati a un paese diverso da quello in cui si risiede viene giudicata spesso come una vera minaccia all’integrità nazionale, o almeno come una pratica ambigua e fonte di sospetto. Lo Stato nazionale, in quanto territorio e tempo comune, è attraversato e, in vario grado, sovvertito dai vincoli di attaccamento diasporici. Le popolazioni in diaspora non vengono da un altrove allo stesso modo degli «immigranti». Nelle ideologie nazionali assimilazionistiche come quella degli Stati Uniti, gli immigranti possono sperimentare un senso di perdita e nostalgia, ma solo sulla strada verso una patria tutta nuova in un nuovo posto. Le ideologie di questo tipo sono destinate a integrare immigranti, non la gente delle diaspore. Che la storia nazionale raccontata nella versione della tradizione parli di origini comuni o di popolazioni formatesi per aggregazioni successive, essa non è in grado di assimilare gruppi che mantengono importanti fedeltà e connessioni concrete con una patria di partenza o con una comunità dispersa collocata altrove. Persone il cui senso di identità è definito nel suo nucleo centrale da storie collettive di spostamento o di perdita violenta non

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possono essere «curate» con la fusione in una nuova comunità nazionale.61

Quale che sia la volontà assimilatrice degli Stati nazionali, le condizioni strutturali dell’identità (i modi e le forme della sua produzione e riproduzione) rendono ormai disponibile una condizione diasporica che oggi si rende fruibile anche alle generazioni nate dai migranti. Cittadini “sfocati” rispetto al centro normativo dello Stato cui appartengono e in cui sono nati, possono a volte ricostituire un legame effettivo con la terra di provenienza dei loro genitori, o dei loro antenati. In un movimento paradossale che vanifica la retorica stabilizzante della metafora delle radici, questi nuovi soggetti diasporici inseguono nel tempo e nello spazio una radicalità sostanzialmente nuova per loro e per la loro comunità. Le diaspore attivate nella globalizzazione producono inevitabilmente una pressione politica sugli Stati. Non tanto e non solo sugli Stati di destinazione, quanto sull’ideologia stessa che sta a fondamento dello Stato attuale. Le politiche assimilazioniste, viste con favore fino agli anni Sessanta del secolo scorso, hanno lasciato il campo a progetti sociali in cui le parole chiave sono integrazione (non assimilazione), e multiculturalismo o intercultura62, non più cultura nazionale. Legittimando il nomadismo dei sistemi culturali, la diaspora delegittima la vocazione sedentaria degli Stati nazionali classici, costringendoli a un duplice lavoro empirico (da un lato mediare tra le diverse culture diasporiche che li attraversano; dall’altro inseguire la diaspora della propria comunità nazionale originaria) e a un complesso lavoro teorico di giustificazione della propria esistenza. Se infatti lo Stato nazionale non è più (o non più in modo esclusivo) l’alveo politico di una comunità nazionale uniforme per cultura e valori, quali sono le basi morali della sua legittimità come soggetto politico? Ma non è solo contro l’ideologia dello Stato nazionale che prendono forma le comunità diasporiche, e non sono solamente le comunità diasporiche a minare la legittimità dello Stato nazionale. 3. Indigeni. Proprio i flussi planetari di merci, messaggi e popoli hanno attivato una nuova consapevolezza della territorialità, che si traduce in politiche di salvaguardia, di recupero e di rinforzo del legame “originario” con il suolo. Il movimento zapatista che il 1° gennaio 1994 prese il controllo di San Cristobal de la Casas e di altri centri dello Stato messicano del Chapas era composto principalmente di indios tzeltal, tzozil e chol che, sostenuti anche dalle gerarchie cattoliche (con loro era Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal) si sollevarono contro il Governo centrale reclamando giustizia sociale. Un elemento interessante del movimento zapatista è la sua

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JAMES CLIFFORD, “Diaspore”, loc. cit. ala nota precedente, p. 307. Sul recente passaggio dal multiculturalismo all’intercultura si veda FRANCESCO POMPEO, Il mondo e poco. Un tragitto antropologico nell’interculturalità, Roma, Meltemi, 2002, 191 p. 62

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capacità di superare le tradizionali divisioni etniche in nome di una battaglia condotta sulla comune provenienza: “Ciò che abbiamo in comune è la terra che ci ha dato la vita e la lotta”63. Questo esempio, ormai estremamente famoso ma cui potremmo facilmente aggiungerne altri64, ci dice ancora una volta che non è contro la globalizzazione economica e culturale che prendono forma e si caricano di valenze politiche le identità locali, ma proprio dentro la diffusione planetaria dell’uniformazione del mercato e dei costumi consentita dall’esportazione dei messaggi e delle ideologie tramite i mezzi di comunicazione elettronica che trovano nuova linfa le identità locali. Se non ci fossero i migranti e i diasporici, gli indigeni, con il loro primigenio legame alla terra, non avrebbero ragione politica di essere tali. La “riscoperta” dell’autoctonia e della primogenitura investe la legittimazione “territoriale” dello Stato almeno quanto le diaspore ne incrinano la legittimazione “etnica”. Se cioè la diaspora planetaria dimostra la permeabilità dei confini stabiliti tra gli Stati sovrani – la loro natura sempre più simbolica di asserimento della differenza e sempre meno funzionale di gestione attiva della stessa – così ogni rivendicazione di indigenità interna, venendosi a configurare come una richiesta di resecazione di uno spazio politico speciale all’interno dei confini nazionali – cioè ponendo un nuovo confine identitario – nega valore anche solo formale ai confini statali. Ogni movimento indigenista, nativista, autoctono o comunque connotato in termini di superiorità morale rispetto alle diaspore e alle migrazioni, proprio delimitando un suo spazio “naturale” (quasi mai coincidente con lo spazio nazionale in cui è incluso) riduce a mero artificio lo spazio nazionale dello Stato che lo contiene. Se cioè comincia a trovare una sua legittimità l’idea che il criterio fondativo di una comunità politica non sia un accordo siglato attorno a una progettualità comune, ma uno spazio condiviso ab origine e attraversato in seguito da altri più o meno tollerati, la risposta politica dello Stato nazionale alle identità di questo tipo non può che selezionare tra un’alternativa. O decide di fare proprio il modello indigenista, assumendo consapevolmente la postura di Stato etnico e quindi puntando alla definitiva “purificazione” del proprio territorio nazionale da qualunque contaminazione con gruppi non autoctoni (con tutte le tragedie che questa posizione inevitabilmente si trascina) oppure cerca di contenere quel modello in un sistema generalizzato di riconoscimenti giuridici per le diverse comunità indigene eventualmente esistenti sul suo territorio. La risposta effettiva è spesso una malsicura mediazione tra questi due estremi, come testimoniano, soprattutto in Europa occidentale, i tentativi ambivalenti di escludere o inglobare nei sistemi di governo i gruppi politici che mobilitano la propria base e strutturano il loro programma sul richiamo a un’identità autoctona o indigena. 63

Cit. in MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX, p. 87. Castells analizza diffusamente il movimento zapatista alle pp. 81-93. 64 Citare casi come gli indiani d’America e gli Aborigeni australiani rimandando ai capitoli successivi.

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E se nei contesti extraeuropei molto spesso la contrapposizione è tra indigeni e cittadini di origine eurocoloniale (inserendosi quindi in sperequazioni di potere precedenti e profondamente radicate, per cui, per così dire, l’indigenismo nasce in questi contesti costitutivamente fragile e subalterno e deve lottare anche solo per acquisire una quota politicamente spendibile di orgoglio identitario) in Europa la sedentarietà primigenia dell’appartenenza si aggancia facilmente a gruppi storicamente egemonici sul piano economico oltre che su quello culturale, producendo un’ulteriore emarginazione degli emarginati. Questa tripartizione teorica dello spazio identitario (migranti, diasporici, indigeni) non si presenta, dal punto di vista delle singole comunità e ancor meno per quanto riguarda i singoli soggetti, come un’alternativa, tutt’altro. Lo stesso individuo può rivendicare allo stesso tempo la duplice natura di indigeno e diasporico, e anzi molto spesso la legittimazione dei diritti richiesti in quanto popolo di una diaspora (la richiesta formale, ad esempio, di poter utilizzare la propria lingua madre nel sistema educativo almeno fino a un certo grado di istruzione, come avviene in Australia) deriva proprio dalla presunta natura indigena dell’identità di provenienza. I macedoni di Grecia emigrati in Australia (di passaporto greco e di lingua macedone, del gruppo delle lingue slavomeridionali), ad esempio, possono chiedere che i loro figli in Australia vengano educati in macedone in quanto lingua autoctona nella regione della Grecia da cui provengono: i loro diritti diasporici derivano quindi dalla loro autoctonia o “indigenità” in Macedonia65. Del resto, la compresenza di tratti ambivalenti è inscritta nella natura opportunistica di qualunque strategia identitaria, e se da un lato gli Stati si sforzano di conservare i privilegi della loro “comunità originaria” quando questa coincide con le classi economicamente e politicamente dominanti (com’è in generale il caso in Europa e in Asia), dall’altro gli stessi organismi statali si battono per il riconoscimento dei diritti dei “loro” compatrioti lontani, anche quando questi si sentono più migranti che diasporici. IL SAGGIO È INCOMPLETO. MANCA IL FINALE ANCORA IN FASE DI STESURA

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Sulla costruzione dell’identità diasporica dei macedoni in rapporto all’identità indigena, e sul ruolo giocato in questa costruzione dalla comunicazione sempre più fitta tra “i partiti” e “i rimasti” cfr. LORING M. DANFORTH, The Macedonian Conflict. Ethnic Nationalism in a Transnational World, Princeton NJ, Princeton University Press, 1995, XVI-273 p.

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PASTORI E PINOCCHI, BALORDI E BALLERINI. IL MUTAMENTO DELL’IMMAGINE DEGLI ALBANESI NEI MEZZI DI COMUNICAZIONE ITALIANI (1997-2006)

Piero Vereni – Università della Calabria Pubblicato su Achab. Rivista di Antropologia, n. 11, novembre 2007, pp. 47-58

Eravamo ragazzini quando stavamo al paesino, c’era la guerra civile del 1997. L’unica cosa che ho imparato nella guerra civile è stato ascoltare i Led Zeppelin e la musica rock. Perché noi andavamo al mare. Avevamo questa radio e la portavamo in riva al mare. Sentivamo radio Bari. Tra le nove e le dieci di sera davano un programma di musica rock. “Ora ascoltiamo una canzone, una pietra miliare del rock, Stair Way To Heaven, loro sono i Led Zeppelin”. Poi mettevano i Jethro Tull, i Deep Purple. Guardavamo questo mare, le onde del mare, e intanto ascoltavamo queste canzoni sparate a tutto volume. Io e il mio amico ascoltavamo e dicevamo: guarda il mondo come è bello di là… [Intervista a Elton Sinami, registrata a Firenze il 16 dicembre 2006]

Introduzione Tra il giugno 1995 e il febbraio 1997, mentre svolgevo la ricerca sul campo in Macedonia occidentale greca per il mio dottorato, mi sono recato diverse volte in Albania in visita a Gilles de Rapper, un collega francese che conduceva la sua ricerca nell’area di confine tra Albania e Grecia. Durante uno di questi viaggi, a Voskopoj ebbi modo di chiacchierare con Dhori Fallo, un professore di matematica in pensione che parlava un elegante italiano imparato durante la prigionia in Italia negli anni Quaranta. Tenendo in braccio il nipotino di pochi mesi, Dhori mi raccontò che aveva due figli, uno sposato che lavorava clandestinamente in Grecia (il nipotino era figlio suo), e l’altro in Italia dal 1991, arrivato con una di quelle carrette del mare stipate di uomini che tutti ricordiamo quell’estate. Il discorso che il padre tenne al figlio prima di vederlo partire fu di questo tenore: “Vai in Italia, cercati un lavoro lì e dimenticati di essere albanese. Sposati se puoi con una donna italiana e cresci dei figli italiani. Adesso non è tempo di essere albanesi, non abbiamo una dignità da difendere, ma solo miseria umana e morale da sconfiggere. Tra qualche anno, quando e se l’Albania ritroverà un suo onore, potrai dire ai tuoi figli che sono albanesi, ma non adesso, adesso dimenticati anche tu che provieni da questo Paese”. Ricordo la forte impressione che mi suscitò questo 59

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imperioso comando di un padre a scordare la patria, la terra dei padri. All’epoca, gli albanesi non godevano in Europa di buona fama: noti alle cronache solo per i casi criminali, sembravano in generale aver fatto tesoro del consiglio di Dhori, rendendosi, perlomeno in Italia (il paese con la più alta percentuale di emigrati, assieme alla Grecia) praticamente invisibili, anche per via delle caratteristiche somatiche “mimetiche”. Appena rientrato in Italia, nel febbraio 1997, ebbi modo di verificare rapidamente il modo in cui gli albanesi erano visti e giudicati dato che la crisi finanziaria che stava devastando il Paese balcanico da gennaio iniziò presto ad attrarre l’attenzione dei mezzi di comunicazione italiani, soprattutto quando produsse sollevazioni, incidenti e rapidi tentativi di fuga dal paese. Ne emerse un’immagine complessa ma sostanzialmente negativa degli albanesi, delle loro motivazioni e delle loro strategie culturali, la cui analisi costituisce la parte centrale e più consistente di questo lavoro. Nelle pagine finali, invece, presento un rapido caso di studio in corso per avanzare alcune riflessioni sul ruolo che un altro mezzo di comunicazione di massa ha avuto nella rappresentazione dell’identità albanese, e cioè la televisione d’intrattenimento nei primi anni del nuovo millennio. Lungi dal voler essere una disamina sistematica sul ruolo dei mass media nella formazione delle identità collettive, queste pagine sono piuttosto un primo resoconto di una ricerca tuttora in corso, che cerca di riflettere sul ruolo dinamico dei mass media, strumenti di comunicazione sempre bidirezionali, che molto dicono non solo sulla natura dell’oggetto rappresentato, ma anche sulle forme culturali del soggetto che attua l’operazione di rappresentazione. Pastori e pinocchi Il 1997 è un anno di svolta per l’economia albanese. A partire dalla metà di gennaio le numerose finanziarie sorte come funghi nel biennio precedente, attraendo i risparmi delle famiglie e le rimesse degli emigrati con prospettive di rendita elevatissime, stavano collassando a ritmi incontrollabili. Il sistema piramidale della raccolta del denaro (per cui ogni cliente, per poter iniziare ad avere una rendita dal proprio investimento, doveva trascinare con sé una dozzina di nuovi utenti) era giunto a saturazione e il denaro, drenato nelle mani di pochissimi, si era letteralmente volatilizzato. La crisi colpì la quasi totalità della popolazione residente in Albania e l’inerzia del governo di Sali Berisha nell’affrontare per tempo la situazione provocò da febbraio un periodo di sommosse, sollevazioni popolari e scontri anche violenti, periodo oggi è ricordato come la “guerra civile”, anche se non è mai stato chiaro quali fossero (e se ci fossero) le parti contrapposte. Su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fu attivata in Albania tra il 15 aprile e il 12 agosto 1997 la “missione Alba”, condotta dalla Forza Multinazionale di Protezione per 60

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aiutare la popolazione albanese e sostenere attivamente il ritorno della stabilità politica. Per la prima volta, una missione internazionale era a guida italiana, come italiana era la maggior parte delle truppe coinvolte sul territorio. Si trattò quindi di un’importante occasione per fare vedere, sullo scacchiere della politica internazionale, quale potesse essere il ruolo militare dell’Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’intera vicenda ebbe un’intensa copertura mediatica globale, cui ovviamente partecipò anche l’Italia. Nelle prossime pagine ricostruisco il modo in cui i “corsivi” di quattro quotidiani italiani hanno raccontato la crisi dell’economia albanese tra febbraio e marzo 1997. Ho scelto il corsivo soprattutto per la sua implicita natura di testo “autoriale”, volendo quindi porre un parallelo tra la scrittura giornalistica e la scrittura della saggistica antropologica. I quotidiani selezionati sono stati: La Repubblica, il Corriere della Sera, Il Giornale e Il Gazzettino, con l’intento di fornire un quadro genericamente esaustivo del panorama disponibile all’epoca, pur se costretto a tralasciare altri grandi quotidiani “d’opinione”. Per buona parte di febbraio i giornali italiani non sembrano prestare molta attenzione a quel che accade in Albania, anche se i crolli finanziari si susseguono a catena e non mancano le manifestazioni di protesta. Ci sono pochissimi articoli, solo nelle pagine interne, e quasi nulla che somigli a un corsivo. Posso citare due colonne non firmate su la Repubblica dell’11/2, anche perché, primo tra tutti, questo pezzo mette a fuoco il tema che ossessionerà gli italiani di lì a qualche settimana: “E quando, come ormai pare certo, cadranno anche le company fino a ieri ritenute più solide da un punto di vista economico […] non resterà agli albanesi altro che tornare a imbarcarsi sui traghetti, scafi e gommoni alla volta delle coste pugliesi”. Quando l’interesse cresce, predomina un’immagine degli albanesi come “popolo folclorico”: “…noi andammo all’attacco di quello che, allora, veniva definito ‘il nobile popolo schipetaro’. C’era un re che si chiamava Zogu e che aveva sposato una contessina ungherese di nome Geraldine: un bel soggetto per un musical […] Vittorio Emanuele III diventò sovrano anche di quelle serene popolazioni dedite alla pastorizia e che hanno dato al mondo Madre Teresa di Calcutta e Anna Oxa da Bari”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3. Biagi ribadirà quest’icona tra l’agreste e il comico pochi giorni dopo: “Quando stoltamente andammo ad occupare quel povero Paese […] trovammo un mondo arretrato e primitivo, una reggia da operetta e attorno brava gente che custodiva greggi o buttava reti”, Corriere della Sera, 18/3. Normale, viste le premesse, che quelli truffati siano descritti come “…gente che aveva creduto a un sogno: la moltiplicazione della ricchezza attraverso lo scambio di carta; parossistica rappresentazione di un capitalismo da film di Frank Capra”, Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Nessuno nota che quel concetto di capitalismo è lo stesso che 61

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pochi anni prima aveva nutrito un meccanismo finanziario del tutto simile, e cioè il sistema dei junk-bonds, i “titoli-spazzatura” utilizzati negli anni Ottanta da squali della Borsa come Michael Millken. Si preferisce descriverli in modo lapidario: “Gli albanesi sono dei pinocchi che credono nel Paese dei Balocchi”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3, o li si deride con una curiosa inversione di oggetto che già sposta l’attenzione da “loro” a “noi”: “…quei gonzacchioni che si son fatti accalappiare da degli pseudo finanzieri d’assalto – non poi molto diversamente da come noi stessi negli anni Cinquanta ci lasciammo infinocchiare dai vari Virgillito and company”, il Giornale, Riva, 2/3. In generale, in questa prima fase, che dura fin circa la metà di marzo, i corsivisti parlano ancora con toni compassionevoli, con indubbi risvolti da complesso di superiorità: “…un popolo dall’animo vuoto più ancora delle tasche”, Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Ma è meglio chiarire subito: “Gli albanesi non sono i nostri ‘fratelli separati’. Semmai sono i nostri cugini scalognati”, il Giornale, Riva, 2/3. Cugini di cui è bene fidarsi poco, soprattutto se si pensa che sono “…una popolazione che di violenza si è sempre nutrita”, il Giornale, Caputo, 4/3. Precoce è la preoccupazione che la crisi albanese possa dilagare, anche se non sono chiari i motivi o le forme di questo potenziale contagio, paventato con un non sequitur che risente evidentemente di un radicato stereotipo della “polveriera” che così bene si accompagna al quadro “balcanico” (Todorova 1997): in Albania succedono sommosse, quindi c’è il rischio che si incendino i Paesi vicini. “L’Albania non è un’eccezione, ma solo l’anello più debole di quella catena che collega la Serbia, la Croazia, la Bulgaria, la Romania. Paesi diversi… legati da un comune destino: l’incapacità di gestire la transizione dal comunismo al mercato”, Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. “Ora il passato albanese sembra volersi prendere una rivincita che nelle nuove condizioni minaccia di infiammare il Kosovo, la Macedonia, e di lì tutti i Balcani”, Corriere della Sera Venturini, 4/3. Un esperto paventa il rischio del contagio a tutto l’est ex-comunista: “Dunque: oggi in Albania, domani in Romania, in Bulgaria e, forse, in Russia?” Gazzettino, Ostellino, 4/3 e qualcuno prevede ripercussioni su tutta l’Europa, senza distinzioni: “…una crisi che destabilizza ancor più l’area balcanica e che minaccia ripercussioni gravi per tutta l’Europa” Gazzettino, Tito, 14/3. “Gli Stati Uniti […] sanno che dopo l’Albania può esplodere il Kosovo […] Poi c’è la Macedonia, piena di soldati americani mandati a circoscrivere l’incendio dei Balcani. La Grecia,

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intanto, si allarma per le sorti della propria minoranza nel sud dell’Albania”, Corriere della Sera, Cingolani, 6/3. “Un’altra Somalia, un altro Libano? No, perché l’Albania è qui, è in Europa e per massima disdetta è anche nei Balcani, nella nostra secolare e già tanto insanguinata ‘polveriera’”, Corriere della Sera, Venturini, 15/3. Un altro esperto dell’area sostiene una variante di questa teoria, per cui non si tratterebbe, per l’Albania, del caso particolare di una regola generale, ma del contagio subito dal Paese delle Aquile, della balcanizzazione di uno Stato fino ad allora immune: “Il nuovo regime di Tirana ha infatti realizzato dopo il ´91 una metamorfosi del tutto balcanica del paese […] Si è quindi sostenuta una ‘balcanizzazione’ del paese invece di contrastarla”, la Repubblica, Cavallari, 6/3. Una versione peculiare di questa teoria del “contagio balcanico” è quella proposta da Robi Ronza, che prende le mosse dai rischi di un intervento concertato europeo: “Coinvolgere l’Europa vuol dire coinvolgere la Grecia, che da sempre rivendica come cosa sua proprio quella regione dell’Albania meridionale attorno a Valona che è attualmente in piena rivolta contro il governo di Tirana; una regione dove tra l’altro è insediata una minoranza di lingua greca, la cui cultura è priva di qualunque tutela e riconoscimento ufficiali. Ci sarebbe oggi in effetti da verificare in quale misura la rivolta in corso, così violenta e nel medesimo tempo così delimitata dal punto di vista territoriale, non trovi il suo punto di forza nella minoranza greca, e nell’appoggio che le può provenire dalla madrepatria, la Grecia”, il Giornale, Ronza, 9/3. A parte il fatto che il cosiddetto “Epiro settentrionale” – e cioè i distretti di Saranda, Argirocastro, Tepeleni, Coriza e Përmet, dove vive la minoranza grecofona d’Albania – è ben distante da Valona, città del tutto albanese per cultura e lingua, la Grecia, in realtà, non “rivendica da sempre come sua” alcuna terra d’Albania. Se è vero che diversi politici greci (di destra) hanno sfruttato la questione dei territori dell’Albania meridionale abitati anche da popolazione di lingua greca, è anche vero che nessun governo greco dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha mai avanzato alcuna rivendicazione ufficiale presso alcun organismo internazionale. In questi territori (più a sud e più a est di Valona) vive comunque una minoranza di lingua greca e religione ortodossa, riconosciuta ufficialmente dallo Stato albanese (c’è semmai contrasto tra governo e rappresentanti della minoranza sulla consistenza numerica della medesima), con il diritto di scuole in greco e tre quotidiani in lingua e alfabeto greci. Proprio nell’agosto precedente la crisi albanese si erano aperte tre nuove scuole elementari in greco, a Saranda, Argirocastro e a Delvina, frutto dell’accordo del marzo 1996 tra i due governi, di Tirana e Atene (Human Rights Watch 1997). Restano questioni aperte per la minoranza greca in Albania, ma lo stesso organismo che all’epoca monitorava in Albania il rispetto degli accordi di Helsinki ammetteva che “la minoranza 63

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greca è una parte integrante della società albanese”. Questo tipo di giornalismo – che trasforma senza argomenti la Grecia in uno Stato pericolosamente irredentista e l’Albania in un oppressore dei diritti delle minoranze – risente, oltre che dei suoi oggettivi limiti, della vocazione a “balcanizzare i Balcani”, ad attribuire cioè pregiudizialmente a tutta l’area genericamente “a sud est” istinti primordiali, siano essi di difesa del proprio gruppo o di oppressione di quelli altrui. Ma questa visione balcanizzante dell’Albania si intreccia con un’altra dimensione dell’analisi, che indichiamo come “teoria del congelamento”. Secondo questa chiave – applicata con sistematicità durante il crollo della Jugoslavia – quel che è accaduto in Europa orientale negli anni Novanta sarebbe la ripresa di dinamiche storiche che i regimi socialisti e comunisti non avrebbe fatto altro che congelare. Così, si è interpretato il presente usando manuali di storia ed etnologia scritti prima della guerra, presentando di solito la questione albanese come un token del type balcanico (“Se si sfoglia un celebre libro sui Balcani, il secondo volume delle memorie di Raymond Poincaré, intitolato appunto ‘Le Balkans en feu’, si vedrà quanto fosse intrattabile già allora, nel 1912, la ‘questione albanese’”, la Repubblica, Viola, 13/3); e si sono spiegati gli eventi caotici e cruenti come un ritorno alle origini, intendendo con ciò le condizioni socio-economiche precedenti all’insediamento dei regimi comunisti. In tutti i giornali considerati per questa indagine abbondano gli articoli “storici” che mostrano le “analogie” tra l’Albania che subì l’invasione fascista nel 1939 e quella dell’operazione Alba. “In queste ultime due settimane è tornata in scena, infatti, dopo quasi mezzo secolo di stalinismo pastorale e qualche anno di parvenze democratiche, l’Albania dei libri di storia. Un paese arcaico, privo di un vero cemento statuale, ancora fondato sulle divisioni regionali, il familismo, il clan e le lealtà tribali”, la Repubblica, Viola, 13/3. “Il recupero del passato, del resto, è una chiave fondamentale per interpretare il caso albanese. Il ‘fis’ (clan), il ‘kanun’ (la legge consuetudinaria), la ‘besa’ (parola d’onore), la divisione tra il Nord ‘ghego’ e il Sud ‘tosco’, le tre religioni (musulmana in maggioranza, ortodossa nel meridione, cattolica in alcune zone settentrionali): tutto ciò che era stato soffocato sotto la cappa della dittatura ideologica, torna prepotentemente alla luce. La Storia rinasce, come in gran parte dei Balcani”, Corriere della Sera, Cingolani, 8/4. Questo schema interpretativo della realtà albanese (presentata naturalmente come una “…ennesima versione della ‘poudrière balkanique’…”, la Repubblica, Viola, 13/3) ha la curiosa caratteristica di poter essere contraddetto senza andare in frantumi. Lo stesso Cingolani, che ha appena scritto che la divisione in clan del Paese sarebbe stata soffocata, congelata dal regime, aggiunge subito: “Le divisioni sono rimaste pressoché intatte durante la dittatura di Enver Hoxha che impose un’egemonia dei clan meridionali (era nato ad Argirocastro). Ramiz Alia, suo

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successore, fu appoggiato dal Nord, che vedeva giunto il momento di recuperare il potere perduto”, Corriere della Sera, Cingolani, 8/4. Una delle forme più compiute in cui compare questa teoria è in un articolo di Sandro Viola: “L’Albania si rivela in fin dei conti identica – almeno per un aspetto – ad ogni altro paese su cui sia scesa la sventura del comunismo. L’aspetto cioè del congelamento, dell’eclisse solo apparente e temporanea, durante il periodo comunista, dei suoi mali più antichi. Come in Polonia e in Ungheria sono riemersi negli anni scorsi gli umori antisemiti, come in Jugoslavia sono esplose le avversioni etnico-religiose che avevano sempre diviso i popoli della Federazione, così in Albania sono tornati a galla il disordine, l’irrequietezza dei clan, la pratica del brigantaggio che erano sempre stati i fattori della sua arretratezza. […] Quattro decenni e più di comunismo hanno lasciato sotto il ghiacciaio del sistema totalitario, sotto la repressione dello stato di polizia, le cose come stavano. Nulla ha potuto evolversi, maturare”, la Repubblica, Viola, 16/3. Banditi e invasori Quando, il 13 del mese, le manifestazioni si intensificano, gli scontri diventano più gravi e anche il governo di Tirana ammette che non si tratta più di “pochi facinorosi”, allora sui giornali italiani si alza il tiro. “L’Albania si è dissolta”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. “In un paio di settimane la protesta dei truffati ha cambiato natura, prima è diventata rivolta politica, poi insurrezione, infine catastrofe umanitaria, politica, diplomatica”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. A questo punto il ministro degli Interni “potenziava le frontiere e chiudeva la porta a nuove possibili ondate di profughi”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Del resto, “L’Albania non c’è più”, Corriere della Sera, Biagi, 18/3. “A Tirana è semplicemente crollato lo Stato”, il Giornale, Ricossa, 19/3. E che sia crollato solo lo Stato è troppo poco per alcuni commentatori: “Ma l’insurrezione è sfuggita agli apprendisti stregoni e si sono scatenate forze ancestrali”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Il climax assume toni da film horror: “In Albania tutto ciò che fa di una massa di gente un “paese” ossia l’ordine, la legalità, la convivenza, l’amor di patria, la fiducia nell’avvenire, la tradizione, l’economia, la cultura, la religione, sembra svanita [sic] nell’aria per effetto di una magia potente da Signore del Male”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Il corsivista, che dovrebbe fornire dati essenziali alla comprensione o proporre una griglia interpretativa per dati già noti, sembra rinunciare al suo ruolo, cedendo alle lusinghe della spiegazione “magica”: “L’Albania, a me sembra, è diventato un caso clinico della storia e della politica. Ma stiamo attenti, noi italiani… Potremmo essere noi stessi, in un futuro non lontano, contagiati da una qualche forma di sindrome albanese”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Gli albanesi sono dunque in preda al Male, o a una malattia contagiosa. Questa analisi “irrazionalista” della crisi albanese non è rara e qualche giorno dopo 65

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affiora prepotente in un nuovo commento: “…ma il grande nemico, lo spirito del male, è spesso invincibile perché poggia sull’inganno, sulla frode, sul tradimento vergognoso dell’uomo. E in Albania sembra essere sceso in forze, con una tale violenza da farci dubitare perfino della giustizia e della verità…”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Del resto, del pericolo di venir infettati dagli albanesi si era appena parlato: “Questa, come abbiamo già detto, è piuttosto un’invasione di massa, […] una marea capace di esportare sul nostro territorio il virus del disordine e della rivolta”, la Repubblica, Valentini, 19/3, e ne accennerà ancora il decano dei giornalisti italiani: “…l’Albania con i suoi virus di decomposizione e di guerra di bande”, Corriere della Sera, Montanelli, 30/3. Il paradosso comunicativo è evidente. Nei corsivi sembra saltare qualunque tentativo di spiegare razionalmente una sommossa popolare in gran parte comprensibile data l’entità della crisi finanziaria, e si cede chiaramente proprio a quel richiamo “illogico” e “irrazionale” che affliggerebbe gli albanesi: di fronte al Male non resta altro che il silenzio, o il rituale apotropaico, per allontanarlo (dalle nostre coste, ovviamente). I corsivisti fanno presente fin dall’inizio quale sia il vero rischio di sottovalutare la crisi albanese: “È nostro interesse riportare a Tirana un dialogo corretto tra governo e opposizione […] Se questo non dovesse avvenire aspettiamoci nuove invasioni di profughi. Più di quelle che quotidianamente già abbiamo” Gazzettino, Cerruti, 2/3. Non è chiaro cosa intenda Cerruti per “invasioni quotidiane”, ma l’equivalenza tra sottovalutazione della crisi e invasione di albanesi è ribadita anche sul Corriere della Sera: “L’Italia può e deve stanziare aiuti immediati […] ben sapendo che costerebbe assai più caro un nuovo assalto alle nostre coste come quello dell’estate ’91”, Corriere della Sera, Venturini, 4/3. Un’altra voce autorevole: “Adesso c’è il rischio di una invasione alla rovescia, il terrore che la Guardia di finanza debba lanciare il grido delle vedette della Wehrmacht sul Vallo Atlantico: ‘Sie kommen’, arrivano”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3. La minaccia dell’invasione conferma la necessità di un intervento italiano, visto che se l’Italia non entrasse in gioco: “Quelle che vediamo arrivare sulle nostre coste diventerebbero allora le timide avanguardie di un popolo in fuga che non potremmo né avremmo il diritto morale di respingere”, Corriere della Sera, Venturini, 15/3. L’escalation prospettata è terribile: “A questo punto tutto è possibile, anche l’impensabile: cioè la sparizione di uno Stato, la disgregazione di ogni forma di convivenza. Dal caos può uscire perfino un’orgia di rissa etnica senza confini ma non senza precedenti”, il Giornale, Pasolini Zanelli, 14/3. Cosa si intenda per “precedenti” è presto detto: “L’Albania potrebbe trasformare l’Europa nel ventre molle occidentale, come la trasformò la Bosnia”, Corriere della Sera, Caretto, 66

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17/3. “L’Albania, come la Bosnia, non è un fatto nostro: ma un problema dell’Europa. Può essere l’inizio di una catena di guai per tutti”, Corriere della Sera, Biagi, 18/3. Altro pericolo incombente sono le ripercussioni razziste che si potrebbero avere in Italia: “E speriamo, questo sì, che la loro presenza [in Italia] non inneschi da noi quei furori elettorali che in Austria hanno fatto la fortuna di Haider, che in Francia soffiano ancora nelle vele del Fronte nazionale”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3. Le tinte fosche con cui si raccontano l’Albania e i suoi abitanti si incupiscono ancor più dopo la metà di marzo, quando l’Italia si “rende conto” di dover affrontare quel che più spesso viene definito un “esodo”. “…l’esodo degli albanesi verso le coste italiane ha assunto le proporzioni di una fuga di massa…”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3. “…esodo albanese, che ha un sapore biblico”, il Giornale, Sterpa, 21/3. E ormai si parla di “…Puglia invasa dagli albanesi […] La gente [italiana] si è comportata bene, ha mostrato di capire e compatire malgrado l’impatto tremendo dell’invasione”, il Gazzettino, Pezzato, 19/3. Forse, a distanza di anni, è utile ricordare che fino a quella data la cosiddetta invasione riguardava meno di diecimila persone. Nonostante alcuni appelli alla calma, predomina una visione apocalittica: “Stiamo difendendo la nostra frontiera, le nostre città, le nostre famiglie e i nostri figli”, il Giornale, Giannattasio, 28/3. Sono pochissimi gli esempi, in questi giorni, di corsivi improntati alla moderazione dei toni e degli animi: “È solo che ci saremmo aspettati che tanti anni e tanti fiumi di inchiostro spesi in predicazioni e sermoni a favore della tolleranza […] avrebbero aiutato un popolo di cinquantasette milioni di benestanti a mantenere i nervi saldi e a non scambiare diecimila albanesi per l’invasione dei Visigoti”, la Repubblica, Polito, 27/3. Mentre si rimodella la questione albanese (da fenomeno in fin dei conti ancora esotico, limitato all’oltre sponda, a questione interna italiana) si ridisegna anche l’immagine degli albanesi. Prima di tutto quelli lì, in Albania, che tendono a incupirsi nelle descrizioni dei corsivisti: “La ‘terra delle aquile’ è in mano agli sciacalli. Bande di uomini mascherati scorrazzano per le città e i villaggi”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Qualcuno tenta un’analisi politica e sociologica per spiegare il mutamento di prospettiva da cui osservare gli insorti: “…quella che sembrava una rivolta popolare contro una truffa finanziaria si è rapidamente trasformata in una guerra di bande, gestite da loschi burattinai: ex dirigenti comunisti, mafiosi locali infiltrati dalla criminalità organizzata internazionale e soprattutto italiana, cani sciolti della polizia segreta allenati a pescare nel torbido e a sobillare le masse”, la Repubblica, Garimberti, 14/3. Qualcuno punta invece decisamente sulla fisiognomica: “Gruppi di rivoltosi presidiano i tornanti che si inerpicano sulle montagne brulle. 67

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Volti di pastori, contadini, sottoproletari urbani si mescolano alle facce sanguigne di ex ufficiali alla ricerca di un riscatto, o alle sembianze oscure degli agenti disseminati dalla polizia segreta…”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. La natura attualmente feroce degli albanesi può essere messa in risalto anche dal contrasto con la bontà italiana del 1991: “I pugliesi furono meravigliosi nel protendersi verso questa gente che arrivava macilenta e stanca. Aprirono le loro case, persino i bagni, e non è mica normale. E ci siamo ritrovati, dopo pochi anni, migliaia di prostitute e un sacco di ragazzini ai semafori schiavizzati dai loro zii. Che bella bontà”, il Giornale, Farina, 27/3. Oppure il contrasto si pone tra presente feroce degli albanesi e loro passato pacifico: “Un tempo avevano la religione, la tradizione, il buon senso dei contadini. Oggi non hanno più nemmeno queste cose. E meno che mai la fierezza del proprio passato…”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Se questa è l’immagine sempre più fosca e insieme più vaga, meno dettagliata, degli albanesi d’Albania, quelli che cercano di arrivare qui sono studiati con più precisione. Una delle descrizioni assieme più analitiche e più “fantasmatiche” di coloro che stanno arrivando (a quanto pare albanesi e non, ma Arbasino è di proposito abbastanza ambiguo da far sì che le accuse agli uni possano cadere anche sugli altri) è quella proposta da un nome di grido: “Ospiti balcanici che si presentano in compagnia del kalashnikov, per la consuetudine etnica al saccheggio che (secondo gli storici) precedeva da secoli i traumi per la caduta del comunismo… Ospiti che sistemano valigie di bustine in casa e in macchina, accompagnano gruppi di piccine minorenni sui viali ‘del vizio’, si sistemano frotte di pupi laceri e affamati e picchiati ogni giorno ai semafori… Ospiti che si battono a coltellate con bande di altri ospiti per il controllo del territorio, secondo i costumi africani descritti dagli antropologi e rivisti spesso in televisione per indurci a sensi di colpa…”, la Repubblica, Arbasino, 15/3. Notevole, in questo fosco quadro, il ruolo attribuito all’antropologo… Sempre su la Repubblica, ma qualche giorno dopo, si tenta invece l’operazione inversa, di spiegare perché gli albanesi sarebbero così diversi dagli altri immigrati (e così diversamente trattati): “…gli albanesi sono alquanto refrattari a indossare i panni dei nuovi schiavi dell’Occidente. Quindi, poco utili. Non sono cristianamente remissivi come i filippini, non amano i bambini come le colf somale, non fanno i muratori per quattro lire come i polacchi, non vendono cianfrusaglie come i senegalesi. Più che essere comandati, a loro piace comandare”, la Repubblica, Polito, 27/3. Senza essere categorici come Biagi (“Da loro riceviamo, per l’interscambio, marijuana, e anche braccianti senza diritti, ragazze da avviare al marciapiede, e organizzatissimi criminali. Punto”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3) tutti i commentatori puntano comunque su una questione sentita 68

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come centrale, non appena arrivano le prime navi: come distinguere il grano dal loglio? Coloro che hanno diritto di asilo da quelli che invece dovrebbero essere scacciati? Il quesito rivela il diritto degli italiani a sospettare, sempre, in modo sistematico. “Per intervenire efficacemente dovremmo avere notizie sicure e sapere se chi chiede aiuto e asilo è veramente uno che chiede la carità (oggi si chiama solidarietà) oppure uno che veste di abiti del derelitto e sfrutta, ingannandolo, chi è pronto a venirgli in soccorso”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Come a dire che siamo di fronte a una “…invasione di disperati, ma anche di delinquenti”, il Giornale, Giannattasio, 28/3. Se per alcuni “…tra mamme e bambini si nascondono gruppi di evasi per i quali è previsto il rimpatrio automatico”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3, dando così l’impressione che tra i molti poveracci si nasconda qualche criminale, per altri il rapporto è inverso: “…tra i boat-people dell’Adriatico ci sono più mafiosi che fuggiaschi e accoglierli tutti, aiutandoli perfino ad arrivare in porto quando le loro carrette non ce la facevano ‘è stata una pazzia’”, il Giornale, Caputo, 22/3. L’aspetto che colpisce di più in questo tipo di argomentazioni è ciò che potremmo chiamare “la natura oggettiva e dicotomica del male”. La distinzione tra buoni e cattivi è in questi corsivi sempre netta e senza appello. È arduo distinguere i due gruppi in concreto, ma nessuno mette in dubbio che di due gruppi si stia parlando. “Quanti saranno i ‘poco di buono’ arrivati con gli 11 mila albanesi? Sta di fatto che la fuga caotica di donne, uomini, e bambini verso la Puglia, e di qui verso il resto della Penisola, si è rivelata quello che il filtro della solidarietà non ci aveva consentito di vedere con chiarezza: un esodo in parte cinicamente organizzato dalle mafie a un milione pro capite, viaggio gratis per i bambini perché inteneriscono gli italiani e ammorbidiscono i controlli”, il Gazzettino, Pezzato, 20/3. È evidente la rappresentazione degli albanesi come popolo miticamente dicotomico rispetto alla morale, senza le ovvie sfumature, ambiguità e sovrapposizioni che ci caratterizzano: ognuno di loro può (e quindi deve) essere collocato o tra i buoni o tra i cattivi. Quando la divisione non si limita ad attraversare le generazioni (bimbi buoni, adulti cattivi) passa allora anche tra i sessi: “Capisco le donne e i bambini. Capisco i ragazzini di quindici anni, meglio qui che là a imbracciare Kalashnikov. Capisco i vecchietti, gli storpi e i ciechi. Ma non capisco quell’orda di uomini d’età compresa fra i 20 e i 50 anni, che arrivano in massa e intervistati confessano di non avere uno straccio di documento né di voler fornire le generalità e di non essere arrivati per accompagnare figli neonati o madri ottuagenarie. Invece sono qui per scelta individuale, e l’ottuagenaria l’hanno lasciata in Albània [sic] a difendere la casa […] Sono giovani, forti. E scappano. Disertori non solo nell’esercito e nella polizia: disertori nell’animo e nella vita”, il Giornale, Vigliero Lami, 18/3. Così riporta Livio Caputo una discussione cui ha assistito tra “un sindacalista della Cgil e un suo amico della stessa parrocchia”: “Essi hanno sostenuto la tesi, tutt’altro che peregrina, che il governo doveva ammettere sul territorio italiano soltanto le donne, i 69

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bambini e gli anziani, spesso usati dai mafiosi come ‘schermo’ e rimandare invece immantinente in Albania tutti gli uomini validi che, anche a giudicare dai loro ceffi, non avevano davvero molto bisogno di protezione”, il Giornale, Caputo, 22/3. Sono pochi quelli che tentano una difesa “globale” degli albanesi in arrivo: “Via, presi nell’insieme sono dei poveracci e fanno bene i nostri governanti a non avere il cuore di buttarli a mare”, la Repubblica, Bocca, 19/3. Affiora un tema che diverrà comune tra qualche giorno, dopo una tragedia che segnerà uno spartiacque, il tema degli albanesi come nostri antenati, come doppio grottesco degli italiani: “Li guardi un po’ in faccia, questi immigrati, onorevole Brighella (onorevole Arlecchino, onorevole Pantalone), non le ricordano nessuno? Non le ricordano, per caso, suo nonno, quello che mangiava la carne una volta al mese, quello che stava sulla groppa di un somaro? […] Fanno paura, evidentemente, i ragazzi che assomigliano ai nostri nonni”, Corriere della Sera, Zincone, 28/3. Ma i giudizi cominciano a farsi pesanti e verso il 25 marzo si comincia a parlare di “…battelli stracarichi di falsi profughi (ossia di disperati che in realtà sono soltanto degli emigranti abusivi reclutati e sfruttati da bande di filibustieri locali)”, il Giornale, Guarini, 25/3. A questo punto, il dilemma morale di distinguere tra albanesi buoni e albanesi cattivi sembra inclinare verso soluzioni radicali: “I nostri sentimenti sono confusi: adotteremmo i bambini albanesi, ma i loro padri li sbatteremmo volentieri in galera, o addirittura in fondo al mare, visto che sparano”, il Giornale, Farina, 27/3. Il giorno dopo, infatti, Venerdì Santo, la nave albanese Kater I Rades veniva speronata dalla nave Sibilia della marina italiana, che cercava di bloccarne l’ingresso in acque italiane. A seguito dell’affondamento, morirono in mare almeno 58 albanesi. Lo choc è immediato. Sembra che si sia realizzato qualcosa di terribile, ma che tutti, in Italia, in qualche modo, in qualche anfratto impresentabile della coscienza collettiva, desideravano che accadesse. L’affondamento della Kater I Rades del 28 marzo segna un punto di non ritorno nell’analisi dei corsivisti italiani. Assieme allo sgomento, si affacciano i primi seri dubbi su come è stata raccontata, fino a quel punto, la “crisi albanese”: “In effetti, nessuno di noi potrebbe spiegare con un minimo di precisione che cosa stia accadendo in Albania. Tutto quel che ci è chiaro, dopo cinquanta giorni di convulsioni, è che l’Albania è un paese sconosciuto. Indecifrabile”, la Repubblica, Viola, 30/3. Il cosiddetto problema degli albanesi viene riportato alle sue reali dimensioni con più fermezza: “Ma noi entriamo in crisi psicologica perché dodicimila albanesi sono sbarcati (e già quasi duemila sono stati riportati al paese di origine con metodi abbastanza spicci). Noi insceniamo ogni giorno 70

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uno psicodramma con sindaci muniti di tanto di fascia tricolore che scavano fossati, rifiutano accoglienza…”, la Repubblica, Scalfari, 30/3. Ancora: “Mi ribello all’idea che si nasconda razzismo, intolleranza, meschinità, dietro il paravento della drammatizzazione del problema dei quindicimila albanesi arrivati in un paese di quasi sessanta milioni di abitanti in cui già si sono fra un milione e due milioni di extracomunitari. In realtà si tratta di un problema relativamente modesto trasformato in un caso nazionale”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4. Nell’insieme si assiste a un ridimensionamento del linguaggio e del tono: l’Albania è un Paese in crisi, ma non più quella bolgia infernale, quel non-luogo maledetto dagli dei raccontato solo una settimana prima: “In Albania non esiste una guerra civile, quelli che hanno raso al suolo università, uffici, caserme, persino i canali di irrigazione erano mossi da una decennale carica di rancore per un regime ormai morto e non degnamente sostituito […] La stragrande maggioranza degli albanesi vuole solo ritornare a una vita decente, ha come si è visto dalle trasmissioni televisive, un rispettabile nucleo di società civile, una tradizione culturale”, la Repubblica, Bocca, 12/4. Ma col passare dei giorni l’Albania tende a sfumarsi in dissolvenza, per lasciare spazio sempre di più all’Italia e alle conseguenze in Italia di un possibile intervento armato in Albania. Questo sia sul versante interno: “Al quinto giorno [dopo l’affondamento] tutto o quasi è finito in politica interna…”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4; sia per l’immagine e il prestigio italiani: “Il successo dell’Operazione Alba vale dieci ‘manovrine’ per Maastricht. Un fiasco confermerebbe i nostri partner nel già radicato pregiudizio anti-italiano e ci lascerebbe ai margini dell’Europa per il futuro prevedibile”, la Repubblica, Caracciolo, 8/4. Per essere chiari: “…l’Italia si gioca più di quanto creda. Anzi, si gioca tutto. Perché l’incrocio con la tragedia albanese strappa l’Italietta dell’Ulivo all’eterno teatrino e la pone davanti a un’alternativa grave. Se la missione Alba avrà successo, il nostro Paese e il governo ne riceveranno enorme prestigio […] E a quel punto, parametri o non parametri, toccherà a Germania e Francia preoccuparsi di imbarcare l’Italia nel pullman di Maastricht, anche a prezzo di uno sconto sulla tariffa. Al contrario, se Alba si tradurrà in un disastro […] allora non ci saranno parametri o finanziarie o manovrine o larghe intese che possano tenere…”, la Repubblica, Maltese, 16/4. Paradossalmente, l’Italia di quei giorni sembrò decidere di andare in Albania come via più diretta per “entrare in Europa”. L’impegno militare degli italiani veniva assunto, prima di tutto, di fronte alla comunità internazionale e ai partner dell’Unione Europea, per vedere che l’Italia non era più l’Italietta pavida e bizantina uscita dalle macerie della seconda guerra mondiale. Assistiamo quindi a una precisa inversione delle identità: non è l’Albania che deve dimostrare di essere uno Stato e una Nazione. Questo carico simbolico ora grava sull’Italia.

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Non mancano quindi le impennate di orgoglio nazionale fin da quando un editoriale del Times critica la proposta di un intervento diretto italiano sul suolo albanese: “…l’editoriale del Times contro l’imminente intervento italiano in Albania […] rispecchiava benissimo il senso di superiorità e gli stereotipi che da sempre nutrono l’atteggiamento dei sudditi di sua Maestà verso gli italiani…”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. Lo stesso Panebianco sottolinea poi a sua volta le conseguenze politiche che la futura “operazione Alba” potrà avere non tanto sull’Albania (tema questo del tutto secondario) quanto sull’immagine dell’Italia all’estero: “abbiamo forse ora la possibilità, se sapremo comportarci correttamente sia sotto il profilo tecnico che sotto quello politico, di assestare un colpo ai tanti pregiudizi negativi – spesso non privi di fondamento – sugli italiani, da sempre sedimentati nelle opinioni pubbliche e nelle classi dirigenti europee (non solo del Regno Unito)”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. L’Albania diviene dunque il luogo del riscatto dell’identità italiana, il pretesto per mostrare ai partner europei la qualità della nazione. La questione italo-albanese va misurata non tanto per le possibilità che oggettivamente l’Italia ha di migliorare la situazione politica ed economica del Paese oltre Adriatico, ma solo ed esclusivamente per quanto l’Albania possa, nel bene e nel male, influire sull’immagine dell’Italia all’estero. Il carnevale delle identità Il nuovo tono nel parlare dell’Albania e l’attenzione sempre maggiore prestata al ruolo che questo Paese può giocare per l’Italia possono essere visti come gli ultimi sintomi di un’inversione, di un “carnevale” provocato dagli albanesi con la loro presenza e che aveva iniziato a manifestarsi già prima dell’affondamento: “…durante la trasmissione di attualità Italia Radio (emittente notoriamente vicina al Pds), è intervenuta una signora romana: ‘Ho famiglia, siamo otto persone, tutte di sinistra. Ieri sera ci siamo riuniti per vedere Moby Dick sull’Albania. Ebbene, alla fine abbiamo convenuto tutti che aveva ragione Gasparri, il deputato di An cui durante la campagna elettorale mi ero perfino rifiutata di stringere la mano. E su certi punti aveva ragione perfino Tablandini della Lega. I miei, un disastro”, il Giornale, Caputo, 22/3. Caputo non è l’unico ad ascoltare Italia Radio, quei giorni: “Provate a sentire Italia Radio, l’emittente del Pds. Ogni mattina, al suo filo diretto, si scarica la rabbia di abituali buonisti che minacciano sfracelli se non si ferma l’invasione”, la Repubblica, 27/3. Un sintomo chiaro è la confusione tra destra e sinistra: “Qui [anche a sinistra] si registra una ostilità dura e compatta contro gli albanesi. Una pioggia di telefonate esprime sentimenti che sembrano costole della Lega”, Corriere della Sera, Zincone, 28/3. “‘Buttiamoli a mare, buttiamoli a mare’. Nei giorni scorsi l’invocazione sibilava tra le labbra di tanti, troppi italiani. La si sentiva nei bar del Nord, ma anche nei caffè del Centro o del Sud. I sindaci leghisti vogliono alzare le barriere 72

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per difendere la purezza delle loro città. Ma anche quelli di sinistra chiedono al governo di risparmiarli, per carità, dall’invasione, supplicano di lasciare i barbari alle porte”, Corriere della Sera, Cingolani, 29/3. “Perché la parte più progressista della nostra opinione pubblica sta riservando agli albanesi un trattamento che mai si sarebbe permesso nei confronti di somali e marocchini, senegalesi e filippini?”, la Repubblica, Polito, 27/3. Tra le possibili risposte a questa domanda una val la pena di essere citata perché ben si accorda con quanto stiamo dicendo sul “carnevale” albanese: “La prima ragione che ci viene in mente è che gli albanesi hanno la colpa di essere bianchi, somaticamente non distinguibili da un italiano qualsiasi […] Poco, diversi, troppo simili”, la Repubblica, Polito, 27/3. Ci si rende subito conto, dopo l’affondamento della nave, del ruolo attivo che hanno gli albanesi per la costruzione di noi stessi come italiani: “La vicenda degli albanesi ci ha messo a nudo […] davanti a noi stessi, come di fronte ad uno specchio che riflette un’immagine reale e non deformata. Nessuna illusione ottica, siamo proprio così”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Chi non ama questa immagine, preferisce invece attribuire agli albanesi un ruolo magico, di tricksters in grado veramente di ribaltare l’Italia: “Con il pianto, e con i soldi di Berlusconi a 34 superstiti, l’inversione dei ruoli è proprio completata: la destra si fa sinistra e viceversa”, Corriere della Sera, Merlo, 1/4. Lo stesso identico concetto, lo stesso giorno, ma su un altro giornale: “…la sinistra ha lasciato a Berlusconi uno spazio suo proprio, quando il Cavaliere ha ripetuto che un Paese di 50 milioni di abitanti non può lasciarsi dominare dal panico politico per l’arrivo di 10 mila profughi. C’è stata cioè una singolare inversione dei linguaggi, se non delle parti”, la Repubblica, Mauro, 1/4. Ma tutti – che si parli di svelamento o di ribaltamento dell’identità – sono concordi sul senso totale di straniamento: “Strani [gli italiani], perché non si era mai visto un governo di centrosinistra, e per di più sorretto dagli ultimi comunisti, beccarsi del fascista persino dai giovani norvegesi. Strani perché con la stessa bocca predichiamo la solidarietà e poi gridiamo ‘buttiamoli a mare’. Strani perché a guardare la tv, pubblica e privata, sembra che il leader dei progressisti sia un reazionario e quello dei moderati un rivoluzionario”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Ancora una volta torna la metafora del contagio: “Sembra quasi che per contagio la disgregazione albanese abbia colpito la nostra classe politica…”, il Gazzettino, Sensini, 2/4. Fatto sta che “…dove finisca la maggioranza e finisca l’opposizione è difficile dire”, la Repubblica, Bocca, 3/4, e quando si parla di “…un Paese governato dall’incertezza, e con una maggioranza inesistente…”, il Giornale, Cervi, 4/4, non è più all’Albania che si fa riferimento, come due mesi prima (“Tutti sono contro tutti. Non c’è più maggioranza, non c’è mai stata opposizione”, la Repubblica, 11/2) ma all’Italia. La metamorfosi, per effetto del contatto con gli albanesi, sembra estendersi dal mondo politico per coinvolgere tutti: “…il nostro strano Paese assiste a troppi rigurgiti di intolleranza. Convinto di 73

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essere cattolico e solidaristico come pochi, all’improvviso si sveglia con la voglia di gettare in mare un popolo in fuga. E, cosa incredibile, per poco non ci riesce”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. “Italia: fino a ieri il paese dell’amore e del sole, tutto spaghetti, chitarre e mandolini. Oggi, razzista, cinico e egoista”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4. “…il ceto politico e la stampa rispecchiano gli elettori e i lettori che in questa fase della nostra storia non sembrano più gli ‘italiani brava gente’ ma una collettività ansiosa, che non crede in se stessa, che pensa di sopravvivere innalzando alle frontiere ‘cortine di acciaio’”, la Repubblica, Bocca, 3/4. “Prima c’era un paese che, tutto sommato compatto, pensava e diceva di trovarsi di fronte a un’immigrazione clandestina e di massa dall’Albania. Quindi: accoglienza, controllo e rimpatrio. Opinione pubblica, istituzioni, governo, maggioranza e opposizione stavano tutti più o meno scomodi dentro questo triangolo. Dopo i morti, gli immigrati sono ridiventati profughi e ciascuno ha mutato la sua parte in commedia […] c’è stata quella notte, ha sconvolto gli animi e distorto i comportamenti”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4. Un modo interessante di guardare al problema è quello proposto da Ernesto Galli della Loggia, in un fondo apparso sul Corriere della Sera subito dopo l’affondamento della Kater I Rades: “Ma come è possibile che una nazione di sessanta milioni di abitanti, che una grande e ricca nazione europea come l’Italia si faccia spaventare da qualche migliaio di profughi albanesi a tal punto che sembra quasi non vi sia più una città, un paese, un comune disposti ad accoglierne neppure qualche decina? […] È possibilissimo, invece: sono il benessere e il timore di perderlo, è la diffusione ormai senza limiti di valori e di stili di vita ispirati al materialismo e al consumismo […] La realtà è che se una nazione di sessanta milioni di abitanti, se una ricca e grande nazione come l’Italia si fa spaventare da una manciata di profughi albanesi è precisamente perché essa non si sente affatto una nazione. […] Gli italiani, dal canto loro, non si percepiscono come gli abitanti di questo vasto insieme nazionale quanto piuttosto gli abitanti di una somma di comunità sparse, legate da un debole e malcerto vincolo. Gli albanesi spaventano e inducono al rifiuto precisamente perché sono visti non già come dei profughi che arrivano in Italia, in una grande nazione, bensì come degli intrusi non invitati in questa o quella delle tante comunità di cui sopra”, Corriere della Sera, Galli della Loggia, 1/4. La tesi trova consensi: “Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera ha analizzato bene gli umori degli italiani nella crisi albanese. Noi, dice l’autore, non siamo né razzisti, né egoisti, né insensibili, siamo soltanto orbi della nazione e orfani dello Stato […] Tutto questo è molto triste. Senza nazione e senza Stato non si va lontano, si può essere sconfitti anche in una battaglia non combattuta contro i pezzenti, nel canale d’Otranto”, il Giornale, Scarpino, 3/4. È impressionante leggere, ora, degli italiani come di un popolo “senza nazione e senza Stato”, quando per un mese erano stati gli albanesi ad essere descritti così. Marcello Veneziani riprende l’argomento di Galli della Loggia esasperando il gioco degli specchi incrociati: “Gli italiani temono 74

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ondate di immigrati albanesi non perché siano razzisti o sciovinisti, ma per due opposte ragioni. Perché vedono gli albanesi come degli italiani affamati, li temono perché sono la nostra versione primitiva. E temono di mettere a repentaglio il benessere, la sicurezza, la modernità: li spaventa l’arretratezza, la puzza del nostro passato. E poi li respingono non per orgoglio nazionalista ma al contrario, perché temono la fragilità del nostro sgangherato sistema Paese, con tante piccole Albanie e disoccupazione. Non si fidano dell’Italia e si sentono una comunità nazionale spappolata”, il Giornale, Veneziani, 5/4. Albanesi e ballerini Ma questo ripensamento di sé attraverso l’incontro/scontro con l’altro è esattamente quel che gli albanesi, nel 1997, stavano sistematicamente vivendo da oltre un decennio, da quando cioè il cronico isolamento imposto dal regime – ricordo solo che il confine di stato era preceduto da un confine interno che creava una fascia-cuscinetto spessa alcuni chilometri, cui potevano accedere solo gli autorizzati – si allentò nella seconda metà degli anni Ottanta per crollare del tutto nel 1990. L’apertura del confronto con l’altro (è noto in questo senso il ruolo giocato dalla televisione italiana, soprattutto commerciale) ha prodotto per anni una bassa autostima sociale. Il più famoso intellettuale albanese, Ismail Kadarè, ha parlato all’epoca di una “…psicosi pessimista che imperversa da alcuni anni in Albania. Questa volontà di autodenigrazione, autoavvilimento e di autodistruzione che porta a ripetere giorno e notte che questo paese è maledetto, non ha un futuro e merita di sparire è diventata una moda in alcuni ambienti”, la Repubblica, Kadarè, 13/3. Non vi è dubbio che la dittatura comunista di Hoxha si sia retta, oltre che su uno spietato stato di polizia, anche sull’orgoglio nazionale, profuso in quantità massicce dal potere attraverso tutti i canali della propaganda. Gli albanesi nati nel secondo dopoguerra sono cresciuti nella ferma convinzione (suffragata da continui indizi di tipo linguistico, affermazioni, discorsi, e mai smentita da una verifica su modelli diversi, invisibili) di appartenere a una Nazione antichissima, fiera quante altre mai e di gente industriosa e capace. La fine della dittatura ha riportato gli albanesi di fronte alla necessità di far i conti con il giudizio degli altri, delle altre nazioni di fronte alla propria. Gli antropologi sanno benissimo quanto questo giudizio da parte dell’Altro sia un elemento fondamentale per la costruzione di sé come comunità etnica e/o nazionale (Jenkins 1997). Per ragioni esclusivamente storiche e contingenti la nazione albanese si era costruita in quasi totale assenza del giudizio altrui. Apparenti eccezioni hanno costituito il contatto con l’Unione Sovietica prima e con la Cina poi, fino al 1978, ma in entrambi i casi la possibilità di giudicare ed essere giudicati veniva di molto limitata dall’ideologia inter75

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nazionalista che faceva dei sovietici e dei cinesi non un Altro da valutare e da cui essere valutati, ma piuttosto un Simile. Tanto simile da dover essere tenuto a distanza, in ogni contesto per cui il contatto non fosse strettamente necessario. Detto altrimenti, gli albanesi avevano un’idea di sé che si basava solo su un giudizio interno, giudizio assai benevolo e indulgente. Il contatto prima mediatico e poi diretto con l’Occidente ha letteralmente spazzato via questo giudizio. Il fiero popolo albanese, cui era stato detto che stava costruendo il Paese più evoluto del mondo, si è reso conto che gli equivalenti degli scassati trattori cinesi con cui coltivava la terra non erano più usati in occidente da diversi decenni; che le poche fabbriche nazionali producevano pezzi di qualità peggiore di qualsiasi concorrente dell’ovest; che insomma la superiorità naturale del popolo albanese veniva messa in discussione dalla realtà quotidiana che filtrava dalle televisioni e, dopo il 1990 sempre più frequentemente, dai racconti di chi tornava da viaggi all’estero. C’è un indizio linguistico evidentissimo di questo tentativo di ricostruire un’immagine di sé come popolo che tenga conto del giudizio altrui. Come è noto “Albania” è un termine prima romano poi bizantino per designare una regione chiamata invece dagli abitanti “Shqipëria”. Allo stesso modo, quelli che tutto il mondo chiama “albanesi” (con le diverse varianti, Albanians, Alvanoi, ecc.) chiamano se stessi “Shqiptarë”. Con due amici italiani ero alla fine del 1996 in un villaggio nel sud-est del Paese. In macchina con noi c’era un ragazzo albanese, Madin. Lo conoscevo da tempo, e normalmente comunicavo con lui tramite il mio collega Gilles, che però era tornato in Francia. Madin fortunatamente parlava un po’ di greco, per cui riuscivamo a comunicarci l’essenziale. I due amici italiani vogliono visitare la moschea, costruita da poco. Con la macchina ci avviamo lungo una strada fangosa che presto si restringe a sentiero. Forse un chilometro prima della moschea la strada è bloccata da una macchina in sosta nella direzione opposta alla nostra, con l’autista al volante. Potrebbe accostare alla sua sinistra, c’è uno spiazzo libero di fronte a una casa, ma si vede che ha difficoltà a far manovra con scioltezza, e rischia quasi di venirci addosso. Madin guarda con aria di sberleffo mista a disprezzo il maldestro autista, e lo apostrofa con un “Albanes!” che, dal tono con cui viene pronunciato, significa con tutta evidenza: “Imbranato!”. Chiedo comunque a Madin di ripetere quel che ha detto, forse ho capito male, e lui mi spiega in greco che quello “Odigài san alvanòs”, letteralmente: “Guida come un albanese”. Mi spiegherà poi che il termine è ormai d’uso comune, per indicare i fessi, gli incapaci, gli ignoranti. La parola che in tutto il mondo indica gli albanesi è diventata in Albania un termine spregiativo usato come un insulto. Per la Shqipëria, fare i conti con l’Albania, con le immagini delle navi cariche verso la Puglia, degli uomini rinchiusi negli stadi, ha significato dover affrontare un

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giudizio radicalmente diverso e negativo e gli shqiptarë, tanto orgogliosi d’esserlo, fieri della loro storia e della loro cultura, capiscono che noi non li consideriamo altro che albanesi. Ma quest’immagine sbiadita e irrimediabilmente negativa dell’identità albanese si è lentamente e parzialmente modificata, almeno in Italia. Il mutamento, che riguarda assieme la categorizzazione esterna (cioè il modo in cui gli italiani vedono gli albanesi) e l’identificazione interna (cioè il modo in cui gli albanesi vedono se stessi) ha iniziato a prendere forma all’inizio del terzo millennio, grazie a una serie di eventi in parte casuali. Tra gli albanesi giunti in Italia con la prima ondata del 1991 vi era anche un ragazzo diciassettenne di nome Kledi Kadiu. Di “buona famiglia” (madre farmacista e padre docente universitario), Kledi è appassionato di danza fin da bambino, e i genitori l’hanno iscritto a dieci anni all’Accademia Nazionale di Tirana, poco distante dalla casa dove è cresciuto. È il 1984, Enver Hoxha sarebbe morto l’anno successivo, e in Albania diventa sempre più facile guardare i programmi della televisione italiana, prima per semplice debordamento hertziano, e poi tramite le parabole in grado di ricevere il segnale satellitare. Kledi balla e guarda la televisione italiana, e le due attività diventano parte di un solo progetto, che così oggi viene raccontato nelle note biografiche del suo sito ufficiale (): Rimanevo affascinato dai grandi artisti Italiani di quel periodo come Heather Parisi, Lorella Cuccarini, Raffaella Carrà, Raffaele Paganini. Ricordo che mi divertivo a sognare di ballare al loro fianco, in un grande show.

Come sappiamo, si tratta di un sognare che diventa progetto, un caso esemplare di quel che Appadurai (1996) chiama “immaginazione come pratica sociale”. Il 12 agosto 1991, “mentre era in vacanza a Durazzo”, si imbarca su una delle navi che facevano la spola tra l’Albania e la Puglia cariche di disperati e speranzosi, ma viene mandato allo stadio di Bari, per essere espulso dall’Italia quasi immediatamente. Rientrerà più di un anno dopo, chiamato da una compagnia di danza di Mantova che aveva avuto il suo nome dall’Accademia Nazionale di Tirana. Passa rapidamente alla televisione, diventando nel 1997 primo ballerino del programma pomeridiano Buona domenica, dove rimarrà fino al 2003. Conosce così Maria de Filippi, che dal 2002 lo vuole con sé sia a C’è posta per te, sia ad Amici. Mentre il pubblico di Buona Domenica e C’è posta per te è in buona parte adulto, l’audience di Amici di Maria de Filippi è tendenzialmente giovane e femminile, e ne decreta il definitivo successo come sex symbol. Nel 2004 Kledi fonda a Roma la “Kledi Academy”, una scuola di danza e musica che sta riscuotendo un buon successo e che organizza corsi annuali e stage estivi. Nel frattempo, è diventato anche un attore di successo sia per il cinema (Passo a due, 77

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La cura del gorilla, entrambi del 2005) sia per il piccolo schermo (Domani è un altro giorno, 2006). In sintesi, la figura di Kledi Kadiu è quella di un albanese “vincente”, il primo a raggiungere in Italia notorietà per le sue qualità artistiche. Anche senza enfatizzarne il ruolo individuale, certamente Kledi è stato il prodromo di una nuova generazione di albanesi, disposti a proporre agli inizi del terzo millennio una forma alternativa di identità rispetto al modello “poveraccio o criminale” che si era imposto negli anni Novanta e che abbiamo visto essere particolarmente attivo durante la crisi del 1997. Proprio la loro tendenza a privilegiare la televisione italiana come veicolo di informazione, sia dall’Albania attraverso le antenne paraboliche, sia una volta giunti in Italia (Mai 2005, p. 558), ha consentito agli albanesi di fruire di una nuova immagine da articolare in modelli alternativi di appartenenza. Uno dei veicoli principali di questo nuovo modello identitario è stato Amici di Maria de Filippi. Il programma (si è conclusa nella primavera 2007 la sesta edizione e si prepara per l’autunno la settima) è concepito come un game show in cui un gruppo di giovani partecipa a tempo pieno a una scuola per artisti (cantanti, ballerini e attori) che prevede una serie di sfide settimanali tra i partecipanti. Le sfide ripetute portano all’eliminazione progressiva degli studenti/concorrenti in base al giudizio di una commissione e ai voti telefonici del pubblico a casa, fino alla proclamazione del vincitore assoluto. Già alla seconda edizione, tra gli studenti vi era una ragazza albanese, Anbeta Toromani, che proveniva dalla stessa scuola di Kledi e che sarebbe giunta seconda alla finale. Oggi Anbeta è una ballerina professionista e fa parte del cast stabile del programma. La stagione successiva (2003-2004) gli studenti albanesi della scuola di Maria de Filippi erano due: Olti Shagiri (fratello minore di Ilir Shagiri, un altro ballerino da qualche anno nel corpo di ballo di Maria de Filippi) e Leon Cino, ballerino molto dotato che infatti vinse quell’edizione, entrando anche lui nel corpo di ballo stabile del programma. La quarta, conclusasi a maggio del 2005, ha visto la partecipazione di altri due ragazzi albanesi: Tili Lukas e Klajdi Selimi. Quest’ultimo è stato sicuramente il personaggio chiave dell’anno, anche se non ha vinto la gara: con la sua vena polemica, la costante rivalità con Marco, un altro allievo della scuola che non esitava a fare appelli agli “italiani” perché votassero lui invece di un “albanese”, e con il rispetto profondo mostrato verso il pubblico che numerosissimo lo votava da casa, Klajdi ha catalizzato l’attenzione di un pubblico sempre numeroso (i dati di ascolto del programma nella sua fase serale si aggirano stabilmente attorno ai sei milioni di telespettatori; per le fasi finali i voti da casa hanno sfiorato il milione a puntata, anche se la telefonata costava un euro). Anche le successive edizioni hanno visto la presenza di concorrenti albanesi, ma il programma ha cercato di internazionalizzarsi ammettendo nella stagione 2006/2007 anche due concorrenti romeni (entrambi ginnasti) e un ballerino spagnolo. 78

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I protagonisti di Amici di Maria de Filippi sono riusciti a modificare in modo sostanziale il giudizio di molti loro coetanei italiani sull’identità albanese. Se dieci anni fa albanese era sinonimo di immigrato clandestino, criminale, persona pericolosa o comunque povera (in Grecia girava allora una terribile freddura: sai qual è la barzelletta più corta del mondo? Turista albanese!) oggi tra molti giovani italiani “albanese” significa anche spirito di sacrificio, caparbietà, orgoglio e determinazione. Per molte ragazze, poi, è innegabile che l’uomo albanese abbia assunto connotazioni sexy del tutto impensabili fino alla comparsa di Kledi e dei suoi connazionali sul piccolo schermo. Questa immagine prodotta

dalla televisione italiana ha iniziato a riverberarsi

sull’autorappresentazione degli albanesi, in Italia e in Albania (dove i programmi delle reti Mediaset sono particolarmente seguiti). Gli “eroi” delle sfide di Maria de Filippi sono intervistati sui settimanali popolari albanesi e proposti come modelli per la gioventù nazionale. Klajdi Selimi che, con la bandana in testa e perennemente a torso nudo (come spesso Kledi), dichiara di sentirsi “un gladiatore più che un ballerino” incarna un modello appetibile per gli italiani e per gli albanesi. La messa in scena del corpo come strumento di performance di eccellenza ricorda altri casi famosi: i giocatori di cricket indiani nelle squadre inglesi (Appadurai 1996) o i campioni afroamericani negli Stati Uniti (Page 1997). Corpi senz’altro naturalizzati, addomesticati dallo sguardo egemone in funzione di un godimento estetico rassicurante. Ma corpi capaci anche di riscattare un’identità smarrita se non esplicitamente sottomessa, in grado di riappropriarsi di una dignità personale che può diventare condivisa dall’intera comunità di riferimento. Questo processo di manipolazione fisica e simbolica del corpo passa sia attraverso la storia “occidentale” della disciplina che si apprende, sia attraverso la genealogia delle proprie “origini”: come la “magia” indiana diventa capacità funambolica sul campo da cricket, e come la “naturalità” africana diventa potenza esplosiva sulle piste di tartan, così l’orgoglio “balcanico” degli albanesi diventa capacità di disciplinarsi, di rimanere fedeli all’obiettivo senza cedere alle lusinghe del facile successo. Così descrive una giornalista italiana le ragioni del successo di Kledi: Kledi non riflette il cliché del divo osannato e capriccioso, ma trasmette l’idea del lavoratore scrupoloso, preparato e devoto al pubblico che lo apprezza, rispettoso di una gloria raggiunta con fatica attraverso interminabili ore di preparazione (Seralisa Carbone, sul sito Leonardo.it).

Questa rappresentazione dell’artista albanese si è rapidamente imposta come role model: Anbeta Toromani, Leon Cino e gli altri artisti albanesi sono noti per la loro laconicità – non sempre dovuta a una scarsa conoscenza della lingua italiana, ma alla esplicita contrapposizione tra dire e 79

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fare – oltre che per la loro tenacia e forza di volontà. Sono facilmente etichettati come persone “serie”, che vanno al sodo e non si perdono in smancerie o inutili salamelecchi. Questa versione alternativa dell’essere albanese oggi sta chiaramente contaminando l’autorappresentazione degli albanesi in Italia, che seguono numerosi il programma Amici di Maria de Filippi con veri gruppi di ascolto che partecipano attivamente al voto da casa. Anche se non posso fornire indicazioni quantitative precise, dato che la mia ricerca è ancora in corso, mi sembra plausibile ipotizzare un “ritorno” dell’identità albanese tra gli immigrati in Italia, soprattutto tra i più giovani, che sembrano quindi aver trovato una risposta alla richiesta del vecchio Dhori di dimenticarsi di essere albanesi. Oggi, sembrano dire i giovani albanesi in Italia, è finalmente possibile “ricordare” la propria identità. Come è evidente, è un ricordare spurio, che unisce in una miscela del tutto originale la tradizione balcanica del ballo come espressione sociale, la scuola albanese di balletto classico, l’espressione di una virilità estremamente fisica e poco “ciarliera”, lo spirito competitivo e l’orgoglio di un popolo “tribale” con le esigenze del mercato televisivo, il sex appeal del body fitness, la telegenia e la capacità di assecondare le fameliche richieste delle audience più giovani, notoriamente refrattarie al richiamo del piccolo schermo. Non vi è, in tutto questo, nulla di chiaramente orientato al passato (un’opzione impraticabile di fatto per gran parte degli albanesi) ma piuttosto la voglia di progettare un sentire comune con i frammenti della modernità e della tradizione, senza temere il mutamento ma accettandolo come parte inevitabile di un qualunque sano processo di identificazione collettiva che non voglia sclerotizzarsi nella nostalgia dei bei tempi andati, che per molti giovani albanesi semplicemente non esistono come ricordo politicamente spendibile sul mercato delle appartenenze. Conclusioni L’intento di queste pagine è stato quello di spingere a riflettere su alcune forme recenti delle appartenenze e delle identità. La “crisi albanese” del 1997 ha costretto alcuni noti opinionisti a ripensare pubblicamente il senso e il ruolo dell’identità italiana, e le esigenze commerciali di un programma televisivo italiano hanno contribuito al riposizionamento dell’identità albanese, per gli attori e per gli astanti. Ancora una volta, seppure con ingredienti insoliti, confermiamo quindi il sapere degli antropologi, che ci dice la natura necessariamente relazionale dell’identità. Per quanto riguarda invece lo specifico rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e identità collettive, mi sento di azzardare il giudizio complessivo (ormai acquisito nel dibattito teorico) che non vi è alcun rapporto causale diretto tra rappresentazione nei media e percezione della propria identità. Non basta, cioè, vedersi descritti come sciocchi o criminali o ballerini dai grandi mezzi di comunicazione di massa per percepirsi come tali, dato che il discorso dei media 80

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entra nelle ordinarie spirali comunicative come una delle voci in gioco. In questo senso, possiamo dire che i mass media paventati da certi approcci teorici “non esistono”, se per mass media intendiamo un sistema di comunicazione autonomo e tendenzialmente “persuasore”, i cui effetti sociali possano essere resecati da quelli della più vasta struttura entro cui si inscrivono (Tomlinson 1991). Al contrario, un’analisi di taglio antropologico sui mezzi di comunicazione di massa ci rende sempre più consapevoli della natura “mediata” della vita sociale in generale (Mazzarella 2004). Esistono cioè nuclei più o meno densi di comunicazione e aggregazione di significati che non possono esistere se non in forma mediata, cioè comunicata: gli stili culturali da cui si proviene, le aspettative sociali, gli incentivi individuali, gli habitus come archivi consolidati e generatori sperimentali di pratiche, e i capitali culturali ed economici di cui si dispone. Dentro questo quadro, agiscono i mezzi di comunicazione di massa. L’antropologia ha fatto male, finora, a sottovalutare spesso il loro ruolo in nome di un purismo dell’“autentica cultura” che non aveva ragione di essere. Farebbe altrettanto male, credo, se iniziasse ora a sopravvalutarlo, in nome di un determinismo che è altrettanto ingiustificato, teoreticamente ed empiricamente. Titolo citati Appadurai, Arjun, 1996, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, MinneapolisLondon, University of Minnessota Press; traduzione italiana Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001. Human Rights Watch, 1997, “Albania”, in Human Rights Watch. World Report, 1997. Testo reperibile online all’indirizzo . Jenkins, Richard 1997, Rethinking Ethnicity. Arguments and Explorations, London, Sage. Mai, Nicola, “The Albanian Diaspora-in-the-Making: Media, Migration and Social Exclusion”, Journal of Ethnic and Migration Studies, 31, 3, 2005, pp. 543-561. Mazzarella, William, 2004, “Culture, Globalization, Mediation”, Annual Review of Anthropology, 33, pp. 345-367. Page, Helán E., 1997, “‘Black Male’ Imagery and Media Containment of African American Men”, American Anthropologist, New Series, 99 (1), pp. 99-111. Todorova, Maria N., 1997, Imagining the Balkans, Oxford, Oxford University Press, 257 p. Tomlinson, John, 1991, “Media Imperialism”, in Cultural Imperialism: A Critical Introduction, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1991, pp. 34-67; ora in Lisa Parks, Shanti Kumar, editors, Planet Tv. A Global Television Reader, New York and London, New York University Press, 2003, pp. 113-134 [non comprende il paragrafo “Laughing at Chaplin: problems with audience research”, alle pp. 50-56 dell’originale]. 81

La soapizzazione dell’anima

Piero Vereni, “La soapizzazione dell’anima”, in AA.VV., Best Off. Il meglio delle riviste letterarie italiane. Edizione 2005, Roma, minimum fax, 2005, pp. 99-106.

Cos’è che fa sì che Maria De Filippi sia così amata dal pubblico generalista e così detestata dai cosiddetti intellettuali? Prima di stracciarci le vesti e balzare popperianamente sul carro dei mosconi detrattori del catodo, forse vale la pena di capire come funziona un meccanismo narrativo che ha implicazioni antropologiche letteralmente sconvolgenti. Gli sceneggiatori televisivi, gente pratica, dividono il mondo della fiction in due grandi categorie: low concept, e high concept. A scanso di malintesi, gli aggettivi stanno ad indicare più l’impegno economico dell’eventuale investimento produttivo che il valore intrinseco delle opere prodotte, per cui low concept fa il paio con low budget. Comunque sia, high concept indica quel tipo di fiction in cui i caratteri dei protagonisti sono nettamente definiti e coincidono con un fare specifico: la caccia al colpevole, la scoperta di nuovi mondi, la ricerca di una via di fuga. Low concept è invece quella fiction che ruota strutturalmente attorno alla definizione stessa dei personaggi, perennemente alla ricerca di una loro collocazione sociale o affettiva. Si intuisce quindi dalle definizioni sommariamente presentate che il tipo principe di fiction high concept è il telefilm poliziesco, mentre la fiction low concept trova la sua massima espressione nel serial (nella variante soap opera quando il finale è dilazionato all’infinito; telenovela se il finale per quanto ritardato, è previsto nella sceneggiatura di base). Low e high sono due idealtipi o caratteri estremi, che delimitano piuttosto i margini di un continuo narrativo entro il quale è possibile collocare le specifiche fiction. Così, per fare un esempio a me caro, la serie Star Treck è una fiction high concept (“alla scoperta di nuovi mondi… lì dove l’uomo non è mai stato prima”), ma il conflitto tra la razionalità vulcaniana del Dr. Spok e l’emotività dell’umanissimo Dr. McCoy è un tipico caso di sviluppo low concept che fa da bordone a tutta la serie. Specularmente, il telefilm Ally McBeal è pensato come un low concept (l’avvocatessa in perenne crisi sentimentale e identitaria) sul quale si innestano di volta in volta plot basati su casi legali più o meno high (ma mai alla Perry Mason). Detto altrimenti, una narrazione è high quando punta sulle azioni dei protagonisti (“Presto, insegua quell’auto!”) che non hanno bisogno di definizioni dato che quello che sono sta tutto nel loro fare (il tenente Colombo), mentre è low quando si incentra sulla definizione dei personaggi (“Devo dirti qualcosa, Pedro: tua madre in realtà è la figlia di tuo padre, quindi tuo padre è tuo nonno, e tua madre è tua sorella”), attività che di fatto costituisce lo scopo primario della fiction di questo tipo. 82

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Stabilite queste coordinate, è utile ricordare che l’opposizione si può applicare al mondo della letteratura in generale, che costituisce ovviamente il terreno dove l’opposizione si è anzi originariamente sviluppata. Ma è proprio quando viene restituita a questo campo di applicazione che l’opposizione tra high e low dimostra inaspettate implicazioni, dato che è proprio qui che le implicite connotazioni valutative che mi ero premunito di evitare all’inizio di questa discussione sembrano tornare prepotentemente all’assalto, ma invertite di segno. Intendo dire che la letteratura high coincide abbastanza bene con quella che si chiama “di genere” (polizieschi, fantascienza, erotici, ecc.) mentre quella low sembra sovrapporsi con una certa precisione alla Letteratura con la maiuscola, a quella che – beata lei – arriva a toccare le vette dell’arte. Anche se cioè un plot high concept può strutturare la trama di molta Letteratura con la maiuscola, mi pare indubitabile che ciò che ha fatto di un pezzo di “prosa letteraria” un’opera d’arte è stato, per generazioni di critici, il tono irrimediabilmente low della struttura ideologica soggiacente. Possiamo cioè dire che senza la ridicola crisi dell’Innominato (e gli stravizi conventuali della monaca di Monza, e i trascorsi ribaldi di fra’ Cristoforo) i Promessi Sposi non sarebbero entrati nel canone con il fragore che li ha contraddistinti. Ciò che per due secoli (l’Ottocento e il Novecento) ha costituito il fattore discriminante della Grande Letteratura è stata proprio la capacità degli autori di comunicare gli intimi sommovimenti dell’anima del protagonista, dimostrandone così l’esistenza in un mondo sempre più secolarizzato. La borghesia (classe sociale di cui il romanzo è la più compiuta espressione estetica, com’è noto) ha costruito la propria percezione di sé attraverso la rappresentazione narrativa di un soggetto dotato canonicamente di due fondamentali caratteristiche: è consapevole dei propri stati d’animo, più importanti per la sua vita di qualunque condizione materiale; i suoi stati d’animo mutano nel corso del tempo a seguito di diversi motivi, non ultimo il caso. Non è necessario indicare in questa sede le ragioni strutturali che hanno condotto a una simile concezione del soggetto, mentre è estremamente importante sottolineare l’aspetto distintivo di questa identità borghese, che si oppone (tramite la sua interiorità) alla vacua esteriorità della classe nobiliare e (tramite la sua “profonda” introspezione) alla banale e inconsapevole superficialità delle classi subalterne e strumentali. Dal Werther di Goethe all’Agostino di Moravia, il protagonista del romanzo moderno è uno stronzetto che non ha nulla da fare se non struggersi per una qualche relazione (affettiva o di potere) che gli crea dei problemi di identità. Ora, imparare ad apprezzare le qualità estetiche di un simile modello narrativo è procedimento estremamente complicato, che necessita di uno specifico e lungo addestramento: i giovani devono essere educati a identificarsi con soggetti in crisi il cui scopo ultimo non è fare delle cose con il proprio corpo (vangare, scopare, mangiare, defecare) ma elaborare una qualche concezione raffinata del proprio sé come espressione 83

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desomatizzata e vagamente nevrotica di un qualche malessere di vivere. Per poter giungere a incorporare questo modello erano necessari – finora – rigorosi strumenti educativi e rigide pratiche di esclusione. Pierre Bourdieu, nel suo saggio sulla Distinzione, ha illustrato i passaggi necessari per elaborare una concezione estetica che garantisca un’adeguata appartenenza di classe. Nel caso della pratica borghese dell’acquisizione di un capitale culturale, particolarmente interessante si rivela la discussione sulla natura dei titoli scolastici, che Bourdieu identificata chiaramente come marcatori di una concezione low del soggetto, opposta alle pratiche high dell’autodidatta: A differenza di coloro che detengono un capitale culturale sprovvisto di certificazione scolastica, cui si può sempre ingiungere di sottoporsi ad una prova, giacché essi sono solo quello che fanno, semplici figli delle loro opere culturali, coloro che detengono invece un titolo di nobiltà culturale (simili in questo a coloro che detengono un titolo nobiliare, il cui essere, definito dalla fedeltà a un sangue, ad un suolo, ad una razza, ad un passato, ad una patria, ad una tradizione, è irriducibile ad un fare, ad un saper fare, ad una funzione) devono solo essere quello che sono, perché tutte le loro attività valgono quello che vale il loro autore, dato che costituiscono l’affermazione e la perpetuazione di quell’essenza in virtù della quale vengono espletate (Pierre Bourdieu, La distinction, Paris, Les éditions de minuit, 1979; trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, il Mulino, 1983, pp. 23-24, tranne l’ultimo, i corsivi sono aggiunti). Ma quel potente saggio è stato scritto prima di Maria De Filippi, cioè prima della soapizzazione dell’anima. La famosa conduttrice riprende in maniera industriale, portandolo alla perfezione, il modello di Maurizio Costanzo, che si può riassumere in uno slogan: democratizzare la crisi borghese del soggetto. In tutti i programmi di Maria De Filippi (Amici, Saranno famosi (ora ribattezzato Amici di Maria De Filippi per ragione di copyright), C’è posta per te) qualunque sia il concept (dichiaratamente low in Amici e C’è posta per te, falsamente high in Saranno famosi, in cui si finge che i protagonisti debbano battersi per una vittoria finale) la spina dorsale dell’audience, il detonatore dello share, è sempre e comunque un soggetto qualunque in crisi affettiva e/o identitaria: la madre snaturata che a settant’anni vuole rivedere le figlie; il panettiere demotivato che cerca la fidanzata della sua adolescenza; l’atletico, apollineo e afasico ballerino adolescente che deve superare la crisi che lo contrappone al padre benzinaio che l’ha ostacolato nella sua carriera (ma che a sua volta è in crisi perché ora, pressato dalle telecamere, riconosce il “talento” del figlio ed è costretto a rivedere la sua equazione ballerino = frocio). Credo che il successo di Maria De Filippi consista proprio in questa sua capacità di popolarizzare un’immagine a lungo elitaria del soggetto occidentale, rendendola fruibile alle masse che, esposte 84

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per troppo breve tempo alla pratica distintiva dell’educazione formale, hanno fatto in tempo a cogliere l’allure del soggetto borghese senza riuscire veramente a farlo proprio. Gli ex liceali distratti, i geometri con il panico da compito d’italiano, i forzati delle 150 ore e i coatti del Cepu hanno con Maria De Filippi l’opportunità irrinunciabile di prendersi una clamorosa rivincita di classe, potendo esprimere con tutto il loro corpo quel che la Cultura ha fatto loro solo assaggiare. Lacrime e sudore, aloni ascellari e scarmigliature, posture goffe e voci roche da scarsa pratica telegenica, assieme al calcolato vizio della conduttrice di non guardare mai verso la telecamera, costituiscono lo stile “realista” della televisione di Maria De Filippi (non per nulla il genere cui appartiene, oggi dominante nelle televisioni di tutto il mondo, è detto reality) che garantisce a chi guarda la certezza della partecipazione e dell’identificazione. Le classi popolari, che non hanno tempo da perdere a leggersi pallosissimi bildungsroman senza sugo per giungere a quel raffinamento della coscienza necessario a percepirsi come “soggetto fragile”, possono attraverso il tubo catodico fare un corso accelerato di pensiero occidentale, e condensare in un paio d’ore la filosofia del soggetto da Hegel a Heidegger. Gli stessi motivi che fanno di Maria De Filippi un vero guru delle classi subalterne stanno alla base del disprezzo che verso di lei ostentano i colti, quelli appunto che sono in qualche modo riusciti a incorporare il modello del soggetto fragile per via letteraria o filosofica. Costoro subiscono il gravissimo dispetto di vedersi svelare il trucco sotto il naso, il trucco – si badi bene – fondativo della loro identità. C’è posta per te (ma l’argomentazione si può estendere ai reality show in generale) costituisce infatti l’anello di congiunzione tra L’Ulisse di Joyce e Un posto al sole, svelandone così la comune matrice low concept. Prima del reality i sostenitori della cultura alta (che abbiamo visto essere in effetti low concept) potevano ribadire la distanza del loro modello narrativo dal serial insistendo sulla patemizzazione esasperata di quest’ultimo, che invece non sarebbe presente nei romanzi d’Arte. A parte il fatto che l’argomentazione è alquanto speciosa (che cos’è il flusso di coscienza di Molly se non un effettaccio paragonabile allo slow motion in un film di Zeffirelli?), la messa in scena dei corpi proletari invasi da anime fragili dimostra senza possibilità di smentita che quel soggetto raffinato che si supponeva frutto di un incessante lavorio interiore può esistere anche in contesti del tutto incongrui, vanificando quindi il processo di distinzione. Maria De Filippi quindi è la profetessa della vera laicizzazione della crisi laica del soggetto, la divulgatrice di un modello che era nato per essere elitario. Inevitabile quindi che si attirasse gli strali e gli anatemi di chi di quel modello è vissuto (in senso letterale). Ma ci importa poco delle piccinerie invidiose della borghesia, mentre ci sembra più interessante seguire gli sviluppi antropologici e politici di questo modello identitario. Cosa succede cioè nelle pratiche sociali quando il soggetto non è più raccontabile per il suo fare, ma solo definibile per il suo sentire? 85

La soapizzazione dell’anima

Quando il narcisistico modello strutturalista (il soggetto è un fascio di relazioni) diviene pratica quotidiana? Cosa succede veramente quando Luisa non è più quella che fa i vestiti, ma la “madre degenere”; Lucio non è più il barbiere ubriacone, ma il “padre in crisi”; Antonella non è più la finta verginella che fa impazzire i tardoni, ma la “ballerina”? Il passaggio da un concetto high (basato sulla narrazione) a uno low (basato sulla definizione) del soggetto occidentale è avvenuto circa duecento anni fa (era già compiuto con Fichte), ma la divulgazione alle masse di questo modello sta avvenendo ora, sotto i nostri occhi. Il revival etnico, la smania delle radici, il culto del farro e della cucina biologica sono le ricadute ideologiche e mercantili più evidenti di questo mutamento ontologico radicale. Se io non sono più quello che sono per quello che faccio, ma per quello che sento e per come mi rappresento di fronte agli altri, se insomma non ha più alcuna importanza raccontare chi sono, mentre diventa fondamentale definirmi (gay, skater, trans, pacifista, liberal, scrittore, artista, del Cancro), questo modello identitario veicolato dal piccolo schermo è comunque troppo esile per darmi sicurezza, spingendomi a barattare la mia storia personale (fatta di azioni che sul mercato delle identità non valgono più nulla) con qualche favoletta collettiva (i Celti, gli antenati, le radici). Vi è quindi un’indubitabile consonanza di fini tra reality Tv e revival etnici e localistici, dato che in entrambi i casi i soggetti sono sottratti al loro fare individuale (alienati in un modo che Marx non aveva previsto), disossati come cosce di tacchino, per essere restituiti alla macchina mediaticoproduttiva nella totale convinzione che ciò che conta veramente è il “considerarsi” (mi considero un buon padre, mi considero un artista, mi considero un padano). Questa assunzione apparentemente consapevole della propria soggettività ha un effetto destabilizzante proprio in quanto sottrae al modello delle classi la propria naturalità (critica della borghesia). Ma non è in grado di sottrarre i soggetti all’alienazione da sé, dato che sostituisce le narrazioni individuali con una serie di definizioni (c’ho un trauma infantile) pescate più o meno appropriatamente dal mercato della patologia mentale. Se quindi sul piano ideologico il reality show sbugiarda la borghesia e la sua distinzione fasulla, su quello politico la deriva rischia di essere reazionaria. Appena imparano a sentirsi “nuragici in crisi”, anche i minatori sardi perdono nerbo. In un mondo in cui le domande principali non sono più: “Come arrivo a fine mese?” o “Come faccio a scoparmela/o?” ma “Chi sono io, veramente?” e “Come posso superare il mio complesso edipico?”, non rimane molto spazio per progettare (o imporre con la forza) mutamenti strutturali delle condizioni di produzione. La borghesia è in crisi, quindi. Ma non è che le classi subalterne stiano granché meglio. Vorrà dire che ci faremo sopra un bel talk show.

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Rambo’s Wife Saves the Day

DON KULICK, MARGARET WILLSON, “Rambo’s Wife Saves the Day: Subjugating the Gaze and Subverting the Narrative in a Papua New Guinean Swamp”, Visual Anthropology, X, 2, 1994, pp. xx-xx; ristampato in KELLY ASKEW, RICHARD R. WILK (a cura di), The Anthropology of Media. A Reader, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing, 2002, xi-416 p. [pp. 270-285]. Si tratta di un saggio per alcuni versi paradossale, dato che da un lato ci mostra gli ennesimi “selvaggi” incapaci di distinguere tra tecnologia e “magia”, ma dall’altro attribuisce a quegli stessi uomini “primitivi” acute qualità di costruttori di narrazioni a partire dalla materia bruta fornita dalla rappresentazione filmica. L’intento degli autori è quello di dimostrare la dimensione attiva della pratica semiotica implicata dalla visione di immagini che transitano su di uno schermo. La domanda che si pongono gli antropologi statunitensi Don Kulick e Margaret Willson e che emerge dal loro resoconto etnografico non è quindi “Come i soggetti si collocano entro le strutture di significato della narrazione filmica?” quanto piuttosto: “Quali sono i meccanismi di produzione di senso che gli individui applicano al continuum visivo e sonoro (sostanzialmente insensato) del filmato?” Ora, non è questa la sede per discettare sulla natura del significato dell’opera d’arte, ma è evidente che un tale ribaltamento della classica domanda degli studi sulla ricezione può avvenire solo se si è recepita la critica semiotica del significato elaborata dalla riflessione filosofica fin dagli inizi del Ventesimo secolo ma che ha preso piede nelle scienze sociali solo a partire dalla “svolta linguistica” degli anni Sessanta e Settanta. Gli abitanti di Gapun, il piccolo e isolatissimo villaggio di Papua Nuova Guinea studiato in questo saggio, non hanno una frequentazione costante con i mezzi di comunicazione di massa: non leggono giornali, non hanno apparecchi radio o televisivi, e solo la metà di loro ha visto almeno una volta una proiezione filmica, pur se tutti sanno di che si tratta. Nonostante questa loro scarsa dimestichezza con i mezzi di comunicazione di massa, i gapunesi non sembrano in soggezione di fronte alla tecnologia occidentale, almeno per quanto riguarda le “storie” veicolate (e sempre secondo l’interpretazione degli autori, che contesteremo tra poco). Come nella vita reale gli abitanti del villaggio riprendono, discutono e “reinventano” gli eventi accaduti ai singoli raccontandoseli e producendo macchine di significazione collettiva (magistrale il caso di una donna la cui infedeltà coniugale secondo tutti sarebbe stata smascherata da uno stregone durante una visita che però la donna aveva solo annunciato di voler fare, senza mai realizzarla effettivamente), così sembrano fare con le narrazioni “artistiche” cui hanno assistito nel corso della loro vita. Apparentemente incuranti, quindi, dell’intenzione autoriale (CITARE QUI ECO Lector in Fabula) questi uomini che poco o nulla hanno visto la draivisen (televisione in lingua Tok Pisin, il creolo da loro utilizzato a fianco della lingua nativa) o i mubin piksa (moving picture) si muovono agilmente tra le strutture narrative alle quali sono esposti, reinserendole entro quadri cognitivi e 87

Rambo’s Wife Saves the Day

comunicativi noti. Detto altrimenti, il messaggio visivo viene facilmente addomesticato o indigenizzato, ricondotto cioè a strutture segniche interne alla comunità e preesistenti all’arrivo dei mass media. La cultura gapunese, ad esempio, ha elaborato una specifica concezione etnica della narrazione (stori in creolo), per cui il narratore e gli ascoltatori partecipano in eguale misura alla costruzione del racconto (attraverso commenti, digressioni, innesti narrativi). Quelle che cioè nel nostro sistema culturale sono due figure nettamente distinte in termini di potere narrativo (il narrante e l’ascoltatore), nel sistema gapunese della narrazione si trovano su un piano sostanzialmente paritetico, contribuendo entrambe alla strutturazione finale del racconto. Bene, questo modello certamente esotico viene dai gapunesi applicato sostanzialmente intatto alla visione della produzione filmica occidentale: la struttura narrativa del film Rambo, per citare un esempio eclatante, viene manipolata dagli “spettatori” in forme impensabili e – per “noi” – illegittime: nella ricostruzione che ne danno i gapunesi, Rambo prima viene salvato dalla moglie (!), poi muore per l’assalto di alcuni “teppisti”. Si tratta di una rilettura decisamente imbarazzante per chiunque sia stato educato al rispetto della produzione autoriale, ma Kulick e Willson insistono sul fatto che i gapunesi non fanno altro che applicare al film lo stesso tipo di processo narrativizzante che applicano agli eventi “reali”. Di più: secondo gli autori i gapunesi sono legittimati ad agire in questo modo dalla convinzione che non vi sia sostanziale differenza tra percezione di oggetti reali e percezione della loro rappresentazione filmica: le immagini sullo schermo sono null’altro che il margine esterno degli oggetti rappresentati, contenuti e “trattenuti” dallo schermo stesso. Lo schermo in Tok Pisin è infatti banis, una parola che indica una rete di divisione, una recinzione o staccionata, un velo che copre qualcosa che sta sotto o oltre. Lo schermo cinematografico è quindi per i gapunesi un filtro che “trattiene” i personaggi contenuti in esso, e non una lavagna su cui si proiettano delle immagini. Il potere di controllo di questa tecnologia (che consente tra l’altro di vedere Satana o Gesù, dato che i gapunesi si professano ferventi Cattolici) è però in mano ai masta (gli uomini bianchi, da master) che possono, ad esempio, volare nel cielo con un aereo e tornarne con una piksa della Beata Vergine ritratta “dal vivo”. È qui, attorno a questa logica subalterna della tecnologia bianca che conviene riconsiderare in modo decisamente critico l’ottimismo ermeneutico di Don Kukick e Margaret Willson. Come accennato, i gapunesi sono ferventi Cattolici, ma sono anche imbevuti di millenarismo: la fine del mondo (o la morte individuale) coincide con la loro finale trasformazione in uomini bianchi, in masta. Tutta la loro vita, anche quella di spettatori, è concepita entro questa chiave di sottomissione radicale all’egemonia bianca, espressa nell’aspirazione ad assumerne nel corpo le parvenze. Particolarmente drammatica in questo senso la figura di Kruni, un vecchio informatore che, attorno alla metà degli anni Cinquanta, assistette a una proiezione in cui si vedeva (secondo la sua descrizione) un “secchio” colmo di “medicina”. In 88

Rambo’s Wife Saves the Day

questo secchio venivano immerse statue di legno, e ne uscivano masta, uomini bianchi vivi e vegeti. Non sappiamo cosa Kruni avesse visto “in realtà”, quale fosse il film di cui fu spettatore, ma sappiamo che trent’anni dopo, nel 1985, raccontando a Don Kulick quel che aveva visto, il vecchio non resistette dal porgli queste “speranzose domande: ‘Sai qualcosa di questa macchina?’ e, soprattutto: ‘Se io entrassi nella macchina, anche la mia pelle diverrebbe bianca? Diventerei un masta anch’io?’”66. La “sovversione” del racconto occidentale che i gapunesi effettuano indigenizzandone la fabula avviene inevitabilmente entro questo quadro di sottomissione, di subalternità radicale inscritta nei corpi guineani. L’incapacità occidentale di “sottomettere lo sguardo” gapunese non deriva solo dalla capacità di resistenza indigena al processo di occidentalizzazione, ma forse con maggior forza dalla distanza profondissima che separa gli abitanti della palude dal mondo dei masta. Se c’è una qualunque ideologia in Rambo, e se qualcuno interno al circuito produttivo cinematografico (l’autore, il produttore, il regista) sperava di veicolare quell’ideologia attraverso le immagini, il fallimento di fronte ai gapunesi di questa prospettiva è mastodontico fino al ridicolo. Ma più che celebrare la capacità di resistenza dei popoli indigeni, a me pare che questo amaro apologo di barcollante critica cinematografica ci dica qualcosa di interessante sulle condizioni minime di efficacia persuasiva del messaggio: qualunque sia quel che vogliamo veicolare, e quale ne sia la forza intrinseca di verità, come emittenti (e qui gioco sull’ambiguità del termine, a cavallo tra teoria linguistica e tecnologia delle comunicazioni) abbiamo bisogno di verificare la struttura semiotica del sistema ricettivo se vogliamo formulare qualche plausibile previsione sulle modalità di ricezione di quello specifico messaggio. La dimensione collettiva della costruzione del racconto è, ad esempio, un tratto culturale specifico del guineani che stride quant’altri mai con la concezione tipicamente occidentale della costruzione “autoriale” del racconto. Se non si tiene in debita considerazione questa variabile (narrazione intesa come “imposizione” autoriale agli spettatori opposta a narrazione come costruzione cooperativa tra un narrante principale e gli ascoltatori), qualunque narrazione occidentale sarà giudicata come incomprensibilmente distorta. Se invece si accetta di far i conti con la diversità culturale (intesa come diversità dei sistemi cognitivi di riferimento) la domanda che un emittente serio dovrebbe porsi è: a quali condizioni posso far sì che gli spettatori di Rambo lo vedano secondo le intenzioni dell’autore? Questa semplice domanda sposta immediatamente i termini della discussione generale. Invece di concentrarmi sulle forme della produzione massmediatica presupponendo di essere, in quanto

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DON KULICK, MARGARET WILLSON, “Rambo’s Wife Saves the Day: Subjugating the Gaze and Subverting the Narrative in a Papua New Guinean Swamp”, Visual Anthropology, X, 2, 1994, pp. xx-xx; ristampato in KELLY ASKEW, RICHARD R. WILK (a cura di), The Anthropology of Media. A Reader, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing, 2002, xi-416 p. [pp. 270-285]. La citazione è da pagina 281.

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Rambo’s Wife Saves the Day

analista o produttore, un ricettore “tipico”, lo sforzo analitico dovrà puntare sulle strutture interpretative dei riceventi: sono adeguate a leggere Rambo secondo le intenzioni dell’autore? Se non lo sono, cosa posso fare per renderle adeguate? Ecco quindi che il mondo della produzione di messaggi trasmessi senza conoscere il destinatario (messaggi veicolati cioè attraverso i mezzi di comunicazione di massa) si articola, dal punto di vista della ricezione, attorno a tre grandi nuclei. Al fondo della scala si collocano i gapunesi, quanti cioè – per le più diverse ragioni – non sono in grado di recepire il messaggio secondo il codice dell’emittente e, se proprio devono farlo, articolano un’interpretazione tutta interna ai loro riferimenti culturali e simbolici. All’estremo opposto si collocano invece i professionisti dell’interpretazione, gli intellettuali in grado di mettere a nudo le strutture narrative e ideologiche del messaggio. Tra questi due estremi del “non potere” e del “volere” possiamo individuare la grande area del “dovere”: si tratta di quanti hanno acquisito le strutture essenziali del codice comunicativo ma non sono in grado di articolare letture alternative rispetto alle preferred readings, alle “interpretazioni preferenziali” di cui parla Stuart Hall67. Mitica figura dell’immaginario dei massmediologi, questa massa mediatizzata riceve il messaggio decodificandolo secondo le intenzioni dell’autore e non riesce a sbloccarsi da lì, incastonata nel gioiello della perfetta lettura massificante.

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Stuart Hall, Representations: Cultural Representations and Signifying Practices, London, Sage Publications,

1997.

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The Tongan Tradition of Going to the Movies

ELIZABETH HAHN, “The Tongan Tradition of Going to the Movies”, Visual Anthropology Review, X (1), Spring 1994, pp. 103-111, ora in ora in KELLY ASKEW e RICHARD R, WILK, a cura di, The Anthropology of Media. A Reader, Malden,

MA

- Oxford,

UK

- Carlton, Victoria, Australia,

Blackwell, xi-416 p. [pp. 258-269]. Sulla necessità etnica di contestualizzare

Almeno fino ai primi anni Ottanta del Novecento, i Tongani inserivano la visione dei film al cinema nel più ampio contesto locale della fruizione del faiva (spettacolo). Come infatti le feste tradizionali erano guidate da un maestro di cerimonie che contestualizzava l’evento anche per piccoli sottogruppi di partecipanti (ad esempio rivolgendo una serie di allusioni solo a una parte precisa degli astanti, senza per questo destare il risentimento di quanti non potevano cogliere i suoi riferimenti) così la visione dei film (sempre occidentali, quasi sempre americani) era mediata culturalmente da un “narratore” che adattava la strutturazione narrativa al “contesto di enunciazione”. In pratica, il film veniva visto da un pubblico vociferante e non necessariamente interessato a coglierne la struttura narrativa completa, mentre il “narratore” forniva le sue interpretazioni, spesso libere se non del tutto autonome, di quel che accadeva sullo schermo. La migliore conoscenza dell’inglese e l’uso sempre più diffuso del videoregistratore nel corso degli anni Novanta hanno ridotto questa forza contestualizzante e ricondotto la visione tongana a più miti e più occidentali consigli. Ma fino a quando è stata in uso, la pratica indigena di vedere i film con l’accompagnamento del “traduttore” dava conto di una specificità culturale non trascurabile, che possiamo sintetizzare nella necessità della contestualizzazione. Nella concezione tongana del faiva, la dimensione spettacolare si produce anche attraverso l’interazione tra gruppi di spettatori, e il narratore, come il maestro di cerimonie nei contesti festivi tradizionali, ha prima di tutto il compito di attivare la rete comunicativa tra gruppi e sottogruppi dei presenti. Mentre cioè il modello produttivo entro cui nasce il cinema reifica la produzione di senso entro il messaggio e incapsula il divertimento all’interno del mezzo di comunicazione, il faiva di Tonga ha bisogno di essere attivato tra coloro che ne fanno parte. Comparando divertimento e faiva, risalta con particolare evidenza la tendenza isolante dei mezzi di comunicazione di massa che – diversamente da quel che sembrerebbe indicare il loro nome – sono rivolti ad un consumo sostanzialmente individuale68. 68 Mentre è infatti evidente che il consumo di radio e televisione si rivolge ai singoli, anche il cinema – con la sua retorica del religioso silenzio, del buio assoluto e della sala di periferia dove i veri cinefili gustavano in solitudine i capolavori del passato – non sfugge a questa tendenza individuante della produzione semiotica occidentale. L’ispiratore dei cultural studies, il britannico Rayomond Williams, aveva chiara la pulsione individuante, nonostante il nome, dei mezzi di comunicazione di massa: “Questa innovativa forma di comunicazione sociale – il broadcasting – fu oscurata

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The Tongan Tradition of Going to the Movies

Questa

duplice

caratteristica

del

cinema

“occidentale”

(portatore

di

un

messaggio

decontestualizzato e consumato tendenzialmente da singoli) – che possiamo ragionevolmente estendere a molti altri mezzi di comunicazione di massa – era vissuta a Tonga come un ostacolo da superare, dato che si frapponeva tra l’uso del mezzo e la concezione locale di intrattenimento. Per questa ragione il “traduttore” o “narratore” aveva un ruolo centrale, tanto che “...la gente prima chiedeva ‘Chi è il narratore?’ e solo dopo si informava: ‘Qual è il film?’” (p. 264). Possiamo grafizzare questa concezione antitetica del divertimento, che rappresentiamo come entertainment e faiva, rispettivamente. Nella figura che segue, i cerchi rappresentano gli individui, mentre il riquadro rappresenta il mezzo di comunicazione e le frecce lo spazio di interazione che produce, rispettivamente, entertainment o faiva. Nel modello reificato e decontestuallizato della comunicazione mediatica che è tipico dell’entertainment i singoli fruiscono individualmente di un messaggio che contiene in sé tutto ciò che gli è necessario per essere tale. Nel modello del faiva, invece, l’obiettivo da raggiungere non è la fruizione di un messaggio in sé conchiuso, ma l’interazione sociale tra gruppi e sottogruppi.

narratore

entertainment

faiva

dalla sua stessa definizione in termini di «comunicazione di massa», che concettualizzava la sua caratteristica di rivolgersi a molte persone, le «masse» appunto, ma oscurava il fatto che il modo scelto era l’offerta di apparecchi individuali, metodo descritto molto meglio dal precedente termine broadcasting”, in RAYMOND WILLIAMS, Televisione. Tecnologia e forma culturale e altri scritti sulla tv. A cura di Enrico Menduni, traduzione di Enrico Menduni, Roma, Editori Riuniti, 2000, 206 p. [il passo è da p. 44]. Edizione originale Television: Technology and Cultural Form, London, Fontana, 1974, 160 p.

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La forza delle immagini

La forza delle immagini. Appunti su due casi mediatici. HEVAN O DELL’IMMAGINAZIONE A Olmo di Martellago ci andavo in bici con la morosa a quindici anni. Eravamo tutti Piero, Mario, Maria Grazia, Antonio, Germano, Anna, Maurizio, Cristina. Le Jennifer erano ancora di là da venire, anche se sapevamo che il nome esisteva, in qualche telefilm americano. Di Hevan, invece, ancora nessuna traccia. I nomi, i nostri genitori non avevano bisogno di inventarseli. A loro bastava quasi sempre il parco disponibile dei nonni, dei santi, dei padrini o di qualche morto speciale da onorare. Jennifer no. Ha sentito il nome Evan da qualche parte, ma ancora non le bastava, non era suo a sufficienza, e ci ha aggiunto l’acca, come certi ristoratori che una ventina d’anni fa s’inventarono dal nulla le hosterie. Jennifer aveva fame di immaginazione, aveva bisogno di immaginarsi nomi alternativi, amori impossibili, futuri da allattare. La mamma di Jennifer non so se fosse già nonna, non so se potrà mai esserlo. Certo ha vestito Hevan come fosse il suo nipotino. Con la scuffia. La mamma di Jennifer si era già immaginata nonna, vedeva carrozzine e pappette, sentiva pianti notturni e ruttini. Come avesse accolto quella gravidanza della figlia ventenne è sentimento che lascio alla decenza delle storie private. Ma certo la mamma di Jennifer si era immaginata nonna, e infatti così oggi è chiamata dai giornali: la nonna di Hevan. La Fallaci divenne (ancor più) famosa per aver scritto (e fatto pubblicare) una lunghissima lettera a un quasi figlio, cioè a un suo aborto. La mamma di Jennifer è ormai famosa per aver scattato (e fatto pubblicare) una foto (con il cellulare, immagino) a un quasi nipote. Anche il direttore del Gazzettino ha un sacco di immaginazione. E quella foto l’ha pubblicata, scatenando il panico. Ci ho pensato un po’ su. Durante i bombardamenti dell’Afghanistan ho girato per mesi con in tasca una foto ritagliata da Repubblica: si vedevano, accatastati dentro un carro, ripresi dall’alto, diversi corpicini massacrati (non so più se direttamente “per errore” o come “danno collaterale”) da qualche aereo americano. Un bimbo di due o tre anni somigliava pericolosamente a mia figlia, allora neonata. Stesso labbro sporgente, stessa curva della fronte. No, lo choc della foto di Hevan non dipende da una morte esposta. Il vero motivo è che non abbiamo un nome generico con cui parlare di Hevan. Il suo astruso nome proprio è un feticcio cui ci aggrappiamo o dal quale fuggiamo per non parlare della vera cosa: il nome della specie di Hevan. Cos’è Hevan? Non è giuridicamente un essere umano, altrimenti l’omicidio sarebbe duplice. Lo hanno seppellito nella stessa bara di Jennifer, Hevan, e non solo per cedere al patetico. È che non essendo mai nato non avrebbe uno spazio suo nello spazio dei morti. Per essere sepolti al cimitero ci 93

La forza delle immagini

vuole un certificato di morte, che non si può stilare per uno che non ha mai avuto un certificato di nascita. La scuffia in testa, il vestitino, l’espressione corrucciata che si vede nella foto pubblicata sul Gazzettino sembrano dirci l’opposto: che quello era un bambino, che è stato ammazzato, che ha diritto come ogni essere umano a una sepoltura e ad avere giustizia. Ci sono cose che possiamo solo immaginare. Altre che non immagineremo mai. Altre cose, infine, diventano parte del nostro immaginario solo nel momento in cui le vediamo. L’immagine di certe cose ce le rende affettivamente plausibili, ci obbliga a pensarle, o almeno muta il nostro modo di immaginarle. L’immagine dà corpo alla nostra immaginazione. Mio padre ha avuto sette figli e di nessuno sapeva il sesso prima della nascita. Io ho iniziato ad avere un rapporto affettivo con la mia unica figlia quando ho visto l’ecografia del suo volto al quarto mese di gravidanza. Quando l’ho presa in braccio per la prima volta l’ho riconosciuta, perché erano cinque mesi che sapevo che faccia aveva. Avevo un nome generico di specie, un nome proprio e un’individualità somatica: le cose che ci servono per creare una relazione. Se adotti un cane randagio, la prima cosa che fai è quella di dargli un nome. E se la tua cagna fa una cucciolata, darai i nomi ai cuccioli solo quando inizieranno ad essere riconoscibili uno dall’altro. Specie, nome, soma. Lo scandalo di Hevan è questo: ora, oltre a un nome proprio bislacco, ha anche un volto, ma continua a non avere un nome di specie. Se fosse rimasto un flatus della madre o una speranza della nonna potremmo lavarcene le mani, inveire quel che basta contro l’omicida e tornare a farci gli affari nostri. Ci torneremo, certo, ma non potremo più fare finta di nulla, ora che abbiamo visto il volto di qualcosa che possiede un suo nome, ma a cui noi non sappiamo dare un nome. FOTO CHOC

Mjtia, 9 anni, di Berlino, viene sequestrato da un uomo mentre va a scuola in tram. L’uomo lo porta a casa sua, lo violenta e lo uccide. Dopo una caccia forsennata, la polizia riesce a catturare il mostro (non c’è un’altra parola, in questo caso) che tenta di ammazzarsi buttandosi sotto un tram, quasi a voler finire lì dov’era iniziata questa storia spaventosa per chiunque, e forse un po’ di più per chi abbia figli. Si potrebbe discutere sul fatto che il pedofilo assassino fosse stato “più volte condannato per atti di pedofilia” e sul confine sempre incerto tra pena come tentativo di recupero e reclusione come protezione per la società, ma oltre a questo necessario e ovvio punto da dibattere, vorrei portare l’attenzione su un aspetto forse meno appariscente. 94

La forza delle immagini

Molti giornali (il Corriere a pagina 23 del 2 marzo) hanno pubblicato una “foto choc”, descritta proprio dal Corriere come “il documento più agghiacciante del delitto”. È una foto ripresa da una telecamera istallata sul tram. Si vede un bambino dai capelli corti, seduto sul sedile del tram, con la spalla sinistra appoggiata al finestrino. Guarda fuori dal vetro, le mani in grembo. Forse (la foto è sgranata) indossa un impermeabile col cappuccio calato dietro il collo. Forse sorride. La sua spalla destra tocca il braccio sinistro dell’uomo che gli siede a fianco. Questi indossa un paio di jeans, una maglia con la zip (potrebbe essere il pezzo superiore di una tuta da ginnastica) e un giubbotto giallognolo. L’uomo guarda appena a sinistra della telecamera che lo sta riprendendo. Come il bimbo, ha le mani in grembo e, forse, sorride. Se non sapessimo che quel bimbo tra poche ore verrà violentato e massacrato, e se non sapessimo che a compiere una simile mostruosità sarà proprio l’uomo che gli siede a fianco, l’immagine non avrebbe nulla di scioccante. Sarebbe una foto a bassa risoluzione di un uomo e un bambino seduti in tram. Anzi, le espressioni che si possono intuire dietro i pixel grossolani sono confortanti. I due hanno espressioni complici, un padre e un figlio che magari si stanno facendo beffe di qualche passeggero buffo. Viene loro da ridere ma un po’ si trattengono per pudore. Distolgono lo sguardo uno dall’altro per non scoppiare a ridere. Il bimbo guarda fuori come fosse attratto da qualcosa per la strada, l’uomo guarda di traverso come chi pensa ai fatti suoi... L’orrore profondo che sentiamo guardando la foto, il senso di frenesia e il groppo alla gola che ci assale, dipendono tutti da quello che in questa immagine non c’è ma che sappiamo ineluttabile. Dentro di noi quella foto ci costringe a visualizzare l’approccio: sarà stato amichevole, l’avrà convinto a seguirlo con quale trucco, con quali moine? E ci costringe a visualizzare il momento in cui quel sorriso amichevole dell’uomo si è trasformato in ghigno mostruoso, mentre il viso disteso e sorridente del bambino veniva devastato dalla paura. La foto, con tutta l’assenza che contiene, ci costinge ad essere testimoni oculari di quel che è successo. E questo nostro essere testimoni si carica inconsciamente di senso di colpa. Scappa! urla una voce dentro di noi mentre guardiamo la foto. Vattene! Scendi da quel tram! Lo sai che non devi dare ascolto agli sconosciuti. Te l’ha detto mille volte la mamma. Lo sai, mannaggia a te. E vorremmo essere lì, uno di quei passeggeri di cui nel fotogramma si scorgono le gambe dietro l’uomo e il bambino. Prendere quel bambino per mano, strapparlo via di lì, abbracciarlo dopo averlo sgridato per la sua imprudenza. Proteggerlo. Questo ci costringe a pensare quel che vediamo. Che non abbiamo fatto nulla di tutto questo, non lo abbiamo protetto.

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La forza delle immagini

Certo, a livello cosciente sappiamo benissimo che non potevamo fare niente, che quella foto ha senso oggi solo per il dramma che si è consumato dopo, ma dentro ci rimane questo terribile destino di essere stati testimoni impotenti di una mostruosità. La forza devastante delle immagini è questa, che ci interpellano, ci chiamano per nome portandoci davanti alle cose, anche a quelle di cui non portiamo responsabilità. Se avessi solo letto la storia disgraziata di Mitja avrei avuto un filtro più sottile con cui elaborarla. I nomi non sono le facce, e nessuna ricostruzione giornalistica di questo orrore totale avrebbe avuto mai l’impatto emotivo dello sguardo di Mitja che lancia il suo sorriso oltre il finestrino, mentre il suo prossimo carnefice storce quasi la bocca per trattenere il riso. Non so da dove venga questa forza dell’immagine che ci impone il ruolo di testimoni impotenti (da antropologo culturale, dovrei dire che sta nella storia della nostra cultura dell’immagine, ma ho il forte sospetto che la base biologica sia dominante, che molto dipenda dal modo in cui ci siamo evoluti dando priorità a quel che vedevamo) ma so che a volte si fa proprio intollerabile.

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