UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA DIPARTIMENTO DI ARCHEOLOGIA E STORIA DELLE ARTI
ANNO ACCADEMICO 2007/2008 PRIMO SEMESTRE
ANTROPOLOGIA SOCIALE PIERO VERENI MATERIALI DIDATTICI PRIMA PARTE
ANTROPOLOGIA SOCIALE 4 CFU (I SEMESTRE I PERIODO) - PROGRAMMA E TESTI PER LA VALUTAZIONE Docente: Piero Vereni Studio: Cubo 21/b ultimo piano Telefono studio: 0984-49-4309 E-mail:
[email protected] blog: pierovereni.blogspot.com file mp3 delle lezioni di questo modulo: www.esnips.com/web/AntropologiaSociale Ricevimento: fino a Natale mercoledì pomeriggio dalle 14.15 alle 18.45. Da gennaio 2008: martedì mattina 8.30-12.30 (necessario prenotarsi via mail).
Osservare chi guarda: la visione dell’antropologo e la visione del mondo attraverso il sistema globale delle comunicazioni Il modulo è rivolto agli studenti della Laurea Specialistica. Quanti non avessero sostenuto in precedenza crediti del gruppo M-DEA/01 sono tenuti a contattarmi al più presto, per concordare le necessarie integrazioni. Il modulo ha l’obiettivo di sviluppare negli studenti una sensibilità empirica per lo stato attuale del sistema della comunicazione e per la sua analisi in chiave antropologica. Si presterà attenzione agli aspetti culturali della globalizzazione dal punto di vista del sempre più rapido movimento di persone (migrazioni, diaspore) e di informazione (televisione, internet) su scala planetaria e si cercheranno le forme attuali della rappresentazione estetica in questo quadro complessivo. Modalità di esame Testo scritto da elaborare a casa e colloquio finale. Testi • Dispense con materiali didattici organizzati dal docente (questa è la prima parte) • Clifford Geertz, “Gli usi della diversità”, La società degli individui, III, 8, 2000/2002 • Paola de Sanctis Ricciardone, Ultracorpi. Figure di cultura materiale e antropologia, Napoli, Liguori, 2007. • Arjun Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001..
ANTROPOLOGIA SOCIALE 4 CFU (I SEMESTRE II PERIODO) CALENDARIO E ARGOMENTI DELLE LEZIONI DATA
TESTO DI RIFERIMENTO
4. LUN 26 novembre
Dispensa Vereni AS Dispense Vereni AS Geertz, Gli usi della diversità Appadurai capitolo 1
5. MAR 27 novembre
Appadurai capitolo 2
6. MER 28 novembre
Appadurai capitolo 4
7. LUN 3 dicembre 8. MAR 4 dicembre 9. MER 5 dicembre 10. LUN 10 dicembre 11. MAR 11 dicembre
Appadurai capitolo 6 Appadurai capitolo 7 Dispense Vereni AS Dispense Vereni AS Dispense Vereni AS
12. MER 12 dicembre 13. LUN 17 dicembre 14. MAR 18 dicembre
Dispense Vereni AS Dispense Vereni AS Paola de Sanctis Ricciardone Ultracorpi Paola de Sanctis Ricciardone Ultracorpi
1. LUN 19 novembre 2. MAR 20 novembre 3. MER 21 novembre
15. MER 19 dicembre
ARGOMENTI Il concetto antropologico di cultura: la cultura è appresa, condivisa, simbolica Etnocentrismo, relativismo culturale, riflessività, ricerca sul campo Relativismo, diversità, etnocentrismo, immaginazione antropologica “Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale”. Etnorama, mediorama, finanziorama, ideorama, tecnorama. Un nuovo lessico per la crisi della modernità “Etnorami globali: appunti e questioni per un’antropologia transnazionale”. Deterritorializzazione e le forme per raccontarla “Giocare con la modernità: la decolonizzazione del cricket indiano”. Decolonizzazione e indigenizzazione. :“Sopravvivere al primordialismo”. Conflitti etnici e primordialismo “Il patriottismo e i suoi futuri”. Il concetto di transnazione Immaginazione e potere. Identità e mezzi di comunicazione di massa La forza delle immagini. Alcuni esempi “esotici” : Tonga e Nuova Guinea La forza delle immagini. Alcuni esempi “indigeni”: la violenza, la sua rappresentazione, il suo fantasma Soapizzazione dell’anima. Identità e televisione Identità albanese e mezzi di comunicazione di massa Collezionismo e autenticità (prima parte) Collezionismo e autenticità (prima parte)
Per ragioni di tempo, e diversamente da quanto segnalato nel programma generale affisso, in questo modulo i due esoneri scritti verranno svolti a casa e consegnati al docente in formato elettronico (file spedito via mail). Le date di consegna verranno indicate nel corso delle lezioni ma orientativamente saranno a partire dal 29 novembre consegna del primo esonero (alla fine della prima sezione del corso) e dopo il 19 dicembre consegna del secondo esonero (alla fine del modulo).
APPUNTI PER LA PREPARAZIONE DEL MODULO DI ANTROPOLOGIA SOCIALE 2007-2008 – PIERO VERENI - UNICAL 1. ALCUNI CONCETTI DI BASE Nelle prime lezioni abbiamo articolato alcuni aspetti basilari dell’antropologia culturale, insistendo esplicitamente su questi argomenti: 1) il concetto antropologico di cultura 2) definizione e funzione dell’etnocentrismo 3) il relativismo culturale e il suo senso antropologico 4) la riflessività 5) la ricerca sul campo 1.1. LA CULTURA Per quanto riguarda a), abbiamo detto che gli antropologi considerano cultura l’insieme dei comportamenti, delle pratiche dei manufatti e di qualunque altra “cosa” prodotta dall’uomo e dotata di queste tre caratteristiche: 1. è appresa 2. è condivisa 3. ha una componente di natura simbolica 1.1.A. LA CULTURA È APPRESA Per quanto riguarda la NATURA APPRESA della cultura, ciò significa che non è cultura qualunque COMPORTAMENTO INNATO dell’uomo (come la suzione dei neonati) e abbiamo visto come lo spazio dei comportamenti naturali (innati) negli esseri umani sia estremamente ridotto, tanto che anche la postura eretta (camminare su due piedi) deve in qualche modo essere “attivata” dal gruppo sociale nel quale siamo inseriti (i bambini “selvaggi” allevati da animali non praticano la postura eretta). Mentre cioè gli altri animali si affidano in massima misura a comportamenti innati, che cioè fanno parte del loro corredo genetico e che possono essere trasmessi direttamente alla prole per via biologica (un’ape operaia non impara a raccogliere il nettare, come non impara a fare le cellette esagonali: è il suo modo naturale di comportarsi, e non può fare altro), gli esseri umani devono APPRENDERE (quasi) tutto quello che fanno, e praticamente tutto quello che pensano e dicono. In altre parole, la cultura ha la stessa funzione che ha negli animali il corredo genetico (trasmettere un sapere: il gatto trasmette alla prole la capacità di ritrarre gli artigli e di miagolare), ma si affida all’apprendimento, non alla biologia, e quindi può mutare in tempi infinitamente più rapidi, rivelandosi uno strumento di adattamento senza pari. Se cioè un determinato comportamento innato si rivela non più adattivo (cioè non più adeguato a garantire la sopravvivenza per la specie che lo pratica) può portare all’estinzione di quella specie. Immaginate cosa succederebbe alle api se, per
qualche ragione, sparissero i fiori… La cultura invece ha una flessibilità straordinaria, proprio perché la sua trasmissione non passa per via genetica ma attraverso l’apprendimento. Immaginate che tra le sfortunate api rimaste senza fiori ce ne sia una che per qualche mutazione genetica ha imparato a sopravvivere nutrendosi di qualcos’altro (poniamo, di grano). Certo, quell’ape potrà sopravvivere, ma per poter riprodurre questo comportamento (e per far sopravvivere le api come specie) dovrebbe accoppiarsi e sperare di avere un numero adeguato di successori con il suo stesso corredo genetico (in grado cioè di nutrirsi con il grano invece che con il polline dei fiori). Immaginate invece ora un gruppo umano che si sia specializzato nella caccia ai conigli, e che per qualche ragione i conigli spariscano d’improvviso. Immaginate inoltre che tra i membri di quel gruppo umano uno abbia imparato (seppure casualmente) a pescare o a procurarsi comunque del cibo diverso dai conigli. Le possibilità che questo nuovo comportamento si trasmetta al resto del gruppo sono infinitamente maggiori che nel caso del mutamento comportamentale delle api. Lo “scopritore della pesca”, infatti, non deve aspettare di riprodursi e sperare che la sua prole abbia ereditato le sue competenze in fatto di ami e di lenze, ma può “semplicemente” radunare i membri del suo gruppo e INSEGNARE loro come si pesca. In questo modo, un comportamento nuovo e adattivo può trasmettersi in tempi portentosamente rapidi (se comparati ai tempi della biologia) e attraverso individui diversissimi tra loro (dato che non serve assolutamente che abbiano lo stesso corredo genetico per condividere quel sapere). Ma se un nuovo comportamento può diffondersi in tempi rapidissimi, altrettanto rapidamente può andare perduto se non viene costantemente rinnovata la sua trasmissione alle nuove generazioni. Tutti voi, ad esempio, sapete che in Olanda ci sono moltissime biciclette e molti servizi urbani sono organizzati proprio per facilitare gli spostamenti in bici. Questo comportamento si è diffuso soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, divenendo un segno distintivo dell’Olanda (soprattutto nelle sue aree urbane) in modo particolare negli anni Sessanta e Settanta. Ciò significa che le persone che oggi hanno all’incirca cinquant’anni sono cresciute in un ambiente sociale e culturale per cui andare in bicicletta era considerato non solo normale e sano, ma anche “giusto”. Le generazioni più giovani, quelle che hanno all’incirca la vostra età, premono invece perché nei centri storici venga consentito un accesso più semplice alle automobili e ai motocicli: se l’Olanda cioè non trova un modo per trasmettere alle nuove generazioni la “giustezza” dell’andare in bicicletta, è possibile che questo comportamento subisca un drastico calo nei prossimi anni, mano a mano che i giovani saliranno nelle stanze delle amministrazioni e della politica. L’esempio serve solo a far notare come un comportamento, per quanto
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possa apparire vantaggioso, non viene mantenuto “automaticamente” tra le generazioni, ma ha bisogno di essere confermato e rinforzato ad ogni passaggio generazionale. La trasmissione culturale, quindi, si presente come estremamente flessibile e mutevole: una generazione può rifiutare l’acquisizione della generazione immediatamente precedente. Il fatto che gli individui che apprendono il nuovo comportamento siano estremamente diversi tra di loro (ci sarà quello forte e quello timido, quello intraprendente e quello pigro) costituisce un ulteriore fattore di adattamento potenziale della cultura. Se infatti lo stesso insegnamento è appreso da persone diverse tra loro, è probabile che verrà elaborato in modi diversi: qualcuno non saprà che farsene di quell’insegnamento, altri lo ripeteranno pedissequamente, altri ancora però vi apporteranno delle modifiche (abbiamo sempre pescato con gli ami fatti così, ma se li facciamo cosà peschiamo di più) che possono essere vantaggiose e che possono “tornare” anche all’emissario di partenza (quello che aveva insegnato a pescare per primo). Nel caso delle api, invece, il sistema standard della trasmissione del sapere (come si cava del cibo dal grano) è fortemente omogeneizzante: è bene che chi eredita quel sapere lo erediti per intero e senza modifiche. Mentre cioè la trasmissione per via biologica tende all’uniformazione entro la specie (un eccesso di mutamento genetico può produrre un’incompatibilità riproduttiva e quindi una nuova specie, che farà la sua storia evolutiva separata dalla specie da cui è nata), la trasmissione culturale accetta un grado pressoché infinito di variazione intraspecie. Detto altrimenti, mentre un’ape che impara a mangiare il grano è probabile che smetta di essere un’ape (magari per cominciare a somigliare a una cavalletta), un essere umano che impara pratiche culturali diverse diventa “ancora più uomo”, e non corre mai il pericolo di creare attraverso la cultura una barriera insormontabile con altri esseri umani, dato che la cultura che ha imparato: a) può essere trasmessa ad altri esseri umani che ancora non la condividono; b) può essere mutata dallo stesso portatore (che impara a pescare se spariscono i conigli); c) è comunque non del tutto omogenea già all’interno del gruppo che ne sarebbe il tenutario principale (una comunità di “pescatori” prevedrà comunque persone che pescano meglio e altre che pescano peggio, “stili” e “tradizioni” diverse di pesca, addirittura “scuole di pensiero” conflittuali su cosa sia una buona attività di pesca). Ma prima di ritornare su questo tema (della complessità “interna” delle culture) riprendiamo il filo della trasmissione del sapere per via culturale, che ci consente di chiarire ulteriormente il concetto antropologico di cultura. Il fatto che la cultura sia un sapere appreso rischia di creare dei fraintendimenti proprio sulla natura di quel sapere. Quel che impariamo, infatti, può essere appreso in diversi modi e, per così dire, a diversi livelli. State leggendo questi appunti perché volete imparare qualcosa di antropologia culturale. In questo caso tutto è piuttosto chiaro: chi deve insegnare
(i docenti), chi imparare (voi) e cosa state imparando (la storia della cultura materiale). Altrettanto chiaro il modo in cui state imparando: grazie a un procedimento formalizzato (lezioni, studio) che passa soprattutto attraverso il linguaggio. Pensate invece ai vostri gusti musicali, o alla vostra capacità di praticare una certa attività fisica (uno sport, un gioco). Chi vi ha insegnato che quel cantante “fa schifo” e quell’altro invece è bravo? Chi vi ha insegnato quello stile di nuoto, a passare bene la palla, a muovervi su una pista da ballo? Avete imparato per imitazione, per rielaborazione, spesso senza sapere chi vi stava insegnando, oppure secondo modalità che non sono state principalmente linguistiche (pensate al ballo, ad esempio, che non si impara “leggendo” o “studiando”, ma “guardando” e “facendo”, anche se prendete delle lezioni: un’attività in cui la componente linguistica della trasmissione non è quella principale). Dobbiamo quindi distinguere un sapere trasmesso in modo FORMALE (tutta l’educazione scolastica è di questo tipo) da uno trasmesso INFORMALMENTE (come i gusti musicali ed estetici in generale), in cui cioè non è chiaro chi abbia il compito di insegnare. Dobbiamo inoltre distinguere un sapere sostanzialmente di tipo LINGUISTICO da un sapere DEL CORPO che non passa necessariamente o principalmente attraverso la spiegazione linguistica. Abbiamo poi accennato a un’altra opposizione importante per chiarire il concetto antropologico di cultura, e cioè quella tra cultura ALTA e cultura BASSA, citando l’esempio della playstation. Una consolle per videogiochi oggi richiede, da parte di un giocatore esperto, una notevole competenza e un duro addestramento: per l’antropologia interessata alle pratiche culturali il fatto che saper giocare alla playstation non sia particolarmente prestigioso (che cioè non venga considerato parte della “cultura alta” come, ad esempio, suonare il violoncello) non muta l’interesse per questa pratica. Per l’antropologia culturale capire come si impara a suonare il pianoforte, a giocare con la playstation o a intrecciare un canestro di vimini (tre attività manuali associate a livelli sociali estremamente diversi) è altrettanto importante, perché in tutti e tre i casi siamo di fronte a comportamenti appresi, e quindi di natura culturale. L’antropologia quindi non distingue tra una cultura alta e una cultura bassa come oggetti di studio: riconosce che gli uomini attribuiscono diversi valori (morali o economici) alle diverse competenze (per cui oggi saper giocare bene a calcio vale molto di più di quanto non valesse trent’anni fa, in termini economici, ma sapere sette lingue straniere è comunque considerato estremamente prestigioso, anche se chi le sa non è ricco) ma è interessata a tutte le forme di competenza. Anzi, uno degli oggetti di studio dell’antropologia è proprio il modo in cui le diverse culture mettono su diverse scale di prestigio o valore le diverse competenze dei singoli. Un ultimo aspetto, particolarmente interessante per le conseguenze metodologiche che possiamo trarne, della cultura in senso antropologico è costituito dal fatto che
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non solo spesso non è chiaro chi insegna, non solo spesso non è chiaro come quel sapere venga insegnato, ma a volte non è neppure chiaro che cosa venga insegnato. Può cioè capitare, quando si studia la cultura in senso antropologico, di incontrare forme di conoscenza che sono chiaramente apprese, ma che i portatori di quella cultura non sono consapevoli di sapere. Abbiamo a questo proposito raccontato l’apologo dei due archeologi (uno italiano e uno straniero ma che parla l’italiano) che ritrovano dentro una nave un’ancora, un anello e un’anfora. Non ripeterò qui la storia (chi non fosse stato presente se la faccia raccontare da qualche collega) ma il senso deve essere chiaro: chi conosce “fino in fondo” una cultura? Sono gli “indigeni”, cioè i portatori di quella cultura, solo perché dentro quella cultura sono nati e cresciuti? Oppure anche un “esterno” può imparare a conoscere come funziona una cultura che non gli è familiare? Come vedrete, questo è un tema che ricompare quando si affronta la ricerca sul campo e la questione più generale di come sia possibile conoscere una cultura diversa dalla nostra. 1.1.B LA CULTURA È CONDIVISA DAI SUOI MEMBRI Su questo punto abbiamo insistito soprattutto per quanto riguarda la DELIMITAZIONE delle culture. A tutti noi appare evidente che un americano non è un francese, che un irakeno non è un argentino, che un basco non è un castigliano e così via. Ci sono ovviamente diversi elementi culturali che possiamo utilizzare come tratti discriminanti: la lingua, la religione, l’abbigliamento, il sistema di valori (cos’è bene e cos’è male, in quella cultura). Non possiamo, invece, utilizzare tratti somatici (il colore della pelle, ad esempio) proprio per quanto abbiamo detto sul modo non biologico con cui si trasmette la cultura: tutti conosciamo diversi esempi di italiani di colore, e il caso è ovviamente ancora più nitido nel caso di paesi con una storia più lunga e complessa di immigrazione (Gran Bretagna, Francia, Olanda, per non dire degli Stati Uniti). Questo per dire che, indipendentemente da quello che potremmo presupporre dalle caratteristiche somatiche, gli esseri umani sono in grado di imparare qualunque sistema culturale come “loro proprio” (si chiama processo di INCULTURAZIONE quel complesso meccanismo di apprendimento della cultura “madre”, mentre si chiama ACCULTURAZIONE qualunque processo di acquisizione di una cultura diversa, successivamente al processo di INCULTURAZIONE). Questa evidente disponibilità delle culture ad essere apprese da chiunque deve però spingerci a riflettere proprio sull’entità di quella condivisione. Molto spesso (per ragioni complesse che non possiamo affrontare se non brevemente in questo modulo) tendiamo a “sopravvalutare” la compattezza delle culture, e a considerarle come entità completamente separate una dall’altra: di qui i Nayar, di là i Nuer. Da una parte i Maya, e dall’altra gli Incas. Oppure (il che è lo stesso) da una parte gli Irlandesi e da quella opposta gli Inglesi. In effetti, nessuno
può dubitare che le culture tendano a coagularsi attorno ad alcuni elementi caratterizzanti, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi la nettezza con cui crediamo di poter distinguere tra diverse culture è più apparente che reale. “Dentro” ogni cultura, tanto per iniziare, vi saranno persone con conoscenze diverse, con valori non condivisi e spesso addirittura in conflitto tra loro. Pensate ad esempio a come la cosiddetta “cultura occidentale” stia in questi ultimi anni affrontando un ripensamento profondo della propria dimensione religiosa. L’Islam è compatibile con “l’occidente”? Non importa rispondere a questa domanda (non in questa sede, almeno), mentre è interessante chiedersi cosa quella domanda dà per scontato, e cioè che il Cristianesimo sia invece non solo compatibile, ma un vero e proprio tratto caratteristico dell’Occidente. Ma se il Cristianesimo è alla radice dell’Occidente, non è alla base dell’Occidente moderno anche il pensiero laico e razionalista, il materialismo scientista e l’ateismo come prospettiva antropologica radicale? Chi potrebbe contestare che l’Illuminismo, il marxismo o la psicoanalisi sono prodotti intellettuali assolutamente occidentali (europei)? Eppure è noto a tutti che queste visioni del mondo hanno criticato duramente (pur se in modi diversi) proprio la radici cristiane del pensiero occidentale. Sto cercando di dire che il Cristianesimo è un figlio legittimo della cultura che chiamiamo “occidentale” quanto lo è l’Illuminismo, anche se i due sistemi di pensiero sono per molti versi inconciliabili. Invito gli studenti a pensare altri esempi di sistemi di valori in conflitto entro quella che apparentemente è la stessa cultura. Possiamo parlare di una cultura calabrese? Per molti versi sì, riconducibile a una famiglia omogenea di dialetti e a un passato storico, artistico, politico e addirittura economico (il latifondo) ricostruibile con estrema precisione. Eppure chi non conosce le rivalità che oppongono in Calabria i diversi comuni? Scendendo ancora di livello, chi non si accorge, una volta a Cosenza, che si respira un’aria “culturale” per molti versi riconoscibile, che si è dentro uno spazio segnato da una qualche forma di condivisione? Eppure mi chiedo che cosa avrebbero da dirsi un giovane ultrà del Cosenza e la vecchia signora che tutti i giorni dice il rosario nella chiesa della sua parrocchia, anche se sono tutti e due calabresi. Non dovrebbero condividere un’unica cultura? In realtà, c’è un margine di sovrapposizione tra quanti partecipano alla “stessa cultura”, ma quasi mai una sovrapposizione totale, per le ragioni che dicevamo sul modo in cui apprendiamo modificando soggettivamente quel che impariamo. Nel caso calabrese, poi, l’appartenenza regionale è ulteriormente complicata dalla presenza di tradizioni linguistiche specifiche: l’arbreshe e il grecano sono ancora parlati (soprattutto il primo), e complicano notevolmente il sistema delle appartenenze. Quindi, primo punto, le culture sono estremamente complicate già al loro interno, per il fatto che i loro membri si dispongono lungo fasce di età differenti (gli anziani sanno cose che i giovani non sanno, e viceversa), su diverse scale sociali (in base al
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reddito, all’istruzione, all’origine familiare) e su diverse strategie di competenza (chi ne sa “di più” tra un chirurgo e un pianista, tra un botanico e un filologo, tra un idraulico e un elettricista? La domanda non ha ovviamente senso, dato che ognuno ha una competenza specifica). Per questa ragione, nessuno possiede tutta la “propria” cultura, e nessuno possiede solo elementi culturali comunque riconducibili alla “propria” cultura (collocatevi dove vi pare, ma se avete tatuaggi o piercing vi sfido a dimostrarmi che si tratta di elementi culturali tipicamente italiani, o calabresi o quel che volete). Vista da questa prospettiva la differenza tra culture si fa meno rigida e meno netta, dunque. Ma c’è dell’altro che dobbiamo aggiungere per capire effettivamente come si realizza la condivisione culturale, e che forme assume. L’ultimo esempio che abbiamo fatto (i tatuaggi e i piercing) sembrerebbe comunque appartenere alla famiglia delle eccezioni che confermano la regola: va bene, il tatuaggio no, ma sono calabrese e cresciuto qui, prova a dimostrarmi che questo non è tipico e che non caratterizza la mia appartenenza in modo netto! Bene, ci provo, e per farlo anticipo in linea generale l’argomento che proverò a dimostrare per via di esempi. Il punto è che le culture non solo sono immerse nel tempo (cambiano) ma sono nate nel tempo. È questo quello che tendiamo a dimenticare, anche quando siamo disposti ad ammettere i mutamenti in corso (dovrei dire meglio: proprio quando ci lamentiamo dei mutamenti in corso). Riconosciamo cioè i mutamenti in corso (i tatuaggi, i piercing, i ristoranti cinesi) ma tendiamo a collocarli su uno sfondo di immutabilità che non ha alcuna giustificazione storica. Quando pensiamo alla nostra cultura che oggi si cambia e si modifica, si mescola e si intreccia con altre tradizioni culturali, dentro di noi confrontiamo lo stato attuale (di modificazione e mescolamento) con uno stato precedente in cui invece la nostra cultura era pura, intonsa, non ancora mescolata con altre. Il punto è esattamente questo: lo stato originario in cui le culture erano pure e separate NON È MAI ESISTITO, è un’invenzione del nostro modo di pensare al passato, che salta non appena ci confrontiamo con la realtà storica. Prendiamo un primo esempio. Cosa bevono gli inglesi alle cinque del pomeriggio? Tè, si sa. Il tè è (assieme alle birre poco gassate e tiepide che servono nei pub) la bevanda nazionale inglese (e britannica, più in generale). Si sa quanto il tè con lo zucchero sia stato un alimento essenziale della classe operaia durante le fasi più intense della rivoluzione industriale, ma anche un simbolo dell’emergente borghesia. Questa bevanda è in grado di condensare la forza rude del proletariato (che beve il tè mentre cena, nei mugs, le tazze cilindriche spesso in metallo) e il gusto delle classi dominanti (che bevono tè in tazze svasate di porcellana, rendendolo l’accompagnamento di spuntini nutrienti come i cucumber sandwiches o di cibi “astratti” come la pasticceria). Il tè è quindi non solo un elemento importante del sistema alimentare britannico, ma è quasi un simbolo prediletto di quel sistema e
dell’idea di Britishness. Ma da dove viene quel tè? Non è certo un prodotto indigeno, anzi. Il tè non cresce (non può crescere) nelle isole britanniche, è stato importato di recente (da pochi secoli vuol dire di recente) e la regina Elisabetta I o William Shakespeare (qualcuno oserebbe dire che non erano “tipicamente” inglesi?) non bevevano tè. Eppure oggi siamo disposti ad accettare il tè come una bevanda “tipicamente” o “tradizionalmente” inglese. Se qualcuno poi pensasse che l’usanza oggi tipicamente inglese di sorseggiare tè sia stata assunta dai colonizzatori britannici durante la loro permanenza in India (come se quindi la recente tradizione britannica si basasse in effetti su una più antica tradizione del subcontinente indiano) precisiamo che fino agli anni trenta dell’Ottocento il tè era prodotto solo in Cina, e di lì esportato tramite i commercianti olandesi. Fu solo dopo il 1834 che la coltivazione del tè venne introdotta nel subcontinente indiano. Il caso della “pasta al pomodoro” – questa volta “tipicamente” italiano – è altrettanto indicativo: nei libri di cucina napoletani dei primi dell’Ottocento esistevano i “maccaroni” e esisteva la “pummarola”, ma i primi si mangiavano a timballo e venivano cotti al forno, la seconda invece si poteva associare alle carni, al pesce e alle verdure, ma non era mai “in coppa” alla pasta. Questo vuol dire che ci deve essere stato un momento nel corso dell’Ottocento in cui si è cominciato a mangiare la pasta con il sugo di pomodoro, e certamente in quel periodo nessuno pensava che la pasta al sugo fosse un piatto “tradizionale” o “tipico”. (Ovviamente non accenno neppure al fatto che sia la pasta come la conosciamo noi sia il pomodoro sono stati introdotti in Italia da pochi secoli). Ecco, quanto tempo ci vuole perché un’usanza culturale possa essere considerata come caratteristica di quella cultura? Ovviamente la domanda non ha una risposta assoluta, ma va indagata caso per caso. E se si hanno informazioni sufficienti si potrà scoprire che, caso per caso, ogni elemento culturale ha una storia che è fatta di prestiti, commistioni e incroci. È la prospettiva da cui guardiamo alla realtà culturale che ci fa immaginare di provenire da un passato statico messo in crisi dalla mutevolezza del presente. Le culture sono accorpamenti estremamente permeabili e fragili di elementi culturali, che nel corso dei tempi hanno sempre subito modificazioni. Del resto, non può che essere così, se pensiamo in prospettiva storica: non ha senso pensare a una qualunque cultura come qualcosa di originario che “poi” si sarebbe inquinato, dato che questa immagine presuppone che le culture siano state create tutte contemporaneamente e tutte diverse, e che poi, eventualmente, si sarebbero incrociate e commiste. In realtà, il processo storico è stato proprio l’opposto. La diversità culturale è cresciuta proprio grazie alla commistione. Se io che ho imparato a pescare da quello che me l’ha insegnato ci metto del mio (uso le reti invece degli ami) ecco che sto creando una cultura della “pesca con le reti”, che si differenzia dalla “pesca con gli ami”. Se mi hanno insegnato il latino e io lo parlo
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mescolandolo con le parlate italiche e germaniche, ecco che faccio nascere l’italiano. Potremmo dire che l’italiano è un latino “inquinato”? O dovremmo invece pensare che l’italiano è sempre esistito, ma era stato “coperto” dal latino e si sarebbe “scoperto” nel corso del tardo medioevo? Entrambe le ipotesi sembrano vere sciocchezze: l’italiano non è una versione “povera” del latino, e non è un’entità pura che sarebbe emersa nel suo splendore solo nel corso dei secoli. È piuttosto un prodotto storico, come qualunque altro A N elemento di qualunque altra cultura. È forse possibile dare una N raffigurazione grafica della concezione B antropologica di cultura come raggruppamento in uno specifico momento storico di alcuni elementi culturali, e opporre questa raffigurazione al modello che N C vorrebbe invece le culture come entità separate e a rischio di commistione. Nella figura qui a fianco la sequenza temporale si sviluppa dall’alto al basso, mentre le diverse linee e le loro forme differenti stanno a indicare i diversi elementi culturali (ad esempio: praticare l’agricoltura, fare i piercing, professare il monoteismo, far uso della televisione, non mangiare il maiale, eccetera, eccetera, eccetera). In questa figura ipersemplificata rispetto a qualunque condizione reale, gli elementi culturali (raffigurati con i diversi tipi di linea) si spostano nel N N N A tempo (sul piano verticale) e nello spazio (sul piano orizzontale). Dato un qualunque momento storico (A, B, C), è possibile individuare specifiche B configurazioni culturali come “nodi” (N1, N2, eccetera) attorno a cui si “raddensano” alcuni elementi culturali. Come è evidente, non c’è un momento “originario” per i singoli nodi, e non è C neppure possibile stabilire con assoluta precisione dove finisca un determinato raggruppamento culturale (anche se è possibile individuare per ogni nodo i punti in cui i singoli elementi culturali sono più fittamente intrecciati).
Secondo invece la seconda figura, le culture sono entità nettamente distinte che preesistono a qualunque commistione, che è il prodotto della “corruzione” del tempo. In questo modello, le culture sono l’entità primigenie che il tempo tende a mescolare o a fondere. Quando quindi diciamo che la cultura è costituita da elementi culturali condivisi dai membri della comunità culturale, dobbiamo sempre stare attenti che non sia l’idea stessa di condivisione a generare l’illusione di una cultura intesa come entità compatta, distinta, nettamente separabile dalle altre culture. La condivisione è quindi un concetto sempre relativo: i membri che diciamo (o che dicono) di appartenere alla cultura x sono tali in quanto ciò che condividono tra loro è maggiore di ciò che condividono con altri individui, che si definiscono (o che definiamo) appartenenti ad altre culture. 1.1.C LA CULTURA È SIMBOLICA Quanto abbiamo detto sulla natura appresa e condivisa in senso relativo della cultura ci costringe a riflettere più a fondo sul meccanismo di base delle culture umane. Come abbiamo visto, far parte di una cultura vuol dire sostanzialmente condividere attraverso l’apprendimento una serie di pratiche, di valori e di istituzioni. Mentre cioè un’ape appartiene alla specie delle api perché è dotata del patrimonio genetico (e quindi comportamentale) che distingue le api da qualunque altro essere (animato o inanimato), un essere umano appartiene a una cultura perché ne condivide gli elementi avendoli appresi. L’apprendimento, come abbiamo segnalato brevemente, non avviene in modo meccanico, ma attraverso complesse operazioni di trasmissione (formale e informale, a base linguistica e a base corporale, con contenuti espliciti o impliciti). Un qualunque elemento culturale (saper pescare) non può quindi essere trasmesso se chi riceve il messaggio non è in grado di interpretarlo, di rielaborarlo, di farlo proprio, ed eventualmente di inviare a sua volta messaggi per chiedere chiarimenti, per sollevare dubbi o per porre critiche al messaggio ricevuto. Anche la più semplice operazione di trasmissione culturale deve accettare questo meccanismo di base, per cui chi impara deve essere in grado di farlo, il che significa che deve avere una parte attiva e non può limitarsi a ricevere passivamente l’insegnamento (provate a insegnare una cosa qualunque al vostro tavolino, e capirete che cosa intendo). Gli antropologi riassumono questa specificità della trasmissione culturale dicendo che la cultura è un CAMPO SEMIOTICO o, con altro termine, un SISTEMA DI SEGNI. Per capire di che si tratta vediamo brevemente alcune definizioni preliminari. La semiotica studia i segni (non solo linguistici) intesi come l’unione arbitraria di un SIGNIFICANTE e di un SIGNIFICATO. Il significante è la forma, il “mezzo” che assume il segno per essere veicolato (inchiostro se il segno è scritto, onde sonore se il segno è
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sonoro, qualunque materiale se il segno non è strettamente linguistico), per cui il segno “cane” è costituito da un significante (che indichiamo convenzionalmente tra barre oblique: /cane/) e da un significato (che indichiamo invece tra apici semplici: ‘cane’). Il significante può essere quanto di più vario possiamo immaginare: in queste pagine, il significante è costituito dalle lettere che vedete scritte, e cioè /cane/, ma potrebbe anche essere qualcosa simile al disegno qui riportato. Come appare per ora intuitivo, sia il disegno qui a fianco (per quanto maldestro) che le lettere comprese tra le barre oblique /cane/ veicolano lo stesso significato, sono cioè due significanti estremamente diversi che veicolano però lo stesso significato. Questo intanto ci permette di dire che il RAPPORTO TRA SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO è ARBITRARIO, cioè non c’è nessuna ragione “naturale” per cui il significato ‘cane’ debba essere espresso con il disegno che ho fatto, con il significante /cane/, come fa la lingua italiana, o con il significante /dog/, come fa invece la lingua inglese. Se il segno come unione arbitraria di significante e significato e la natura convenzionale del significante sono due concetti facilmente comprensibili, solleva invece più di un problema la natura di quello che finora non abbiamo ancora definito, e cioè il significato. Senza voler ripercorrere la storia dello studio dei segni (che è ben più lunga della semiotica moderna) e senza neppure pretendere di riassumere un dibattito che coinvolge da sempre la riflessione filosofica, per i nostri scopi sarà sufficiente dire che possiamo concepire due teorie del significato, che qui ci limitiamo a definire brevissimamente. La prima è la cosiddetta TEORIA REFERENZIALE, per cui il significato di cane in qualche modo coincide con l’animale o con “l’immagine mentale” che abbiamo dell’animale. Secondo questa teoria, quando dico /cane/ intendo riferirmi all’animale che ho in mente, o a quello che passa per la strada in quel momento. Una teoria referenziale del significato è ben rappresentata dalle definizioni di un vocabolario: per ogni voce si dà una brevissima definizione, astratta da ogni riferimento contestuale. La seconda teoria invece si può definire TEORIA DELL’USO, e sostiene che il significato è dato dall’insieme di norme, pratiche e consuetudini che possiamo associare a quel segno se vogliamo che sia comprensibile per chi ci sta ascoltando. Secondo questa teoria, il significato di “cane” è dato da tutto quello che potenzialmente possiamo “raccontare” (i semiologi professionisti riprendono il termine filosofico “predicare”) del segno “cane”. Per cui il significato di “cane” è dato dall’uso che facciamo dell’insieme delle informazioni “enciclopediche” che abbiamo di cane.
Questa teoria dell’uso risulta a mia esperienza particolarmente ostica da comprendere in termini astratti, ma solitamente diviene particolarmente evidente quando esplicitata attraverso esempi concreti (il che sembrerebbe confermare proprio la “teoria dell’uso” del significato, visto che sto cercando di spiegarvi il significato di “teoria dell’uso”, e so per esperienza che una sua “definizione” non riesce a veicolarne il senso quanto una sua “narrazione”). Prendiamo il caso che io vi incontri e vi dica che ieri sera ho mangiato cotolette di cane. La cosa, oltre che stupirvi, credo che metterebbe in dubbio il senso della comunicazione, e quasi di riflesso molti di voi insisterebbero per “chiarire il senso” della mia affermazione. Perché questa richiesta di “chiarimento”? Per la ragione che il vostro significato di “cane” non contempla che l’animale sia commestibile, e anzi associa a questa eventualità una vera repulsione. Insomma, una frase apparentemente chiara e banale come: “Ieri sera ho mangiato cotolette di cane” (che in alcuni paesi asiatici non susciterebbe alcuna richiesta di chiarimento) crea problemi di interpretazione non perché i singoli elementi non siano decodificabili (come se avessi detto: “Ho sambilato catonate di prane”) ma perché entrano in conflitto con la rappresentazione enciclopedica del segno “cane”. Un ulteriore esempio, prima di trarre una conclusione importante. Se entrassi in aula e mi presentassi come Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, mi mettessi una mano nel panciotto e il dito mignolo dell’altra nell’orecchio, e capiste che “sto facendo sul serio”, probabilmente chiamereste l’ambulanza. Eppure “nella mia testa” e nella “vostra testa” potrebbe esserci un’idea alquanto precisa del significato del segno “Napoleone Bonaparte”. Quel che non va, in questo caso, è che il “mio” segno (nella mia testa) e il “vostro” segno (nella vostra testa) non avrebbero uno spazio condivisibile, non sarebbero “negoziabili” e – forti del vostro numero (tutto il mondo contro uno) – potreste dire che il significato che io associo al mio segno è “sbagliato”. Quel che questi due esempi estremi e fittizi vorrebbero dimostrare è che il significato non può limitarsi a stare “dentro la nostra testa”, ma deve essere SOCIALMENTE CONDIVISIBILE. Detto altrimenti, “IL SIGNIFICATO È PUBBLICO”: è cioè il prodotto di pratiche sociali e ha poco a che fare con “l’oggetto rappresentato”. Per capire cosa significa il segno “cane” nella cultura X devo quindi ricostruire il significato di quel termine attraverso l’indagine degli usi potenziali e legittimi di quel segno, per cui in Italia “cane” significa (tra le molte altre cose, e detto in modo estremamente semplificato): animale che quando torno a casa mi fa le feste e che devo portare a passeggio; una specie di strano amico poco esigente che mi aiuta a non sentirmi solo. Se invece cercassimo di capire qual è in significato del termine equivalente in coreano, dovremmo riuscire a concepire anche significati del tipo: animale che produce una carne prelibata e difficile da cucinare.
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Come vedete, ha poca importanza (dal punto di vista dell’analisi culturale) stabilire che il termine italiano “cane” e il termine corrispondente in coreano si riferiscono allo stesso “oggetto”, dato che l’identità dell’oggetto fisico non muterebbe la sostanza del problema, e cioè che in italiano e in coreano i due segni vengono usati in modi estremamente diversi, il che equivale a dire che il segno italiano “cane” e il corrispondente coreano non hanno lo stesso significato, e che l’unico modo per dar conto di questa differenza è ricostruire quale sia il significato plausibile del segno nel suo specifico contesto culturale o, detto altrimenti, ricostruire il significato pubblico del segno. Ecco allora che siamo tornati alla dimensione pubblica del significato. Non posso sperare di scavare nella mia testa per capire il significato di “cane” nella cultura coreana, ma sono costretto a interagire con i rappresentanti di quella cultura, a cercar di capire attraverso l’osservazione dei loro comportamenti e l’interazione linguistica quale sia PER LORO il significato della parola “cane”. Ecco, questo è esattamente quello che cerca di fare l’antropologia. Ci sono diversi modi per esprimere questo concetto. Si dice a volte che l’antropologo cerca di “capire le cose dal punto di vista dei nativi” oppure che l’antropologo studia i “significati nativi”, o ancora che l’antropologia studia le “reti di significato”, che sono “reti” perché i segni possono avere come significato un altro segno: se dico che in Italia il cane è “una specie di amico”, mi trovo a dover capire cosa significa il segno “amico”; e se dico che in alcuni paesi asiatici il cane produce una “carne prelibata”, dovrei capire cosa si intende per “prelibata”. I segni rimandano ad altri segni, e l’intreccio con cui i diversi segni si definiscono a vicenda produce una “rete semiotica”. Ma su questo torneremo parlando della ricerca sul campo. Concludiamo qui invece le nostre brevi riflessioni sul concetto antropologico di cultura. Riassumiamo quanto abbiamo stabilito finora: la cultura è costituita da una rete di simboli appresi e condivisi; l’informazione culturale non passa per via biologica ma attraverso forme di trasmissione che prevedono un ruolo attivo da parte di chi apprende; non è detto che i portatori di un determinato sistema culturale siano completamente consapevoli del contenuto delle loro pratiche culturali, dato che la trasmissione del sapere può essere formalizzata ma spesso passa per canali informali per cui è difficile stabilire chi insegna, chi impara, e che cosa precisamente venga insegnato e appreso; la cultura in senso antropologico può quindi essere alta o bassa, formale o informale, esplicita nei suoi contenuti o implicita; le culture associano arbitrariamente significanti e significati producendo segni culturali che hanno senso (sono riconosciuti come segni) solo se sono condivisi, e quindi possiamo dire che i significati sono pubblici, e non sono “nella testa” degli individui, ma invece costruiti dall’interazione comunicativa tra i membri di quella cultura; lo studio scientifico delle
culture è costituito proprio dal tentativo di ricostruire le reti si significato di una determinata cultura, cercando quindi di vedere le cose “dal punto di vista dei nativi”. Se tutto questo è vero, possiamo allora dire che il concetto antropologico di CULTURA riassume tutte le pratiche umane che si oppongono alla NATURA, intensa proprio come apparato che precede l’uomo e entro il quale l’uomo si trova ad agire. Fa parte della natura la nostra struttura biologica, il fatto che siamo mammiferi bipedi, il fatto che abbiamo il pollice opponibile, che non possiamo sopravvivere al di sotto o al di sopra di determinate temperature, che il nostro apparato digerente non riesce a decomporre la cellulosa (per cui non siamo erbivori), che i cuccioli della nostra specie hanno necessità di essere accuditi per un periodo eccezionalmente lungo prima di poter essere autosufficienti. Questi “fatti naturali”, comunque sono modulati dal contesto culturale nel quale cresciamo e devono essere attivati entro gruppi organizzati: facoltà chiaramente ed esclusivamente umane come la postura eretta o il linguaggio articolato non si sviluppano naturalmente, cioè senza l’intervento di altri esseri umani che le attivano e le stimolano, mentre la capacità di miagolare di un gatto sarà presente nell’adulto anche se quell’adulto è stato allevato, poniamo, da una cagna ed è cresciuto in mezzo ai cani. Il concetto antropologico di cultura è stato espresso nella sua forma canonica per le discipline antropologiche da E. B. Tylor nel suo Primitive Culture (1871): “La CULTURA… è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine ACQUISITA dall’uomo come membro di una società”. La cultura studiata dagli antropologi non si oppone quindi all’incultura (ignoranza) ma alla natura dell’uomo intesa come insieme delle sue qualità INNATE. Per esemplificare, abbiamo ricordato il mito di Epimeteo, che si “dimenticò” di preservare per gli esseri umani una qualche qualità innata (come invece aveva fatto per tutti gli altri animali creati da Giove) e quello di Prometeo, che proprio per compensare questa mancanza decise di rubare il fuoco agli dei (ingresso dell’uomo nella cultura). Come ulteriore esempio abbiamo ricordato il saggio di Marcel Mauss, “Le tecniche del corpo” (ora contenuto nella raccolta Saggio sul dono e altri saggi di antropologia), in cui appare evidente che anche pratiche considerate estremamente naturali come il camminare subiscono una modulazione da parte della cultura. Prima di passare a come gli antropologi cercano di studiare le culture definite a questo modo, aggiungiamo un altro paio di concetti che possono essere utili nell’elaborazione di una concezione articolata di antropologia culturale.
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2. ETNOCENTRISMO È una conseguenza praticamente inevitabile dell’inculturazione entro una determinata società, e si può definire come la tendenza a misurare le culture altrui usando la propria come metro di paragone, per cui le altre culture sono giudicate in modo tanto più negativo quanto più si discostano dalla propria. Un altro modo per guardare all’etnocentrismo è quello di considerarlo una tipica strategia culturale che si fa sentire come “ovvie”, “normali” e intrinsecamente “giuste” le scelte culturali che condividiamo. La cultura ha cioè tra i suoi strumenti anche raffinati meccanismi di NATURALIZZAZIONE, che ci fanno credere “naturali” (cioè parte integrante dell’essere umano come la postura eretta o l’incapacità fisiologica di digerire la cellulosa) pratiche e giudizi che la semplice comparazione etnografica ci rivela essere culturali. Se infatti possiamo dire che il linguaggio è una qualità naturale degli esseri umani (che deve comunque essere attivata in un contesto culturale) per la ragione che non sono stati mai rintracciati gruppi umani che non avessero una loro lingua, e se possiamo dire che la postura eretta è altrettanto naturale in quanto non ci sono giunte testimonianze di gruppi umani in cui non si cammini sui due piedi, sostenere che – ad esempio – la famiglia composta da padre, madre e figli che vivono sotto lo stesso tetto sia naturale è un’affermazione empiricamente dubbia, dato che conosciamo moltissimi casi di culture in cui il modello normativo e/o statisticamente più rilevante di famiglia non coincide con quello di madre, padre e figli riuniti in un’unica unità abitativa. L’etnocentrismo è quindi quella prospettiva che tende far coincidere con la natura (quindi con l’inevitabile, o almeno con il giusto) le nostre pratiche culturali. Un “vantaggio” immediato dell’etnocentrismo è che consente un notevole risparmio di energie cognitive: se il mio modo di cucinare è quello “giusto”, potrò considerare qualunque altro modo semplicemente “sbagliato” ancora prima di averne verificato l’efficacia o il gusto. In questo modo, posso risparmiarmi la fatica di dover imparare modi nuovi di cucinare, o di procedere a comparazioni complesse per decidere quale sia il modo migliore. Ma lo “svantaggio” evidente dell’etnocentrismo è che limita le capacità adattive dei gruppi culturali. Se i conigli sono spariti ma io mi ostino a considerare la caccia al coniglio il “giusto” modo per procurarmi il cibo e considero quindi la pesca un modo “barbaro”, “immorale” o comunque “sbagliato”, è assai difficile che riesca a sopravvivere. Il problema dell’etnocentrismo è che i suoi “vantaggi” sono immediati (rassicurazione, convinzione di essere dalla parte giusta e di appartenere al gruppo migliore, risparmio di impegno cognitivo), mentre i suoi “svantaggi” si rivelano spesso sul medio o lungo periodo. Nelle pratiche culturali ordinarie possiamo dire che l’etnocentrismo prevale come attitudine in moltissimi individui e moltissimi gruppi umani. L’antropologia culturale – spesso senza riuscirci – è una disciplina
che si pone esplicitamente e consapevolmente l’obiettivo di produrre una conoscenza delle culture umane cercando di superare l’etnocentrismo. Con i dati che abbiamo fornito finora sembreremmo a questo proposito essere di fronte a un paradosso: abbiamo detto che le culture sono reti di significato, e che ogni cultura costruisce le proprie configurazioni di significato. Abbiamo anche detto che non c’è altro modo di conoscere e interagire con il mondo, per gli esseri umani, se non attraverso queste reti di significato. Le reti, in un certo senso, costruiscono anche l’illusione di essere naturali. Com’è possibile che in questo quadro di riferimento possa semplicemente esistere il progetto antropologico? Sembrerebbe che ogni individuo sia intrappolato dentro la rete della propria cultura, veda la realtà attraverso quella rete giudicando quel che vede il modo giusto di vedere il mondo. Perché mai qualcuno dovrebbe essere interessato a vedere il mondo dal punto di vista di qualcun altro? E soprattutto: com’è possibile questo “salto” di prospettiva? Anche in questo caso, dobbiamo tornare a quanto dicevamo sulla delimitazione delle culture. Se è vero che ogni cultura costruisce la propria rete di significati, è anche vero che non esistono reti “isolate”: ci sono sempre punti di contatto, “agganci” tra reti diverse, che consentono proprio quella comunicazione iniziale che può fare da base per la comprensione più profonda. Pensate a come si apprende una seconda lingua. Anche nel contesto più formalizzato possibile (lezioni in aula) se non ci fosse la possibilità per gli interlocutori di far riferimento a un comune sistema di significazione (cioè proprio alla qualità semiotica di qualunque sistema culturale) non sarebbe possibile imparare un’altra lingua. In caso di apprendimento informale questo è ancora più evidente: comincerò magari puntando il dito verso una serie di oggetti e mi farò dire il nome. Poi proverò a ripetere piccole formule di cortesia e saluto. Quindi proverò a individuare modi per far accadere qualcosa (farmi dare un bicchier d’acqua, ad esempio) e così via, entrando poco a poco nelle strutture della lingua che sto cercando di imparare. In modo sostanzialmente simile, lo studio antropologico delle culture cerca di entrare negli intrecci dei significati “indigeni” partendo da quel che si ha a disposizione e da quel che si può condividere. Poco alla volta, pezzo per pezzo, si può provare a ricostruire il puzzle. Ecco quindi che, partiti da una prospettiva, possiamo sperare di ricostruirne un’altra. 3. RELATIVISMO CULTURALE Non ho molto da aggiungere a quanto indicato nel manuale su questo ingrediente dell’approccio antropologico, se non che il relativismo culturale costituisce la conseguenza inevitabile del rifiuto dell’etnocentrismo. Non c’è molta alternativa rispetto a questo dualismo: o si è relativisti (e quindi si crede che gli esseri umani costruiscano gran parte dei loro sistemi semiotici in base ad associazioni arbitrarie tra significanti e significati (per cui il segno cane può voler dire “amico” o “carne
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prelibata” a seconda dei diversi contesti culturali) oppure si è etnocentrici e si decide che il nostro significato (“amico”) è quello giusto e che chi non lo condivide è barbaro, stupido o immorale. Ovviamente il relativismo culturale non significa che tutti i sistemi culturali abbiano pari valore o che un sistema vale un altro. Ma abbiamo il dovere di distinguere le nostre scelte morali dal tentativo di conoscere e capire i sistemi culturali diversi da quello che consideriamo nostro. L’esempio del nazismo sul manuale è particolarmente calzante: non si tratta di giustificare il nazismo, né di dire che il nazismo e la democrazia sono due sistemi in qualche modo equivalenti in quanto “incommensurabili” (basati cioè su principi e assiomi incompatibili tra loro, rispetto ai quali sarebbe impossibile scegliere in modo “oggettivo”). Dire che il nazismo è ripugnante è una posizione morale che (dal mio punto di vista) non ha neppure bisogno di essere argomentata, per quanto la considero irrefutabile. Ma questo non risolve la questione antropologica del nazismo, e cioè: come vede(va) il mondo un nazista? Entro quali reti di significato era immerso per far sì che potesse pensare e agire a quel modo? Lungi dall’essere uno sterile esercizio filosofico, analisi di questo tipo possono avere anche ricadute pratiche, perché possono permetterci di individuare specifici elementi culturali o materiali che hanno contribuito in modo determinante all’emergere del nazismo, e possono quindi aiutarci a prevenirne l’insorgenza. Specifico questo punto perché nella vulgata dei mass media sembra quasi che il relativismo culturale sia la causa di tutti i mali che affliggono il genere umano. Si accusa l’Occidente di aver tradito i suoi valori cedendo a un relativismo che appiattisce tutte le gerarchie morali, cadendo in un baratro di inazione che impedisce di fare delle scelte, tanto più necessarie quanto più il contesto che viviamo sembra farsi via via più drammatico. Ora, a me pare che la situazione della politica internazionale segnali esattamente il problema opposto. Francamente non vedo in giro grandi affratellamenti dell’umanità in nome del relativismo culturale, e non mi pare che il mondo sia retto da politici e amministratori disposti a cedere sui propri principi in nome di una tolleranza buonista nei confronti dell’Altro. Per riuscire a imbottirsi di esplosivo e farsi saltare dentro una scuola elementare; bombardare abitazioni dove si sa per certo che, assieme a uomini armati, si trovano anche civili inermi; falciare con una raffica di mitra un’adolescente che non si è fermata a un posto di blocco; organizzare un comitato di controllo contro “gli immigrati”; compiere atti di teppismo e violenza durante una marcia pacifista; essere del tutto convinti che i nostri avversari politici stiano agendo in completa malafede, e non guidati da un progetto politico semplicemente diverso dal nostro; lamentarsi che questi o quelli “ci portano via le donne e il lavoro”; sgozzare e decapitare con un coltello di fronte a una telecamera degli esseri umani completamente inermi; per
poter fare tutto questo è necessaria una tremenda convinzione nella giustezza delle proprie posizioni cioè, in altre parole, una dose enorme di etnocentrismo. 4. RIFLESSIVITÀ Anche questo è un elemento importante della costruzione del sapere antropologico. La riflessività significa sforzarsi di avere consapevolezza delle regole che guidano il nostro agire e le nostre convinzioni e cercare di ricostruire i sistemi diversi dal nostro verificando in che misura le regole culturali dell’analista interferiscono con quelle della cultura analizzata. Nell’esempio ancora/anello/anfora, la riflessività è la capacità di pensare e rielaborare le regole fonetiche della lingua italiana. In quell’esempio, la “scoperta” della regola fonologica era il prodotto dell’interazione tra l’archeologo italiano (cioè l’“indigeno”) e quello straniero che conosce però la lingua italiana (che corrisponderebbe all’“antropologo”). È la comunicazione tra i due che permette a entrambi di cogliere una nuova prospettiva: l’italiano si può rendere conto che quel che lui pensava come un unico suono è in effetti la realizzazione di tre suoni diversi, mentre lo straniero può rendersi conto che tre suoni diversi sono riuniti nel sistema fonologico italiano in un unico fonema (non definiremo di che si tratta, ma possiamo pensarlo come a un suono “teorico” che può assumere diverse forme “concrete”, dette allofoni). La riflessività quindi non è (un po’ come il significato) una qualità che sta dentro la testa delle persone, ma il prodotto di un’interazione sociale, che spesso gli antropologi definiscono dimensione DIALOGICA dell’etnografia. Ma con questo ci siamo definitivamente avvicinati al problema della ricerca sul campo, cioè alla metodologia dell’etnografia. 5. RICERCA SUL CAMPO Abbiamo visto cosa costituisca l’oggetto della ricerca antropologica, e cioè le reti di significati pubblici che chiamiamo culture. Non abbiamo però detto nulla su come, in pratica, gli antropologi si mettano a studiare queste reti. Il capitolo 3 del manuale, dedicato alla ricerca etnografica, è esaustivo e sufficientemente complesso. Qui ci limiteremo ad alcune riflessioni integrative volte a guidare gli studenti nello svolgimento del loro “esercizio di etnografia”. L’antropologia culturale (nell’impostazione del manuale che cerco di trasmettermi) è una disciplina che nasce in un’epoca storica (la seconda metà dell’Ottocento) e in una temperie culturale (il positivismo) segnate dall’empirismo, cioè dalla convinzione che la realtà (sociale o naturale) andasse indagata – per produrre conoscenza scientifica – attraverso l’esperienza diretta e la verifica sperimentale. Da questa tradizione epistemologica l’antropologia ha ereditato la forte convinzione (tutt’ora caposaldo della disciplina) che un aspetto fondamentale
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della professione antropologica fosse la raccolta diretta di dati attraverso la RICERCA SUL CAMPO. Voglio capire come funziona quel sistema politico, o come è organizzata la divisione del lavoro in quella zona, o ancora quali sono le credenze religiose di quel gruppo? Non posso – dice la prospettiva empirista – affidarmi a resoconti di seconda mano (di ufficiali coloniali, missionari, viaggiatori o commercianti) ma devo personalmente raccogliere i dati che serviranno alla mia analisi di quel determinato fatto culturale. La ricerca sul campo è stata quindi considerata la forma canonica della raccolta dei dati antropologici. Come il biologo raccoglie i suoi dati nel laboratorio e lo storico compie le sue ricerca in biblioteca o negli archivi, così l’antropologo compie le sue ricerche stando sul campo, condividendo cioè un lungo periodo di tempo (nella tradizione anglosassone almeno un anno) con la popolazione studiata. La descrizione del suo lavoro, i dati raccolti e le analisi del fatto culturale indagato costituiscono l’ETNOGRAFIA di quel particolare caso o fatto antropologico. Sono quindi state fatte etnografie sul sistema religioso dei Nuer, sugli “strani” scambi commerciali dei Trobriandesi, sui giochi rituali dei Tikopiani, e su innumerevoli altri fatti culturali, praticamente in tutto il mondo (con una preferenza fino a tempi recenti per lo studio di comunità di piccole dimensioni, possibilmente “isolate”: quelle che un tempo si chiamavano società primitive). Se avete presente quel che abbiamo detto sulla natura semiotica della cultura (una rete di significati) e sulla natura sociale e pubblica dei significati (che sono prodotti dall’interazione sociale, e non se ne stanno buoni buoni nella testa delle persone) vi rendete già conto di quanto la ricerca sul campo descritta in questo modo non corrisponda (o corrisponda molto poco) a quel che un antropologo fa effettivamente. I dati (o fatti) antropologici non possono essere “raccolti” proprio perché sono di natura semiotica (sono segni, e quindi prodotti e riprodotti costantemente dai membri della comunità e dall’antropologo che cerca di studiarla). Non posso arrivare sul campo e “raccogliere” il significato del termine “cane”, perché non c’è nessun posto “empirico” dove questo significato se ne starebbe rintanato per farsi scoprire. Come antropologo, posso guardare e ascoltare, posso fare domande e chiedere chiarimenti, confrontare quel che vedo con quel che so, cercare di mettere assieme i pezzi, formulare un’ipotesi interpretativa su quel che vedo, chiedere in giro se la mia ipotesi è corretta, modificare la mia ipotesi in base a quel che di nuovo mi è stato detto, confrontare la mia ipotesi rispetto a quel fatto culturale nel quadro più vasto di altri fatti culturali di quella cultura (per esempio, confrontare il “cane” come “carne preziosa” con il rapporto che quella cultura ha con altri animali). Insomma, tutto quello che posso fare, come antropologo, è cercare di INTERPRETARE quel che vedo, sento, chiedo, vivo, al fine di ricucire la rete di significato indigena che rende comprensibile ai nativi quel particolare fatto culturale. Vista in questa
luce, la rilevanza della ricerca sul campo come esperienza diretta dell’antropologo non viene meno, ma ha un senso diverso da quello previsto dal classico modello empirista. Raccogliere i dati “direttamente” era importante perché si temeva che dei non professionisti (missionari, funzionari coloniali eccetera) potessero raccogliere dati “sbagliati”. Ma se ammettiamo che i dati antropologici (i significati culturali) non stanno “lì”, come le mucche o le pietre, ma sono il prodotto dell’interazione interpretativa tra antropologo e persone che appartengono alla cultura che sta studiando, ecco allora che il problema di accettare dati da fonti indirette è che non sappiamo come quei dati siano stati prodotti, non conosciamo cioè il processo comunicativo che ha prodotto quel dato antropologico. L’antropologo che invece lavora direttamente sul campo dovrebbe essere in grado, attraverso la riflessività e la consapevolezza della dimensione semiotica della cultura, non solo di “arrivare” a quel particolare significato indigeno, ma anche di raccontare qual è stato il percorso che lo ha condotto a quel significato. In buona sostanza, la ricerca sul campo è il tentativo di capire un punto di vista diverso dal nostro, ma questa è un’operazione che facciamo costantemente. Ogni volta che non siamo completamente isolati in noi stessi dobbiamo affrontare questo problema: il prof oggi mi ha spiegato il concetto di ricerca sul campo. Che voleva dire? La mia amica mi ha detto di aver letto quel libro, e ha detto che è un libro “particolare”. Che significa? Mio padre ha detto che sarebbe ora mi dessi una mossa con gli studi. Vuole che mi laurei presto? E perché mai? Vuole liberarsi di me quanto prima oppure ci tiene a che io divenga una persona autonoma? Cosa voleva dire quel tale sull’autobus, quando ha detto che gli stranieri dovrebbero essere più rispettosi? E quell’anziano che si lamenta che le ragazze oggi sono “spudorate”, a cosa si riferiva? La vita degli esseri umani è un’incessante operazione di interpretazione, e in questo senso la ricerca antropologica somiglia alla vita. La differenza, la specificità che poniamo nella ricerca sul campo è la sistematicità con cui cerchiamo di mantenere consapevolezza dell’impegno interpretativo. Lavorare con persone che parlano una lingua diversa, che praticano usi e costumi “evidentemente” diversi da quelli cui siamo abituati a vedere e praticare, ci costringe a mantenere all’erta i nostri meccanismi interpretativi. Come antropologo, ho il dovere scientifico di rendermi conto del percorso specifico che mi ha portato a produrre quell’interpretazione. Come antropologo, ho poi ulteriori obblighi: devo sempre tendere alla verifica della mia interpretazione comunicando le mie ipotesi (in forme comprensibili per le persone con le quali interagisco) e valutando la reazione che suscitano. È questo il senso della natura INTERSOGGETTIVA dei dati antropologici. Non sono dati oggettivi nel senso che non posso sperare di poterli raccogliere come se fossero funghi in un bosco. Ma non possono neppure essere dati SOGGETTIVI, di cui io sono l’unico produttore e garante, perché così rischio quasi
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certamente di fornire interpretazioni che non corrispondono per nulla al “punto di vista dei nativi”. I dati antropologici sono intersoggettivi nel senso che non esistevano prima della ricerca sul campo, ma devono avere un qualche senso condiviso per me e per le persone assieme alle quali li ho prodotti. Un altro punto fondamentale della dimensione scientifica e interpretativa della ricerca antropologica è la capacità di comunicare quei dati al di fuori del gruppo interagendo con il quale sono stati prodotti. Poniamo che io voglia studiare la stregoneria in un contesto culturale, e che io sia in grado di entrare a tal punto dentro quella rete semiotica da farla mia, da diventare insomma un “indigeno”. Questo non è fare ricerca antropologica perché se divento un indigeno, e magari divento uno stregone potentissimo, non sarò più interessato a comunicare il mio punto di vista al di fuori della mia comunità di riferimento. L’antropologo – dice Clifford Geertz – non può fare uno studio sulla stregoneria come se fosse un ragioniere (disinteressandosi quindi completamente dei significati nativi, della rete semiotica che produce il senso della stregoneria), ma non può neppure fare uno studio sulla stregoneria come se fosse uno stregone, perché se si rinchiude completamente dentro la sua rete di significati di stregone non consente a chi ne è esterno di comprenderla. L’impegno della ricerca antropologica è quindi quello di tenere collegate e reciprocamente comprensibili diverse reti di significato, quelle indigena e quelle da cui proviene. Come un apripista o uno scout, l’antropologo traccia percorsi mai battuti prima, provando a creare la strada che ci permette di capire chi è diverso senza farlo diventare uguale a noi, ma senza ridurlo a una diversità assolutamente incomprensibile. L’esercizio di etnografia che vi ho chiesto di comporre si orienta quindi come un primo tentativo esplicito da parte vostra di fare i conti con questa dimensione interpretativa della descrizione e della comunicazione. Se è vero quel che abbiamo detto sui segni (convenzionali e pubblici nel loro significato, cioè prodotti dall’interazione comunicativa, cioè dalla reciproca interpretazione) non può esistere una descrizione oggettiva di alcunché, ma invece una tensione interpretativa di quel che vedo, sento e dico. In altre parole, ogni descrizione non può che essere un’interpretazione, e quindi qualunque etnografia (anche una breve relazione che cerchi di raccontare come una matricola entra all’università, come si interagisce con un datore di lavoro, come si divide la stanza con un compagno invadente, eccetera) è il risultato di un complesso lavoro interpretativo. L’esercizio che vi chiedo è un primo passo per iniziare a riflettere sui meccanismi retorici che vengono messi in atto in queste operazioni di descrizione. A scanso di equivoci, dire che ogni descrizione dei fatti culturali non può che essere un’interpretazione (dato che i fatti culturali sono di natura semiotica) non significa assolutamente rinunciare alla scientificità della ricerca antropologia. Se per
scienza intendiamo lo sforzo costante di produrre conoscenza verificabile e condivisibile, l’antropologia è e vuole essere una disciplina scientifica. Non può però essere una disciplina che si basa sull’epistemologia dell’empirismo stretto, quello per cui la realtà è tutta esterna e basta solo individuare il metodo preciso per raccogliere i dati. Credo che questa prospettiva (che oggi è stata superata anche per le scienze cosiddette “dure” come la fisica e la biologia), se viene imposta come un feticcio, non produca conoscenza scientifica, in quanto non riesce a produrre dati rilevanti per il progetto dell’antropologia culturale. Se pretendo di studiare una cultura disinteressandomi dei significato indigeno dei segni che vedo, quel che otterrò sarà una serie di segni di cui non so il significato, o cui attribuisco un significato del tutto arbitrario. L’antropologia è quindi una scienza interpretativa che sa che i suoi fatti sono prodotti nell’interazione tra l’antropologo e i suoi informatori, e tra l’antropologo e le sue competenze. Scrivere cercando di descrivere un fatto culturale è un’operazione creativa senza essere arbitraria, intersoggettiva senza essere bizzarra o frutto del capriccio. È difficile convivere con una strategia di ricerca che non ci tranquillizza rispetto al metodo che dobbiamo usare. Non si sono regole automatiche da applicare nella ricerca antropologica, non ci sono “protocolli” rigorosi per la metodologia. Ci resta come punto di riferimento la volontà di conoscere modi diversi di pensare e vivere: solo tenendo a mente l’obiettivo finale della ricerca antropologica potremo raffinare nella pratica il modo in cui facciamo ricerca.
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STORIA DELLA CULTURA MATERIALE MODULO A 2007-2008 – PIERO VERENI PER UNICAL ____________________________________________________________________________________________________
GUIDA ALLA LETTURA DI “GLI USI DELLA DIVERSITÀ”, DI CLIFFORD GEERTZ, [1994, IN R. BOROFSKY (ED.), ASSESSING CULTURAL ANTHROPOLOGY, MCGRAW-HILL, PP.454-467] 1) Le due strade dell’antropologia
L’antropologia si è sempre mossa tra universalità e particolarità, tra generalizzazione e idiosincrasia: “strutture e archetipi” da un lato, “cavoli e re” dall’altro (71).
2) L’omogeneizzazio ne culturale e la legittimazione dell’etnocentrism o
Oggi molto spesso vi viene paventato il rischio dell’omogeneizzazione culturale: finiti i cacciatori di teste, finiti i cannibali… Anche se questo di per sé non costituisce un problema per l’antropologia in quanto disciplina scientifica, G. nota che questa “attenuazione del contrasto culturale” (“softening of variety”) ha prodotto una legittimazione (spesso implicita) dell’etnocentrismo da parte di quegli stessi intellettuali (cioè antropologi e filosofi) che più di tutti avrebbero il compito di difenderci dalle sue grinfie [L’etnocentrismo è quell’atteggiamento in base al quale la cultura, le abitudini e i valori sono considerati dal soggetto che li possiede naturalmente e intrinsecamente superiori a quelli dei soggetti di altri culture: la “mia” cultura è giusta, la “loro” è sbagliata].
3) Claude LéviStrauss: l’etnocentrismo è un preservativo necessario
Il primo esempio di questo atteggiamento è preso da Lévi-Strauss, che afferma: “per non dissolversi, [le culture] hanno bisogno che… sussista tra loro una certa impermeabilità” (p. 73). L’etnocentrismo avrebbe quindi almeno un aspetto positivo, nella misura in cui previene l’omogeneizzazione rendendo le culture relativamente impermeabili le une alle altre. L’etnocentrismo, questa prospettiva lévi-straussiana, è un preservativo che ci protegge dal virus della globalizzazione culturale. Dato che esiste il virus, i preservativi sono utili. “Sarebbe pertanto illusorio non soltanto pensare che l’umanità possa liberarsi del tutto dall’etnocentrismo… se ciò accadesse, non sarebbe affatto una buona cosa” (p. 73). Poniamoci la seguente domanda: quale concezione della cultura è implicata da un simile apprezzamento dell’etnocentrismo?
4) imperméabilité come una via d’uscita tra relativismo e assolutismo
L’impermeabilità si rivela quindi, secondo Lévi-Strauss, un atteggiamento morale verso altre culture: mi tengo alla larga dalle altre forme culturali per non negare la mia propria, e soprattutto per non danneggiare la creatività insita nella mia cultura. Secondo Geertz, questa accettazione dell’etnocentrismo attraverso il distacco dall’altro è la conseguenza di uno stallo morale: “Non potendo abbracciare né il RELATIVISMO né l’ASSOLUTISMO – il primo perché inibisce la facoltà di giudizio, il secondo perché la rimuove dalla storia – i nostri filosofi, storici e scienziati sociali sembrano optare per quella sorta di imperméabilité dei noi-siamo-noi, voi-siete-voi raccomandata da Lévi-Strauss” (p. 75).
5) Richard Rorty: abbiamo bisogno dell’etnocentrism o perché abbiamo bisogno di coesione sociale e solidarietà di comunità
La posizione del filosofo Rorty è leggermente differente, ma egualmente orientata a enfatizzare gli aspetti positivi dell’etnocentrismo. Rorty è un filosofo che unisce nella sua scrittura l’approccio ermeneutico (tedesco) e il pragmatismo (americano) [cfr. ad esempio il suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979]. Ha avuto un ruolo centrale nel diffondere un’idea di filosofia come genere letterario che rinuncia al compito di fondare la legittimazione della conoscenza e si accontenta di offrire una sponda intellettuale all’espressione di simpatia e solidarietà che i membri di una comunità hanno gli uni verso gli altri (Contingence, irony and solidarity, 1989). Questo sentimento nei confronti della propria comunità è completamente deteorizzato e sottratto a qualunque implicazione di tipo universalistico (o, se è per questo, anche relativista). All’interno di questa struttura di solidarietà coi propri simili, le culture degli altri costituiscono nulla più che lo sfondo su cui si staglia “la dignità relativa di un gruppo… per effetto di contrasto, per via del confronto con altre, peggiori comunità” (cit. pp. 76-77). Insomma, la conoscenza dell’altro è utile nella misura in cui conferma la nostra superiorità.
6) Differenze tra questi due modi di legittimazione dell’etnocentrism o
G. ha quindi presentato a chi legge due approcci all’etnocentrismo. Secondo il primo (antropologico e razionale), l’etnocentrismo è utile perché preserva l’integrità culturale, mentre per il secondo (filosofico e pragmatico) l’etnocentrismo rafforza il sentimento di appartenenza collettiva. Uno insiste sulle implicazioni intellettuali dell’etnocentrismo (se non ignoriamo l’altro, non possiamo salvare la nostra specificità intellettuale), l’altro su quelle emotive (abbiamo bisogno di disprezzare l’altro per tenere unita la nostra comunità attraverso un senso di superiorità).
7) Il vero problema dell’etnocentrism o: soffoca l’immaginazione
A questo punto Geertz espone il punto centrale della sua argomentazione: “vorrei dire che una facile resa ai comfort dell’essere semplicemente noi stessi, del coltivare la sordità e del rendere grazie per non essere nati tra i vandali o tra gli ik, sarebbe fatale per entrambe [le discipline, l’antropologia e la filosofia]” (p. 77).
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Il vero problema dell’etnocentrismo non sta nel fatto – dice Geertz – che ci imprigionerebbe nelle credenze e nelle pratiche della nostra cultura e della nostra comunità (per definizione, siamo già intrappolati nella nostra rete semiotica, e non abbiamo certo bisogno dell’etnocentrismo a questo fine) ma piuttosto il fatto che soffoca la nostra capacità e la nostra voglia di immaginare (afferrare, com-prendere nel primo senso del termine) qualunque sensibilità che ci sia aliena: “…i problemi sollevati dal fatto della diversità culturale hanno a che fare più con la capacità di percepire alla nostra maniera sensibilità aliene, stili di vita che non ci appartengono… e che neppure ci apparterranno, che non con la possibilità di sfuggire al fatto che preferiamo quel che preferiamo” (p. 78). 8) Rifiutare l’etnocentrismo significa in prima istanza riconoscere la diversità all’interno delle nostre società
Un’immediata conseguenza del prendere in considerazione questo aspetto sterilizzante (e non solo protettivo o contrastivo) dell’etnocentrismo è che si smette di pensare alle culture o alle comunità come se fossero unità indipendenti e dai confini nitidi. Se uno ha ancora voglia di immaginare “come sia essere un pipistrello”, immaginare cioè la diversità culturale, immediatamente prenderebbe consapevolezza del fatto che la diversità non inizia lontano, lontano da “noi”, ed è invece ben all’interno di noi. Nel momento in cui la diversità non è solo qualcosa che sappiamo che esiste ma dalla quale ci teniamo alla larga per rimanere più aderenti ai nostri principi (come vuole Lévi-Strauss), e non è neanche un semplice sfondo di conoscenza peggiore e di equivoci valori morali che confermano la nostra superiorità e unità (come vuole Rorty), ma è qualcosa che veramente ci interessa; nel momento in cui la diversità culturale non solo uno strumento per i nostri scopi (proteggere la mia cultura, unire la mia comunità), la sua presenza e pervasività diventa evidente
9) Linguaggio, società e rapprensentazioni monadiche delle culture
Com’è stato quindi possibile presentare come plausibile questa concezione monadica delle culture (i treni, nella metafora di Lévi-Strauss)? È stato possibile perché si è applicata in modo scorretto l’idea che il significato sia costruito socialmente, nel senso che c’è un forte legame tra linguaggio e conoscenza o, per dirlo meglio, tra significato e società. Questa idea (che le idee e i significati non sono “nella testa” delle persone, ma circolano nella società attraverso i simboli della cultura) è stata interpretata in modo restrittivo “nel senso che i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”, offrendo quindi legittimazione alla chiusura culturale e all’isolamento morale, mentre per Geertz “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (p. 80). Non si tratta di un gioco di parole più o meno insulso, e dovrebbe essere analizzato con attenzione. La prima frase, infatti, legittima l’indifferenza verso la diversità, mentre la seconda conduce alla curiosità, all’immaginazione e all’apertura mentale.
10) Le culture erano veramente pure e le società veramente omogenee prima della recente ibridazione? Forse Geertz sta esagerando?
In un mondo in cui le differenze segnavano i limiti dell’appartenenza in modo nitido, era forse ancora possibile pensare alle culture come treni. Ma ora siamo di fronte a prospettive del tutto inedite: “le questioni morali sollevate dal fatto della diversità culturale… che un tempo sorgevano, quando sorgevano soprattutto tra le società… sorgono oggi soprattutto al loro interno” (pp. 81-82). Questo è forse un punto che potremmo spingerci a criticare nell’argomentazione geertziana. Per presentare lo stato attuale di ibridazione culturale, lo contrappone a un passato di uniformità, quando invece sappiamo che la diversità è stata la situazione normale nella storia dell’umanità, se si eccettua l’enorme sforzo di uniformazioni nazionali occorso dalla fine del Settecento alla fine della seconda guerra mondiale.
11) Un apologo dalla morale incerta: l’indiano ubriacone e il rene artificiale, ovvero l’incapacità di immaginare l’altro. 12) Il ruolo dell’etnografia nel “colmare il salto” della diversità (o almeno nel provarci,
Per fornirci un esempio sia della “diversità entro una società” sia della sordità al richiamo di altri valori e dell’inutilità di un approccio di allegro distacco dall’altro, Geertz ci racconta la storia dell’indiano ubriacone e del rene artificiale. Il valore morale della storia ha è legato a quanto questa si sviluppa a seguito della mancanza di reciproca immaginazione, e alle conseguenze che questo comporta: “se fallimento vi è stato… esso ha riguardato l’incapacità, da ambo le parti, di comprendere la posizione dell’altro e, quindi, la propria… A far sembrare questo piccolo racconto così deprimente… è il fatto che essi [indiano e medici] non abbiano saputo escogitare, nel mistero della differenza, un modo per risolvere un’autentica asimmetria morale” (p. 84). Possiamo rimanere indifferenti di fronte a questi casi di diversità che intersecano la “nostra” definizione di cosa il termine “nostro” significa o dovrebbe includere? Geertz crede che nella maggior parte dei casi siamo chiamati a uno sforzo di comprensione, se veramente vogliamo vivere dentro una società, e non una mera accozzaglia di individui in soliloquio, ognuno sepolto inesorabilmente nelle sue idiosincrasie personali. Per poter fare questo, abbiamo bisogno di una “apertura immaginativa a (e l’ammissione di) una mentalità aliena” (p. 84). Gli etnografi sono da
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nell’immaginare le possibilità di riempirlo)
tempo i professionisti delle mentalità aleiene: “Quantunque diversi fossero i nostri metodi o le nostre teorie, noi etnografi abbiamo condiviso la medesima ossessione professionale per i mondi altri, cercando di renderli comprensibili innanzitutto a noi stessi e, quindi, con l’ausilio di artifici concettuali non dissimili da quelli adoperati dagli storici e dai romanzieri, ai nostri lettori” (p. 84).
13) Il sapere etnografico è importante perché il relativismo (che può senz’altro sorgere da quel sapere) è molto meno pericoloso dell’indifferenza alla diversità 14) Conclusioni: l’etnografia è al contempo un’esigenza scientifica e morale dei nostri tempi
Ora che la diversità è all’interno del noi, l’etnografia , raffinando e ricalibrando i suoi strumenti e i suoi fini, può giocare un ruolo importante: “Gli usi dell’etnografia sono per lo più ancillari, e tuttavia reali. Come la compilazione dei dizionari o la molatura delle lenti, l’etnografia è, o dovrebbe essere, una disciplina che serve a qualcosa” (p. 86). L’etnografia può offrire la sua esperienza per quella che Geertz considera una speranza per un possibile futuro: un tentativo di reciproca comprensione tra le diversità.
15) Essere attenti al diverso è “innaturale” ma necessario. Un manifesto del sapere socioantropologico
Entro il complesso collage che costituisce l’attuale complessità e ibridità culturale, il relativismo senza scopo e la comparazione autocompiaciuta con l’altro sono due strategie del tutto inutili, anche se bisogna specificare che quest’ultima è ben più pericolosa del primo. “La prospettiva di un mondo popolato di persone così innamorate le une della cultura delle altre da aspirare soltanto a celebrarsi a vicenda non mi pare proprio un pericolo imminente; purtroppo, mi sembra di vedere invece un pericolo nella prospettiva di un mondo di persone tutte impegnate a glorificare i propri eroi e a demonizzare i propri nemici. Non è affatto necessario scegliere – anzi, è necessario non scegliere – tra un cosmopolitismo privo di contenuto e un campanilismo senza pietà. Nessuno dei due è di grande aiuto se si tratta di vivere in un collage” (pp. 88-89). “Comprendere quello che, in un modo o nell’altro, ci è alieno (e tale rimarrà) senza cercare di minimizzarlo con vuoti balbettii sulla nostra comune umanità o di neutralizzarlo con l’indifferenza dell’a-ciascuno-il-suo, o ancora di liquidarlo come qualcosa di affascinante, persino grazioso, ma non perciò meno illogico – questa è un’abilità che dobbiamo faticosamente imparare; e una volta imparata, lavorare continuamente per tenerla in vita, poiché non si tratta di una facoltà innata, come la percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, sulla quale si possa fare senz’altro affidamento. Gli usi della diversità – e dello studio della diversità – consistono proprio in questo: nel rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di comprendere ciò che ci sta di fronte.
Sunto L’etnocentrismo, un tempo vivacemente contrastato dagli intellettuali e dagli esperti di scienze sociali, ha acquisito da qualche anno un nuovo fascino, come “una certa dose di sordità al richiamo di valori estranei” – che consentirebbe quindi la sopravvivenza delle differenze – oppure come “una matrice di confronto con comunità peggiori” – una pratica che rafforza la coesione della comunità di appartenenza. Confrontandosi con questa nuova attrattiva dell’etnocentrismo, e con la sua legittimazione da parte di autorevoli studiosi come Lévi-Strauss e Rorty, Geertz sostiene che un simile approccio alla diversità culturale ci impedisce di scoprire non solo quel che sono gli altri, ma anche quel che siamo noi, dato che la diversità è oggi altrettanto all’interno delle società di quanto un tempo fosse tra società. L’etnografia con il suo tradizionale pallino per la comprensione della diversità, ci offre ancora gli strumenti migliori per capire quel che ci è alieno, senza edulcorarlo, renderlo innocuo o liquidarlo. All’interno dell’impresa etnografica, gli scopi morali e quelli scientifici si intrecciano: abbiamo bisogno di conoscere l’altro perché è dentro di noi (obiettivo scientifico della precisione e dell’adeguamento alla realtà) e perché solo questa conoscenza (che richiedere un vero sforzo di immaginazione) può contrastare una tendenza evidente a trasformare l’indifferenza verso l’altro in sospetto, e il sospetto in inimicizia.
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