06 Immaginazione E Potere

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Piero Vereni - Immaginazione e potere

L’immaginazione e il potere: luoghi e attori della produzione mediatica

Locale e globale Una riflessione sistematica sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella formazione delle identità collettive non può prescindere da alcune considerazioni di carattere generale sul contesto più vasto entro cui si costituiscono gli specifici rapporti tra sistema delle appartenenze collettive e sistema mediatico. In questo capitolo ci soffermeremo quindi a delineare un quadro teorico complessivo dell’attuale sistema di produzione e fruizione della comunicazione mediata da mezzi elettronici. A tale fine, sarà inevitabile un confronto anche solo sommario con le principali teorie della modernità e della postmodernità, per cercare di elaborare una descrizione plausibile della situazione attuale del rapporto tra media e identità. Questa riflessione ruoterà inevitabilmente attorno ad alcune parole chiave, tra cui anticipiamo le coppie locale/globale, modernità/postmodernità e omogeneizzazione/eterogeneizzazione. È stata notata da tempo l’opposizione tra la crescente uniformità culturale a livello planetario (la cosiddetta macdonaldizzazione) e la restrizione sempre più evidente dei confini identitari sentiti come naturali (il cosiddetto revival etnico). Alcuni autori come il sociologo americano George Ritzer1 e l’economista e filosofo francese Serge Latouche2 si sono concentrati sui modi in cui gli stili di vita occidentali (spesso considerati coincidenti con quelli americani) si sono imposti su vaste aree del pianeta imponendo una patina (più o meno spessa a seconda delle prospettive scientifiche e politiche di volta in volta sostenute) di uniformità economica, politica e culturale3. Di converso, altri autori come il sociologo 1

GEORGE RITZER, The McDonaldization of Society: An Investigation into the Changing Character of Contemporary Social Life, Newbury Park, Ca., Pine Forge Press, 1993, XV-221 p. Traduzione italiana di Nicola Raino, Il mondo alla McDonald’s, Bologna, il Mulino, 1997, 334 p. 2 SERGE LATOUCHE, L’Occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l’uniformisation planétaire, Paris, la Découverte, 1989, 143 p. Traduzione italiana di Alfredo Salsano, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, 159 p. Lo stesso autore ha ripreso e ampliato la sua teoria del peso della tecnologia occidentale nel processo globale di uniformazione con diversi saggi successivi, tra cui ricordiamo La mégamachine. Raison technoscientifique, raison économique et mythe du progrès. Essais à la mémoire de Jacques Ellul, Paris, la Découverte, 1995, 243 p. Traduzione italiana di Alfredo Salsano, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso. Saggi in memoria di Jacques Ellul, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, 215 p. 3 Gli studi sulla globalizzazione intesa in questo senso uniformante hanno trovato uno dei loro stimoli nel pionieristico lavoro di IMMANUEL WALLERSTEIN, The Modern World-System. Capitalist Agriculture and the Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century, New York, Academic Press, 1976, XVI-244 p.

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britannico Anthony D. Smith4 e gli antropologi Arjun Appadurai5 e Ulf Hannerz6 anno insistito sui processi in corso di progressiva frammentazione dei grandi “blocchi” che costituivano il pianeta dopo la fine della seconda guerra mondiale7. Da alcuni decenni, quindi, il mondo sembra attraversato da un duplice e contraddittorio movimento: da un lato la condivisione sempre più forte e diffusa di modelli culturali e pratiche tecnologiche; dall’altro l’esclusione sempre più rigida dal proprio orizzonte identitario di ciò che non si conferma al miope modello della propria appartenenza locale. Questi due fenomeni, apparentemente antitetici, sembrano invece essere dipendenti, e in grado di crescere simultaneamente: quanto più il mondo si uniforma (stessi jeans, stessi hamburger, stessa musica, stessa

CNN)

tanto più

l’unità media di riferimento identitario (il Noi che diamo per scontato) si rimpicciolisce intensificando la sua forza politica (noi Italiani, Padani, Veneti...). Per i cittadini dell’Unione Europea questo fenomeno è sempre più visibile: da un lato uniformiamo le nostre monete, le nostre lingue e i nostri gusti (culinari, estetici, sessuali) e dall’altro rivendichiamo un particolarismo sempre più spinto (rivisitiamo dialetti moribondi e riscopriamo Palii e sagre che non si celebravano da secoli o che non si erano mai celebrati). La questione teorica che si pone all’analista è proprio la natura di questa dipendenza. Un tentativo di affrontare un simile incrocio problematico consiste nel presentarlo proprio come antitesi tra globalizzazione, da un lato, e resistenze identitarie dall’altro. In sintesi: l’affermazione delle identità locali – o comunque esplicitamente esclusive – e il rigetto del cosmopolitismo sarebbero dovuti al rifiuto dei processi di uniformazione messi in atto dalla globalizzazione. Una delle formulazioni più articolate di questo approccio interpretativo è Traduzione italiana di Giuseppina Panzieri e Davide Panzieri Il sistema mondiale dell’economia moderna. 1. L’agricoltura capitalistica e le origini dell’economia-mondo europea nel 16° secolo. Seconda edizione rivista e corretta, Bologna, Il mulino, 1986, 535 p. 4 Anthony D. Smith, The Ethnic Revival, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1981, XXIV-240 p. Traduzione italiana di Anna Paini, Il revival etnico, Bologna, Il mulino, 1984, 364 p. 5 ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione. Traduzione di Piero Vereni, Roma, Meltemi, 2001, 272 p. Edizione originale Modernity at Large. Cultural Dimension of GLobalization, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996, 229 p. 6 ULF HANNERZ, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato. Edizione italiana a cura di Arnaldo Bagnasco. Traduzione di Savina Neirotti, Bologna, Il mulino, 1998, X-388 p. Edizione originale Cultural complexity. Studies in the Social Organization of Meaning, New York, Oxford, Columbia University Press, 1992, IX-347 p. 7 Sul rapporto tra singolarità globale e molteplicità locali si possono trovare riflessioni antropologiche estremamente interessanti nei saggi di CLIFFORD GEERTZ tradotti da Andrea Michler e Marco Santoro e pubblicati con il titolo Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, 1999, Il mulino, 127 p. La questione della natura poliedrica e non necessariamente orientata dai valori americani della globalizzazione è indagata con numerosi esempi nella raccolta curata dai politologi statunitensi PETER L. BERGER e SAMUEL P. HUNTINGTON, Many Globalizations. Cultural Diversity in the Contemporary World, Oxford-New York, Oxford University Press, 2002, X-374 p. Nonostante non sia più recentissimo, uno dei lavori più citati sulla teoria della globalizzazione rimane quello del sociologo americano ROLAND ROBERTSON, Globalization. Social Theory and Global Culture, London, Sage, 1992, X-211 p. Traduzione italiana di Aurora De Leonibus, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Trieste, Asterios, 1999, 285 p.

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senza dubbio quella del sociologo catalano Manuel Castells8. Nel suo ponderoso lavoro di riflessione sull’“era dell’informazione” Castells elabora una complessa teoria per cui le emergenti identità della nostra epoca “si oppongono alla globalizzazione e al cosmopolitismo in difesa delle specificità culturali e del diritto delle persone a esercitare il controllo sulla propria vita e sul proprio ambiente”9. Anche se l’analisi di Castells è estremamente raffinata e complessa nell’individuare i nessi causali tra globalizzazione e costruzione delle identità – per cui, ad esempio, l’identità progettuale dei soggetti sociali non trova più terreno di coltura nella diradata società civile, ed è invece costretta a svilupparsi all’interno di formazioni comunitarie di tipo reattivo ed esclusivo – il senso generale che se ne trae è quello di una qualche meccanicità, per cui l’eterogeneizzazione in forma di revival identitario può includere fenomeni tra loro estremamente diversi. Il fondamentalismo religioso, le comunità territoriali, l’auto-affermazione nazionalistica e, persino, l’orgoglio dell’auto-denigrazione che capovolge i termini del discorso oppressivo (come nella queer culture presente in alcuni settori del movimento gay) diventano espressione di ciò che io chiamo l’esclusione degli esclusori da parte degli esclusi e che consiste nella costruzione di un’identità difensiva...10

Il modello identitario delle appartenenze altro non sarebbe, dunque, che la “naturale reazione” alla spinta omogeneizzante della macdonaldizzazione, come se una certa quota di differenza culturale fosse comunque da dare per scontata, essenziale, incorporata nell’ordine precostituito del cosmo culturale. Ritengo particolarmente deludente questa spiegazione che, come tutte le forme di naturalismo, si limita a spostare i termini del problema al di là del discutibile: la gente, stanca di essere massificata dai mobili Ikea e dalla musica pop delle playlist radiofoniche, persegue la sua tendenza fissipara, la sua esigenza a differenziarsi. Alcune volte questa teoria dell’identità come reazione all’uniformazione globale si presenta in forme più semplicistiche (e ancor più naturalizzanti) che sostengono che al fondo del nuovo asfittico particolarismo che ci circonda si troverebbe l’esigenza (ovviamente “naturale”) degli 8

Questo prolifico autore ha pubblicato alla fine del Ventesimo secolo un’opera in tre parti dedicata alla riflessione sistematica sull’“era dell’informazione”: MANUEL CASTELLS, The rise of the network society, Malden, MA, Blackwell Publishers, 1996, XVII-556 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, La nascita della società in rete, Milano, Egea-Università Bocconi, XXXVI-601 p. MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, Malden, MA, Blackwell Publishers, 2004, XXII-537 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, Il potere delle identità, Seconda edizione, Milano, Egea-Università Bocconi, 2004, xvi-538 p. End of millennium, Malden, MA, Blackwell Publishers, 1998, XIV-418 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, Volgere del millennio, Milano, Egea-Università Bocconi, XI-470 p. 9 MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota precedente [il passo è tratto dalle pp. 1-2 della traduzione italiana; il corsivo è mio]. 10 MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX [pp. 10-11].

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esseri umani a individuare la propria comunità sulla base di legami emotivi che non possono essere forniti dalle fredde collettività stereotipate della globalizzazione11. Insomma: celebrando l’antico rito, o mangiando il piatto tradizionale composto secondo l’antica ricetta, l’individuo “sentirebbe” un legame con l’identità e la comunità associate a quel rituale o a quel cibo che nessun “evento mediatico” e nessun hamburger potrà mia fargli provare. Le comunità autosegregate (per dimensioni o per volontà) che rivendicano oggi una voce politica coprirebbero dunque il buco emozionale inevitabilmente lasciato scoperto dalle istanze globalizzanti. Questa teoria, per quanto avvincente a prima vista, mi pare soffra di un difetto analitico (che ha poi ricadute teoriche e politiche notevoli), dato che trascura duecento anni di sostanziosi successi di quei movimenti politici e ideologici che riassumiamo coi termini convenzionali di nazionalismo e socialismo. Se cioè fosse vero che abbiamo naturalmente bisogno di una dimensione ristretta, locale in senso sempre più claustrofobico, per poter soddisfare le nostre esigenze di identità, appartenenza e comunità, come si spiega che negli ultimi due secoli il mondo è stato segnato da due forze (il nazionalismo e l’internazionalismo) che smuovevano gli animi e gli intestini sulla base di principi assolutamente antitetici a questo localismo? Una comunità immaginata, ci ricorda Benedict Anderson, è immaginata …poiché non succederà mai che tutti i suoi membri si conoscano personalmente; il contenuto del loro legame, dato il loro numero e l’estensione territoriale della nazione stessa, è necessariamente immaginato, non prodotto da relazioni concrete, a differenza di quanto si suppone accadere in un modello astratto di società tradizionale, in cui le relazioni faccia-a-faccia risultano prevalenti.12

Tuttavia, per quanto (o proprio perché) immaginata, rimane una comunità, cioè risponde a quelle esigenze emotive che la teoria del revival come reazione sembra negare quando manchi l’interazione su piccola scala (lo stesso ordine di considerazioni vale anche per l’internazionalismo socialista). Provando ad ancorarci alla logica, possiamo dire che se avessero ragione i sostenitori della natura meccanica della creazione delle identità, allora non

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Questa posizione è sostenuta con particolare veemenza da ANTHONY D. SMITH in molti dei suoi lavori, in particolare in Nations and Nationalism in a Global Era, Cambridge, Polity Press, 1995, IX-211 p. Traduzione italiana di Alessandro Sfrecola, Nazioni e nazionalismo nell’era globale, Trieste, Asterios, 2000, 186 p. A dirla tutta, la critica al naturalismo delle identità che sto brevemente delineando in questo paragrafo è rivolta più a Anthony D. Smith (e al modo in cui la sua teoria è stata ripresa proprio dai mass media) che non a Manuel Castells, il cui impianto teorico è di ben altro spessore. 12 BENEDICT ANDERSON, Imagined Communities. Reflections on the Origins of Nationalism. Revised and Extended Edtion, London, Verso, 1991, XV-224 p. Traduzione italiana di Marco Vignale, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi. Prefazione e cura di Marco D’Eramo, Roma, Manifestolibri 1996, 223 p. [p. 25].

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potrebbero esistere comunità immaginate13. Ma dato che sappiamo che le comunità immaginate esistono e sono esistite, se ne deduce necessariamente che hanno torto quelli che dicono che la gente torna alle tradizioni e alle parrocchie perché ha bisogno di soddisfare le proprie esigenze di condivisione emotiva nell’unico spazio realmente possibile, la comunità esclusiva. Il problema quindi non è com’è possibile che esistano comunità immaginate (Benedict Anderson ci ha esposto i meccanismi di base del loro funzionamento, e Michael Herzfeld14 ci ha definitivamente spiegato come non vi sia un vero conflitto tra discorso nazionale uniformante e pratiche locali individuanti), ma come mai il nuovo processo di omogeneizzazione globale non riesca a soddisfare a pieno le esigenze comunitarie. Perché quindi, fatta l’Italia si sia riusciti (più o meno) a fare gli italiani, mentre fatta l’Unione Europea o fatta l’ONU assistiamo all’esplosione di rivendicazioni sempre più accese di identità locali ed esclusive? Se poi si pensasse che l’Italia costituisce un caso assai peculiare di costruzione identitaria, vale la pena di volgersi a un altro esempio che è stato per decenni sinonimo di buona riuscita del processo di costruzione della nazione, cioè la Francia. Anche se oggi sappiamo quanto sia stato lento, coercitivo e anche violento il passaggio della multiforme e multilingue Francia medievale alla compatta nazione moderna15, è fuor di dubbio che la Francia ha incarnato forse l’apogeo del modello del moderno stato nazionale, l’epitome della coincidenza tra popolo, nazione e Stato. Se così stavano le cose, com’è che negli ultimi vent’anni la Francia è sempre meno la terra dei francesi (uniformi per lingua, cultura, passione culinaria e orgoglio) e sempre più la terra multiculturale e multilinguistica dei bretoni, dei corsi, dei provenzali, dei baschi, degli alsaziani (per non parlare delle legioni 13

A scanso di equivoci, e anticipando quanto verrà elaborato già nel finale di questo capitolo – ma sarà ripreso nel corso di tutto il saggio – faccio notare che nella concezione originaria di Benedict Anderson “immaginato” non si contrappone di certo a “reale”, come sembra credere, ad esempio, Manuel Castells alla pagina 33 del suo Il potere delle identità, op. cit. alla nota XX, quando afferma: “L’antitesi tra comunità «reali» e «immaginate» è di scarsa utilità analitica”. “Immaginato” si oppone invece a “oggettivo”, determinabile cioè secondo criteri esterni a quelli dei soggetti coinvolti. Cercando di evitare complicazioni terminologiche, possiamo dire che per Anderson la comunità è “immaginata” perché è un prodotto semiotico (un segno) che acquisisce senso per gli attori sociali che lo costituiscono. Sono i criteri che determinano il confine dell’appartenenza ad essere “immaginati”, cioè “creati” dai soggetti membri della comunità. L’originalità della prospettiva di Anderson consiste nell’aver spostato definitivamente l’attenzione analitica degli studiosi del nazionalismo dai dati oggettivi ai fatti sociali, senza per questo tramutare le nazioni in comunità “irreali”. Al contrario, secondo il principio vichiano (verum ipsum factum), le nazioni sono comunità immaginate perché sono fatte dagli uomini, e quindi conoscibili solo nella misura in cui ci si impegni a ricostruire il percorso di quel fare, che è tutt’altro che irreale. 14 MICHAEL HERZFELD, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo. Traduzione di Emanuela Nicolcencov, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2003, 237 p. Edizione originale Cultural Intimacy. Social Poetics in the Nation-State, New York, London, Routledge, 1997, XIII-226 p. 15 EUGEN WEBER, Peasants into Frenchmen. The Modernisation of Rural France 1870-1914, Stanford, Calif., Stanford University Press, 1976, XV-615 p. Traduzione italiana di Alfonso Prandi, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale, 1870-1914, Bologna, Il mulino, 1989, 909 p.

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di francesi di origine africana) che ormai contestano sistematicamente il modello dell’uniformità sparando bordate sull’unità linguistica, religiosa, culturale e (orrore!) culinaria del Paese16? Se il mondo sociale fosse un sistema razionale che si sviluppa armonicamente, i passaggi avrebbero dovuto essere nitidi: la frammentazione localistica precedente la Rivoluzione Francese (enclaves, exclaves, usi locali spesso diversissimi a distanza di pochi chilometri) è stata uniformata dal processo di nazionalizzazione nel corso di tutto il Diciannovesimo secolo e nella prima metà del Ventesimo. Il mondo poco a poco ma in modo apparentemente inevitabile si è suddiviso in aree culturalmente sempre più compatte, trasformando in nazioni moderne quelle che erano mere espressioni geografiche. Disponiamo oramai di indagini accurate di tipo storico17 e antropologico18 che ci raccontano delle precondizioni strutturali di questo immane mutamento che ha attraversato il genere umano, ma quel che conta è che conosciamo ormai con sufficiente chiarezza anche i meccanismi emotivi implicati da questa costruzione nazionale19. Il passo successivo, se appunto il mondo fosse un sistema razionale, avrebbe dovuto essere la creazione di comunità immaginate di tipo transnazionale: mutate le condizioni economiche e tecnologiche, i sistemi Stato-nazione perdono il loro dominio assoluto sullo scenario della politica, per essere affiancati da sistemi-mondo sempre più complessi: Unione Europea, Nazioni Unite,

GATT

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,

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NAFTA

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NATO

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WTO

. Questi sistemi

sovranazionali avrebbero tutte le caratteristiche potenziali per porsi come basi strutturali alla formazione di nuove comunità immaginate: come gli Stati nazionali al loro sorgere, sono funzionali al sistema economico, si fondano su ideologie condivise dalle élites che li governano, e hanno apparentemente a disposizione i mezzi tecnologici e mediatici per 16

Su come la globalizzazione abbia modificato la natura dell’identità nazionale francese si veda PHILIP H. GORDON, SOPHIE MEUNIER, “Globalization and French Cultural Identity”, French Politics, Culture and Society, XIX (1), 2001, pp. 22-41, tema ripreso ed espanso nel volume degli stessi autori The French Challenge. Adapting to Globalization, Brookings Institution Press, Washington DC, 2001, XI-152 p. Sul caso bretone si veda MARYON MCDONALD, We are not French! Language, Culture, and Identity in Brittany, London, New York, Routledge, 1989, XIII-384 p. Per quanto riguarda l’identità basca (su entrambi i lati del confine franco-spagnolo, ma con un centro di attenzione sulle province meridionali) si veda JACQUELINE URLA, “Cultural Politics in an Age of Statistics. Numbers, Nations, and the Making of Basque Identity”, America Ethnologist, XX (4), pp. 818-843. AGGIUNGERE ALTRI CASI 17 Hobsbawm 1990 18 Gellner 1983 19 Anderson 1991, Herzfeld 1997, Nairn Two faces of Nationalism 20 General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio). Si tratta di un’agenzia delle Nazioni Unite creata con un trattato multilaterale (firmato in una prima stesura nel 1948 e ratificato con diverse variazioni nel 1994) e finalizzata a promuovere il commercio mondiale attraverso la riduzione delle tariffe doganali e dei dazi. 21 North American Free Trade Agreement (Accordo Nord Americano per il Libero Commercio), siglato tra Stati Uniti, Canada e Messico, ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994. 22 North Atlantic Treaty Organisation. 23 World Trade Organization (Organizzazione Mondiale del Commercio).

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veicolare un senso comunitario negli angoli più remoti dei loro rispettivi domini, possono cioè trasformare in un sentimento (o agganciare a un sentimento) la spinta uniformante dettata da ragioni economiche. Eppure non funziona, e se pochi decenni orsono i nostri nonni (alcuni di loro, almeno) potevano veramente pensare di andare a morire per la Patria – un’entità astratta quant’altre mai, su cui però si era riusciti a innestare un fortissimo senso (immaginato, appunto) di comunità – oggi fa al massimo sorridere (quando non suscita una decisa repulsione) l’idea di combattere per gli “ideali” dell’Unione Europea, tant’è vero che il documento di più elevato spessore ideale mai promulgato dall’Unione Europea (e cioè la sua Carta Costituzionale) è stato sonoramente bocciato quando sottoposto a referendum popolare in Francia e in Olanda, e il dibattito in corso dopo l’11 settembre riguarda proprio la quota di violenza che l’Europa sembra pronta ad accettare per definirsi come tale. L’opinione pubblica europea non sembra generalmente in grado di tollerare il “sacrificio” di alcuno dei suoi membri, dimostrando dunque una concezione tutt’altro che “sacra” dell’entità in nome della quale quell’eventuale sacrificio verrebbe richiesto. Eppure, sappiamo ormai con certezza che gli eurocrati di Bruxelles si sono posti esplicitamente il compito di produrre un’identità europea, sfruttando gli ordinari apparati istituzionali disponibili ai singoli stati nazionali: “persuasione” verso la stampa, per indurla a presentare in buona luce l’immagine dell’UE; tentativi di riscrivere la storia dei singoli Stati membri per armonizzarla alla situazione politica attuale; produzione di simboli viventi dell’istituzione europea come, ad esempio, l’istituzione di un Premio “Donna Europea”24. Con altrettanta certezza sappiamo che la pedissequa applicazione al caso dell’Unione Europea delle strategie retoriche e simboliche che avevano efficacemente contribuito alla formazione dei moderni stati nazionali non ha avuto effetto, o comunque ne ha avuto in misura largamente inferiore alle aspettative. D’altro canto, proprio il tentativo di applicare all’Unione Europea le stesse strategie uniformanti tipiche degli Stati nazionali è una buona indicazione del fatto che l’intento di molti organismi apparente post-, trans- o sovra-nazionali è stato quello di recuperare su un altro piano il potere perduto degli Stati nazionali: ...ciò che si ricercava [con l’integrazione europea] non era la sovranazionalità, ma la ricostruzione del potere dello stato-nazione a un livello più alto, ossia un livello in cui fosse possibile esercitare un certo grado di controllo sui flussi globali di ricchezza, informazione e potere [...] Per questa ragione, invece di entrare nell’era della sovranazionalità e del governo globale, assistiamo all’emergere di un superstato-nazione,

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CRIS SHORE, “Inventing Homo Europaeus”, Ethnologia Europaea, XXIX (2) Winter, 1999, pp. 53-66.

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cioè di uno stato che esprime, nel quadro di una geometria variabile, gli interessi aggregati dei propri membri.25

La domanda che quindi dobbiamo porci è come mai le pratiche di produzione dell’identità che sembravano così efficaci se perpetrate da istituzioni legate allo Stato nazionale perdono efficacia quando vengono replicate da entità “superstatali”, per riprendere la terminologia di Castells. Non è ovviamente sostenibile l’argomentazione secondo cui queste entità sarebbero artefatte, imposte da motivazioni di ordine economico, sostanzialmente artificiali, e quindi “la gente” farebbe fatica a identificarsi emotivamente con esse: le nazioni del Diciannovesimo secolo non erano meno artificiali, ideologiche e (soprattutto) necessarie al funzionamento del sistema economico di allora di quanto non lo siano oggi i nuovi soggetti della politica internazionale. La ragione dell’emergere di identità comunitarie che prescindono dallo Stato nazionale e del fallimento emotivo delle entità politiche transnazionali va cercata altrove, e in questo altrove si può trovare anche una spiegazione credo sufficientemente chiara (ma in grado di prescindere da un meccanico legame di azione/reazione) del rapporto tra globalizzazione economica e ripresa delle identità.

Stato nazionale, appartenenze, mezzi di comunicazione di massa Con una metafora che anticipa quanto diremo anche nei prossimi capitoli, dovremmo cioè riuscire a capire perché possiamo guardare la CNN e Teletuscolo con lo stesso interesse, se non sempre con il medesimo coinvolgimento emotivo, senza spiegare la passione per Teletuscolo come una reazione alle trasmissioni della

CNN.

Anticipando l’argomentazione presentata nelle

pagine che seguono, possiamo sintetizzare dicendo che il (nuovo) legame che cinge di un’aura globale il fenomeno delle identità emergenti deve essere individuato nello scioglimento del (vecchio) legame tra potere centralizzato, corpi e immaginazione. Mentre prima un potere centrale (quasi inevitabilmente incarnato dallo Stato) gestiva il monopolio sulle forme impresse ai corpi e all’immaginazione, garantendosi così quell’omogeneizzazione nazionale necessaria alla sua sopravvivenza, ora lo Stato ha perso quel monopolio, e quindi le persone e le immaginazioni si costruiscono e si spostano secondo motivazioni confliggenti, divergenti e comunque non riconducibili a grandi configurazioni, da cui il sapore locale della loro epifania politica. Questo lavoro non si prefigge il compito di formulare ipotesi o profezie sulle sorti dello Stato nazionale. A noi basti dire che, qualunque possa essere il suo futuro, di certo il presente 25

MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX [pp. 352-353].

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degli Stati nazionali è segnato dalla fine del privilegio nella gestione monopolistica dell’immaginario dei suoi cittadini. Diversi autori hanno posto in evidenza in questi anni il progressivo indebolimento del potere generale dello Stato, in particolare per quanto riguarda il suo controllo dei mezzi di comunicazione di massa26. Alcuni studiosi si sono soffermati a descrivere i pervicaci tentativi dei governi di influenzare il mercato e modificare le infrastrutture delle telecomunicazioni per adeguarle alle proprie esigenze politiche27. Altri, al contrario, hanno insistito sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nel frantumare entità statali28. Comunque sia, quel che è certo è che, oggi, il rapporto tra governi degli Stati nazionali e mezzi di comunicazione di massa che attraversano il territorio sottoposto alla loro sovranità nazionale si è complicato, e soprattutto non può più essere dato per scontato. Non stiamo certo parlando della fine dello Stato nazionale o del passaggio inevitabile a nuove forme di governo globale, dato che le pulsioni (più o meno utopiche) che sembravano orientare parte della teoria fino alla fine del Ventesimo secolo sono bruscamente rientrate nei ranghi dopo l’11 settembre 2001. Ma se lo Stato nazionale è ancora vivo e politicamente attivo, la novità irreversibile è data dal fatto che oggi deve contrattare il suo potere non solo con altre entità statali, ma con istituzioni e attori politici di dimensioni e “formati” eterogenei. L’ingresso nell’agone politico di soggetti superstatali, infrastatali e interstatali − oltre a produrre una serie di mutazioni strutturali nel sistema produttivo e politico − ha reso l’ambito dei mezzi di comunicazione di massa un campo di contesa ben maggiore che in passato. La sostanziale marginalità economica dei settori dell’informazione e dell’intrattenimento li aveva relegati in buona parte entro l’alveo delle singole comunità nazionali (e quindi statali), fatto salvo il dominio dei grandi centri (economici e ideologici) di produzione collocati negli Stati Uniti. Ma nelle condizioni attuali gli attori e gli ambiti di intervento si sono estremamente complicati. Da un punto di vista delle potenzialità strutturali, (e sempre fatta salva l’eccezione di Hollywood) possiamo dire che per diversi decenni la produzione massmediatica è stata prevalentemente e preferibilmente nazionale sia per organizzazione sia per destinazione: il 26

Sulla perdita del potere dello Stato a seguito della globalizzazione e in particolare sul declino del controllo governativo sui media si vedano rispettivamente il paragrafo “La globalizzazione e lo stato” [pp. 326-346] e il sottoparagrafo “Reti di comunicazione globale, audience locali, fattori di regolazione incerti” [pp. 339-344] in MANUEL CASTELLS The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX, e la relativa bibliografia. 27 Si vedano a questo riguardo i numerosi esempi citati in MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty. The Global Information Revolution and Its Challenge to State Power, Cambridge, MA, London, The MIT Press, 2002, ix-317 p. Particolarmente succoso il paragrafo “Interactions and Influences” [pp. 5-12]. 28 JOSHUA KALDOR-ROBINSON, “The Virtual and the Imaginary: The Role of Diasphoric New Media in the Construction of a National Identity during the Break-up of Yugoslavia”, Oxford Development Studies, XXX (2), June 2002, pp. 177-187.

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sistema nazionale dei mass media provvedeva a soddisfare tutte e sole le esigenze del proprio territorio. Secondo questo modello, la divisione del sistema politico internazionale e la divisione del sistema mediatico tendevano alla quasi perfetta coincidenza: un sistema mediatico per ogni stato nazionale, uno stato nazionale per ogni sistema mediatico, secondo lo schema della figura 129.

= confini dello stato nazionale

= confini del sistema dei media

Figura 1. La coincidenza tra sistemi statuali e sistemi mediatici prima dell’avvento delle nuove tecnologie

La situazione attuale prevede invece una molteplicità di soggetti attivi e una molteplicità di destinazioni del sistema mediatico prodotto: non solo gli Stati sono affiancati da altre istituzioni, ma tutti i soggetti produttivi destinano il loro prodotto mediatico su diversi target, a loro volta statali, superstali e infrastatali. Da un lato quindi gli Stati si sforzano di proteggere il loro spazio nazionale dall’ingerenza mediatica di altri soggetti ma nel medesimo tempo − come gli altri soggetti in gioco − cercano di espandere il loro spazio mediatico al di là dei confini nazionali. Rispetto alla linearità della figura 1, la nuova situazione determina un quadro estremamente complesso, che proviamo a schematizzare in forma ipersemplificata nella figura 2.

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Come già accennato, questo quadro di produzione mediatica nazionale (che riguardava soprattutto carta stampata, radiofonia e poi televisione) tralascia sostanzialmente l’industria cinematografica, la prima industria mediatica a rivolgersi a una platea effettivamente globale pur se i suoi prodotti agli inizi erano quasi esclusivamente americani: “Già nel 1914, l’85 per cento del pubblico cinematografico mondiale guardava film americani. Nel 1925 le pellicole prodotte negli Stati Uniti raccoglievano oltre il 90 per cento degli incassi cinematografici nel Regno Unito, in Canada, Australia, Nuova Zelanda e Argentina, e oltre il 70 per cento degli incassi in Francia, Brasile e Scandinavia”, EDWARD S. HERMAN e ROBERT W. MCCHESNEY “The Rise of the Global Media”, in EDWARD S. HERMAN e ROBERT W. MCCHESNEY, a cura di, The Global Media: the New Missionaries of Corporate Capitalism, London, Washington, DC, Cassell, 1997, VIII-262 p. [pp. 1-19. Il passo è tratto da p. 3].

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= soggetto statali

= soggetti non statali

= confini dei sistema dei media

Figura 2. L’attuale discordanza tra sistemi statuali e sistemi mediatici

Dal punto di vista della produzione e distribuzione della comunicazione legata a mezzi elettronici, le differenze rispetto alla situazione precedente schematizzata nella figura 1 sono sostanzialmente due: la proliferazione di soggetti tra loro difformi e un generale scollamento tra il luogo giuridico occupato da questi diversi soggetti e i diversi spazi mediatici da essi prodotti30. Per evidenziare quanto più possibile la concretezza di questi due aspetti, può essere utile ricostruire brevemente la storia di MED-TV, un caso per molti versi esemplare, che ci guiderà alle implicazioni direttamente antropologiche e identitarie di questa nuova disposizione infrastrutturale31. Collocata giuridicamente sul suolo britannico, MED-TV forniva attorno alla metà degli anni Novanta un servizio di programmi principalmente in lingua curda (e solo in misura nettamente inferiore in turco, inglese e arabo), rivolto quindi ai molti parlanti di questa lingua, che notoriamente non trovano, per la loro specificità culturale, una corrispondenza politica in un’entità statale, dato che il Kurdistan come area geografica e linguistica si colloca a cavallo di quattro Stati (Turchia, Iraq, Iran e Siria). Il segnale di Med-Tv utilizzava transporders di

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Per luogo intendo un campo delimitato da regole precise, in cui l’intervento è regolato e controllato. Lo spazio è invece l’opposto, un campo tendenzialmente privo di regolamentazione e in cui i diversi soggetti sono liberi di intervenire. Naturalmente, luogo e spazio sono estremi ideali, e per ogni epoca storica e per ogni contesto è possibile stabilire quale delle due concezioni sia dominante. Per quanto riguarda il sistema delle comunicazioni, sembra evidente che il passaggio in corso sia da una concezione di luogo a una di spazio, e che questo passaggio trovi favorevoli soprattutto gli organismi non statali, e particolarmente ostili gli Stati nazionali costituiti. Su questa opposizione, cfr. MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, pp. 23-25. 31 Traggo questo esempio da MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, pp. 80-82.

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proprietà dell’Eurovisione32 collocati su satelliti Eutelsat33. L’Eurovisione consorzia i principali broadcaster di servizio pubblico in Europa, Nord Africa e Medio Oriente, e dato che il servizio pubblico radiotelevisivo per ogni singolo Stato è gestito da agenzie che rispondono direttamente o indirettamente agli Stati corrispondenti, la diffusione del segnale di MED-TV dipendeva, in buona misura, dalla disponibilità dei gestori dei singoli transponders ad accettare di veicolarne il segnale nelle porzioni loro assegnate. Fin dall’inizio, le posizioni politiche espresse in alcuni dei programmi di MED-TV suscitarono il profondo risentimento del Governo turco, che vedeva il proprio spazio nazionale invaso da messaggi politici ritenuti inaccettabili. In un primo momento, la Turchia fece di tutto per impedire il downlink34 del segnale satellitare, favorita in questo da un dettaglio apparentemente trascurabile. In origine, infatti, il segnale di MED-TV veniva trasmesso da un satellite Hotbird collocato su un’orbita leggermente diversa da quella utilizzata dai satelliti che trasportavano i segnali Eutelsat più comuni (cioè più visti) in Turchia. Ciò significava che gli utenti che volevano vedere MED-TV dovevano orientare la loro antenna satellitare in posizione sensibilmente diversa da quella degli utenti dei più comuni satelliti Hotbird, rendendosi così identificabili a una semplice ispezione visiva da parte delle forze dell’ordine. Per proteggere i propri spettatori dal rischio di subire le rimostranze delle autorità turche, la proprietà di MED-TV si vide costretta a spostare il suo segnale sul satellite comune, forzando quindi il Governo turco a mutare strategia. Non potendo individuare le antenne paraboliche e quindi bloccare il downlink, l’attenzione si concentrò sull’uplink, e a questo punto entrarono in gioco i rapporti bilaterali tra la Turchia e i diversi Stati membri di Eurovisione e Eutelsat. Sebbene la documentazione ufficiale sia carente, si conoscono diversi casi in cui MED-TV è stata esclusa dai trasponders sui satelliti Eutelsat in seguito a pressioni esercitate dal Ministero degli Esteri turco presso i diversi gestori nazionali che garantiscono di fatto l’accesso all’uplink35. Ma questa soluzione 32

Union Européenne de Radio-Télévision/European Broadcasting Union fu fondata nel 1950 con sede a Bruxelles e oggi raggruppa 74 membri attivi e 44 associati. La rete permanente di Eurovisione, che ha il suo quartier generale a Ginevra, impiega fino a 50 canali digitali su un satellite Eutelsat per scambiare programmi soprattutto di natura informativa e di sport. Cfr. . 33 Eutelsat fu istituita nel 1977 come organizzazione intergovernativa per sviluppare e gestire una rete satellitare destinata all’Europa. Il primo satellite della serie Hotbird venne messo in orbita nel 1983, seguito progressivamente da altri 24 lanci di satellite che fanno oggi di Eutelsat uno dei leader mondiali nella tecnologia satellitare geostazionaria. Nell’aprile 2005 i maggiori azionisti di Eutelsat S.A. hanno unito i loro investimenti in un nuovo gruppo (Eutelsat Communications) che, a fine 2005, deteneva il 95,2 per cento di Eutelsat S.A. Cfr. . 34 Nelle comunicazioni, il downlink è il collegamento da un satellite a una stazione ricevente al suolo. Di converso, l’uplink è la trasmissione di un segnale da un terminale terrestre a un satellite o a un altro tipo di piattaforma aerea. 35 MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota XX, p. 81.

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(individuare canali di relazione con i singoli Stati, e premere perché ritirassero la disponibilità ad ospitare MED-TV sui transponders di loro competenza) era comunque una risposta di tipo tattico, cui mancava un piano strategico. L’ostacolo da superare per impedire in via definitiva le trasmissioni di MED-TV era costituito dalla licenza britannica che il servizio in lingua curda poteva vantare, licenza rilasciata dalla Independent Television Commission36 che garantiva il rispetto di una serie di standard di obiettività e imparzialità considerati essenziali. Il passo successivo – fatale per le sorti di MED-TV – fu attirare l’attenzione del licenziatario sui contenuti trasmessi, per metterne in luce la partigianeria. Dopo una serie di multe impartite nel 1998, l’anno successivo l’Independent Television Commission ritirò definitivamente la licenza a MED-TV, che di lì a poco chiuse le trasmissioni. Questo apologo (amaro per alcuni, gioioso per altri) include alcuni nuclei portanti attorno a cui cerchiamo di riflettere in questo capitolo. La volontà di dare voce a una comunità linguistica priva di una sua espressione statuale si è espressa in questo caso attraverso la ricerca di una visibilità mediatica. Il fatto che la maggior parte delle trasmissioni di MED-TV fossero emanate in lingua curda ci dice inoltre che quella visibilità era – oltre che rivolta all’esterno – indirizzata principalmente ai suoi membri (potenziali o effettivi), in un’opera di rinforzo e sostegno dell’identità collettiva. Oltre che come dichiarazione di un’appartenenza, dunque, la possibilità di “trasmettere l’identità” è un modo oggi particolarmente efficace di “produrre l’identità”37. A parte il caso dell’Iraq, gli spettatori di MED-TV erano in buona parte cittadini abituati a usare la lingua curda in contesti esclusivamente domestici38. La semplice circostanza di poter seguire trasmissioni nella loro lingua madre rende plausibile il curdo 36

Questo organismo britannico di controllo ha cessato di esistere il 18 dicembre 2003, quando le sue mansioni sono state assunte nel quadro più vasto delle attività dell’Ofcom (Office of Communications), che ha ereditato i compiti di altri quattro organismi, e cioè: il Broadcasting Standards Commission (BSC), Oftel, la Radio Authority e la Radiocommunications Agency. 37 Torneremo in dettaglio su questo tema quando discuteremo la natura e la funzione degli indigenous media nel prossimo capitolo, alle pp. XX-XX. 38 Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, il curdo – che già era tollerato nell’uso quotidiano – è diventato la seconda lingua ufficiale dell’Iraq e la prima nella parte settentrionale del paese. In Siria e Turchia l’uso del curdo è vietato dalla legge, mentre in Iran è tollerato anche se non ufficialmente riconosciuto. Sulla soppressione del curdo si veda in generale AMIR HASSANPOUR, “The Politics of A-political Linguistics: Linguists and Linguicide” in ROBERT PHILLIPSON, a cura di, Rights to Language, Equity, Power, and Education, Celebrating the 60th Birthday of Tove Skutnabb-Kangas, Mahwah, NJ, Lawrence Erlbaum Associates, 2000, 310 p. [pp 3339]; per il caso siriano HUMAN RIGHTS ASSOCIATION IN SYRIA, The Effect of Denial of Nationality on the Syrian Kurds. A Report by the Human Rights Association in Syria, dattiloscritto, novembre 2003, 20 p., reperibile in rete all’indirizzo ; per il curdo in Turchia si veda invece HUMAN RIGHTS WATCH, “IX. Restrictions on the Use of the Kurdish Language” in Turkey: Violations of Free Expression in Turkey, New York, Human Rights Watch, 1999, 122 p., reperibile in rete all’indirizzo . In quest’ultimo è riportato anche il nono comma dell’articolo 42 della Costituzione turca che così recita: “Al di fuori del turco, nessun’altra lingua sarà studiata o insegnata ai cittadini turchi in alcuna istituzione di natura linguistica, educativa o scolastica”.

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come lingua di status ufficiale, lo rende quindi immaginabile in contesti ben diversi da quello domestico. La fruizione di una lingua in un quadro altamente decontestualizzato come quello televisivo apre cioè spazi altrimenti letteralmente impensabili di legittimazione politica, al di là e indipendentemente dagli specifici contenuti trasmessi. In questo senso, il vecchio (e screditato) adagio di Marshall McLuhan “il mezzo è il messaggio” recupera gran parte del suo valore. La semplice possibilità di utilizzare un canale satellitare per trasmettere programmi in curdo garantisce a quella lingua un prestigio altrimenti irraggiungibile, indipendentemente dal contenuto specifico delle trasmissioni, divenendo ipso facto un messaggio politico per un Governo come quello turco, intenzionato a mantenere il curdo nel rango delle “parlate locali”. Questa volontà politica di espressione culturale ha trovato collocazione nella comunità curda della diaspora, e infatti il servizio in lingua curda aveva come basi produttive Londra e Bruxelles. Un gruppo politico disperso di un’entità lingustico-culturale priva di uno Stato si è attivato per generare un’immagine coerente di sé e della propria comunità di origine. Questa immagine è stata tenacemente contestata da uno Stato (la Turchia) che vedeva in pericolo non tanto la sua sovranità territoriale, quanto il diritto di gestire la produzione identitaria dei suoi cittadini. All’uso della forza, lo Stato ha presto dovuto affiancare una raffinata diplomazia che ha incluso da un lato una serie di accordi bilaterali (perlopiù informali) con altri Stati, e dall’altro l’appello esplicito alle norme che stabiliscono il diritto di appartenenza a un organismo britannico di regolamentazione. Un canonico conflitto di interessi e diritti tra minoranza e maggioranza – che si potrebbe pensare come una questione di politica interna – è stato quindi riscritto sub specie mediatica in modo da spostare radicalmente il luogo della contesa e gli attori in gioco. La minoranza interna ha trovato uno specchio e un innesco alla propria identità culturale e politica nella comunità degli espatriati. Quest’ultima – invece di trattare o scontrarsi con lo Stato o gli Stati che controllano territorialmente lo spazio occupato dalla minoranza – ha negoziato uno spazio mediatico con organizzazioni non statali e con gli Stati di insediamento, che a loro volta utilizzavano un cartello internazionale per rendere operativo quello spazio mediatico. Come la minoranza non ha trattato direttamente con la “sua” maggioranza, così la maggioranza non ha esercitato una pressione diretta sulla “sua” minoranza – o lo ha fatto solo fin quando le condizioni tecnologiche l’hanno consentito, fino a quando cioè l’orientamento delle parabole ha permesso di identificare “oggettivamente” la minoranza – ma ha intrattenuto una serie di trattative bilaterali con altri Stati e con organizzazioni non statali per oscurare lo spazio mediatico conquistato dalla comunità della diaspora.

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Quale che sia il nostro giudizio sulla specifica vicenda di MED-TV, la lezione che ne dobbiamo trarre per le nostre riflessioni sul rapporto tra sistema delle comunicazioni di massa e identità collettive è sostanzialmente che nella misura in cui il sistema mediatico si libera del monopolio statale, gli Stati nazionali non sono più in grado di gestire autonomamente la questione dell’identità culturale e politica dei cittadini legalmente sottoposti alla propria giurisdizione. Anche in questo caso (in cui a risultare “vincitore” è alla fine uno Stato nazionale) lo Stato maggiormente esposto (la Turchia) non avrebbe potuto raggiungere i suoi obiettivi (che rimangono formalmente di politica interna) se non si fosse posto come nodo di una rete complessa costituita da altri Stati e altre entità politiche e amministrative non statali. Tradotto nella pratica politica dello Stato nazionale classico, questo tipo di dinamica risulta incomprensibile. Nel modello canonico mazziniano (un popolo per ogni Stato, uno Stato per ogni popolo) la questione della fedeltà politica e della specificità culturale dei cittadini di uno Stato sovrano è demandata interamente alla politica interna, qualificando immediatamente come ingerenza qualunque caso di ingresso di soggetti terzi nella disputa tra gli apparati ideologici di uno Stato e la coscienza etnica e civica dei suoi cittadini. La questione delle minoranze, sempre considerata nel quadro dello Stato nazionale classico, ha per lungo tempo ritenuto legittima l’intrusione di un terzo soggetto solo nel caso in cui questo potesse accampare pretese giustificate sulla predisposizione nazionale della minoranza, quando cioè potesse a ragione presentarsi come “vera madre patria” della minoranza sottoposta alla giurisdizione di un altro Stato. La tradizione risorgimentale e irredentista che ha frantumato in Europa i grandi imperi Austro-Ungarico e Ottomano nel corso dell’Ottocento e fino alla fine della prima guerra mondiale – in associazione con la dottrina Wilson dell’autodeterminazione dei popoli39 – ha creato una tradizione di sovranità nazionale in cui questa associazione esclusiva in termini di identità collettiva tra entità statale e comunità nazionale ha finito per essere data per scontata. Il punto è che oggi una serie di fattori strutturali – tra cui spiccano per rilevanza le nuove disponibilità di produzione e distribuzione dei messaggi veicolati dai mezzi elettronici di comunicazione di massa – rendono obsoleto quell’automatismo. Se, insomma, secondo il modello classico, era normale pensare che l’identità dei cittadini turchi fosse una questione che coinvolgeva in esclusiva il Governo turco o al massimo eventuali Governi limitrofi interessati direttamente (come potenziali “madrepatrie”) dalla questione delle minoranze, oggi – a livello analitico oltre che politico – dobbiamo fare i conti con il fatto che la “questione curda” in Turchia passa anche attraverso l’accordo tra la Turchia e –

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spiegare

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per esempio – la Slovacchia, se questa, com’è accaduto, ha il potere di impedire il passaggio di MED-TV sui transponders da lei gestiti. È questa novità che dobbiamo essere in grado di teorizzare e per la quale dobbiamo produrre nuovi modelli, senza dunque cedere alla tentazione di credere che nulla sia cambiato (come se gli Stati avessero mantenuto intatti i loro privilegi) o che sia cambiato tutto al punto di generare una sorta di caos delle identità in cui non è possibile individuare alcuna regolarità. Un primo passo per produrre un quadro teorico coerente è ripensare in modo sistematico due concetti (modernità ed emigrazione) che hanno accompagnato negli ultimi due secoli quello di appartenenza, e verificare in che modo le mutazioni interne di questi concetti entrino in rapporto con le modifiche già indicate nel sistema dei mezzi di comunicazione di massa, così da causare un mutamento radicale nel sistema delle appartenenze. Per anticipare la tesi che intendo argomentare nelle righe seguenti, si tratta di vedere come: (a) una concezione della modernità sempre meno evoluzionista e sempre più legata alla specificità del contesto culturale in cui si realizza e (b) la metamorfosi della migrazione in diaspora dentro e attraverso il mutamento tecnologico dei mezzi di comunicazione (c) abbiano alterato gli equilibri di forza faticosamente raggiunti dagli Stati nazionali nella gestione dell’immaginazione nazionale e nella produzione di identità collettive.

Le direzioni della modernità In un rapido e denso saggio40 il filosofo britannico Charles Taylor presenta quelle che lui considera le due versioni principali della teoria della modernizzazione. Secondo la prima, che definisce aculturale e che è sostanzialmente un modo di guardare ai mutamenti sociali trascurando la loro dimensione morale, la modernizzazione caratterizza una fase specifica dell’evoluzione di tutte le società umane. Indipendentemente dal punto di partenza, tutte le culture umane devono fare i conti con il progresso, la tecnologia, la crescita dell’individualismo e la secolarizzazione. Proprio perché non considera le culture come costellazioni di giudizi morali e di valori – oltre che di specifiche pratiche e tecniche – questa concezione della modernizzazione può pretendere di essere libera da giudizi di valore, e di restituire le sorti dell’umanità al suo inevitabile destino, che è riassumibile nel passaggio dalla barbarie (universale) alla civilizzazione (altrettanto universale). 40

CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, The Responsive Community, VI (3), Summer 1996, pp. 16-

25.

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A questa concezione Taylor ne contrappone un’altra, che chiama invece culturale. Secondo questa teoria alternativa, la modernizzazione delle culture non avviene mai in un contesto privo di giudizi di valore ma si realizza come opzione fondamentalmente morale, e quindi secondo percorsi alternativi e spesso divergenti. Detto altrimenti, non c’è una modernizzazione, ma molte forme del passaggio da una costellazione culturale a un’altra. Scritto nel 1996, il saggio di Taylor concede alla teoria aculturale della modernità il predominio pressoché assoluto nella teoria e nella pratica politica. Anche i degenerazionisti, infatti, pur considerando la modernizzazione sostanzialmente un male, non si discostano da una

concezione

rigidamente

evoluzionista

(pur

se

nella

sua

variante

negativa,

degenerazionista appunto) e unilineare della sua traiettoria. Quello che nella concezione positiva della modernità è il superamento di una strutturazione culturale, nella concezione negativa viene visto come una perdita, ma il passaggio e la sua inevitabilità rimangono invariati: Da un punto di vista, l’umanità si è liberata di una lunga serie di miti falsi e dannosi. Da un altro, ha perso contatto con realtà spirituali essenziali. In entrambi i casi, il mutamento è concepito come una perdita di credenza.41

Secondo Charles Taylor, il dominio della concezione aculturale della modernità dipende da una serie di fattori, non ultimo il fatto che in questo modo si rende ideologicamente inevitabile (e quindi indiscutibile) il percorso occidentale della modernizzazione. La prospettiva aculturale è quindi in un certo senso rassicurante rispetto alla traiettoria del nostro percorso socio-culturale, ma questa sicurezza si sconta come seria incapacità di comprendere il rapporto tra la modernità e le altre culture: Credere che la modernità derivi da una singola operazione applicabile universalmente impone un modello falsamente uniforme ai molteplici incontri delle culture non occidentali con le esigenze della scienza, della tecnologia e dell’industrializzazione.42

Nello stesso anno di “Two Types of Modernity”, l’antropologo indiano Arjun Appadurai pubblicava una raccolta di saggi in cui in diversi passi riprende implicitamente l’antitesi di Charles Taylor tra teoria culturale e aculturale della modernità, ma ponendosi l’esplicito obiettivo di portare sostegno alla versione culturale della modernizzazione, per cui la “novità” cui assistiamo non può essere negata ma deve essere declinata nei contesti specifici in cui 41 42

CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, loc. cit. alla nota precedente, p. 20. CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, loc. cit. alla nota XX, p. 24.

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viene a realizzarsi43. Per ogni fenomeno culturale, dice Appadurai prendendo spunto dalle riflessioni di Michel Foucault su alcuni concetti nietzschiani44, possiamo ricostruirne la storia come movimento di diffusione dal luogo di origine (come processo cioè legato alla globalizzazione) ma con altrettanta cura dobbiamo indagarne la genealogia, il movimento parimenti storico attraverso cui quel fenomeno si indigenizza (producendo paradossalmente ulteriore identità locale, come abbiamo visto). La storia, quindi, è il collegamento di modelli di mutamento in contesti sempre più vasti o, se si vuole, il percorso di determinati flussi nel loro dipanarsi a livello globale, per cui è possibile fare la storia del nazionalismo se si individua la sua origine e poi se ne segue il lento propagarsi sul pianeta come dottrina politica. La genealogia, invece, significa lo studio delle condizioni storiche locali che consentono la sedimentazione sul territorio di nuove forme culturali, per cui è possibile collegare l’indigenizzazione del nazionalismo in India ai grandi imperi moghul o alla tradizione della divisione sociale in caste, e vedere come la storia di un concetto politico debba fare i conti, a livello locale, con la genealogia entro cui cerca di innestarsi45. Questa duplice attenzione analitica (ai fenomeni messi in moto dalla globalizzazione economica e culturale del pianeta e al loro radicarsi in contesti estremamente locali secondo forme indigene che li rendono del tutto peculiari proprio nel momento in cui si insediano come fenomeni globali) cerca ovviamente di tener conto della dimensione culturale di ogni forma di modernizzazione e quindi supera in maniera intenzionale il modello aculturale classicamente evoluzionista. Soprattutto, questo approccio permette di scardinare la necessità che sembra correlare alcune variabili nella teoria aculturale della modernizzazione come, ad esempio, il rapporto tra modello politico, livello di sviluppo economico e tecnologico e secolarizzazione. Se infatti nella teoria classica della modernizzazione queste tre variabili sono strettamente correlate (per cui a una crescita tecnologica dovrebbe corrispondere una 43

ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota XX.Tutto il libro tratta, da diverse prospettive, proprio il tema della fine del mito uniformante della modernizzazione e la sua ricostituzione in forme locali, e quindi sarebbe vano segnalare al lettore passi specifici. Per la sua particolare pregnanza per il quadro della ricerca che affrontiamo in queste pagine, credo però valga la pena di riportare almeno questo passo, tratto da p. 25 della traduzione italiana: “La macroretorica della modernizzazione sviluppista (crescita economica, alta tecnologia, industria agricola, scolarizzazione, militarizzazione) è ancora presente in molti paesi, ma è spesso interrotta, messa in questione e addomesticata dalle micronarrative di film, televisione, musica e altre forme espressive che consentono alla modernizzazione di essere riscritta più come una versione dialettale della globalizzazione che come il cedimento a politiche nazionali e internazionali su larga scala”. Del resto, il titolo originale Modernity at Large gioca proprio su un’ambiguità glocal, dato che in inglese at large significa sia “in generale” (enfatizzando quindi la dimensione globale della modernità) sia “alla macchia”, come di un prigioniero evaso (con una chiara enfasi della dimensione localizzante e idiolettale di quella modernità). 44 MICHEL FOUCAULT, “Nietzsche, Généalogie, Histoire”, in AA.VV. Hommage à Jean Hyppolite, Paris, Presses Universitaires de France, 1971, II-232 p. [pp. 145-172]. 45 APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota XX. I riferimenti all’opposizione storia/genealogia sono alle pp. 91-92 e 102-103.

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progressiva secolarizzazione e un rapido passaggio verso forme di democrazia liberale), oggi abbiamo piena consapevolezza che vi può essere crescita economica senza corrispondente passaggio a regimi liberali o democratici (come nel caso cinese) oppure una sostanziale espansione tecnologica senza segni evidenti di secolarizzazione (come in Iran). In modo sempre più nitido a partire dalla crisi dell’11 settembre 2001, abbiamo dunque acquisito consapevolezza non solo analitica ma anche politica che possiamo inscrivere persino forme apparentemente regressive come il fondamentalismo religioso entro il quadro generale della modernizzazione46, che quindi si frantuma in diversi percorsi locali che lottano per il predominio. Perduta la strada maestra dell’evoluzione sociale, la modernizzazione può quindi significare anche l’acquisizione di competenze tecnologiche per la realizzazione di obiettivi apparentemente premoderni: la ripresa su nastro magnetico dello sgozzamento dei prigionieri durante la seconda guerra in Iraq è un esempio particolarmente efferato di questa commistione apparentemente contraddittoria di mezzi “moderni” (di comunicazione di massa) e di fini “barbarici”, ma nel prossimo capitolo vedremo invece applicazioni del tutto pacifiche di questo stesso principio. Il primo punto che dobbiamo tenere presente nel nostro tentativo di realizzare un quadro teorico che ci consenta di comprendere come i mezzi di comunicazione di massa producano oggi forme identitarie è che non vi è un percorso necessario che conduca dal tradizionale al moderno, se con quest’ultimo termine intendiamo il sistema di valori che caratterizza il mondo occidentale. La circolazione dei messaggi garantita dalla globalizzazione, dunque, non certifica una progressiva omogeneizzazione culturale del pianeta, dato che i percorsi storici di quei messaggi possono essere molto lontani dalle loro strategie genealogiche di sedimentazione locale.

Migranti, diasporici e indigeni Ma, assieme a questo punto, ce n’è un altro che va tenuto presente con chiarezza, ed è – in estrema sintesi – il passaggio dalle migrazioni alle diaspore. Abbiamo già accennato nell’introduzione al rapido movimento della popolazione sul pianeta grazie alla diffusione di mezzi di trasporto sempre più veloci e sempre più economici. L’innovazione tecnologica dei trasporti, associata alla rapidità con cui si spostano i messaggi attorno al pianeta, ha provocato un radicale mutamento del modo in cui le comunità si pensano e agiscono come tali. Così, in 46

Cfr. ad esempio la brillante analisi del fondamentalismo musulmano di JOHN GRAY, Al Qaeda and what it means to be modern, London, Faber and Faber, 2003, 145 p. Traduzione italiana di Lorenzo Greco, Al Qaeda e il significato della modernità, postfazione di Sebastiano Maffettone, Roma, Fazi, 2004, 155 p.

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un saggio dedicato proprio al concetto di diaspora, l’antropologo americano James Clifford condensa la situazione attuale: ...le forme diasporiche della nostalgia, della memoria, e della (dis)identificazione sono condivise da un ampio spettro di minoranze e popolazioni migranti. E popoli dispersi, un tempo separati dalle terre d’origine da vasti oceani e da barriere politiche, si trovano sempre più in relazioni di frontiera con la vecchia patria grazie a un viavai reso possibile dalle moderne tecnologie dei trasporti, delle comunicazioni e della migrazione del lavoro. Aerei, telefoni, videocassette, videoregistratori e mobilità dei mercati del lavoro, riducono le distanze e agevolano il traffico, legale e illegale, fra i luoghi del mondo.47

Gli uomini hanno sempre viaggiato cercando altrove migliori condizioni di vita, ma nel farlo dovevano essere disposti a lasciare dietro di sé buona parte dei loro affetti e delle loro conoscenze. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, questo spostamento ha coinvolto milioni di persone in fasi diverse, fino a giungere agli attuali movimenti di popolazioni dal Sud verso il Nord del mondo. Ma se fino agli anni Cinquanta del Ventesimo secolo l’opposizione basilare era quella tra stanziali e migranti (con i secondi ferocemente tesi per propria volontà o per la pressione dello Stato ospite a diventare quanto più rapidamente possibile parte dei primi) la tecnologia associata ai trasporti e alla comunicazione ha mutato lo scenario, producendo almeno tre categorie distinte di raggruppamenti identitari in base al loro specifico rapporto con il territorio: 1. Migranti. Continuano ad esistere i migranti. Persone che si spostano, per speranza o per disperazione, da un posto a un altro e intendono integrarsi nel luogo di arrivo. Si sforzano di imparare rapidamente la lingua del paese in cui sono ospiti o almeno pretendono che la parlino i loro figli, per far sì che la loro condizione di forestieri venga rapidamente meno, e si trasformi in piena cittadinanza. I migranti non intrattengono rapporti stabili o continuativi con il posto da cui provengono, e quindi ne costruiscono al massimo un’immagine idealizzata, rapidamente oleografica e sempre più distante dalla realtà. Spesso accettano addirittura una sorta di amnesia che consente un più rapido inserimento nella comunità di arrivo. L’emigrazione italiana dell’Ottocento (in Francia prima, nelle Americhe poi) era in massima parte concepita e organizzata come produzione di migranti, ben disposti a cedere quote

47

JAMES CLIFFORD, “Diaspore”, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, traduzione di Michele Sampaolo e Giuliana Lomazzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, 475 p. [pp. 299-342; il passo citato è da p. 302]. Edizione originale Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge, MA, London, Harvard University Press, 1997, 408 p.

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rilevanti della loro identità italiana (spesso solo regionale o locale) in cambio di una prestigiosa e nuova identità “moderna” (francese o variamente americana). 2. Diasporici. Ma la condizione di migranti, necessaria e senza alternative praticabili (se non l’emarginazione sociale) per quanti partivano fino agli anni Cinquanta, presto si è mutata in una scelta, dato che la possibilità di mantenere contatti costanti con il luogo di provenienza ha reso via via plausibile l’alternativa di sentirsi parte di una comunità diasporica. Oggi è, in molti casi, materialmente possibile spostarsi all’altro capo del pianeta per sempre senza abbandonare non solo la lingua di socializzazione, ma anche le abitudini alimentari, i gusti musicali, il panorama politico e i giornali o i programmi televisivi preferiti. Ci si può radicare cioè in un territorio senza perdere il contatto reale (non solo il legame affettivo) con la propria patria d’origine. Ovviamente, questa disponibilità non è equamente distribuita sul pianeta (immagino sia difficile sentirsi membro della diaspora greca, poniamo, in Nuova Guinea) ma i grandi flussi migratori e le mete principali sembrano rendere strutturale questa condizione. Com’è immaginabile, sono gli Stati nazionali ad essere scossi nella loro natura costitutiva dalle diaspore, dato che queste minano il requisito primigenio dello Stato nazionale moderno, e cioè l’uniformazione dei propri membri a un modello regolare di tratti culturali e valori morali condivisi. La pretesa di una comunità diasporica di mantenere non solo i contatti, ma anche la propria fedeltà, associati a un paese diverso da quello in cui si risiede viene giudicata spesso come una vera minaccia all’integrità nazionale, o almeno come una pratica ambigua e fonte di sospetto. Lo Stato nazionale, in quanto territorio e tempo comune, è attraversato e, in vario grado, sovvertito dai vincoli di attaccamento diasporici. Le popolazioni in diaspora non vengono da un altrove allo stesso modo degli «immigranti». Nelle ideologie nazionali assimilazionistiche come quella degli Stati Uniti, gli immigranti possono sperimentare un senso di perdita e nostalgia, ma solo sulla strada verso una patria tutta nuova in un nuovo posto. Le ideologie di questo tipo sono destinate a integrare immigranti, non la gente delle diaspore. Che la storia nazionale raccontata nella versione della tradizione parli di origini comuni o di popolazioni formatesi per aggregazioni successive, essa non è in grado di assimilare gruppi che mantengono importanti fedeltà e connessioni concrete con una patria di partenza o con una comunità dispersa collocata altrove. Persone il cui senso di identità è definito nel suo nucleo centrale da storie collettive di spostamento o di perdita violenta non possono essere «curate» con la fusione in una nuova comunità nazionale.48 48

JAMES CLIFFORD, “Diaspore”, loc. cit. ala nota precedente, p. 307.

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Quale che sia la volontà assimilatrice degli Stati nazionali, le condizioni strutturali dell’identità (i modi e le forme della sua produzione e riproduzione) rendono ormai disponibile una condizione diasporica che oggi si rende fruibile anche alle generazioni nate dai migranti. Cittadini “sfocati” rispetto al centro normativo dello Stato cui appartengono e in cui sono nati, possono a volte ricostituire un legame effettivo con la terra di provenienza dei loro genitori, o dei loro antenati. In un movimento paradossale che vanifica la retorica stabilizzante della metafora delle radici, questi nuovi soggetti diasporici inseguono nel tempo e nello spazio una radicalità sostanzialmente nuova per loro e per la loro comunità. Le diaspore attivate nella globalizzazione producono inevitabilmente una pressione politica sugli Stati. Non tanto e non solo sugli Stati di destinazione, quanto sull’ideologia stessa che sta a fondamento dello Stato attuale. Le politiche assimilazioniste, viste con favore fino agli anni Sessanta del secolo scorso, hanno lasciato il campo a progetti sociali in cui le parole chiave sono integrazione (non assimilazione), e multiculturalismo o intercultura49, non più cultura nazionale. Legittimando il nomadismo dei sistemi culturali, la diaspora delegittima la vocazione sedentaria degli Stati nazionali classici, costringendoli a un duplice lavoro empirico (da un lato mediare tra le diverse culture diasporiche che li attraversano; dall’altro inseguire la diaspora della propria comunità nazionale originaria) e a un complesso lavoro teorico di giustificazione della propria esistenza. Se infatti lo Stato nazionale non è più (o non più in modo esclusivo) l’alveo politico di una comunità nazionale uniforme per cultura e valori, quali sono le basi morali della sua legittimità come soggetto politico? Ma non è solo contro l’ideologia dello Stato nazionale che prendono forma le comunità diasporiche, e non sono solamente le comunità diasporiche a minare la legittimità dello Stato nazionale. 3. Indigeni. Proprio i flussi planetari di merci, messaggi e popoli hanno attivato una nuova consapevolezza della territorialità, che si traduce in politiche di salvaguardia, di recupero e di rinforzo del legame “originario” con il suolo. Il movimento zapatista che il 1° gennaio 1994 prese il controllo di San Cristobal de la Casas e di altri centri dello Stato messicano del Chapas era composto principalmente di indios tzeltal, tzozil e chol che, sostenuti anche dalle gerarchie cattoliche (con loro era Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal) si sollevarono contro il Governo centrale reclamando giustizia sociale. Un elemento interessante del movimento zapatista è la sua capacità di superare le tradizionali divisioni etniche in nome di

49

Sul recente passaggio dal multiculturalismo all’intercultura si veda FRANCESCO POMPEO, Il mondo e poco. Un tragitto antropologico nell’interculturalità, Roma, Meltemi, 2002, 191 p.

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una battaglia condotta sulla comune provenienza: “Ciò che abbiamo in comune è la terra che ci ha dato la vita e la lotta”50. Questo esempio, ormai estremamente famoso ma cui potremmo facilmente aggiungerne altri51, ci dice ancora una volta che non è contro la globalizzazione economica e culturale che prendono forma e si caricano di valenze politiche le identità locali, ma proprio dentro la diffusione

planetaria

dell’uniformazione

del

mercato

e

dei

costumi

consentita

dall’esportazione dei messaggi e delle ideologie tramite i mezzi di comunicazione elettronica che trovano nuova linfa le identità locali. Se non ci fossero i migranti e i diasporici, gli indigeni, con il loro primigenio legame alla terra, non avrebbero ragione politica di essere tali. La “riscoperta” dell’autoctonia e della primogenitura investe la legittimazione “territoriale” dello Stato almeno quanto le diaspore ne incrinano la legittimazione “etnica”. Se cioè la diaspora planetaria dimostra la permeabilità dei confini stabiliti tra gli Stati sovrani – la loro natura sempre più simbolica di asserimento della differenza e sempre meno funzionale di gestione attiva della stessa – così ogni rivendicazione di indigenità interna, venendosi a configurare come una richiesta di resecazione di uno spazio politico speciale all’interno dei confini nazionali – cioè ponendo un nuovo confine identitario – nega valore anche solo formale ai confini statali. Ogni movimento indigenista, nativista, autoctono o comunque connotato in termini di superiorità morale rispetto alle diaspore e alle migrazioni, proprio delimitando un suo spazio “naturale” (quasi mai coincidente con lo spazio nazionale in cui è incluso) riduce a mero artificio lo spazio nazionale dello Stato che lo contiene. Se cioè comincia a trovare una sua legittimità l’idea che il criterio fondativo di una comunità politica non sia un accordo siglato attorno a una progettualità comune, ma uno spazio condiviso ab origine e attraversato in seguito da altri più o meno tollerati, la risposta politica dello Stato nazionale alle identità di questo tipo non può che selezionare tra un’alternativa. O decide di fare proprio il modello indigenista, assumendo consapevolmente la postura di Stato etnico e quindi puntando alla definitiva “purificazione” del proprio territorio nazionale da qualunque contaminazione con gruppi non autoctoni (con tutte le tragedie che questa posizione inevitabilmente si trascina) oppure cerca di contenere quel modello in un sistema generalizzato di riconoscimenti giuridici per le diverse comunità indigene eventualmente esistenti sul suo territorio. La risposta effettiva è spesso una malsicura mediazione tra questi due estremi, come testimoniano, soprattutto in Europa occidentale, i tentativi ambivalenti di

50

Cit. in MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota XX, p. 87. Castells analizza diffusamente il movimento zapatista alle pp. 81-93. 51 Citare casi come gli indiani d’America e gli Aborigeni australiani rimandando ai capitoli successivi.

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escludere o inglobare nei sistemi di governo i gruppi politici che mobilitano la propria base e strutturano il loro programma sul richiamo a un’identità autoctona o indigena. E se nei contesti extraeuropei molto spesso la contrapposizione è tra indigeni e cittadini di origine eurocoloniale (inserendosi quindi in sperequazioni di potere precedenti e profondamente radicate, per cui, per così dire, l’indigenismo nasce in questi contesti costitutivamente fragile e subalterno e deve lottare anche solo per acquisire una quota politicamente spendibile di orgoglio identitario) in Europa la sedentarietà primigenia dell’appartenenza si aggancia facilmente a gruppi storicamente egemonici sul piano economico oltre che su quello culturale, producendo un’ulteriore emarginazione degli emarginati. Questa tripartizione teorica dello spazio identitario (migranti, diasporici, indigeni) non si presenta, dal punto di vista delle singole comunità e ancor meno per quanto riguarda i singoli soggetti, come un’alternativa, tutt’altro. Lo stesso individuo può rivendicare allo stesso tempo la duplice natura di indigeno e diasporico, e anzi molto spesso la legittimazione dei diritti richiesti in quanto popolo di una diaspora (la richiesta formale, ad esempio, di poter utilizzare la propria lingua madre nel sistema educativo almeno fino a un certo grado di istruzione, come avviene in Australia) deriva proprio dalla presunta natura indigena dell’identità di provenienza. I macedoni di Grecia emigrati in Australia (di passaporto greco e di lingua macedone, del gruppo delle lingue slavomeridionali), ad esempio, possono chiedere che i loro figli in Australia vengano educati in macedone in quanto lingua autoctona nella regione della Grecia da cui provengono: i loro diritti diasporici derivano quindi dalla loro autoctonia o “indigenità” in Macedonia52. Del resto, la compresenza di tratti ambivalenti è inscritta nella natura opportunistica di qualunque strategia identitaria, e se da un lato gli Stati si sforzano di conservare i privilegi della loro “comunità originaria” quando questa coincide con le classi economicamente e politicamente dominanti (com’è in generale il caso in Europa e in Asia), dall’altro gli stessi organismi statali si battono per il riconoscimento dei diritti dei “loro” compatrioti lontani, anche quando questi si sentono più migranti che diasporici. NB! DA QUESTO PUNTO IN POI IL SAGGIO È INCOMPLETO. LO PUBBLICO IN QUESTA VERSIONE PER CONSENTIRE A CHI SI STA PREPARANDO PER GLI 52

Sulla costruzione dell’identità diasporica dei macedoni in rapporto all’identità indigena, e sul ruolo giocato in questa costruzione dalla comunicazione sempre più fitta tra “i partiti” e “i rimasti” cfr. LORING M. DANFORTH , The Macedonian Conflict. Ethnic Nationalism in a Transnational World, Princeton NJ, Princeton University Press, 1995, XVI-273 p.

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ESONERI DEL 3 E 10 MAGGIO DI PRESENTARSI COMUNQUE. OVVIO CHE TERRÒ CONTO DELLA NATURA INCOMPIUTA DI QUESTO TESTO. Gilroy Nativi viaggianti clifford 311n Da quanto fin qui argomentato, dovrebbe essere chiaro che il gioco classico della modernizzazione (uniformazione a determinati modelli euroccidentali di valori e stili di vita) non è più plausibile, e dobbiamo pensare a un mondo in cui allo spostamento fisico sul pianeta non corrisponde più l’abbandono sostanziale del sistema di valori e di norme culturali del luogo di provenienza. I viaggiatori possono oggi portarsi dietro fette del loro immaginario “indigeno” mentre migrano, filtrare l’informazione che attraversano nel loro viaggio, produrre informazione lungo il loro percorso di spostamento o nel luogo di destinazione. Possono ascoltarsi le cassette del loro predicatore preferito, ascoltare la musica della band locale anche a migliaia di chilometri di distanza, creando con la loro presenza fisica una domanda (cibi esotici, videocassette, oggettistica, giornali, libri e informazione in generale) che viene soddisfatta da solerti commercianti spesso locali.

Immaginazione e Stato nazionale Per cominciare a ragionare seriamente su come funziona questo nuovo rapporto tra identità e comunicazione dobbiamo capire che l’immaginazione ha acquisito una forza del tutto nuova, slegandosi dalle fonti che l’hanno addomesticata negli ultimi duecento anni. Per immaginazione, seguendo le riflessioni di Arjun Appadurai53, intendiamo la possibilità che ogni individuo ha di rielaborare immagini e informazione entro la propria vita, di farne progettualità per se stesso e per chi gli sta attorno, ed è chiaro che più è varia la materia prima messa a disposizione, più saranno probabili costruzioni e rielaborazioni individuali. La filosofa postfemminista americana Camille Paglia racconta che quando, all’inizio degli anni Settanta, andò (come molte donne della borghesia intellettuale americana) a vedere Gola profonda, il primo film pornografico con una diffusione di massa, la cosa più sconvolgente non fu tanto la visione di scene di sesso esplicito, ma la visione di scene di sesso fino ad allora inimmaginato: “Non solo molte di noi non avevamo mai visto o fatto quello che vedevamo sullo schermo, ma non avevamo mai neppure immaginato che certe cose si potessero fare, che 53

ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota XX, pp. XX-XX.

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fossero fisicamente possibili”54. Ecco, l’esposizione all’informazione si radica in quello che siamo perché permette immaginazioni alternative: in questo senso l’immaginazione è centrale nella costruzione dei soggetti, e diviene quindi essenziale chi controlla la produzione dell’informazione che fornisce la materia prima dell’immaginazione. Anche in questo caso, come abbiamo appena fatto per il concetto di modernizzazione, conviene partire dal modello classico della produzione dell’immaginazione. Semplificando alcuni aspetti marginali, possiamo dire che negli ultimi duecento anni le persone hanno immaginato la loro identità collettiva “sotto dettatura”, e il maestro che dettava era lo Stato nazionale o un corpus istituzionale fortemente legato al sistema omogeneo dello Stato nazionale in cui quelle persone erano fisicamente incluse. Per poter immaginare se stesso, quello che era, quello che avrebbe potuto o voluto essere, gli strumenti a disposizione del cittadino di un moderno Stato nazionale per tutto il Diciannovesimo e per buona parte del Ventesimo secolo erano sostanzialmente limitati a quelli offerti dalle istituzioni culturali disponibili, educative o di svago, vale a dire scuola e sistema emergente dei mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio, e poi televisione). In ciascuno di questi settori il peso dello Stato (diretto o indiretto) era enorme: per la scuola e la televisione era totale e diretto, dato che i sistemi radiotelevisivi erano realizzati quasi esclusivamente secondo il modello del “servizio pubblico” gestito direttamente o comunque strettamente regolamentato dallo Stato. Per tutti gli altri settori, l’impronta dello Stato nazionale si manifestava attraverso il controllo linguistico e il controllo sulla produzione: per molti cittadini dei moderni Stati nazionali (potremmo dire per tutti tranne che per una ristretta élite dominante), l’infanzia è stata segnata dal faticoso processo di acquisizione della lingua ufficiale dello Stato cui si apparteneva, spesso in opposizione all’uso domestico delle parlate vernacolari e minoritarie. L’acquisizione della lingua standard ufficiale (o di qualche varietà regionale o di classe che le si avvicinava il più possibile) significava entrare in un mondo prestigioso e austero, che ha segnato profondamente la capacità di immaginare e immaginarsi dei cittadini ammessi a farne parte55. In molti casi, soprattutto se segnati da una diglossia lingua/dialetto (come in contesti di recente urbanizzazione) o in contesti bilingui o plurilingui (come sono spesso le zone di frontiera), l’obiettivo da raggiungere (posto come prestigioso e ragguardevole) era l’acquisizione della lingua nazionale in senso esclusivo: i cittadini dovevano diventare monolingui. Nella loro condizione di parlanti tendenzialmente monolingui, i cittadini 54

Cit. in…XXXXXXXXXXXXX Limitandoci al caso italiano, un testo ormai classico sul processo di omogeneizzazione linguistica è quello di TULLIO DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita, quinta edizione, Roma-Bari, Laterza, 1999, XVIII-573 p. Prima edizione 1963. 55

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leggevano libri e altro materiale a stampa solo nella lingua nazionale, e quand’anche ascoltavano musica straniera raramente erano in grado di cogliere il senso dei versi. Anche se l’immaginario proposto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale poteva apparire profondamente americanizzato o internazionalizzato per molti versi, si trattava (e spesso ancora si tratta) di un americanismo sempre filtrato dalla lingua nazionale, dal sistema della produzione interno allo Stato, inteso ovviamente non tanto come neutro apparato burocratico, ma come sistema deputato all’incorporazione di determinati modelli di pensiero. Non solo i film erano doppiati se stranieri (e prodotti con il sostegno di enti governativi se nazionali), ma anche i libri erano tradotti, e la pubblicistica in generale adattata al contesto locale. Questo stato di cose ha caratterizzato la capacità di immaginare tra gli inizi dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento in forme sempre più chiare. Si può quindi dire che almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale. Come abbiamo già detto, il caso degli emigranti, lungi dal fornire un controesempio a questa prospettiva, in realtà la conferma: emigrare voleva proprio dire resecare i legami immaginativi con la comunità di origine per esporsi al progetto uniformante veicolato dalle istituzioni culturali di nuova comunità nazionale, quella che offriva la sua ospitalità. In sostanza, tutti quelli nati fino ai primi anni Sessanta del secolo scorso hanno avuto a disposizione strumenti di immaginazione confinati dall’entità nazionale all’interno della quale erano cresciuti o, nel caso degli emigranti, entro la quale avevano lavorato. Negli ultimi quarant’anni circa il mutamento è stato però radicale, e ha liberato l’immaginazione dalle pastoie nazionali. Si pensi, solo per offrire un esempio estremamente semplice ma altrettanto indicativo, ai nomi di alcuni dei personaggi più famosi dei fumetti e dei cartoni animati: Mickey Mouse venne importato come Topolino, e Popeye dovette italianizzarsi in Braccio di Ferro56. Uno dei casi più clamorosi di questa tendenza a indigenizzare a tutti i costi le strutture narrative importate (anche quando venivano lasciati inalterati i nomi originali), fu l’adattamento di una delle strisce più famose del mondo, Peanuts. I due primi traduttori, Franco Cavallone e Ranieri Carano, adattarono la strampalata fede di Linus van Pelt nel Great Pumpkin (letteralmente “Grande Zucca”, un personaggio inesistente nato dall’indebito incrocio di Natale e Halloween) in “Grande Cocomero” e il nome del personaggio misterioso che ogni anno Linus aspetta speranzoso è rimasto tale anche oggi, che Halloween viene normalmente festeggiato dai bambini italiani57.

56

Il suo ghiotto amico J. Wellington Wimpy venne tradotto in Italia come Poldo Sbaffini, e dato che mangiava hamburger in un epoca in cui questo piatto era sostanzialmente sconosciuto nel nostro paese, persino la sua passione alimentare venne adattata alle conoscenze del pubblico, e gli hamburger divennero “polpette”.

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Se quindi per decenni, per sintetizzare, Hans e Friz diventano Bibì e Bibò, a partire dagli anni Settanta diventa sempre più normale tenersi vicini ai contenuti originali, per cui alla fine degli anni Ottanta Roger Rabbit rimane tale, senza neppure sforzarsi di tradurre il termine “Coniglio”. Ma, a ben vedere, questa tendenza indigenizzante sembra bidirezionale, per cui non solo si adattano al contesto locale le eventuali importazioni, ma si tende anche a riprodurre in modo il più possibile esotizzante la raffigurazione dell’alterità. Così, rimanendo ancora nel campo dei personaggi di cartone, Giovanni Luigi Bonelli e Aurelio “Galep” Galeppini possono inventare già nel 1948 un personaggio (Tex Willer) del tutto americano pur essendo loro italiani, come estremamente esotico (in un vago sentore di “Europa del Nord” a cavallo tra Germania, Francia e Inghilterra) è il fascinoso Diabolik disegnato a partire dal 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani. In sostanza, per lungo tempo il sistema dei mezzi di comunicazione di massa ha veicolato la distinzione delle appartenenze, producendo indigenizzazione uniformante all’interno oppure esotismo, altrettanto uniformante, verso l’esterno della comunità nazionale dei lettori. Oggi, questo modello delle differenze distinte consolidato nel sistema dei mezzi di comunicazione e nella struttura delle istituzioni culturali viene incalzato da reti di produzione che non hanno alcun vantaggio nel predisporre i loro potenziali utenti all’uniformità, e che anzi puntano esplicitamente all’ibridità se non all’ambiguità identificativa. Se gli attuali quarantenni italiani potevano credere che Topolino fosse “italiano”, e se gli attuali trentenni ricordano nitidamente l’invasione dei cartoni animati “giapponesi” che ha caratterizzato la loro infanzia, i bambini di oggi non hanno nessun modo di recuperare l’identità (nazionale? culturale?)

delle

fatine

Winx,

uno

dei

successi

più

clamorosi

dell’industria

dell’intrattenimento made in Italy, creature dell’italiano Iginio Straffi. Bloom, Stella, Tecna, Musa, Flora e Aisha vivono in una dimensione parallela (il pianeta Magix) e i loro insegnanti si chiamano Faragonda, Griselda, Barbatea e Ofelia (nomi che richiamano le saghe nordiche) ma anche Du Four, Avalon, Wizgiz, Palladium, e hanno come assistenti delle minifate dai nomi intraducibili: Concorda, Livy, Digit, Piff, Lockette, Chatta, Amore, Tune, Zing e Glim. Il quadro culturale di riferimento è volutamente “meticcio” e ibrido, privo soprattutto di qualunque tensione all’unità o all’uniformità. Le Winx stesse provengono da pianeti diversi (solo Bloom è umana di adozione) e ciò che le unisce è l’amicizia e la comune attenzione per il look con cui si presentano. 57

Come notato nel caso di Popeye/Braccio di Ferro, l’adattamento della striscia Peanuts è stato particolarmente evidente per quanto riguarda i cibi. Il burro di noccioline che farcisce i panini di cui si nutre Charlie Brown durante la pausa pranzo divenne alternativamente “marronata” o “margarina”!

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Se è lecito tentare una prima generalizzazione da queste considerazioni sommarie, possiamo dire che nella sua forma “moderna” il sistema delle appartenenze delineato dal mondo dei fumetti prevedeva da un lato l’uniformazione nazionale dell’altro (gli hamburger che diventano panini con le polpette) o, all’opposto, la produzione esotizzante del diverso, comunque uniforme nella sua diversità dal Noi che legge: Tex non è solo bianco, dato che ha sposato un’indiana ed è il capo dei Navajos e in maniera del tutto incongrua incarna l’Americano totale, indigeno e immigrato. I “cartoni animati giapponesi”, in questo quadro, corrispondono all’altro irriducibile, che non si lascia addomesticare (come indigenizzare Jeeg robot d’acciaio?) Wimpy è l’esotico addomesticabile e uniformato verso il dentro Tex il domestico esotizzato e uniformato nel suo essere fuori Jeeg è l’esotico non domesticabile Winx sarebbe il domestico non domesticabile Esotico non esotico Adattabile non adattabile 11 Poldo esotico adattabile 10 Giapponesi esotico non adattabile 00 Tex non esotico adattabile 01 Winx non esotico non adattabile Oggi le giovani generazioni hanno a disposizione non solo molti canali televisivi “nazionali”, dato che il sistema dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare , ma possono immaginare il suo look prendendo a modelli i presentatori e i cantanti di

MTV.

Se poi

si esce appena un poco dal ristretto contesto italiano, ci si renderà conto che la situazione è, dal punto di vista dell’immaginazione, del tutto esplosa. In molti dei paesi dell’ex blocco socialista (che dalla prospettiva che qui ci interessa si possono considerare paesi in cui la dettatura dell’immaginazione è stata per decenni assai più controllata dallo stato nazionale che non in Europa occidentale) la diffusione della tv via satellite ha fatto sì che gli individui si possono immaginare attraverso reti di notizie e di fiction del tutto slegate dal contesto nazionale: i genitori guardano le news sulla CNN e i figli si costruiscono i loro immaginari con Cartoon network. Ripeto, non sto facendo il manierista della globalizzazione, sto raccontato quel che succede nel mondo dell’immaginazione. Se io posso collegarmi a sorgenti di informazione e intrattenimento che saltano completamente il 29i

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contesto nazionale nel quale sono inserito, sta succedendo un evento assolutamente nuovo che va indagato, un fenomeno in cui la banca dati dell’informazione è transnazionale e sganciata dagli stati: che comunità si creano in queste condizioni in cui i confini degli stati e quelli dell’immaginazione non coincidono più? Concentrando la sua indagine soprattutto sul sub-continente indiano (la sua area di specializzazione), Appadurai in questo libro ci mostra i meccanismi in gioco di questa trasformazione. Una trasformazione che acquisisce un senso pieno solo se si ammette che l’epoca degli stati nazionali come monopolisti dell’immaginazione è al tramonto (e non è detto che questo tramonto sia pacificamente accettato: molta della politica internazionale odierna potrebbe essere letta proprio come la resistenza degli stati nazionali ad accettare questa condizione di pluralismo dell’immaginario): ancora dinamici ma in crisi sul piano economico e politico con l’emergere prepotente (spesso in senso letterale) di entità sovranazionali, gli stati oggi stanno cedendo in modo evidente e probabilmente irreversibile il grande potere che hanno gestito per quasi due secoli: il potere di farci immaginare chi siamo. Il paradosso della compresenza di omogeneizzazione ed eteronegeizzazione si spiega quindi nel modello proposto da Appadurai come l’effetto della ricezione locale dei nuovi flussi di informazione: anche se le nuove agenzie transnazionali di produzione dell’immaginazione si coalizzassero per produrre un “pensiero unico”, la ricezione di quei messaggi dovrebbe fare i conti con la forza deformante della ricezione locale, per cui lo stesso messaggio (tentativo omogeneizzante) può essere codificato in modi completamente diversi in due contesti locali differenti (dando vita a versioni locali del localismo).

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